"La dificultad no debe ser un motivo para desistir sino un estímulo para continuar"

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David Copperfield - Charles Dickens - Libro in italiano...

DAVID COPPERFIELD CHARLES DICKENS PREFAZIONE ALL'EDIZIONE DEL 1850 Non trovo facile tenermi abbastanza distaccato da questo libro, ora che l'ho appena portato a termine, per parlare di esso con la posatezza che questa intestazione ufficiale sembrerebbe richiedere. Troppo forte e recente è l'interesse che a esso mi lega, e la mia mente è così divisa fra la gioia e il rammarico - gioia pel compimento di un lungo progetto, rammarico nel dovermi separare da tanti compagni - che corro il rischio di annoiare l'amato lettore con confidenze ed emozioni troppo personali e private. Inoltre, tutto ciò che potrei dire del racconto, sotto ogni aspetto, mi sono sforzato di dirlo nel racconto stesso. Forse importerà poco al lettore di sapere con quanto dolore la penna è stata deposta dopo un lavoro di immaginazione durato due anni; o come si sente un autore quando una folla di creature sue, quasi egli avesse bandito una parte di se stesso nel mondo dell'ombra, si sta allontanando per sempre da lui. Tuttavia non ho altro da dire; a meno che non confessi (cosa che potrebbe essere di ancor minore importanza) che nessuno potrà mai credere in questo racconto, nel leggerlo, più di quanto vi abbia creduto io stesso nello scriverlo. Invece di guardare indietro guarderò dunque avanti. Non posso chiudere questo volume in modo a me più grato che con uno sguardo speranzoso verso il tempo in cui potrò di nuovo pubblicare le mie due pagine verdi una volta al mese, e con un fervido ricordo dei giocondi soli e delle miti piogge che si sono riversati su queste pagine di David Copperfield, e che mi hanno reso felice. Londra, ottobre 1850 PREFAZIONE ALL'EDIZIONE DI CHARLES DICKENS Nella prefazione originale a questo libro notai di non trovar facile tenermene abbastanza distaccato allora che l'avevo appena portato a termine, per parlare di esso con la compostezza che quella intestazione ufficiale sembrava richiedere. Il mio interesse verso di esso era così forte e recente, e la mia mente così divisa fra la gioia e il rammarico - gioia pel compimento di un lungo progetto, rammarico nel dovermi separare da tanti compagni - che correvo il pericolo di annoiare l'amato lettore con confidenze ed emozioni troppo personali e private. Inoltre, tutto ciò che potevo dire del racconto, sotto ogni aspetto, mi ero sforzato di dirlo nel racconto stesso. Forse importerà poco al lettore di sapere con quanto dolore la penna è stata deposta dopo un lavoro di immaginazione durato due anni; o come si senta un autore quando una folla di creature sue, quasi egli avesse bandito una parte di se stesso nel mondo dell'ombra, si sta allontanando per sempre da lui. Tuttavia non avevo altro da dire; a meno che non confessassi (cosa che avrebbe potuto essere di ancor minore importanza) che nessuno avrebbe potuto mai credere in questo racconto, nel leggerlo, più di quanto vi avessi creduto io stesso nello scriverlo. Sono così sincere, anche oggi, queste dichiarazioni, che io posso fare ora al lettore solo una nuova confessione. Di tutti i miei libri, questo è quello che preferisco. Si potrà credere facilmente che io sono un affettuoso genitore per ogni pargolo nato dalla mia fantasia, e che nessuno potrà mai amare quella famiglia così profondamente come l'amo io. Ma, come molti genitori affettuosi, io ho nel più profondo del mio cuore un figlio prediletto. Il suo nome è DAVID COPPERFIELD. 1869 I • VENGO AL MONDO Se io debba risultare l'eroe della mia vita, o se questo posto debba essere tenuto da un altro, lo mostreranno queste pagine. Per iniziare il racconto della mia vita con l'inizio stesso della mia esistenza, dirò che sono nato (così mi hanno detto e lo credo) un Venerdì, a mezzanotte in punto. Fu notato che cominciammo, l'orologio a suonare e io a vagire, nello stesso istante. In considerazione del giorno e dell'ora della mia nascita, la balia e alcune sagge donne del vicinato che si erano vivamente interessate a me parecchi mesi prima che ci fosse una qualche possibilità che io ne fossi personalmente informato, dichiararono, primo, che ero destinato a una vita infelice; e, secondo, che avrei avuto il dono di vedere spiriti e fantasmi. Essendo queste due prerogative inevitabilmente proprie, a quanto esse credevano, di tutti gli sfortunati bamboli di ambo i sessi nati nelle tarde ore della notte di un venerdì. Non ho bisogno di dir nulla sul primo punto perché niente, meglio della mia storia stessa, può dimostrare se la predizione si sia rivelata esatta o no alla prova dei fatti. Circa il secondo punto della questione devo solo notare che, a meno che non abbia fatto prova di questa mia facoltà durante la mia prima infanzia, non la ho ancora sperimentata. Ma non sono affatto dispiaciuto di non averlo potuto fare; e, se qualcun altro godesse attualmente di questo potere, gli auguro di cuore di poterlo mantenere. Nacqui avvolto nell'amnio, che fu messo in vendita, con un annuncio sul giornale, all'esiguo prezzo di quindici ghinee. Ignoro se gli uomini di mare fossero a corto di denaro in quel tempo o se piuttosto quel che loro mancava fosse la fede e tutta la loro fiducia andasse al salvagente; tutto quel che so è che ci fu una sola offerta e da parte di un procuratore che negoziava in sconti di cambiali, il quale offrì due sterline in contanti e il resto in sherry, ma non accettò di essere garantito, per un prezzo più alto, dal pericolo, di annegare. Così l'avviso fu ritirato in pura perdita - perché, quanto allo sherry, era allora in vendita quello della mia povera cara mamma - e dieci anni dopo l'amnio fu messo in lotteria al nostro paese fra cinquanta persone che vi parteciparono con mezza corona a testa, e il vincitore doveva pagare altri cinque scellini. Io stesso ero presente, e mi ricordo di essermi sentito piuttosto confuso e imbarazzato vedendo disporre in quel modo di una parte di me stesso. L'amnio fu vinto, ricordo, da una vecchia signora con una sporta, che, con molta riluttanza, sborsò la somma richiesta di cinque scellini, tutti in mezzi pence, meno però due pence e mezzo: e ci volle un mucchio di tempo e un grande spreco di aritmetica per sforzarsi, senza alcun successo, di dimostrarglielo. È un fatto che sarà a lungo considerato come notevole, qui da noi che ella non affogò mai, ma morì trionfalmente ne suo letto a novantadue anni. Ho sentito dire che il suo maggior vanto fu, fino all'ultimo, quello di non essere mai stata sull'acqua in vita sua se non attraversando un ponte; e che, fino all'ultimo, nel sorbire il suo tè (al quale era estremamente affezionata) espresse il suo sdegno per l'empietà dei marinai e altri che avevano la presunzione di «vagabondare» per il mondo. Era vano farle notare che alcune comodità, incluso forse il tè, derivavano da questa reprensibile abitudine. Ella ripeteva sempre, e con sempre maggior enfasi e con un'istintiva conoscenza della forza delle sue obiezioni: «Mai vagabondaggi!» Per non vagabondare adesso a mia volta, tornerò alla mia nascita. Nacqui a Blunderstone, nel Suffolk, o «da quelle parti», come dicono in Scozia. Ero figlio postumo. Gli occhi di mio padre si erano chiusi da sei mesi alla luce di questo mondo, quando vi si aprirono i miei. Trovo ancora in qualche modo strana l'idea che egli non mi vide mai; e ancor più strano mi appare il vago ricordo che mantengo delle mie prime infantili associazioni della sua immagine con la bianca lapide nel cimitero, e l'indefinibile compassione che sentivo per lui che giaceva là tutto solo nella notte scura, quando il nostro piccolo salotto era caldo e luminoso per il fuoco e le candele, e le porte della nostra casa erano - quasi con crudeltà, mi sembrava a volte - saldamente serrate per lui. Il personaggio principale della nostra famiglia era una zia di mio padre, e quindi una prozia per me, della quale dovrò parlare più ampliamente in seguito. Miss Trotwood, o miss Betsey, come la chiamava sempre la mia povera mamma quando vinceva la paura per questo formidabile personaggio fino a riuscire a nominarlo (il che le accadeva di rado), era stata sposata con un uomo più giovane di lei e assai bella, ma non nel senso del detto «è bello chi opera in bel modo». In realtà si sospettava fortemente che avesse spesso bastonato miss Betsey e che una volta avesse perfino, durante una disputa su questioni di denaro, fatto rapidi ma decisi preparativi per buttarla giù da una finestra del secondo piano. Questa evidente incompatibilità di carattere aveva indotto miss Betsey a dargli il benservito e a separarsene legalmente per reciproco consenso. Egli se ne andò in India con il suo capitale, e là, secondo una truce leggenda di famiglia, fu visto cavalcare un elefante in compagnia di un babbuino; anche se io penso che debba essere stato un bramino, o una Begum. A ogni modo nel giro di dieci anni giunse dall'India in patria l'annuncio della sua morte. Nessuno seppe se la zia fosse stata colpita dalla notizia, perché, subito dopo la separazione, lei aveva ripreso il suo nome di ragazza, aveva comprato una villetta in un paese sul mare, piuttosto lontano, e si era stabilita là da sola, con una domestica, ben decisa a vivere da allora in poi appartata in un rigoroso ritiro. Mio padre doveva essere stato un tempo il suo favorito, credo; ma lei era stata mortalmente offesa dal suo matrimonio per il fatto che mia madre era «una bambola di cera». Ella non aveva mai visto mia madre, ma sapeva che non aveva ancora vent'anni. Mio padre e miss Betsey non si incontrarono più. Egli aveva il doppio dell'età di mia madre quando si sposarono, ed era debole di costituzione. Morì un anno dopo: sei mesi prima, come ho già detto, che io nascessi. Questo era lo stato delle cose nel pomeriggio di quel venerdì, mi si passi l'espressione, importante e denso di eventi. Non posso evidentemente affermare di aver capito a quel tempo come le cose veramente stessero, o di avere qualche ricordo, fondato sull'evidenza dei miei sensi, di quel che segue. Mia madre era seduta vicino al fuoco, piuttosto giù di salute e ancor più di spirito, e guardava le fiamme attraverso le lacrime, assai impensierita circa il destino suo e di quel piccolo sconosciuto privo di padre a cui era già stato dato il benvenuto da alcune dozzine di profetici spilli, in un cassetto al piano di sopra, in un mondo che non si sarebbe affatto preoccupato del suo arrivo. Mia madre, dicevo, era seduta presso il fuoco, in quel chiaro e ventoso pomeriggio di marzo, timida e triste, molto dubbiosa di potere uscir viva dalla prova che le si presentava, quando, alzando gli occhi, nell'asciugarli, verso la finestra di fronte, vide una strana signora venir su per il giardino. Mia madre ebbe un sicuro presentimento, alla seconda occhiata, che si trattasse di miss Betsey. Il sole al tramonto stava dardeggiando sulla strana signora e sulla cinta del giardino; ed ella arrivò alla porta con una fiera rigidità nella persona e una compostezza nell'aspetto che non avrebbero potuto essere di nessuno altro. Quando raggiunse la casa diede un'altra prova della sua identità. Mio padre aveva spesso accennato al fatto che lei raramente si comportava come qualsiasi comune mortale; e ora, invece di suonare il campanello, si avvicinò e guardò per quella stessa finestra, premendo la punta del naso sul vetro a tal punto che la mia povera madre era solita dire di averla vista diventare in un attimo piatta e bianca. Ella ne ebbe una tale scossa che sono sempre stato convinto di dovere alla signorina Betsey l'esser nato di venerdì. Mia madre si era alzata dalla sedia, tutta agitata, e vi si era nascosta dietro, nell'angolo. La signorina Betsey, percorrendo con lo sguardo la stanza, tutt'in giro, lentamente e con aria inquisitoria, incominciò dalla parte opposta, movendo gli occhi come una testa di Saraceno in un orologio della Selva Nera, finché non raggiunsero mia madre. Allora le fece una faccia severa e un gesto, da donna abituata al comando, perché andasse ad aprirle la porta. Mia madre obbedì. «La signora David Copperfield, suppongo,» disse la signorina Betsey; la solennità era dovuta forse agli abiti da lutto di mia madre e al suo stato. «Sì,» rispose lei debolmente. «Signorina Trotwood,» disse la visitatrice. «Penso che abbiate sentito parlare di lei.» Mia madre rispose di avere avuto quel piacere. E fu spiacevolmente consapevole di non aver fatto apparire debitamente quanto quel piacere fosse stato sconvolgente. «Adesso la vedete,» concluse la signorina Betsey. Mia madre chinò la testa e la pregò di entrare. Andarono nel salotto da cui mia madre era uscita, dato che il fuoco non era acceso nella migliore sala da ricevimento dall'altra parte del corridoio: e non era mai stato acceso, per la verità, dal tempo dei funerali di mio padre. Quando si furono entrambe sedute, poiché la signorina Betsey rimaneva in silenzio, mia madre, dopo avere cercato invano di trattenersi, cominciò a piangere. «Oh, suvvia!» disse la signorina Betsey in gran furia, «non si fa così! Andiamo, andiamo!» Mia madre, tuttavia, non poteva trattenersi, e così pianse tutte le sue lacrime. «Toglietevi la cuffia, figliuola,» proseguì la signorina Betsey, «e lasciatevi vedere.» Mia madre aveva troppa paura di lei per non avere la compiacenza di obbedire a questa bizzarra richiesta anche se non ne avesse avuto l'intenzione. Così fece ciò che le era stato detto, e lo fece con mano così nervosa che i suoi capelli (belli e abbondanti) le caddero sul volto. «Ma il cielo mi benedica!» esclamò la signorina Betsey, «sei proprio una bambina!» Mia madre, senza dubbio, aveva un aspetto molto giovanile per la sua età; abbassò la testa come se fosse una sua colpa, poverina, e disse singhiozzando che davvero temeva di non essere che una bimbetta senza marito e che, se fosse sopravvissuta, non sarebbe stata che una bambina con un figlio. Durante la breve pausa che seguì ebbe l'illusione di sentire la signorina Betsey toccare i suoi capelli, e con mano non scortese; ma, guardandola timidamente speranzosa, scorse quella signora seduta con la gonna tirata su, le mani raccolte sopra un ginocchio, i piedi sulla base del camino, intenta a guardare il fuoco con fiero cipiglio. «In nome del cielo,» disse la signorina Betsey improvvisamente, «perché La Cornacchia?» «Intendete dire il nome della casa, signora?» domandò mia madre. «Perché La Cornacchia?» insisté la signorina Betsey. «La Conocchia sarebbe stato molto più adatto, se almeno uno di voi due avesse avuto qualche idea pratica di vita.» «Il nome fu scelto dal signor Copperfield,» rispose mia madre. «Quando comprò la casa gli piaceva pensare che vi fossero intorno delle cornacchie.» Il vento della sera fece un tal scompiglio, proprio in quel momento, fra certi alti olmi in fondo al giardino, che né mia madre né la signorina Betsey poterono trattenersi dal guardare da quella parte. Gli olmi ondeggiavano l'uno verso l'altro come giganti che si sussurrassero dei segreti; dopo pochi secondi di tregua, scossi da una violenta raffica, agitarono qua e là le loro rudi braccia quasi che le loro recenti confidenze fossero troppo maligne per la pace del loro spirito, e alcuni vecchi e laceri nidi di cornacchie sbattuti dalla tempesta, opprimendo con il loro peso i rami più alti, sussultarono come relitti in un mare in burrasca. «Dove sono gli uccelli?» domandò miss Betsey. «Gli... ?» Mia madre stava pensando ad altro. «Le cornacchie... Che cosa ne è successo?» riprese la signorina Betsey. «Non ci sono mai state da quando viviamo qui,» rispose mia madre. «Noi pensavamo... il signor Copperfield pensava... che ci fosse una numerosa colonia di cornacchie; ma i nidi erano molto vecchi e gli uccelli li avevano abbandonati da lungo tempo.» «Sempre lo stesso, David Copperfield!» esclamò la signorina Betsey. «David Copperfield dalla testa ai piedi! Chiamare una casa La Cornacchia quando non ve n'è una sola nei paraggi, e credere nell'esistenza degli uccelli perché ne vede i nidi!» «Il signor Copperfield è morto,» ribatté mia madre, «e se voi osate parlar male di lui in mia presenza...» La mia povera cara mamma, penso, ebbe una momentanea intenzione di attaccare bravamente mia zia, che avrebbe potuto senza sforzo metterla a posto con una mano sola anche se ella fosse stata preparata a un incontro di tal genere molto più di quanto lo fosse quella sera. Ma tutto si limitò per lei ad alzarsi dalla sedia per poi ricadervi languidamente svenuta. Quando tornò in sé, o quando la signorina Betsey l'ebbe fatta riprendere, comunque fosse la cosa, scorse quest'ultima in piedi davanti alla finestra. Il crepuscolo stava divenendo oscurità; si vedevano appena e non avrebbero potuto farlo senza l'aiuto del fuoco. «Dunque?» chiese la signorina Betsey tornando alla sua sedia come se avesse solo dato uno sguardo distratto al panorama, «a quando l'evento?» «Io sono tutta un tremito,» balbettò mia madre. «Non so perché. Morirò, ne sono sicura.» «No, no, no,» disse la signorina Betsey. «Prendi un po' di tè.» «Oh, povera me, povera me, pensate che mi possa far bene?» singhiozzò disperata mia madre. «Certo,» rispose la signorina Betsey. «Non sono altro che fantasie. Come si chiama la tua ragazza?» «Non so ancora se sarà una, ragazza, signora,» disse mia madre candidamente. «Dio benedica questo pargolo!» esclamò la signorina Betsey citando inconsapevolmente il secondo augurio del puntaspilli nel cassetto al piano di sopra, ma applicandolo a mia madre invece che a me. «Non intendevo questo. Intendevo la tua domestica.» «Peggotty,» rispose mia madre. «Peggotty!» ripeté quasi sdegnata la signorina Betsey. Intendi dire, figliuola, che un essere umano è entrato in una chiesa cristiana per essere chiamato con questo nome?» «È il suo cognome,» rispose debolmente mia madre. «Il signor Copperfield la chiamava così perché il suo nome di battesimo era eguale al mio.» «Qui, Peggotty!» gridò la signorina Betsey aprendo la porta del salotto. «Del tè. La vostra padrona è leggermente indisposta. Non gingillatevi!» Dopo avere emesso potentemente quest'ordine come se fosse stata un'autorità riconosciuta fra quelle pareti fin da quando la casa era sorta, e dopo aver dato un'occhiata fuori per scrutare l'atterrita Peggotty che passava per il corridoio con una candela in mano al suono di quella insolita voce, la signorina Betsey richiuse la porta e tornò a sedersi come prima: con i piedi sulla base del camino, la gonna dell'abito tirata su e le mani puntate su un ginocchio. «Stavi parlando del sesso del bambino,» riprese. «Sono sicura che sarà una bambina. Ho il presentimento che debba essere una bambina. Ora, figliuola, fin dal momento della nascita di questa bambina...» «O forse bambino,» si prese la libertà di interrompere mia madre. «Ti dico che ho il presentimento che debba essere una bambina,» proseguì la signorina Betsey. «Non contraddirmi. Fin dal momento della nascita di questa bambina, figliuola, intendo essere una sua amica. Intendo essere la sua madrina e ti prego di chiamarla Betsey Trotwood Copperfield. Non devono esserci equivoci nella vita di questa Betsey Trotwood. Non bisogna prendere alla leggera i suoi affetti, povera cara. Deve essere bene allevata e bisogna stare molto attenti perché non riponga sciocche confidenze in chi non le merita. E questo sarà mia cura.» Ognuna di queste affermazioni fu sottolineata da un secco cenno di testa da parte della signorina Betsey, come se i suoi vecchi errori personali stessero agitandosi entro di lei; ed ella represse ogni più chiaro riferimento ad essi con forza straordinaria. Così almeno sospettò mia madre guardandola al tenue riflesso del fuoco; ma era troppo spaventata da lei, troppo poco in sé e troppo sottomessa e sconvolta per avere una chiara visione delle cose o saper cosa dire. «E David era buono con te, figliuola?» domandò la signorina Betsey dopo essere stata per un po' in silenzio e aver fatto cessare quei bruschi movimenti della testa. «Stavate bene insieme?» «Eravamo molto felici,» rispose mia madre. «Il signor Copperfield fu anche troppo buono con me.» «E così ti ha viziata, immagino,» ribatté la signorina Betsey. «Per essere lasciata del tutto sola e affidata alle mie forze in questo mondo crudele, temo proprio che lo abbia fatto,» singhiozzò mia madre. «Su, niente lacrime!» ordinò la signorina Betsey. «Ho fatto questa domanda perché non hai avuto le mie esperienze... se mai due persone possono avere le stesse esperienze. Eri un'orfana, non è vero?» «Sì.» «E un'istitutrice?» «Ero istitutrice in una famiglia dove il signor Copperfield venne a far visita. Il signor Copperfield fu molto gentile con me, si interessò di me con gran cura, mi rivolse molte attenzioni e infine mi propose di sposarlo. Io accettai. E così ci sposammo,» rispose mia madre con semplicità. «Oh! Povera bambina!» esclamò assorta la signorina Betsey con lo sguardo fisso sul fuoco. «Sai fare qualche cosa?» «Scusate, signora, non capisco,» balbettò mia madre. «Per esempio del governo della casa.» «Non molto, temo» rispose mia madre. «Non quanto, almeno, avrei desiderato. Ma il signor Copperfield mi stava istruendo...» «Ne sapeva molto lui stesso!» notò la signorina Betsey fra parentesi. «... e io credo che sarei migliorata, dati il mio desiderio di imparare e la sua pazienza nell'insegnarmi, se la terribile sciagura della sua morte...» mia madre riprese qui a piangere e non poté continuare. «Bene, bene,» disse la signorina Betsey. «Tenevo il libro di casa regolarmente e lo controllavo col signor Copperfield ogni sera,» singhiozzò mia madre in uno scoppio di lacrime e ricadendo poi nel suo dolore. «Bene, bene,» ripeté la signorina Betsey. «Non piangere più.» «E sono sicura che non ebbe mai nulla da ridire su questo, tranne quando il signor Copperfield mi fece notare che i miei tre e i miei cinque erano troppo somiglianti fra loro, e i miei sette e i miei nove troppo riccioluti e svolazzanti,» riprese mia madre in un altro accesso di lacrime, per poi cadere di nuovo affranta. «Finirai con lo star male,» disse la signorina Betsey, «e sai che non sarebbe una buona cosa né per te né per la mia figlioccia. Su, su, non fare così.» Questo argomento ebbe il suo peso per tranquillizzare mia madre sebbene il suo malessere sempre più intenso ne avesse molto di più. Ci fu un intervallo di silenzio, rotto solo per caso da un «Ah!» lanciato dalla signorina Betsey mentre tornava a sedersi posando i piedi sulla base del camino. «David si era assicurato una rendita per sé, con il suo patrimonio, ne sono certa,» disse lei poco dopo. «E per te che cosa è stato fatto?» «Il signor Copperfield,» rispose mia madre con qualche difficoltà, «fu così previdente e buono da assicurarmi il diritto di successione su una parte di essa.» «Quanto?» «Centocinque sterline l'anno.» «Avrebbe potuto fare di peggio,» concluse mia zia. La parola si adattava al momento. Mia madre stava così male che Peggotty, entrando con il tè e le candele e comprendendo con un'occhiata il suo stato - come la signorina Betsey avrebbe potuto capire assai prima se ci fosse stata luce abbastanza - la condusse in tutta fretta al piano di sopra, nella sua stanza. E immediatamente spedì Ham Peggotty, suo nipote, che era stato per alcuni giorni tenuto in casa, di nascosto a mia madre, con il ruolo di speciale messaggero in caso di emergenza, a chiamare la levatrice e il dottore. Questi poteri alleati rimasero notevolmente meravigliati, quando arrivarono a pochi minuti di distanza l'uno dal l'altro, nel trovare una sconosciuta di aspetto imponente seduta davanti al fuoco, con il cappellino allacciato al braccio sinistro, intenta a tapparsi le orecchie con della bambagia. Dato che Peggotty non ne sapeva niente, e mia madre niente ne diceva, ella rimase nel salotto come un vero e proprio mistero. E il fatto che avesse una provvista di bambagia nelle tasche e che si mettesse quel materiale nelle orecchie in quel modo, non toglieva nulla alla solennità della sua presenza. Il dottore andò di sopra e ridiscese poco dopo. Quindi, essendosi convinto, a quanto penso, che, con molta probabilità, quella signora sconosciuta e lui avrebbero dovuto star seduti lì, a faccia a faccia, per alcune ore, si dispose a essere amabile e gentile. Era il più mite e benigno ometto della terra. Si muoveva un po' di fianco, fuori e dentro la stanza, per occupare minor spazio, silenzioso come lo Spettro nell'Amleto e assai più lentamente. Teneva la testa leggermente inclinata da un lato, in parte per minimizzare modestamente la propria persona e in parte per propiziarsi non meno modestamente gli altri. Dire che non avrebbe rivolto una parola brusca a un cane è dir poco: non lo avrebbe fatto nemmeno con un cane arrabbiato. Avrebbe potuto solo offrirgliene una gentilmente, o mezza, o solo un frammento di parola: perché parlava lentamente come camminava. Ma non avrebbe potuto essere rude con lui né sbarazzarsene in fretta per nessuna ragione al mondo. Il signor Chillip, guardando timidamente mia zia con la sua testa inclinata e facendole un piccolo inchino, disse, alludendo al cotone e toccandosi l'orecchio sinistro: «Qualche irritazione locale, signora?» «Cosa?» chiese mia zia togliendosi, come un tappo, la bambagia da un orecchio. Il signor Chillip fu così colpito da quella rudezza - come disse in seguito a mia madre - che per poco non perse tutta la sua presenza di spirito. Ma ripeté dolcemente: «Qualche irritazione locale, signora?» «Che sciocchezza!» ribatté mia zia ritappandosi di colpo l'orecchio. Dopo di che il signor Chillip non poté fare altro che sedersi e guardarla timidamente mentre lei si sedeva a sua volta fissando il fuoco, finché non fu chiamato ancora di sopra. Dopo quasi un quarto d'ora di assenza tornò. «Ebbene?» chiese mia zia, togliendosi il cotone dall'orecchio più vicino a lui. «Ebbene, signora,» rispose il signor Chillip, «le cose... le cose procedono piuttosto lentamente.» «Ba-a-ah!» esclamò la zia scuotendo la testa nel pronunciare quella interiezione piena di disprezzo. E si turò di nuovo l'orecchio. In realtà - come il signor Chillip disse a mia madre - egli era piuttosto colpito: da un punto di vista strettamente professionale, era piuttosto colpito. Si sedette, tuttavia, e la guardò per quasi due ore mentre lei stava lì seduta a fissare il fuoco, finché non fu chiamato nuovamente di sopra. Dopo un'altra assenza, tornò. «Ebbene?» chiese la zia togliendosi il cotone ancora da quel lato. «Ebbene, signora,» rispose il signor Chillip, «le cose... le cose procedono piuttosto lentamente.» «Ia-a-ah!» esclamò mia zia rivolgendosi a lui con un tal ringhio che il signor Chillip non poté assolutamente tollerarlo. Era stato calcolato proprio per disorientarlo, come disse più tardi. Così preferì andare a sedersi sulle scale, al buio e in piena corrente, finché non fu chiamato di nuovo. Ham Peggotty, che andava alla scuola pubblica e che era un vero drago in catechismo, tanto da potere essere ritenuto una fonte attendibile, raccontò, il giorno dopo, che, stando per fare capolino nel salotto un'ora dopo questi avvenimenti, fu immediatamente scorto dalla signorina Betsey, vagante su e giù in stato di grande eccitazione, e afferrato prima che potesse fuggire. Si udivano adesso ogni tanto, al piano di sopra, rumori di passi e voci che il cotone non riusciva a smorzare, così almeno lui arguì dal fatto che la sua cattura da parte della signora era dovuta alla necessità di sfogare su qualcuno la sua sovrabbondante eccitazione quando i suoni diventavano troppo forti. Infatti la signorina Betsey, andando su e giù e tenendolo costantemente per la collottola (come se avesse preso troppo laudano), in quei momenti lo scrollava, gli arruffava i capelli, gli spiegazzava la biancheria, gli tappava le orecchie come se le confondesse con le proprie, lo malmenava e maltrattava in ogni modo. Questo fu in parte confermato da sua zia, che lo vide a mezzanotte e mezza, subito dopo il suo rilascio, e che disse che era rosso come lo ero io allora. Il mite signor Chillip non avrebbe potuto portare rancore in una simile circostanza, se pur mai lo poteva. Egli si insinuò nel salotto appena gli fu possibile e disse a mia zia nel modo più dolce: «Bene, signora, sono felice di congratularmi con voi.» «Per che cosa?» chiese aspra mia zia. Il signor Chillip fu di nuovo sconcertato dall'estrema durezza di quei modi; così fece un piccolo inchino e le rivolse un piccolo sorriso per addolcirla. «Dio lo benedica, che cosa sta facendo?» esclamò la zia con impazienza. «Non è capace di parlare?» «State tranquilla, mia cara signora,» disse il signor Chillip con il suo accento più cortese. «Non vi è più alcun motivo di preoccupazione, signora. State calma.» È sempre stato considerato quasi un miracolo che mia zia non lo avesse scrollato per tirargli fuori a forza quello che aveva da dire. Si limitò a scrollare la propria testa rivolta a lui, ma in un modo che lo fece tremare. «Bene, signora,» riprese il signor Chillip appena ne ebbe il coraggio. «Sono felice di congratularmi con voi. Tutto è finito, adesso, e finito bene.» Durante i cinque minuti, o quasi, che il signor Chillip impiegò per spiccicare queste parole, mia zia lo guardò con attenzione. «Come sta lei?» chiese incrociando le braccia con il cappellino ancora legato a una di esse. «Bene, signora, starà presto bene, spero,» rispose il signor Chillip. «Bene come può stare una giovane madre in queste tristi circostanze domestiche. Non ho nulla da obiettare sul fatto che ora la visitiate, signora. Può farle bene.» «E lei? Come sta lei?» insisté la zia rudemente. Il signor Chillip inclinò ancora un poco più la testa da una parte e guardò mia zia come un grazioso uccello. «La bambina,» gridò mia zia. «Come sta la bambina?» «Signora,» rispose il signor Chillip, «credevo lo sapeste. È un bambino.» Mia zia non disse una parola, ma prese il cappellino per i nastri, come una fionda, diede con esso un colpo in testa al signor Chillip, se lo mise sul capo di traverso, uscì fuori e non si fece più vedere. Svanì come un fata arrabbiata, o come uno di quegli esseri soprannaturali che, secondo la voce popolare, io ero destinato a vedere; e non tornò più. No, io giaccio nella mia culla e mia madre nel suo letto; ma Betsey Trotwood Copperfield era per sempre nella terra dei sogni e delle ombre, la tremenda regione dalla quale io ero da poco venuto. E la luce della finestra della nostra stanza brillava sulla meta terrestre di tutti i viaggiatori di questo genere e sopra il tumulo che copriva le ceneri e la polvere di colui senza il quale non sarei mai esistito. II • OSSERVO Le prime figure che assumono un netto contorno davanti a me, quando cerco di ricordare il passato, nell'alone confuso della mia infanzia, sono mia madre, con i suoi bei capelli e il suo aspetto giovanile, e Peggotty, senza forma precisa, con gli occhi così scuri che quasi coprivano d'ombra tutta la parte superiore del suo volto, e le gote e le braccia così sode e rosse da farmi meravigliare che gli uccelli non le beccassero a preferenza delle mele. Credo di poterle ricordare tutte e due riunite, rimpiccolite ai miei occhi perché curve o inginocchiate sul pavimento, mentre io andavo indeciso dall'una all'altra. E ho nella mente una vaga impressione, che non posso distinguere dal ricordo attuale, del tocco dell'indice di Peggotty, che lei aveva l'abitudine di porgermi, reso ruvido dal lavoro d'ago come una piccola grattugia. Questo può essere solo una fantasia, sebbene creda che la memoria della maggior parte di noi possa regredire nel passato assai più di quanto in genere si supponga. Così come penso che il potere di osservazione in gran parte dei bambini molto piccoli sia veramente meraviglioso per la sua precisione e la sua accuratezza. È infatti mia opinione che della maggior parte degli uomini adulti, notevoli sotto questo aspetto, si possa dire più esattamente che non hanno perduto questa facoltà piuttosto che l'abbiano acquistata. Tanto più che, come osservo in genere, questi uomini mantengono una certa freschezza, una certa gentilezza e una capacità di essere lieti che sembrano egualmente un'eredità conservata dalla loro fanciullezza. Potrei avere il sospetto di star «vagabondando» nel fermarmi su tali particolari, ma devo notare di esser pervenuto in parte a queste conclusioni con la personale esperienza che ho fatto di me stesso; e se potrà apparire dalla mia narrazione che ero un bambino introverso e meditativo o che, come uomo, mantengo un forte ricordo della mia fanciullezza, sono pronto a rivendicarmi entrambe queste caratteristiche. Tornando dunque, come stavo dicendo, fra i ricordi confusi della mia infanzia, le prime figure che vedo stagliarsi contro un insieme di cose in disordine sono mia madre e Peggotty. Che altro ricordo? Guardiamo un po'. Prende forma nella nebbia la nostra casa: una forma non nuova per me, anzi del tutto familiare fin dai ricordi più lontani. Al pianterreno c'è la cucina di Peggotty, aperta su di un cortile del retro, con una casetta per piccioni sopra un palo, al centro di esso, senza alcun piccione; con un grande canile in un angolo, senza alcun cane; e con una quantità di polli che mi sembrano terribilmente alti mentre vanno qua e là con un portamento minaccioso e feroce. C'è un solo gallo che se ne sta su di un'asse a cantare, e sembra far particolare attenzione a me che lo guardo attraverso la finestra della cucina, e mi fa rabbrividire tanto è fiero. E le oche al di là della porta di servizio, che mi seguono barcollando e tendendo i loro lunghi colli quando passo di là, io me le sogno di notte, come un uomo che si è trovato una volta fra bestie feroci può sognarsi leoni. Qui c'è un lungo corridoio - come mi sembra smisurato! - che porta dalla cucina di Peggotty alla porta principale. Uno scuro ripostiglio si apre su di esso, ed è un posto dove si può andare solo di notte; perché non so che cosa possa esserci fra quelle tinozze, e quelle giare, e quelle vecchie casse da tè se non c'è nessuno con un lume dalla fioca luce, mentre dalla porta aperta esce un'aria che sa di muffa e nella quale si può distinguere un odore di sapone, di spezie, di pepe, di candele e di caffè, tutto in una sola ventata. Poi vi sono i due salotti: quello dove ci sediamo di sera, mia madre, io e Peggotty - perché Peggotty ci fa sempre compagnia quando il suo lavoro è finito e noi siamo soli - e il salotto buono dove stiamo la domenica, in gran pompa ma poco comodamente. Vi è per me qualche cosa di lugubre in quella stanza, perché Peggotty mi ha parlato - non ricordo quando ma evidentemente già da molto tempo - del funerale di mio padre e degli appartenenti alla confraternita che si erano messi le loro cappe nere. Una domenica sera mia madre legge a me e a Peggotty, in quella stanza, come Lazzaro fu resuscitato da morte. E io ne rimango così spaventato che esse sono poi costrette a levarmi dal letto e a mostrarmi il tranquillo cimitero dalla finestra della camera, con i morti tutti composti nelle loro tombe, in riposo, sotto la luna solenne. Non ho mai visto nulla che si avvicini appena al verde dell'erba di quel cimitero; nulla che si avvicini appena all'ombra dei suoi alberi; nulla che si avvicini appena alla pace delle sue tombe. Le pecore vi stanno pascolando quando io, al mattino presto, mi inginocchio a guardarlo sul mio piccolo letto posto in un'alcova nella camera di mia madre. E vedo la luce rossastra brillare sulla meridiana, e penso fra me: «Chissà se la meridiana è contenta di indicare ancora il tempo?» Ecco il nostro banco in chiesa. Quanto è alto lo schienale! Con una finestra vicina dalla quale si può vedere la nostra casa, che in realtà è osservata parecchie volte, durante la funzione mattutina, da Peggotty, che vuole rassicurarsi il più possibile che nulla venga rubato o vada a fuoco. Ma, sebbene gli occhi di Peggotty vadano sempre vagando, lei si arrabbia se i miei li imitano e mi fa il cipiglio, mentre sto in piedi sul sedile, perché devo guardare il sacerdote. Ma io non posso guardarlo sempre: sono abituato a conoscerlo senza quella cosa bianca che ha indosso, e ho paura che mi chieda perché lo guardi così fisso, e che interrompa la funzione per chiedermelo... che fare, allora? È una cosa terribile sbadigliare, ma io debbo far qualcosa. Guardo mia madre, ma lei finge di non vedermi. Guardo un bambino nella navata e lui mi fa le boccacce. Guardo la luce del sole che passa per la porta aperta attraverso il portico e là vedo una pecora smarrita - non intendo un peccatore ma un montone - che ha una mezza idea di entrare in chiesa. Sento che se lo guardassi ancora per un po' potrei essere tentato di dire qualcosa ad alta voce; e che sarebbe allora di me? Guardo le lapidi monumentali sulla parete e cerco di pensare al defunto signor Bodgers di questa parrocchia, e a quello che poté provare la signora Bodgers quando il signor Bodgers sopportò a lungo la crudele malattia e i medici non servirono a nulla. Mi chiedo se abbiano chiamato il signor Chillip e se anche lui non sia servito a nulla; e, se è stato così, quanto gli piaccia ricordarsene una volta alla settimana. Il mio sguardo vaga dal signor Chillip, con la sua cravatta domenicale, al pulpito; e penso che bel posto sarebbe per giocarci e che bel castello potrebbe rappresentare, con un altro bambino che tenta di salir su per la scala ad attaccarlo, bombardato dall'alto con il cuscino di velluto a nappe. Frattanto, a poco a poco, i miei occhi si chiudono e, dalla vaga percezione del sacerdote che canta con foga un sonnacchioso inno, passo a non sentire più nulla, finché cado dal sedile con gran fracasso e vengo tirato su, più morto che vivo, da Peggotty. E ora vedo l'esterno della nostra casa, con le finestre a grata delle camere da letto aperte per fare entrare l'aria profumata, e i vecchi e malconci nidi di cornacchie ancor dondolanti sugli olmi nel fondo del giardino davanti alla casa. Ora sono sul retro del giardino, oltre il cortile dove stanno la casetta per colombi e il canile vuoti: una vera riserva di farfalle, per quanto posso ricordare, con un alto recinto, un cancello e un lucchetto; dove i frutti crescono a grappoli sugli alberi, più grandi e succosi dei frutti di qualunque altro giardino, e dove mia madre ne raccoglie alcuni in un cesto, mentre io le sto vicino mangiando di nascosto uva spina e cercando di apparire immobile. Si alza un gran vento e l'estate è portata via in un attimo. Stiamo giocando nel crepuscolo invernale saltellando per il salotto. Quando mia madre rimane senza fiato e si abbandona su di una poltrona, io la guardo avvolgersi i riccioli brillanti intorno alle dita e stringersi il corpetto, e nessuno sa meglio di me quanto le piaccia apparire così bella e quanto sia orgogliosa della propria grazia. Questa è una delle mie più lontane impressioni. Questa, e un senso di avere entrambi un po' di paura di Peggotty e di essere sottomessi in moltissime cose alla sua direzione, furono tra le prime opinioni - se così possono chiamarsi - che mi feci guardandomi attorno. Peggotty e io eravamo una sera seduti presso il camino del salotto, da soli. Io stavo leggendo a Peggotty qualcosa sui coccodrilli. Dovevo aver letto con grande chiarezza, oppure la poveretta dovette essersi profondamente interessata perché ricordo che, alla fine, ebbe la nebulosa impressione che si trattasse di una sorta di vegetali. Ero stanco di leggere e avevo un sonno da morire; ma essendomi stato permesso, come altissimo favore, di rimanere alzato finché mia madre non fosse tornata da una visita serale a una vicina, sarei morto sul luogo (naturalmente) piuttosto che andare a letto. Avevo raggiunto questo stadio di sonnolenza quando Peggotty mi sembrò gonfiarsi e crescere enormemente. Mi tenni aperti gli occhi a forza con i due indici e la guardai attentamente mentre era intenta al lavoro; guardai il pezzetto di candela di cera che teneva per incerare il filo - come sembrava vecchio, tutto rugoso com'era! - e la casetta dal tetto di paglia in cui era alloggiato il metro, e la sua scatola da lavoro dal coperchio scorrevole con la veduta della Cattedrale di San Paolo (con una cupola rosa) dipinta sopra, e il ditale di ottone al dito, e infine lei stessa, alla quale volevo bene. Ero così assonnato da rendermi conto che, se avessi smesso un momento di guardare qualche cosa, sarei subito partito per il mondo dei sogni. «Peggotty,» dissi all'improvviso, «sei mai stata maritata?» «Oh, mio Dio, signorino David,» rispose Peggotty. «Cosa ti fa pensare al matrimonio?» Mi rispose con un tale impeto che mi svegliò del tutto. Poi smise di lavorare e mi guardò tenendo l'ago in aria per tutta la lunghezza del filo. «Ma sei mai stata maritata, Peggotty?» insistei. «Tu sei una donna molto bella, non è vero?» Certo la consideravo di uno stile assai diverso da quello di mia madre, ma, in un altro genere di bellezza, mi appariva un esemplare perfetto. Nel salotto buono v'era un poggiapiedi di velluto rosso, sul quale mia madre aveva dipinto un mazzolino di fiori. La base di quello sgabello e la struttura di Peggotty mi sembravano molto simili. Lo sgabello era liscio e Peggotty era piuttosto ruvida, ma tornava lo stesso. «Io bella, Davy?» esclamò Peggotty. «Oh, Dio, no, mio caro! Ma che cosa ti ha messo in testa il matrimonio?» «Non so. Tu non puoi sposare più di una persona per volta, non è vero, Peggotty?» «Certo che no!» risponde Peggotty con la più decisa sicurezza. «Ma se tu sposi una persona e questa persona muore, allora puoi risposarne un'altra, non è vero Peggotty?» «Si può, sì,» dice Peggotty, «se lo si vuole, mio caro. È tutta questione di opinioni.» «Ma qual è la tua opinione, Peggotty?» chiesi io. Le feci questa domanda e la guardai incuriosito perché lei mi guardava con eguale curiosità. «La mia opinione è,» disse Peggotty distogliendo gli occhi da me dopo una breve indecisione e riprendendo, il lavoro, «che io non mi sono mai sposata, signorino Davy, e che non sono in procinto di farlo. Ecco tutto quello che so in proposito.» «Non sei mica arrabbiata, per caso, Peggotty?» chiesi dopo essere stato tranquillo per un momento. In verità pensavo che lo fosse, tanto era stata brusca con me; ma mi ero decisamente sbagliato, perché, messo da parte il lavoro (che era una sua calza) aprì le braccia, prese fra di esse la mia testa ricciuta e le diede una grande stretta. So che era proprio una grande stretta perché, essendo assai grassotta, ogni volta che faceva qualche piccolo sforzo dopo essersi vestita, alcuni bottoni dietro il suo abito volavano via. E io ne vidi due saltare al lato opposto del salotto mentre mi abbracciava. «E ora fammi sentire ancora qualcosa sui croccodrilli,» disse Peggotty, che non sapeva ancora pronunciare bene quel nome, «perché voglio saperne di più.» Non potei proprio capire perché Peggotty sembrasse così strana né perché fosse così desiderosa di notizie sui coccodrilli. A ogni modo tornammo a questi mostri con rinnovata resistenza al sonno da parte mia, e lasciammo le loro uova a schiudersi nella sabbia assolata; poi li sfuggimmo deludendo il loro inseguimento in continui giri, che essi non sanno fare velocemente a causa della loro pesante mole; quindi demmo loro la caccia, come indigeni, e mettemmo aguzzi pezzi di legno nella loro gola; insomma facemmo tutto ciò che si può fare con i coccodrilli. O perlomeno lo feci io; ma ho i miei dubbi quanto a Peggotty, che andò pensosamente pungendosi con l'ago varie parti del volto e delle braccia per tutto quel tempo. Avevamo esaurito i coccodrilli e cominciato con gli alligatori, quando suonò il campanello del giardino. Uscimmo sulla porta; c'era mia madre, che mi parve graziosa oltre il solito, e con lei un signore con bei capelli e fedine neri, che ci aveva accompagnati a casa dalla chiesa la domenica prima. Quando mia madre si fermò sulla soglia per prendermi in braccio e baciarmi, quel signore disse che ero un ragazzino più fortunato di un re, o qualcosa del genere, dato che in questo credo di essere influenzato dalla mia conoscenza del poi. «Che cosa significa?» gli domandai di sopra la spalla di mia madre. Egli mi diede un colpetto sulla testa, ma non so perché non mi piacevano né lui né la sua voce profonda, e ardevo di gelosia all'idea che la sua mano, toccando me, dovesse toccare anche quella di mia madre, come infatti avvenne. Gliela allontanai appena mi fu possibile. «Oh, Davy!» protestò mia madre. «Che caro ragazzo!» esclamò l'uomo. «Non posso meravigliarmi di questa sua devozione.» Non avevo mai visto un così bel colorito sul volto di mia madre. Lei mi rimproverò dolcemente per la mia scortesia e, tenendomi stretto al suo scialle, si rivolse al signore per ringraziarlo di essersi scomodato ad accompagnarla a casa. Poi gli porse la mano continuando a parlare, e quando le due mani si incontrarono, mi parve che lei mi fissasse. «Diamoci la buona notte, mio bel ragazzino,» disse l'uomo mentre si chinava - lo vidi bene - sul piccolo guanto di mia madre. «Buona notte!» risposi. «Su, diveniamo i migliori amici del mondo!» continuò il signore ridendo. «Stringiamoci la mano.» La mia destra era nella sinistra di mia madre, così gli porsi l'altra. «Ma questa è la mano sbagliata, Davy!» osservò lui sempre ridendo. Mia madre mi spinse avanti la destra, ma io ero deciso, per le ragioni che ho detto, a non dargliela, e non gliela diedi. Gli porsi l'altra, e lui la strinse calorosamente, disse che ero un bravo ragazzino e se ne andò. In questo momento lo vedo ancora girare intorno al giardino e darci un'ultima occhiata con i suoi occhi neri di cattivo augurio prima che la porta venisse chiusa. Peggotty, che non aveva detto una parola né mosso un dito, serrò subito i chiavistelli, e tutti entrammo nel salotto. Mia madre, contro la sua abitudine consueta, invece di andare alla poltrona presso il fuoco, rimase nell'altra parte della stanza e si sedette canticchiando fra sé. «Spero che abbiate passato una bella serata, signora,» disse Peggotty stando in piedi, rigida come un barile, in mezzo alla stanza con un candeliere in mano. «Grazie, Peggotty,» rispose con voce dolce mia madre, «proprio una bellissima serata.» «Un estraneo o qualche cosa di simile sono un piacevole diversivo,» insinuò Peggotty. «Davvero un diversivo molto piacevole,» rispose mia madre. Mentre Peggotty continuava a stare immobile in mezzo alla stanza e mia madre ricominciava a cantare, io mi addormentai, ma non molto profondamente, tanto da sentire le loro voci senza capire ciò che andavano dicendo. Quando mi svegliai a metà da questo scomodo sonnecchiare, trovai Peggotty e mia madre entrambe in lacrime e impegnate in una discussione. «Un tipo come quello al signor Copperfield non sarebbe piaciuto,» affermava Peggotty. «Lo dico e lo sostengo.» «Cielo!» esclamava mia madre, «mi farai diventare matta! C'è mai stata una povera ragazza così maltrattata dai suoi domestici? Ma perché devo farmi l'ingiustizia di chiamarmi ragazza? Non sono forse stata maritata, Peggotty?» «Dio sa che lo siete stata, signora,» rispose Peggotty. «E allora,» disse mia madre, «come osi... no, non voglio dire come osi, Peggotty, lo sai, ma come puoi avere il cuore di rendermi così infelice e di dirmi parole così amare, quando sai benissimo che non ho, fuori di qui, una sola persona amica a cui rivolgermi?» «Ragione di più,» replicò Peggotty, «per dire che la cosa non va. No! Non può andare. No! Non può andare a nessun costo. No!» Io pensai che Peggotty avrebbe finito con lo scagliar via il candeliere che teneva in mano, con tanta foga gesticolava. «Come puoi essere tanto severa da parlare in modo così ingiusto?» esclamò mia madre versando ancora più abbondanti lacrime. «Come puoi continuare a parlare quasi che tutto fosse già stabilito e deciso, Peggotty, mentre io, cattiva, continuo a ripeterti che nulla è andato oltre le più comuni gentilezze? Tu parli di ammirazione. Che dovrei fare? Se la gente è così sciocca da indulgere al sentimento, è forse mia colpa? Che posso farci, ti chiedo? Vorresti forse che mi tagliassi i capelli e mi annerissi la faccia, o mi sfigurassi col fuoco e con l'acqua bollente, o qualcosa del genere? Credo quasi che tu lo vorresti, Peggotty. E che ne saresti contenta.» Peggotty mi sembrò molto colpita da questa calunnia. «E il mio caro bambino,» gridò mia madre avvicinandosi alla poltrona in cui ero e accarezzandomi, «il mio piccolo Davy! Si sta insinuando che io manchi di affetto per il mio prezioso tesoro, il più caro bambino del mondo!» «Nessuno ha mai insinuato una cosa simile,» disse Peggotty. «Lo hai fatto tu, Peggotty!» rispose mia madre. «E sai di averlo fatto. E cos'altro si poteva dedurre dalle tue parole, crudele che non sei altro, quando sai al pari di me che per causa sua, non più tardi del trimestre scorso, ho rinunciato a comprarmi un nuovo parasole, sebbene quello vecchio verde sia tutto liso e con la frangia logora. Lo sai che è così, Peggotty. Non puoi negarlo.» Poi, rivolgendosi affettuosamente a me, con la gota contro la mia: «Sono una cattiva mamma per te, Davy? Sono una brutta mamma crudele, egoista, maligna? Di' che lo sono, bimbo mio. Di' di sì, caro, e Peggotty ti vorrà bene; e l'amore di Peggotty è assai migliore del mio, Davy. Io non ti voglio affatto bene, vero?» A questo punto ci mettemmo tutti a piangere. Penso di essere stato quello che lo faceva più fragorosamente, ma sono sicuro che eravamo tutti sinceri. Ero pieno di angoscia e temo che, nei primi trasporti della mia tenerezza ferita, abbia chiamato Peggotty una «belva». Quella onesta creatura era profondamente afflitta, ricordo, e in quell'occasione dovette perdere tutti i suoi bottoni: perché una piccola salva di quei proiettili fu sparata quando, dopo essersi riconciliata con mia madre, si inginocchiò presso la poltrona per riconciliarsi con me. Andammo tutti a letto molto abbattuti. I singhiozzi mi tennero sveglio a lungo; e, quando un singhiozzo più forte mi fece balzar su, vidi mia madre seduta sul copriletto e china su di me. Mi addormentai allora fra le sue braccia e dormii profondamente. Non ricordo se fu il sabato seguente che vidi quel signore o se passò un maggior lasso di tempo. Le date non sono il mio forte. Comunque era là, in chiesa, e poi ci accompagnò a casa. Entrò addirittura per vedere un famoso geranio che avevamo sulla finestra del salotto. Non mi parve che ci facesse molto caso, ma prima di andarsene chiese a mia madre di dargliene un fiore. Lei lo pregò di sceglierselo da solo, ma egli rifiutò - non potei capire perché - così che lo colse lei stessa e glielo mise nelle mani. Egli disse che non se ne sarebbe mai, mai separato, e io pensai che doveva essere proprio sciocco se non sapeva che il fiore si sarebbe disfatto in un paio di giorni. Peggotty cominciò a star con noi, alla sera, meno del solito. Mia madre si affidava a lei con molta deferenza - più del normale, mi sembrò - ed eravamo tutti e tre eccellenti amici. Eppure eravamo diversi da prima, e non stavamo più così bene insieme. A volte immaginavo che Peggotty avesse forse qualche cosa da ridire sul fatto che mia madre si metteva tutti i bei vestiti che aveva negli armadi e andava così spesso a visitare quella vicina. Ma non riuscivo a capire bene come stessero le cose. A poco a poco mi abituai a vedere quel signore con le fedine nere. Non mi piaceva più della prima volta e provavo la stessa spiacevole gelosia nei suoi confronti. Ma se c'era qualche altra ragione di ciò oltre a una istintiva antipatia infantile e a una generica impressione che Peggotty e io potevamo far molto per mia madre senza bisogno di alcun aiuto, questa ragione non era certo quella che avrei potuto trovare se fossi stato più grande. Nessuna idea del genere mi entrò nel cervello o solo nella sua anticamera. Potevo osservare la situazione solo per piccoli frammenti; ma fare una rete con alcuni di questi frammenti e imprigionarvi qualcuno era, per allora, oltre le mie possibilità. Un mattino d'autunno mi trovavo con mia madre nel giardino davanti alla casa, quando il signor Murdstone - ora lo conoscevo per nome - si avvicinò a cavallo. Trattenne il cavallo per salutare mia madre e disse di essere diretto a Lovestoft per vedere alcuni amici che erano là con uno yacht; e allegramente propose di portarmi sulla sella davanti a sé, se mi fosse piaciuto cavalcare. L'aria era così chiara e gradevole, e sembrava che al cavallo piacesse tanto l'idea della galoppata, mentre se ne stava lì sbuffando e scalpitando davanti al cancello del giardino, che io ebbi un gran desiderio di andare. Così fui mandato di sopra, da Peggotty, perché mi mettesse in ordine. Nel frattempo il signor Murdstone era sceso da cavallo e, con la briglia sul braccio, camminava lentamente su e giù lungo il lato esterno della siepe di rose canine, mentre mia madre faceva altrettanto lungo il lato interno per tenergli compagnia. Ricordo Peggotty e me mentre li guardavamo furtivi dalla mia piccola finestra; ricordo come mi sembrassero vicini mentre esaminavano la siepe di rose che li separava, seguendola passo passo; e come, da uno stato d'animo perfettamente angelico, Peggotty divenisse a un tratto bisbetica e stizzosa pettinandomi malamente e con modi quanto mai bruschi. Il signor Murdstone e io presto partimmo e trottammo lungo il tappeto verde al lato della strada. Egli mi teneva molto facilmente con un braccio solo, e non penso di essere stato irrequieto. Ma non potevo rassegnarmi a star seduto davanti a lui senza voltarmi qualche volta e guardarlo in faccia. Aveva quel tipo di occhi neri e piatti - vorrei una parola migliore per definire un occhio privo di quella profondità in cui si può penetrare - che, quando si distraggono, grazie a un qualche particolare giuoco di luce sembrano distorti per un attimo da un'ombra di strabismo. Più volte, mentre lo guardavo, osservai quell'apparenza con una sorta di timore, e mi chiedevo a che cosa stesse pensando con tanta attenzione. I suoi capelli e le sue fedine, visti così da vicino, erano più neri e più folti di quanto avessi mai potuto credere. La forma quadrata della parte inferiore del suo volto e i punti neri della sua forte barba, che egli si radeva accuratamente ogni mattina, mi ricordavano le figure di cera che erano state messe in mostra dalle nostre parti circa sei mesi prima. Tutto questo e le sue sopracciglia regolari, i toni decisi, bianchi, neri e bruni della sua carnagione - siano maledetti la sua carnagione e il suo ricordo! - me lo facevano giudicare, nonostante i miei sospetti, un bell'uomo. E non avevo alcun dubbio che la mia povera mamma lo giudicasse egualmente. Giungemmo a un albergo presso il mare, dove due signori stavano fumando sigari in una stanza, da soli. Ognuno di loro era sdraiato su almeno quattro sedie e indossava una ruvida e larga giacca. In un angolo c'era un mucchio di vesti e mantelli da navigazione e una bandiera, il tutto legato insieme. Si alzarono entrambi, dondolandosi senza grazia, quando noi entrammo, e dissero: «Salve, Murdstone! Pensavamo che foste morto!» «Non ancora,» rispose il signor Murdstone. «E chi è questo bel tipo?» chiese uno di quei signori afferrandomi. «Questo è Davy,» rispose il signor Murdstone. «Quale Davy?» chiese l'altro. «Jones?» «Copperfield,» disse il signor Murdstone. «Che? Il fardello della graziosa signora Copperfield!» gridò l'uomo. «La vezzosa vedovella?» «Quinion,» ribatté il signor Murdstone, «fate attenzione, vi prego. Non è affatto uno sciocco.» «Chi?» domandò l'uomo ridendo. Guardai subito in su, curioso di sapere. «Brooks di Sheffield,» disse il signor Murdstone. Fui molto sollevato nel sapere che si trattava solo di Brooks di Sheffield, perché in un primo momento avevo pensato che fossi io. Ci doveva essere qualche cosa di molto comico nella reputazione del signor Brooks di Sheffield, perché quei due si misero a ridere di cuore nel sentirlo nominare, e anche il signor Murdstone fu molto divertito. Dopo alcune risate, l'uomo che egli aveva chiamato Quinion disse: «E qual è l'opinione di Brooks di Sheffield circa l'affare che avete progettato?» «Be', non credo che Brooks ne sappia molto, per ora,» rispose il signor Murdstone, «ma penso che nell'insieme non sia affatto favorevole.» Le risate si fecero più forti e il signor Quinion disse che avrebbe suonato per far venire dello Xeres e bere alla salute di Brooks. Così fece, e, quando arrivò il vino, me ne diede un poco con un biscotto, e, prima che lo bevessi, mi fece alzare e dire: «Abbasso Brooks di Sheffield!» Il brindisi fu accolto da un grande applauso e con risate così sincere che mi misi a ridere anch'io, al che essi risero più che mai. Insomma eravamo tutti molto allegri. Dopo di ciò passeggiammo lungo la scogliera, ci sedemmo sull'erba e guardammo qua e là con un cannocchiale - io non riuscivo a vedere niente quando me Io mettevano davanti all'occhio, ma facevo finta di vedere - quindi tornammo all'albergo per una prima colazione. Per tutto il tempo che fummo fuori, i due signori continuarono a fumare senza tregua, cosa che, pensavo, a giudicare dall'odore dei loro ruvidi abiti, avevano dovuto fare fin da quando gli abiti erano giunti a casa loro dal sarto. Non devo dimenticare che salimmo a bordo dello yacht, dove tutti e tre scesero in cabina e si misero a esaminare certe carte. Io li vidi molto occupati guardando in giù attraverso un boccaporto aperto. Mi lasciarono per tutto quel tempo in compagnia di un simpatico uomo con una gran testa di capelli rossi e su di essa un piccolo e lucido cappello, il quale indossava una camicia o un giubbetto a strisce, con scritto sul petto, a caratteri maiuscoli, «Skylark». Pensai che si chiamasse così e che, dato che abitava a bordo di una nave e non aveva una porta sulla strada dove mettere il suo nome, lo avesse messo lì. Ma quando lo chiamai signor Skylark, mi disse che quello era il nome del battello. Notai che per tutto il giorno il signor Murdstone fu serio e pensieroso a differenza degli altri due, che erano invece allegri e spensierati. Scherzavano liberamente fra loro ma di rado con lui. Egli mi appariva molto più accorto e freddo di loro, che sembravano guardarlo con sentimenti molto simili ai miei. Notai anche che due o tre volte il signor Quinion, parlando, lo scrutava di traverso come per accertarsi di non dire nulla che potesse spiacergli. Inoltre, una volta che il signor Passnidge (l'altro dei due) stava facendo troppo lo spiritoso, gli pestò un piede e lo mise in guardia con uno sguardo, indicando il signor Murdstone, che stava seduto cupo e silenzioso. Non ricordo che il signor Murdstone abbia mai riso per tutto il giorno, tranne per lo scherzo di Sheffield, che oltre tutto era stato una sua iniziativa. Tornammo a casa la sera presto. Era proprio una bella serata, e mia madre e lui fecero un'altra passeggiatina presso la siepe di rose, mentre io mi ero allontanato per prendere il tè. Quando se ne fu andato, mia madre si fece raccontare tutta la mia giornata e tutto ciò che quelli avevano fatto e detto. Narrai tutto ciò che avevo udito da loro di lei, ed ella rise affermando che erano degli sfacciati e che avevano detto delle sciocchezze; ma io sapevo che ne era compiaciuta. Lo sapevo perfettamente come lo so adesso. Approfittai dell'occasione per domandarle se conosceva un certo Brooks di Sheffield, ma mi rispose di no: supponeva solo che fosse un fabbricante di coltelli o forchette. Potrei forse dire che il suo viso - trasfigurato come lo ricordo, ridotto in polvere come so che è - sia scomparso per sempre, se mi appare invece dinanzi in questo stesso istante, netto e chiaro come qualunque altro viso che io possa scorgere in una strada affollata? Potrei forse dire che la sua infantile e innocente bellezza sia sfiorita e non esista più, se il suo alito mi sfiora ancora adesso la gota come quella sera? Potrei forse dire che sia cambiata, se il mio ricordo la riporta in vita solo così, e, più fedele alla sua amabile giovinezza di quanto io stesso o qualsiasi altro sia mai stato, tiene ancora stretto ciò che gli fu caro allora? La descrivo proprio come era quando andai a letto dopo questa conversazione e lei venne ad augurarmi la buona notte. Si inginocchiò allegramente da un lato del letto e, posando il mento sulle mani e ridendo, mi chiese ancora: «Che cosa hanno detto quelli, Davy? Ripetimelo. Non posso crederci.» «‹La graziosa...›» incominciai. Mia madre mi mise le mani sulle labbra per farmi tacere. «Non era ‹graziosa›,» disse ridendo. «Non poteva essere ‹graziosa›, Davy. Ora so che non lo era.» «E invece è proprio così. ‹La graziosa signora Copperfield›,» ripetei con fermezza. «E ‹vezzosa...›.» «No, non era nemmeno ‹vezzosa›. Proprio no,» mi interruppe mia madre rimettendomi le dita sulla bocca. «Hanno detto proprio così: ‹la vezzosa vedovella› .» «Che persone sciocche e sfacciate!» esclamò mia madre ridendo e coprendosi la faccia. «Che uomini ridicoli, vero? Davy caro...» «Sì, mamma.» «Non dirlo a Peggotty; potrebbe irritarsi con loro. Io stessa sono terribilmente arrabbiata con loro, ma preferirei che Peggotty non lo sapesse.» Lo promisi, naturalmente; ci baciammo a vicenda più volte e presto mi addormentai. Mi sembra, dopo tanto tempo, come se fosse il giorno dopo che Peggotty venne fuori con quella impressionante e avventurosa proposta che sto per narrare; ma ciò accadde probabilmente due mesi dopo. Stavamo seduti come al solito, una sera (mia madre era uscita come sempre) in compagnia della calza e del metro, e del pezzo di candela, e della scatola con la Cattedrale di San Paolo sul coperchio, e del libro sui coccodrilli, quando Peggotty, dopo avermi guardato più volte e avere aperto la bocca per parlare senza poi farlo - cosa che io pensai fossero sbadigli, altrimenti mi sarei allarmato non poco - disse con tono allettante: «Signorino Davy, ti piacerebbe venire con me a passare una quindicina di giorni da mio fratello a Yarmouth? Non sarebbe una cosa divertente?» «Tuo fratello è simpatico, Peggotty?» domandai io per momento. «Sicuro che è simpatico!» esclamò Peggotty alzando le mani. «E poi c'è il mare, e le barche, e le navi, e i pescatori, e la spiaggia; e Am per giocarci insieme...» Peggotty intendeva suo nipote Ham, di cui ho già parlato nel primo capitolo; ma lei pronunciava il suo nome come se fosse una voce del verbo essere. Fui stimolato da questo elenco di delizie e risposi che sarebbe stato proprio divertente, ma cosa avrebbe detto mia madre? «Diamine, ci scommetterci una ghinea,» disse Peggotty guardandomi in faccia, «che ci lascerà andare. Se ti va bene, glielo chiederò appena tornerà a casa. Proprio allora!» «Ma che farà mentre noi siamo via?» dissi io puntando sulla tavola il mio piccolo gomito per sottolineare la cosa. «Può rimanere sola?» Se Peggotty stava cercando un buco nel calcagno della calza, così tutto a un tratto, doveva essere proprio un buco molto piccolo, nemmeno degno di essere rammendato. «Ehi dico, Peggotty! Lei non può rimanere qui sola, lo sai.» «Oh, il cielo ti benedica!» esclamò finalmente Peggotty tornando a guardarmi. «Non lo sai? Sta per andare a passare due settimane con la signora Grayper. In casa della signora Grayper ci sarà un mucchio di gente per farle compagnia.» Oh, se le cose stavano così, ero pronto a partire. Aspettai, con la più grande impazienza, finché mia madre non tornò dalla casa della signora Grayper (poiché si trattava di quella stessa nostra vicina) per vedere se riuscivamo a portare in porto questa grande idea. Senza essere minimamente sorpresa, contro ogni mia aspettativa, mia madre diede immediatamente il suo consenso; tutto fu combinato in quella serata e fu stabilita la pensione che doveva esser pagata per la mia visita. Il giorno della nostra partenza arrivò presto. Era così vicino che non tardò a venire nemmeno per me, che ero tutto infervorato nell'attesa e con una mezza paura che un terremoto, o un'eruzione vulcanica, o qualche altro grande sconvolgimento della natura si interponessero a ostacolare la spedizione. Dovevamo fare il viaggio con il carro di un corriere, che partiva la mattina, dopo colazione. Avrei dato qualunque cosa per avere il permesso di vestirmi già la sera prima e dormire col cappello e le scarpe. Mi commuove ora, sebbene lo accenni solo di sfuggita, ricordare com'ero desideroso di abbandonare la mia felice casa, e pensare quanto fossi lontano dal sospettare che cosa lasciassi per sempre. Mi piace ricordare che, mentre il carro era al cancello e mia madre stava baciandomi, una dolce tenerezza per lei e per il vecchio luogo che non avevo mai lasciato, mi fece piangere. Sono felice di sapere che anche mia madre pianse e che io sentii il suo cuore battere contro il mio. E mi è caro ricordare che, quando il corriere cominciò a muoversi, mia madre corse fuori dal cancello e gli gridò di fermarsi per potermi baciare ancora una volta. E mi è caro soffermarmi sull'ardore e l'amore con cui sollevò il suo viso verso il mio e mi baciò. Mentre la lasciavamo ferma sulla strada, il signor Murdstone la raggiunse e parve rimproverarla per la sua commozione. Io stavo guardando indietro attraverso le tende del carro e mi chiesi cosa c'entrasse lui. Peggotty, che anche lei stava guardando indietro dall'altro lato, non sembrava affatto contenta come dimostrava la faccia che riportò all'interno della carrozza. Rimasi seduto per qualche tempo a guardare il volto di Peggotty, fantasticando su questa fantasiosa ipotesi: se, qualora lei fosse stata incaricata di perdermi per strada come il ragazzino della favola, io sarei stato capace di ritrovare la via di casa seguendo i bottoni che lei avrebbe perso. III • UN CAMBIAMENTO Il cavallo del corriere era il più pigro cavallo del mondo, credo, e avanzava strascicando gli zoccoli, con la testa bassa, come se gli piacesse fare aspettare la gente alla quale eran diretti i pacchi che si tirava dietro. In realtà immaginavo che qualche volta si rallegrasse in modo udibile a questo pensiero, ma il corriere diceva che aveva solo la tosse. Quell'uomo aveva un modo di tenere la testa bassa, che assomigliava molto, a quello del suo cavallo, e di cadere assopito mentre guidava, con una mano su ciascun ginocchio. Ho detto «guidava», ma mi colpì il fatto che il veicolo sarebbe potuto benissimo andare a Yarmouth anche senza di lui, perché il cavallo faceva tutto da solo. Quanto alla conversazione, non aveva la minima idea che potesse essere sostenuta altrimenti che fischiettando. Peggotty teneva sulle ginocchia un cesto di provviste che sarebbe potuto benissimo bastare se avessimo dovuto andare a Londra con quello stesso mezzo di trasporto. Mangiammo con abbondanza e dormimmo con abbondanza non minore. Peggotty dormiva sempre col mento sul manico del cesto, senza mollarlo mai. Se non l'avessi sentita con i miei orecchi, non avrei mai creduto che una debole e fragile donna potesse russare così. Facemmo tante deviazioni su e giù per i sentieri, e passammo per tanto tempo da un letto d'albergo all'altro e da un luogo all'altro, che io ero stanchissimo e mi sentii molto contento quando scorgemmo Yarmouth. Appariva quasi impregnata d'acqua, mi parve, mentre volgevo lo sguardo su quella grande e cupa pianura che si stendeva dall'altra parte del fiume; e non potei fare a meno di chiedermi perché mai, se il mondo era davvero rotondo come diceva il mio libro di geografia, una qualche parte di esso potesse essere così piatta. Ma pensai che Yarmouth era forse situata su uno dei poli, cosa che avrebbe spiegato tutto. Quando ci fummo avvicinati un po' di più e vedemmo l'intero panorama come una linea bassa e dritta sotto il cielo, feci notare a Peggotty che una piccola montagna o qualche cosa del genere avrebbero potuto giovare all'insieme; e anche che, se la terra fosse stata separata un po' di più dal mare e la città e l'acqua non fossero state così frammiste come un crostino inzuppato nel brodo, tutto sarebbe stato più bello. Ma Peggotty rispose, con insolita enfasi, che dobbiamo prendere le cose così come sono e che, da parte sua, era orgogliosa di essere un'aringa affumicata di Yarmouth. Quando arrivammo nella strada (che era piuttosto strana per me) e sentimmo l'odore del pesce, del catrame, dei cordami vecchi, della pece, e vedemmo i marinai passare qua e là e i carri che risuonavano su e giù per l'acciottolato, mi accorsi di aver fatto torto a un posto così pieno di vita. E lo dissi a Peggotty, che ascoltò molto compiaciuta le mie espressioni di gioia e mi disse che era noto a tutti (suppongo tutti quelli che avevano la fortuna di essere aringhe affumicate) che Yarmouth era, nell'insieme, il più bel posto dell'universo. «Ecco il mio Am,» strillò Peggotty, «cresciuto tanto che non lo si riconosce più.» Lui ci stava infatti aspettando alla locanda; e mi domandò come stavo coi modi di una vecchia conoscenza. Sulle prime non mi parve di conoscerlo bene come lui mostrava di conoscere me perché non era mai stato in casa nostra dalla notte della mia nascita, e naturalmente era avvantaggiato nei miei confronti. Ma la nostra amicizia fu molto aiutata dal fatto che egli mi prese sulle spalle per portarmi a casa. Adesso era un grosso e forte giovanotto alto sei piedi, largo in proporzione e dalle spalle curve; ma con una faccia infantile dal riso un po' sciocco e con capelli ricciuti e chiarissimi che gli davano un'aria pecorina. Indossava un giubbotto di tela e un paio di calzoni così rigidi che sarebbero stati benissimo in piedi senza averci dentro alcuna gamba. E non si sarebbe potuto dire esattamente che portasse il cappello perché era coperto sul cocuzzolo, come un vecchio edificio, da qualche cosa di impeciato. Ham, con me sulle spalle e una nostra cassettina sotto il braccio, e Peggotty, con un'altra nostra cassettina, voltammo giù per viottoli cosparsi di trucioli di legno e monticelli di sabbia, e sorpassammo gassometri, corderie, cantieri per barche e per battelli, cantieri di demolizione, cantieri di calafataggio, reparti di attrezzatura, fucine di fabbri, tutto un guazzabuglio di luoghi del genere finché sbucammo in quella desolata distesa che avevo già visto in lontananza; e allora Ham disse: «Ecco laggiù la nostra casa, signorino Davy!» Guardai in tutte le direzioni fin dove il mio sguardo poteva arrivare in quel deserto selvaggio, e poi sul mare, e poi sul fiume, ma non vi erano case che io potessi scorgere. C'era, non lungi, un barcone nero, o un qualche altro tipo di decrepito battello, alto e in secco sulla terra, con un tubo di ferro che ne sporgeva a guisa di comignolo e fumava tranquillamente; ma, per me, non vi era nulla di visibile che assomigliasse a una casa. «Non sarà mica quella?» dissi. «Quell'affare che assomiglia a una barca?» «Proprio quella, signorino Davy,» rispose Ham. Se fosse stato il palazzo di Aladino, l'uovo dell'uccello Roc e tutto il resto credo che non avrei potuto sentirmi più affascinato dalla romantica idea di viverci. V'erano una deliziosa porta tagliata in un fianco, il tetto a copertura e tante piccole finestre; ma il meraviglioso fascino di quella casa consisteva nel fatto che era una vera barca, che era stata senza dubbio in mare centinaia di volte e che non era mai stata progettata per viverci dentro sulla terra ferma. Questo mi attraeva. Se fosse stata ideata come abitazione, avrei potuto giudicarla piccola, o scomoda, o isolata; ma non essendo mai stata destinata a tale scopo, diveniva una dimora perfetta. All'interno tutto era ben pulito, tutto in ordine per quanto possibile. C'erano una tavola, un orologio della Selva Nera e un stipo a cassetti, e sullo stipo, appoggiato alla parete, un vassoio da tè su cui era dipinta una dama col parasole, a passeggio con un bimbo vestito alla militare, che giocava col cerchio. Il vassoio era trattenuto da una bibbia perché non scivolasse: se fosse scivolato avrebbe fatto strage di una quantità di tazzine e di piattini e di una teiera, tutti raccolti intorno al libro. Sulle pareti vi erano alcune comuni stampe colorate, con cornice e vetro, di soggetti biblici, quali non ho più visto da allora nelle mani dei venditori ambulanti senza veder di nuovo, d'un sol tratto, tutto l'interno della casa del fratello di Peggotty. Abramo, tutto in rosso, che sta per sacrificare Isacco tutto in blu, e Daniele, in giallo, gettato in una fossa di leoni verdi, erano fra tutti i più notevoli. Sulla piccola mensola del camino c'era un dipinto del trabaccolo «Sarah Jane», costruito a Sunderland, con una vera piccola poppa di legno incollata sopra: un'opera d'arte che combinava la pittura con la carpenteria e che io considerai come uno dei più invidiabili tesori che il mondo potesse offrire. V'erano, sulle travi del soffitto, alcuni uncini il cui uso non riuscii allora a indovinare; e varie cassapanche, casse e oggetti simili che servivano da sedili e supplivano alla deficienza di sedie. Vidi tutto questo con un'occhiata nell'attraversare la soglia - infantile, secondo la mia teoria - e poi Peggotty aprì una porticina e mi mostrò la mia camera da letto. Era la più fornita e desiderabile camera da letto mai vista, alla poppa del battello: con una finestrina là dove un tempo passava il timone; un piccolo specchio, giusto alla mia altezza, inchiodato alla parete e incorniciato di conchiglie d'ostrica; un lettino con appena lo spazio per entrarvi; e un mazzetto di erbe marine in un vaso azzurro sulla tavola. Le pareti erano imbiancate con un bianco di latte, e il copriletto, tutto di pezze cucite insieme, mi faceva quasi male agli occhi per lo splendore dei suoi vari colori. Una cosa che avevo particolarmente notato in quella deliziosa casa era l'odore di pesce: così penetrante che, quando cavai il fazzoletto per soffiarmi il naso, mi accorsi che sapeva proprio come se vi fosse stata avvolta un'aragosta. Avendo comunicato, in confidenza, a Peggotty questa mia scoperta, lei mi informò che suo fratello trafficava in aragoste, gamberi e granchi; in seguito scoprii che un mucchio di queste creature, intrecciate fra loro in uno stato di mirabile agglomeramento e intente ad afferrar con le pinze tutto ciò che capitava a tiro, si trovava normalmente in una piccola rimessa di legno dove erano custodite le pentole e i paioli. Fummo accolti da una donna quanto mai cortese, in grembiule bianco, che avevo visto farci inchini, sulla soglia, quando ero ancora sulle spalle di Ham a circa un quarto di miglio. E così pure da una bellissima ragazzina (tale almeno mi parve) con una collana di perline azzurre, che non si lasciò baciare quando cercai di farlo ma corse via a nascondersi. Più tardi, quando avemmo sontuosamente desinato con sogliole bollite, burro fuso, patate e una braciola per me, entrò in casa un uomo con una gran criniera e un volto quanto mai bonario. Avendo chiamato Peggotty «ragazza», schioccandole un cordiale bacio su una guancia, non ebbi alcun dubbio, data l'abituale compitezza del comportamento di lei, che fosse suo fratello; e tale risultò essere, venendomi subito presentato come il signor Peggotty, il padrone di casa. «Lieto di vedervi, signore,» disse il signor Peggotty. «Ci troverete un po' rozzi, signore, ma pronti a favorirvi.» Lo ringraziai e risposi che certo mi sarei trovato ottimamente in un luogo così piacevole. «E come sta la vostra mamma, signore?» continuò il signor Peggotty. «L'avete lasciata allegra e contenta?» Lo assicurai che era del migliore umore desiderabile e che mi incaricava di presentargli i suoi complimenti, cosa che era una gentile invenzione da parte mia. «Le sono molto obbligato, sicuro,» disse il signor Peggotty. «Bene, signore, se potrete adattarvi qui, per una quindicina di giorni, con lei,» e accennò a sua sorella, «con Ham e con la piccola Emily, saremo molto onorati della vostra compagnia.» Dopo aver fatto gli onori di casa in questo modo ospitale, il signor Peggotty uscì per lavarsi in una bacinella di acqua calda, osservando che «l'acqua fredda non gli avrebbe mai tolto il suo sudiciume». Tornò presto, con un aspetto molto migliore, ma così imporporato che non potei fare a meno di pensare che il suo volto aveva questo in comune con le aragoste, i gamberi e i granchi: entrava nerissimo nell'acqua bollente e ne usciva rossissimo. Dopo il tè, quando la porta venne chiusa e dappertutto ci fu tranquillità e tepore (le notti erano adesso fredde e nebbiose), mi sembrò quello il più delizioso rifugio che mente umana potesse concepire. Udire il vento che si alzava sul mare aperto, sapere che le brume avanzavano strisciando sulla desolata pianura là fuori, e guardare il fuoco, e pensare che non v'era altra casa vicina oltre questa, e che questa era una barca, sembrava un incantesimo. La piccola Emily aveva vinto la sua timidezza e mi sedeva vicino sulla cassapanca più bassa e più piccola, larga giusto per noi due e appena adatta a entrar nell'angolo del camino. La signora Peggotty, col grembiule bianco, lavorava a maglia sull'altro lato del fuoco. Peggotty, col suo lavoro di cucito, si trovava a proprio agio come quando era a casa con la Cattedrale di San Paolo e il pezzetto di candela, quasi non avesse mai conosciuto altro tetto. Ham, che mi aveva dato la prima lezione di briscola, tentava di ricordarsi il modo di predire la sorte con quelle sudice carte, e stampava impronte del suo pollice, sporco di pesce, su tutte le carte che voltava. Il signor Peggotty fumava la pipa. Capii che era il momento della conversazione e delle confidenze. «Signor Peggotty!» dico. «Signore,» dice. «Avete chiamato Ham vostro figlio perché vivete in una specie di arca?» Il signor Peggotty parve considerarla un'idea profonda, ma rispose: «No, signore. Non sono stato io a chiamarlo così.» «E allora chi gli ha dato questo nome?» chiesi ponendo al signor Peggotty la domanda numero due del catechismo. «Diamine, signore, glielo ha dato suo padre,» rispose lui. «Pensavo che foste voi suo padre.» «Mio fratello Joe era suo padre,» disse il signor Peggotty. «Ed è morto, signor Peggotty?» arrischiai dopo una rispettosa pausa. «Annegato,» mi rispose. Fui molto sorpreso che il signor Peggotty non fosse il padre di Ham, e cominciai a chiedermi se non mi ero sbagliato circa i suoi rapporti di parentela con tutti gli altri. Ero così curioso di saperlo che decisi di avere da lui altri chiarimenti. «La piccola Emily,» dissi volgendole uno sguardo, «lei è vostra figlia, non è vero, signor Peggotty?» «No, signore. Il padre suo era mio cognato Tom.» Non seppi trattenermi. «Ed è morto anche lui, signor Peggotty?» arrischiai dopo un'altra pausa piena di rispetto. «Annegato,» mi rispose. Mi era difficile riprendere l'argomento, ma non ne ero ancora giunto al fondo e, in qualche modo, dovevo arrivarci. Così dissi: «Non avete nessun figlio, signor Peggotty?» «No, signorino,» mi rispose con un breve riso. «Sono scapolo.» «Scapolo!» ripetei attonito. «E allora quella chi è, signor Peggotty?» E additai la donna col grembiule bianco che stava lavorando a maglia. «Quella è la signora Gummidge,» mi rispose. «Gummidge, signor Peggotty?» Ma a questo punto Peggotty - intendo la mia propria, particolare Peggotty - mi fece gesti così significativi perché non insistessi con le domande, che non potei fare altro che restarmene lì seduto a guardare la silenziosa compagnia finché fu l'ora di andare a letto. Allora, nell'intimità della mia piccola cabina, ella mi informò che Ham ed Emily erano due nipoti orfani, che il mio ospite aveva adottato da bimbi, in tempi diversi, quando erano rimasti privi di appoggi; e che la signora Gummidge era la vedova del suo socio in una sua barca, morto poverissimo. Lui stesso era povero, mi disse Peggotty, ma buono come l'oro e schietto come l'acciaio: furono queste le sue similitudini. L'unico argomento, mi disse, nel quale mostrava un carattere violento e giungeva a bestemmiare, era proprio questa sua generosità; e se mai qualcuno di loro vi alludeva, picchiava un terribile pugno sul tavolo (ne aveva spaccato uno in un'occasione simile) pronunciando l'orripilante bestemmia che voleva essere «impecionato» se non piantava tutto e se ne andava per sempre qualora vi avessero accennato ancora. In risposta alle mie domande, risultò che nessuno aveva la minima idea dell'etimologia di questo terribile verbo passivo «essere impecionato», ma che tutti lo consideravano come la più solenne delle imprecazioni. Fui molto sensibile alla bontà del mio ospite, e, in una condizione di spirito quanto mai voluttuosa, favorita dalla sonnolenza, ascoltai le donne andare a letto in un altro stanzino simile al mio, all'altra estremità della barca, mentre il signor Peggotty e Ham appendevano per loro stessi due amache ai ganci che avevo notato sul soffitto. Via via che il sonno si impadroniva di me, udivo il vento mugliare sul mare e venire così fieramente per la pianura da darmi una sorta di indolente paura che l'immenso oceano si sollevasse durante la notte. Ma riflettei che, dopo tutto, ero in una barca; e che un uomo come il signor Peggotty era proprio quello che ci voleva a bordo, se fosse successo qualche cosa. Tuttavia non avvenne nulla di peggio dell'alzarsi del sole. Quasi nello stesso momento in cui brillò sulla cornice di conchiglie del mio specchio, balzavo dal letto ed ero fuori con la piccola Emily a raccogliere pietre sulla spiaggia. «Immagino che tu sia una vera marinara,» dissi a Emily. Non so se mi immaginavo nulla del genere ma mi parve un atto di galanteria dire qualche cosa; e una vela brillante, non lungi da noi, si riflesse in quel momento con una così graziosa immagine nei suoi occhi luminosi, che mi venne in mente di parlare così. «No,» rispose Emily scuotendo la testa, «io ho paura del mare.» «Paura!» esclamai io con un'aria di appropriata baldanza e guardando tutto impettito il possente oceano. «Io non ne ho.» «Ah! è crudele,» disse Emily. «L'ho visto molto crudele con alcuni dei nostri uomini. L'ho visto fare a pezzi una barca grande quanto la nostra casa.» «Spero che non sia stata la barca in cui...» «In cui annegò mio padre?» disse Emily. «No. Quella no, quella non l'ho mai vista. «Nemmeno lui?» le domandai. La piccola Emily scosse la testa. «Non posso ricordarmelo.» Era una coincidenza! Cominciai subito a spiegarle come neanch'io avevo mai visto mio padre, e come mia madre e io avevamo sempre vissuto da soli nella più felice condizione immaginabile, e che così vivevamo ancora e intendevamo vivere per sempre; e che la tomba di mio padre era nel cimitero presso la nostra casa, all'ombra di un albero sotto i cui rami avevo passeggiato e udito gorgheggiare gli uccelli per tante piacevoli mattine. Ma vi erano alcune differenze tra lo stato di Emily e il mio, era chiaro. Lei aveva perso la mamma prima del padre; e nessuno sapeva dove fosse la tomba di suo padre, in qualche parte nelle profondità del mare. «Inoltre,» disse Emily mentre cercava conchiglie e pietruzze, «tuo padre era un signore e tua madre è una signora; mio padre, invece, era un pescatore e mia madre la figlia di un pescatore, e anche mio zio Dan è un pescatore.» «Dan è il signor Peggotty, vero?» dissi io. «Lo zio Dan... quello laggiù,» rispose Emily indicando la casa-barca. «Sì. Intendo proprio lui. Dev'essere molto buono, direi.» «Buono?» esclamò Emily. «Se dovessi mai diventare una signora gli regalerei una giacca azzurra con i bottoni di diamanti, calzoni di nanchino, un panciotto di velluto rosso, un cappello con le falde rialzate, un grande orologio d'oro, una pipa d'argento e uno stipo di monete.» Risposi che il signor Peggotty si meritava certo questi tesori. Devo riconoscere che trovavo una certa difficoltà nell'immaginarmelo a suo agio nell'abbigliamento proposto dalla sua riconoscente nipotina, e che avevo in particolare i miei dubbi sulla convenienza del cappello a tricorno; ma tenni per me queste riflessioni. La piccola Emily si era fermata guardando il cielo mentre enumerava tutti questi articoli, quasi fossero una gloriosa visione. Riprendemmo il cammino sempre raccogliendo conchiglie e pietruzze. «Ti piacerebbe essere una signora?» chiesi. Emily mi guardò, rise e accennò di sì. «Mi piacerebbe molto. Saremmo tutti persone distinte, allora. Io, mio zio, Ham e la signora Gummidge. Non ci preoccuperemmo del brutto tempo... voglio dire almeno per noi. Ce ne preoccuperemmo per i poveri pescatori, naturalmente, e li aiuteremmo con denaro se capitasse loro qualche disgrazia.» Questa mi parve una prospettiva molto bella e quindi non del tutto improbabile. Espressi la mia soddisfazione nel considerare quel progetto, e la piccola Emily ne fu incoraggiata a dire timidamente: «Non credi di aver paura del mare, adesso?» Il mare era abbastanza calmo per rassicurarmi, ma sono sicuro che, se avessi visto un'onda di modeste dimensioni venire a rovesciarsi sulla spiaggia, me la sarei data a gambe al pauroso ricordo della sua parentela annegata. Comunque risposi: «No,» e aggiunsi: «Nemmeno tu sembri aver paura, sebbene dica di sì.» Perché camminava troppo sull'orlo di una specie di vecchia banchina o pedana di legno per la quale ci eravamo incamminati, e temevo che cadesse. «Quando è così non ho paura,» disse Emily. «Ma quando si gonfia non riesco a dormire, e tremo al pensiero dello zio Dan e di Ham, e mi sembra sempre di sentirli invocare aiuto. Per questo mi piacerebbe molto essere una signora. Ma quando è così non ho paura, nemmeno un poco. Guarda!» Si staccò dal mio fianco e corse lungo un trave corroso che si protendeva dal punto in cui ci eravamo fermati, sospeso a qualche altezza sull'acqua profonda, senza alcun punto di appiglio. L'episodio si è impresso a tal punto nella mia memoria che, se fossi un pittore, credo che potrei disegnarlo qui, in ogni particolare, come lo vidi quel giorno, con la piccola Emily che correva verso la propria rovina (così mi sembrava), con uno sguardo che non ho mai dimenticato, perduto lontano nel mare. La leggera, ardita, palpitante figurina si volse e tornò a me sana e salva, e io subito risi delle mie paure e del grido che avevo lanciato, inutilmente, in ogni caso, perché non c'era alcuno nelle vicinanze. Ma in seguito, nella mia età adulta, ci sono stati momenti, ci sono stati molti momenti in cui ho pensato: è possibile, fra le possibilità delle cose nascoste, che nell'improvvisa avventatezza della bambina, nel suo selvaggio sguardo, assorto nella lontananza, ci fosse per lei una misericordiosa attrattiva verso il pericolo, un allettamento concesso al padre morto per trarla a sé, così che la sua vita avesse un probabilità di finire in quel giorno? Vi sono stati in seguito momenti in cui mi sono domandato se, potendo scorgere in un attimo la vita che le stava dinanzi, in modo che un bambino potesse pienamente capirla, e se la sua salvezza avesse potuto dipendere da un gesto, della mia mano, io avrei dovuto muovere quella mano per salvarla. C'è stato in seguito un momento - non dico che sia durato a lungo, ma c'è stato - in cui mi sono domandato se non sarebbe stato meglio per la piccola Emily che le acque si fossero chiuse sul suo capo quel mattino, davanti a me; e in cui ho risposto: sì, sarebbe stato meglio. Questo può essere prematuro. Forse l'ho scritto troppo presto. Ma resti così. Passeggiammo a lungo, ci caricammo di cose che ci parvero curiose e rimettemmo accuratamente in mare alcune stelle marine che si erano arenate - ne so troppo poco, al momento, su questa specie, per esser sicuro che esse ebbero motivo di sentirsi obbligate verso di noi per la nostra iniziativa, o se fu invece il contrario - e poi tornammo verso l'abitazione del signor Peggotty. Ci fermammo sottovento alla rimessa delle aragoste per scambiarci un bacio innocente ed entrammo per la colazione radianti di salute e di allegria. «Come due piccoli bottacci,» disse il signor Peggotty. Sapevo che, nel nostro dialetto locale, questo significava come due piccoli tordi, e lo accolsi come un complimento. Naturalmente ero innamorato della piccola Emily. Sono sicuro che amavo quella bambina con la stessa sincerità e la stessa tenerezza e con maggior purezza e maggior disinteresse che non possano entrare nel più grande amore di un'età più matura per eletto e nobilitante che sia. Sono sicuro che la mia fantasia eresse attorno a quella bimbetta dagli occhi azzurri qualche cosa che la rendeva eterea e ne faceva un angelo. Se, in un qualche mattino di sole, le fosse spuntato un paio di alucce ed ella fosse volata via davanti ai miei occhi, non credo che lo avrei considerato molto più straordinario di quanto avessi ragione di attendermi. Solevamo passeggiare per quella cupa e antica pianura di Yarmouth come due innamorati per ore e ore. I giorni ci passavano accanto scherzando, come se il Tempo stesso non fosse ancora cresciuto ma fosse rimasto bambino e sempre in vena di giocare. Dissi a Emily che l'adoravo e che, se non avesse confessato di adorarmi a sua volta, sarei stato costretto a uccidermi con una spada. Lei mi disse di sì, e non dubito che fosse sincera. Quanto a un qualsiasi senso di ineguaglianza, o di eccessiva giovinezza o altre difficoltà del genere, la piccola Emily e io non avevamo preoccupazioni perché non avevamo futuro. Non prendemmo provvedimenti per diventare adulti più che non ne prendessimo per divenire più giovani. Eravamo l'ammirazione della signora Gummidge e di Peggotty, che, a sera, quando stavamo amorosamente seduti a fianco a fianco sulla nostra piccola cassapanca, solevano sussurrarsi: «Signore! Quanto sono graziosi!» Il signor Peggotty ci sorrideva di dietro la sua pipa, e Ham non faceva che sogghignare per tutta la sera. Immagino che trovassero in noi lo stesso genere di piacere che avrebbero potuto trovare in un grazioso balocco o in un modello tascabile del Colosseo. Non tardai ad accorgermi che la signora Gummidge non sapeva sempre rendersi gradevole come ci si sarebbe potuti aspettare da lei, considerando le circostanze della sua residenza presso il signor Peggotty. La signora Gummidge aveva un carattere piuttosto irritabile e, a volte, piagnucolava più di quanto potesse piacere agli altri, riuniti in una dimora così ristretta. Ne ero dolente per lei; ma vi erano momenti in cui sarebbe stato molto meglio, pensavo, se la signora Gummidge avesse avuto un appartamento conveniente suo proprio in cui ritirarsi e rimanere finché non si fosse tirato su il morale. Il signor Peggotty frequentava di tanto in tanto un'osteria chiamata «Il Buon Volere». Lo scoprii dalla sua assenza la seconda o la terza sera della nostra permanenza e dagli sguardi che la signora Gummidge rivolgeva all'orologio della Selva Nera, fra le otto e le nove, ripetendo che lui era laggiù e che, cosa ancor più importante, lei sapeva fin dal mattino che vi sarebbe andato. La signora Gummidge era stata per tutto il giorno molto depressa, e al mattino, quando il fuoco aveva fatto fumo, era scoppiata in lacrime. «Sono una povera creatura sola e derelitta,» erano state le sue parole in occasione di quello spiacevole incidente, «e tutto mi va di traverso.» «Oh, smetterà presto,» disse Peggotty - intendo ancora la nostra Peggotty - «e poi, dovete saperlo, è spiacevole per noi come per voi.» «Ma io lo sento di più,» rispose la signora Gummidge. Era una giornata molto fredda, con raffiche di vento tagliente. Il cantuccio presso il fuoco, riservato alla signora Gummidge, mi sembrava il più caldo e riparato che vi fosse nella stanza, così come la sua sedia era certo la più comoda, ma tutto ciò, quel giorno, non le bastava affatto. Non faceva che lamentarsi del freddo e del fatto che le veniva su per la schiena provocandole quelli che chiamava «gli accapponamenti». Infine versò abbondanti lacrime su questo argomento ripetendo di essere «una povera creatura sola e derelitta» e che «tutto le andava di traverso.» «Certo fa molto freddo,» disse Peggotty, «e tutti noi dobbiamo sentirlo.» «Ma io lo sento più degli altri,» piagnucolò la signora Gummidge. La stessa cosa a desinare, durante il quale la signora Gummidge veniva sempre servita immediatamente dopo di me, a cui la preferenza spettava quale ospite di riguardo. Il pesce era piccolo e pieno di spine, le patate un po' bruciate. Tutti convenimmo di sentire per questo un certo disappunto, ma la signora Gummidge sostenne che lo sentiva più di noi, e sparse nuove lacrime facendo le solite dichiarazioni con grande amarezza. Di conseguenza, quando il signor Peggotty tornò a casa verso le nove, questa sventurata signora Gummidge stava lavorando a maglia nel suo angolo in uno stato d'animo quanto mai abbattuto e miserevole. Peggotty aveva lavorato piena di buon umore. Ham aveva rappezzato un gran paio di stivali impermeabili; e io, con la piccola Emily a fianco, avevo letto loro qualche cosa. La signora Gummidge non aveva fatto altra osservazione che un sospiro sconsolato e non aveva più alzato gli occhi dall'ora del tè. «Bene, gente,» disse il signor Peggotty prendendo la sua sedia, «come andiamo?» Tutti dicemmo qualcosa o gli volgemmo in qualche modo uno sguardo per dargli il benvenuto, eccetto la signora Gummidge, che si limitò a scuotere la testa sopra il suo lavoro. «Che c'è che non va?» chiese il signor Peggotty battendo le mani. «Su, allegra, vecchia gaglioffa!» (Il signor Peggotty voleva dire solo vecchietta.) La signora Gummidge non parve capace di rallegrarsi. Trasse fuori un vecchio fazzoletto di seta nera e si asciugò gli occhi; ma, invece di rimetterselo in tasca, lo tenne lì, si asciugò ancora gli occhi, e continuò a tenerlo lì, pronto all'uso. «Che c'è che non va, madama?» chiese il signor Peggotty. «Niente,» rispose la signora Gummidge. «Tornate dal Buon Volere, Daniel?» «Sicuro, diamine, ho fatto un salto al Buon Volere, stasera,» disse il signor Peggotty. «Mi dispiace di costringervi ad andare laggiù,» disse la signora Gummidge. «Costringermi? Non ho bisogno di esserci costretto,» ribatté il signor Peggotty con una schietta risata. «Ci vado da solo e anche troppo spedito.» «Molto spedito,» disse la signora Gummidge scuotendo la testa e asciugandosi gli occhi. «Sì, sì, molto spedito. Mi dispiace che solo per colpa mia ci andiate così spedito.» «Per colpa vostra? Non è affatto per colpa vostra!» esclamò il signor Peggotty. «Non dovete crederlo nemmeno per un momento.» «Sì, sì, è così,» gridò la signora Gummidge. «Io lo so quello che sono. So di essere una povera creatura sola e derelitta e so che non solo tutto mi va di traverso ma che anch'io vado di traverso a tutti. Sì, sì. Io sono più sensibile degli altri e lo faccio vedere. È questa la mia disgrazia.» Non potei proprio fare a meno di pensare, mentre me ne stavo lì seduto ascoltando, che la disgrazia si estendeva anche ad altri membri della famiglia, oltre la signora Gummidge. Ma il signor Peggotty si guardò dal rimbeccarla in questo modo e rispose solo esortandola ancora a stare allegra. «Io non posso essere come vorrei essere,» disse la signora Gummidge. «Tutt'altro. Lo so quello che sono. Le mie pene mi hanno fatto andare di traverso a tutti. Io le sento, le mie pene, e per questo vado di traverso a tutti. Vorrei non sentirle, ma le sento. Vorrei esserci più indurita, ma non ci riesco. Rendo la casa infelice e non me ne meraviglio. Ho rattristato per tutto il giorno vostra sorella e il signorino Davy.» A questo punto mi sentii intenerito d'un tratto e urlai pieno di angoscia: «No, signora Gummidge, non mi avete rattristato!» «Non è giusto che io faccia così,» proseguì la signora Gummidge. «Non è un bel contraccambio. Sarebbe meglio che andassi all'ospizio e morissi. Sono una povera creatura sola e derelitta e farei molto meglio a non esser d'impaccio qui. Se le cose devono andarmi di traverso e io stessa devo andare di traverso agli altri, lasciate che lo faccia nell'ospizio parrocchiale. Daniel, sarebbe meglio che andassi all'ospizio e morissi liberandovi tutti di me!» La signora Gummidge si ritirò dopo queste parole per rifugiarsi nel suo letto. Quando se ne fu andata, il signor Peggotty, che non aveva mostrato la minima traccia di altro sentimento che non fosse la più profonda simpatia, ci guardò tutti e accennando con la testa, mentre una viva espressione di quella simpatia gli animava ancora il volto, disse in un sussurro: «Sta pensando al vecchio.» Non capii affatto a qual vecchio si supponeva che la signora Gummidge avesse rivolto il pensiero, finché Peggotty, accompagnandomi a letto, mi spiegò che si trattava del defunto signor Gummidge, e che suo fratello, in queste occasioni, considerava la sua spiegazione come una verità indiscutibile che sempre lo commuoveva. Più tardi, quella sera, quando lui era nella sua amaca, lo udii io stesso ripetere a Ham: «Poveretta! Sta pensando al vecchio!» E ogni volta che la signora Gummidge cadde in uno stato simile durante la nostra permanenza (cosa che avvenne in varie occasioni) egli sempre diede la stessa spiegazione per attenuare il fatto, e sempre col più tenero compatimento. Così i quindici giorni scivolarono via, variati solo dall'alternarsi delle maree che mutavano gli orari di uscita e di entrata del signor Peggotty e così pure gli impegni di Ham. Quando questi era disoccupato, a volte veniva a spasso con noi per mostrarci le barche e i battelli, e una volta o due ci portò in barca. Non so perché una serie di lievi impressioni possa essere più particolarmente associata di un'altra a un dato luogo, sebbene pensi che questo avvenga alla maggior parte della gente specialmente per quanto riguarda le associazioni della loro infanzia. Non ho mai udito né letto il nome di Yarmouth senza ricordare una certa domenica mattina sulla baia, con le campane della chiesa che suonavano, la piccola Emily appoggiata alla mia spalla, Ham che getta pigramente pietre nell'acqua, e il sole, lontano sul mare, appena scaturito dalle nebbie pesanti per mostrarci le navi e le loro ombre. Giunse infine il giorno di tornare a casa. Resistei alla separazione dal signor Peggotty e dalla signora Gummidge, ma il mio strazio nel lasciare la piccola Emily fu lacerante. Andammo a braccetto all'osteria dove il corriere faceva sosta, e lungo la strada le promisi di scriverle. (Mantenni questa promessa in seguito, con caratteri più grandi di quelli con cui, nei cartelli manoscritti, si annunciano di solito gli appartamenti da affittare.) Al momento della partenza fummo sopraffatti; e se mai in vita mia ho sentito un vuoto nel cuore, fu in quel giorno. Ora, per tutto, il tempo della mia visita, ero stato assai ingrato verso la mia casa e ci avevo pensato poco o nulla. Ma, appena mi sentii volto verso di essa, la mia giovane coscienza, piena di rimprovero, parve puntare un dito sicuro in quella direzione; ed io sentii, tanto più per l'abbattimento che opprimeva il mio spirito, che era il mio nido e che mia madre era la mia consolatrice e la mia amica. Questo stato d'animo s'impadronì di me sempre più durante il viaggio, così che, quanto più ci avvicinavamo, quanto più familiari si facevano gli oggetti al nostro passaggio, tanto maggiore diveniva la mia ansia di arrivare e di correre tra le braccia di lei. Ma Peggotty, invece di condividere questi trasporti, cercava di frenarli (sebbene con molta dolcezza) e appariva inquieta e diversa dal suo solito. Comunque La Cornacchia di Blunderstone sarebbe arrivata a suo dispetto, quando fosse piaciuto al cavallo del corriere... e arrivò. Come lo ricordo bene, in un pomeriggio freddo e grigio, con un cielo plumbeo, minaccioso di pioggia! La porta si aprì, ed io cercai, tra il riso e le lacrime nella dolce eccitazione che mi aveva preso, mia madre. Non era lei, ma una domestica sconosciuta. «Oh, Peggotty!» dissi io col pianto in gola, «non è ancora tornata?» «Sì, sì, signorino Davy,» rispose Peggotty. «È tornata. Aspetta un momento, signorino Davy e io... ti dirò qualche cosa.» Tra la sua agitazione e la sua naturale goffaggine nello scendere dal carro, Peggotty dava di sé uno spettacolo molto singolare, ma io ero troppo confuso e fuori di me per dirglielo. Quando fu scesa, mi prese per mano; mi condusse, tutto sconvolto, in cucina; e chiuse la porta. «Peggotty!» dissi ormai atterrito. «Che cosa è successo?» «Nulla è successo, Dio ti benedica, caro Davy!» rispose assumendo un'aria allegra e spigliata. «Qualche cosa è successo di certo. Dov'è la mamma?» «Dov'è la mamma, signorino Davy?» ripeté Peggotty. «Sì. Perché non ci è venuta incontro al cancello, e che cosa siamo venuti a fare, qui? Oh, Peggotty!» Avevo gli occhi gonfi di lacrime e mi sembrava di dover cadere a terra da un momento all'altro. «Dio ti benedica, gioia mia!» esclamò Peggotty sostenendomi. «Che c'è? Parla, caro!» «Non è morta anche lei! Oh, non è morta, vero, Peggotty?» Peggotty gridò No! con un volume di voce impressionante; e poi si sedette e cominciò ad ansare dicendo che le avevo fatto venire un colpo. Le diedi un forte abbraccio per farle passare il colpo o per fargliene venire un altro nella direzione giusta, e rimasi dritto davanti a lei, in ansiosa domanda. «Vedi, caro, avrei dovuto dirtelo prima,» cominciò Peggotty, «ma mi è mancata l'occasione. Forse avrei dovuto cercarla, ma non sono riuscita azzattamente» - nel vocabolario di Peggotty, questa parola sostituiva di regola esattamente - «a decidermi.» «Continua, Peggotty,» dissi più atterrito che mai. «Signorino Davy,» disse Peggotty slacciandosi il cappellino con mano tremante e quasi senza fiato. «Che ne pensi? Hai un papà.» Mi prese un tremito e sbiancai. Qualche cosa - non so che cosa o come - collegata con la tomba nel cimitero e la resurrezione dei morti, sembrò colpirmi come una ventata pestilenziale. «Uno nuovo,» disse Peggotty. «Uno nuovo?» ripetei. Peggotty ansimò come se stesse inghiottendo qualche cosa di molto duro e, tenendomi la mano, disse: «Vieni a vederlo.» «Non voglio vederlo.» «... e anche la mamma,» disse Peggotty. Smisi di tirarmi indietro e andammo dritti nel salotto buono, dove mi lasciò. Da un lato del fuoco sedeva mia madre, dall'altro il signor Murdstone. Mia madre lasciò cadere il lavoro e si alzò in fretta, ma timidamente, mi parve. «Su, mia diletta Clara,» disse il signor Murdstone. «Ricorda! Controllati, controllati sempre! Ehi, Davy, come stai?» Gli diedi la mano. Dopo un momento di esitazione andai a baciare mia madre: lei mi baciò, mi batté affettuosamente sulla spalla e tornò a sedersi riprendendo il lavoro. Non potei guardarla né guardare lui, sapevo benissimo che ci stava osservando entrambi; mi volsi verso la finestra e guardai fuori, certi arbusti che piegavano il capo nel freddo. Appena potei scivolar via, andai al piano di sopra. La mia antica camera da letto era stata trasformata ed io dovevo dormire molto lontano di là. Gironzolai per il piano terreno per cercare qualche cosa che fosse come prima, tanto tutto appariva mutato; e vagai per il cortile. Ma ne fuggii presto perché il canile vuoto era occupato da un grosso cane - dalla gran bocca e il pelo nero come Lui - che si infuriò alla mia vista e balzò fuori per afferrarmi. IV • CADO IN DISGRAZIA Se la camera in cui era stato spostato il mio letto fosse un essere vivente capace di deporre, potrei appellarmi oggi a essa - chi vi dormirà adesso, mi domando! - perché testimoniasse a mio favore con che cuore gonfio vi entrai. Salii lassù con negli orecchi i latrati che il cane del cortile continuava a lanciarmi dietro mentre facevo le scale; e, guardando la stanza non meno sbigottito e stravolto di quanto la stanza apparisse a me, mi sedetti intrecciando le piccole mani e meditai. Pensai alle cose più strane. Alla forma della stanza, alle crepe del soffitto, alla tappezzeria sulle pareti, alle striature nei vetri della finestra, che ondulavano e deformavano il panorama, al lavabo traballante sui suoi tre piedi con una certa aria scontenta che mi ricordava la signora Gummidge quando pensava al suo vecchio. Piangevo senza requie, ma, a parte il fatto che ero consapevole di essere raggelato e avvilito, sono sicuro di non aver mai pensato perché piangessi. Infine, nella mia desolazione, cominciai a considerare che ero terribilmente innamorato della piccola Emily e che ero stato strappato da lei per venir qui, dove nessuno sembrava aver bisogno di me o preoccuparsi della mia esistenza nemmeno la metà di quello che faceva lei. Tutto questo costituiva per me una situazione così miseranda che mi raggomitolai in un angolo del copriletto e piansi fino ad addormentarmi. Fui svegliato da qualcuno che diceva: «Eccolo qui!» e mi scopriva la testa ardente. Mia madre e Peggotty erano venute a cercarmi e le parole e il gesto provenivano da una di loro. «Davy,» disse mia madre, «che è successo?» Mi parve molto strano che me lo domandasse e risposi: «Nulla.» Mi voltai sulla faccia, ricordo, per nascondere il labbro tremante, che le avrebbe dato una risposta più schietta. «Davy,» ripeté mia madre, «Davy, bambino mio!» Oso dire che nessuna parola possibile da lei pronunciata avrebbe potuto colpirmi a fondo, in quel momento, come sentirmi chiamare il suo bambino. Nascosi le lacrime nelle coperte e la respinsi da me con la mano quando cercò di alzarmi. «Questa è opera tua, Peggotty, crudele che sei!» disse mia madre. «Non ne ho alcun dubbio. Mi domando come puoi conciliare con la tua coscienza l'aver messo mio figlio contro di me o contro chiunque mi sia caro! Che cosa hai intenso fare, Peggotty?» La povera Peggotty alzò gli occhi e le mani e rispose solo, quasi parafrasando il ringraziamento che io ero solito ripetere dopo il desinare: «Dio vi perdoni, signora Copperfield, e che non dobbiate mai soffrire per ciò che avete detto in questo momento.» «C'è da farmi impazzire,» gridò mia madre. «E per di più nella mia luna di miele, quando si può supporre che perfino il mio più acerrimo nemico si placherebbe e non mi negherebbe un po' di pace e di felicità. Davy, cattivo bambino! Peggotty, creatura senza cuore! Oh, povera me!» gridò mia madre volgendosi ora all'uno ora all'altro di noi con un suo fare stizzoso e caparbio, «come è doloroso questo mondo anche quando si ha il pieno diritto di attendersi che sia il più possibile piacevole!» Sentii il tocco di una mano che, mi accorsi, non era né la sua né quella di Peggotty, e mi lasciai scivolare in piedi a lato del letto. Era la mano del signor Murdstone, che me la tenne ferma sul braccio dicendo: «Che succede? Clara, amor mio, hai già dimenticato?... Fermezza, mia cara!» «Ne sono molto spiacente, Edward,» disse mia madre. «Volevo essere buona il più possibile, ma mi sento così sconfortata.» «Davvero!» rispose lui. «Non è bello udir questo, e così presto, Clara.» «Dico che è molto duro essere trattata così, adesso,» rispose mia madre facendo il broncio. «Ed è realmente così... molto duro... non è vero?» Egli la trasse a sé, le sussurrò all'orecchio e la baciò. Capii benissimo, nel vedere la testa di mia madre inclinarsi sulla sua spalla e il suo braccio toccargli il collo, capii benissimo che egli avrebbe potuto plasmare a suo piacimento la sua docile natura, così come lo so adesso, che lo ha fatto. «Scendi da basso, amor mio,» disse il signor Murdstone. «David e io verremo giù insieme. Amica mia,» e volse un volto tetro a Peggotty dopo aver seguito con gli occhi mia madre che usciva e averla congedata con un cenno e un sorriso, «conoscete il nome della vostra padrona?» «È stata la mia padrona per molto tempo, signore,» rispose Peggotty, «e dovrei conoscerlo.» «È vero,» rispose. «Ma mi sembra di avervi udito, mentre salivo le scale, rivolgervi a lei con un nome che non è il suo. Ha assunto il mio, lo sapete bene. Ve ne ricorderete?» Peggotty, dopo avermi lanciato qualche sguardo imbarazzato, fece un inchino e uscì senza rispondere, rendendosi conto, suppongo, di essere stata congedata e non avendo scuse per rimanere. Quando noi due fummo soli, lui chiuse la porta, si sedette su una sedia e, tenendomi in piedi davanti a sé, mi guardò fisso negli occhi. Me li sentii attratti, non meno fissi, dai suoi. Nel ricordarci così, a faccia a faccia, mi sembra di udire ancora il mio cuore battere forte e veloce. «David,» disse, e rese sottili le labbra premendole l'una sull'altra, «se ho a che fare con un cavallo o con un cane ostinati, che cosa credi che faccia?» «Non lo so.» «Lo batto.» Avevo risposto in una sorta di sussurro senza respiro, ma, nel silenzio che seguì, sentii che il respiro mi era divenuto ancora più corto. «Lo faccio scattare e soffrire. Dico a me stesso: ‹Devo dominarlo›; e dovesse costargli tutto il suo sangue riesco a farlo. Che cos'hai in faccia?» «Dello sporco,» risposi. Sapeva al pari di me che erano le tracce delle lacrime. Ma se mi avesse ripetuto la domanda venti volte e ogni volta con venti frustate, credo che il mio cuore di fanciullo sarebbe scoppiato prima che gli confessassi la verità. «Non ti manca certo l'intelligenza per esser così piccolo,» disse con un sorriso severo che gli era proprio, «e vedo che mi capisci perfettamente. Lavati la faccia, signorino, e vieni giù con me.» Additò il lavabo, che io avevo paragonato alla signora Gummidge, e mi invitò con un cenno di testa a obbedire senza indugi. Non ebbi molti dubbi allora, e ne ho ancor meno adesso, che mi avrebbe sbattuto a terra senza il minimo rimorso se avessi esitato. «Clara, mia cara,» disse quando ebbi eseguito il suo comando e mi ebbe condotto in salotto sempre con la mano sul mio braccio; «spero che non ti sentirai più sconfortata. Miglioreremo presto questi umori giovanili.» Dio mi aiuti, avrei potuto essere migliorato per tutta la vita, avrei forse potuto venir trasformato, in quel momento, in un altro essere per tutta la vita, da una sola parola amorevole. Una parola di incoraggiamento e di spiegazione, di pietà per la mia ignoranza infantile, di benvenuto a casa, di assicurazione che era ancora la mia casa, mi avrebbe reso sinceramente devoto a lui fin da quel momento, invece che nel solo ipocrita aspetto, e avrebbe potuto indurmi a rispettarlo invece che a odiarlo. Credo che mia madre fosse spiacente di vedermi lì in mezzo alla stanza così spaurito e straniato, e che poco dopo, quando cercai una sedia, mi seguisse con gli occhi ancor più rattristata - forse notando la mancanza di disinvoltura nel mio passo infantile - ma la parola non fu detta e il tempo per essa era ormai passato. Pranzammo soli, noi tre insieme. Lui sembrava molto innamorato di mia madre - temo che questo non mi aiutasse ad amarlo di più - e lei era molto innamorata di lui. Da quello che stavano dicendo potei capire che una sua sorella maggiore stava per venire a vivere con loro e che era attesa per quella sera stessa. Non sono sicuro se scoprii allora o in seguito che, senza svolgere alcuna attività precisa, egli aveva delle quote o degli interessi annuali sui profitti di una casa vinicola di Londra con la quale la sua famiglia aveva legami fin dal tempo del suo bisnonno e nella quale sua sorella aveva gli stessi interessi. Ma comunque fosse, posso farne accenno fin da ora. Dopo pranzo, mentre eravamo seduti attorno al fuoco e io stavo meditando una fuga da Peggotty senza trovare il coraggio di filar via per paura di offendere il padron di casa, una carrozza giunse al cancello del giardino ed egli uscì per ricevere il visitatore. Mia madre lo seguì. Io stavo andandole dietro timidamente quando ella si volse sulla porta del salotto, nell'ombra, e stringendomi fra le braccia come era solita fare, mi bisbigliò di voler bene al mio nuovo padre e di essergli obbediente. Lo fece in fretta e di nascosto, come se fosse una colpa, ma con tenerezza; e, portando una mano dietro il dorso, vi tenne la mia, finché giungemmo al luogo dov'era lui, nel giardino, e allora mi lasciò andare per passare la mano sotto il suo braccio. Era arrivata la signorina Murdstone, una donna dal fosco aspetto, nera come suo fratello a cui assomigliava molto nel volto e nella voce, e con sopracciglia foltissime che quasi si univano sul grosso naso, come se, non potendo per le mancanze del suo sesso portar le fedine, le avesse sostituite con quelle. Portava con sé due poderose e solide casse nere con le sue iniziali sul coperchio in solidi chiodi di ottone. Quando pagò il vetturino trasse il denaro da una solida borsa di acciaio, e teneva questa borsa in una sacca che era una vera prigione, appesa al suo braccio con una pesante catena e serrata come un morso. Fin allora non avevo mai visto una donna così totalmente metallica com'era la signorina Murdstone. Fu condotta in salotto con molte manifestazioni di benvenuto, e là accettò formalmente mia madre come una nuova e stretta parente. Poi mi guardò e disse: «Questo è il vostro figlio, cognata?» Mia madre mi riconobbe come tale. «Generalmente parlando,» dichiarò la signorina Murdstone, «i ragazzi non mi piacciono. Come stai, ragazzo?» In questa incoraggiante situazione risposi che stavo benissimo e che speravo così fosse di lei, ma con una grazia così indifferente che la signorina Murdstone mi giudicò in due parole: «Scarsa educazione!» Dopo aver detto ciò, molto distintamente, chiese il favore di poter vedere la propria camera che, da quel momento in poi, divenne per me un luogo di reverenziale terrore, dove le due casse nere non si videro mai aperte né mai si seppe che non fossero chiuse a chiave, e dove (dato che vi diedi un'occhiata un paio di volte quando lei non c'era) numerose catenelle e spille di acciaio, di cui la signorina Murdstone si agghindava quando era vestita, pendevano in genere dallo specchio in formidabile arredo. Da quanto potei capire era venuta per sempre e non aveva intenzione di andarsene più. Fin dal mattino dopo cominciò ad «aiutare» mia madre, e per tutto il giorno non fece che entrare e uscire dal ripostiglio mettendo le cose al loro posto e facendo strazio dell'ordine antico. Forse la prima cosa notevole che osservai nella signorina Murdstone fu il suo continuo e ossessionante sospetto che le cameriere nascondessero un uomo in qualche parte della casa. Sotto l'influenza di questa mania si precipitava nella carbonaia nelle ore più assurde e raramente apriva lo sportello di una credenza buia senza richiuderlo di scatto nella convinzione di avercelo scovato. Sebbene non ci fosse in lei nulla di precisamente aereo, la signorina Murdstone era una vera allodola quanto ad alzarsi presto. Era in piedi (e, come credo adesso, solo per cercare quell'uomo) prima che nessun altro nella casa si muovesse. Peggotty aveva la ferma opinione che dormisse con un occhio aperto; ma non potei entrare in questa idea perché, dopo aver sentito avanzare l'ipotesi, feci io stesso la prova e mi accorsi che era cosa impossibile. Il mattino stesso dopo il suo arrivo, si alzò e suonò il campanello al canto del gallo. Quando mia madre scese per la colazione disponendosi a preparare il tè, la signorina Murdstone le diede una specie di beccata sulla gota, che era per lei quanto ci fosse di più simile a un bacio, e disse: «Ora, mia diletta Clara, sai bene che sono venuta per alleggerirti di tutti i fastidi che posso. Tu sei troppo graziosa e troppo spensierata,» - mia madre arrossì ma rise e non parve scontenta di questo giudizio - «per sobbarcarti di doveri che posso affrontare io stessa. Se vuoi essere così gentile da darmi le chiavi, mia cara, provvederò io a tutte queste cose in avvenire.» Da quel momento la signorina Murdstone tenne le chiavi, di giorno, nella sua piccola prigione e sotto il suo cuscino di notte, e mia madre non poté toccarle più di quanto non potessi io. La mamma non tollerò, senza un'ombra di protesta, che ogni autorità le venisse tolta. Una sera in cui la signorina Murdstone stava spiegando a suo fratello certi piani di ordinamento domestico, ai quali egli diede la sua approvazione, mia madre si mise improvvisamente a piangere e disse che credeva di essere almeno consultata. «Clara!» esclamò severamente il signor Murdstone. «Clara! Mi meraviglio di te.» «Oh, è molto facile per te, Edward, dire che ti meravigli,» singhiozzò mia madre, «e ti è molto facile parlare di fermezza, ma a te questo non piacerebbe affatto.» Devo notare che la fermezza era la grande virtù su cui tanto il signore quanto la signorina Murdstone si fondavano. Comunque avessi potuto esprimere il mio modo di vedere la cosa in quel tempo, se fossi stato invitato a farlo, capivo nondimeno chiaramente, nei miei limiti, che era quella un'altra parola per indicare la tirannia e un certo umore cupo, arrogante e diabolico che era comune a entrambi. Il loro credo, come potrei enunciarlo adesso, era questo: il signor Murdstone era fermo; nessun altro del suo mondo poteva esser fermo come il signor Murdstone stesso; nessun altro nel suo mondo poteva avere una qualsiasi fermezza perché ognuno doveva inchinarsi alla sua. La signorina Murdstone era un'eccezione. Lei poteva essere ferma, ma solo per parentela e in un grado inferiore e tributario. Mia madre era un'altra eccezione. Anche lei poteva essere ferma e doveva esserlo; ma solo nel sopportare la loro fermezza e nel credere fermamente che non vi era altra fermezza al mondo. «È molto duro,» disse mia madre, «che nella mia casa...» «La mia casa?» ripeté il signor Murdstone. «Clara!» «La nostra casa, voglio dire,» balbettò mia madre evidentemente atterrita. «Spero che tu capisca quello che intendo, Edward. È molto duro che nella tua casa io non possa dire una parola sulle questioni domestiche. Sono sicura di essermela cavata benissimo prima del nostro matrimonio. Ho una testimone,» continuò mia madre singhiozzando; «domanda a Peggotty se non mi disimpegnavo perfettamente quando non c'erano interferenze.» «Edward,» disse la signorina Murdstone, «lasciamo che la cosa finisca qui. Domani me ne vado.» «Jane Murdstone,» ordinò suo fratello. «Taci! Come osi insinuare di non conoscere il mio carattere meglio di quanto implichino le tue parole?» «Certo,» continuò la mia povera mamma in grave svantaggio e con molte lacrime, «io non voglio che nessuno vada via. Mi sentirei veramente avvilita e infelice se qualcuno se ne andasse. Non chiedo molto. Non sono irragionevole. Chiedo solo di essere consultata qualche volta. Io sono molto riconoscente a chiunque mi aiuti e solo desidero di essere consultata, sia pure formalmente, ogni tanto. Credevo che ti piacesse, una volta, Edward, sapermi un po' inesperta e fanciullesca - me lo hai detto tu stesso, ne sono certa - ma adesso sembri odiarmi per questo, tanto sei severo,» «Edward,» disse ancora la signorina Murdstone, «lasciamo che la cosa finisca qui. Domani me ne vado.» «Jane Murdstone,» tuonò il signor Murdstone. «Vuoi stare zitta? Come osi?» La signorina Murdstone trasse dalla prigione il fazzoletto e se lo tenne davanti agli occhi. «Clara,» continuò lui fissando mia madre, «mi sorprendi! Mi sbigottisci! Sì, provavo soddisfazione all'idea di sposare una donna inesperta e genuina, di poter plasmare il suo carattere, di infonderle un poco di quella fermezza e decisione di cui aveva bisogno. Ma quando Jane Murdstone è così buona da venire ad assistermi in questo compito e da assumere, per amor mio, una condizione in qualche modo simile a quella di una governante e riceve un così incivile contraccambio...» «Oh, ti prego, ti prego, Edward,» gridò mia madre, «non accusarmi di essere ingrata. Sono sicura di non esserlo. Nessuno ha mai detto che lo sia. Ho molti difetti ma questo no. Oh, non dire così, mio caro!» «Quando Jane Murdstone, dico,» continuò lui dopo avere atteso che mia madre tacesse, «riceve un così incivile contraccambio, questo mio sentimento si raffredda e si muta.» «No, amor mio, non dire così!» Implorò pietosamente mia madre. «Oh, no, Edward, non posso sentirlo. Qualunque cosa io sia, sono affezionata. So di esserlo. Non lo direi se non ne fossi sicura. Domandalo a Peggotty. Non dubito che ti dirà che sono affezionata.» «Una pura debolezza, per quanto grande, Clara,» rispose il signor Murdstone, «non ha il minimo peso per me. Sprechi il tuo fiato.» «Ti prego, torniamo a essere amici,» disse mia madre. «Non potrei vivere nella freddezza e nel disamore. Sono così angosciata. Ho moltissimi difetti, lo so, ed è veramente bello da parte tua, Edward, cercare di correggermeli con la tua forza. Jane, non ti rivolgo alcun rimprovero. Mi si spezzerebbe il cuore se pensassi a lasciarmi...» Mia madre era troppo sopraffatta per poter continuare. «Jane Murdstone,» disse il signor Murdstone alla sorella, «ogni parola aspra fra noi è, lo spero, inconsueta. Non è mia colpa se è avvenuto stasera un incidente così eccezionale. Ci sono stato trascinato da altri. E non è tua colpa. Anche tu vi sei stata trascinata da altri. Cerchiamo entrambi di dimenticarlo. E poiché questa,» aggiunse dopo tali magnanime parole, «non è una scena adatta per il ragazzo... David, va a letto!» Potei a mala pena trovare la porta attraverso le lacrime che mi riempivano gli occhi. Ero pieno di angoscia per le pene di mia madre; ma trovai a tentoni la strada per uscire e a tentoni raggiunsi nel buio la mia camera, senza aver nemmeno il coraggio di dar la buona notte a Peggotty o di chiederle una candela. Quando lei venne a vedermi, circa un'ora dopo, mi svegliò, mi disse che mia madre era andata a letto in uno stato pietoso e che il signore e la signorina Murdstone erano rimasti su. Il mattino dopo, nello scendere più presto del solito, mi fermai davanti alla porta del salotto per ascoltare la voce di mia madre. Stava sollecitando, con gran calore e umilmente, il perdono della signorina Murdstone; questa dama lo concesse e avvenne una perfetta riconciliazione. In seguito non sentii più mia madre esprimere un'opinione su qualsiasi argomento senza aver prima fatto appello alla signorina Murdstone o senza essersi accertata in modo sicuro di quali fossero le opinioni della signorina Murdstone in proposito; e non vidi mai la signorina Murdstone, quando era fuori di sé (in questo senso non era molto ferma), volger la mano alla sua sacca come se volesse prender le chiavi e far mostra di restituirle a mia madre senza veder mia madre terribilmente atterrita. La scura tinta propria del sangue dei Murdstone rendeva tetra anche la loro religione, che era austera e spietata. Ho pensato in seguito che questo suo carattere era una necessaria conseguenza della fermezza del signor Murdstone, la quale non gli permetteva di risparmiare ad alcuno il massimo peso dei più severi castighi se solo poteva trovare un pretesto per farlo. Sia come sia, ricordo bene con quali tremendi volti solevamo andare in chiesa e come fosse mutato il clima del luogo. Ecco che giunge ancora la paventata domenica ed io mi infilo per primo nel vecchio banco come un prigioniero sorvegliato a vista e condotto a un lavoro forzato. Ecco ancora la signorina Murdstone in abito di velluto nero, che sembra ricavato da un drappo mortuario, seguirmi da vicino; poi mia madre; infine suo marito. Non c'è Peggotty, adesso, come nel tempo andato. Ancora odo la signorina Murdstone borbottare le risposte mettendo una particolare enfasi nelle parole terribili con un gusto crudele. Ancora vedo i suoi occhi neri fare il giro della chiesa quando dice «miserabili peccatori» come se chiamasse per nome tutti i membri della congregazione. Ancora rivolgo qualche rara occhiata a mia madre, che muove timidamente le labbra fra quei due, con uno di loro che le brontola in ogni orecchio come un basso tuono. Ancora mi domando con improvvisa paura se è possibile che il nostro buon vecchio parroco sia in errore e il signore e la signorina Murdstone nel giusto, e che tutti gli angeli del cielo possano star distruggendo altri angeli. Ancora, se muovo un dito o rilasso un muscolo del mio volto, la signorina Murdstone mi pungola col suo libro di preghiere facendomi dolere il fianco. Sì, e ancora, mentre torniamo a casa, noto alcuni vicini che guardano mia madre e me e bisbigliano fra loro. Ancora, mentre i tre vanno avanti sottobraccio e io rimango indietro da solo, seguo alcuni di quegli sguardi e mi domando se realmente il passo di mia madre non sia più lieve come l'ho sempre visto, e se davvero la sua gaiezza e la sua bellezza non siano state quasi cancellate. Ancora mi domando se qualcuno dei vicini si ricorda, al pari di me, come eravamo soliti tornare a casa, lei e io; e continuo a meditare stupidamente su questo per tutta la tetra e funerea giornata. C'eran stati discorsi occasionali sull'opportunità di mandarmi in collegio. Li avevano iniziati il signore e la signorina Murdstone, e mia madre, naturalmente, era stata d'accordo con loro. Comunque nulla era stato deciso su questo. E frattanto prendevo lezioni in casa. Potrò mai dimenticare quelle lezioni? Nominalmente erano presiedute da mia madre, ma in realtà dal signor Murdstone e da sua sorella, che erano sempre presenti e trovavano in esse un'occasione favorevole per darle lezioni di quella cosiddetta fermezza che era il flagello delle nostre due vite. Credo che mi tenessero in casa solo per questo. Ero stato abbastanza pronto a imparare, e lo facevo volentieri, finché mia madre e io eravamo vissuti da soli insieme. Posso ricordare in confuso quando imparavo l'alfabeto sulle sue ginocchia. Ancor oggi, quando guardo i grossi caratteri neri del sillabario, l'imbarazzante novità delle loro forme, la facile bonomia delle O, delle Q e delle S, mi sembrano ripresentarsi ai miei occhi come allora. Ma non risvegliano in me alcun sentimento di disgusto né di riluttanza. Al contrario, mi sembra di aver camminato lungo un sentiero fiorito fino al libro dei coccodrilli, e di essere stato confortato per tutta la via dalla voce gentile, dai dolci modi di mia madre. Ma queste solenni lezioni che seguirono, le ricordo come un colpo mortale alla mia pace, una fatica ingrata e opprimente, una quotidiana disperazione. Erano lunghissime, numerose, difficili - alcune assolutamente incomprensibili per me - e in genere ne ero disorientato come credo lo fosse la mia stessa povera mamma. Lasciatemi ricordare come erano di solito, e riandare a una di quelle mattine. Entro nel secondo salotto dopo colazione, con i miei libri, un quaderno e una lavagna. Mia madre è già pronta per me alla sua scrivania, ma non certo pronta, nemmeno per metà, come lo è il signor Murdstone nella sua poltrona presso la finestra (sebbene pretenda di leggere un libro) o la signorina Murdstone, che siede accanto a mia madre, intenta a infilare perline di acciaio. La sola vista di quei due ha una tale influenza su di me che comincio a sentirmi sfuggir via le parole raccolte con tanta pena nella mia testa, e andarsene non so dove. Frattanto mi domando: dove saranno andate? Porgo il primo libro a mia madre. Forse è una grammatica, forse un libro di storia o di geografia. Do un'ultima occhiata da naufrago alla pagina mentre lo metto nella sua mano, e scatto a voce alta e a passo di corsa finché l'ho fresca in mente. Incespico su una parola. Il signor Murdstone alza gli occhi. Incespico su di un'altra parola. La signorina Murdstone alza gli occhi. Divento rosso, ruzzolo sopra una mezza dozzina di parole e mi fermo. Penso che mi madre mi mostrerebbe il libro se osasse, ma non osa e dice dolcemente: «Oh, Davy, Davy!» «Andiamo, Clara,» dice il signor Murdstone, «sii energica con il ragazzo. Non dire ‹Oh, Davy, Davy!› È infantile. O sa la lezione o non la sa.» «Non la sa,» interviene paurosamente la signorina Murdstone. «Temo proprio che non la sappia,» dice mia madre. «Allora vedi, Clara,» risponde la signorina Murdstone, «dovresti restituirgli il libro e costringerlo a impararla.» «Sì, certo,» dice mia madre, «è proprio quello che intendevo fare, mia cara Jane. Su, Davy, prova ancora una volta e non fare lo stupido.» Obbedisco alla prima parte dell'ingiunzione provando ancora una volta, ma non ho egual successo quanto alla seconda, perché sono realmente istupidito. Incespico prima ancora di arrivare al punto di prima, un passo che prima avevo saputo benissimo, e mi fermo a pensare. Ma non posso pensare alla lezione. Penso a quante iarde di filo sono intrecciate nella cuffia della signorina Murdstone, o al costo della veste da camera del signor Murdstone, o a ridicoli problemi di questo genere con cui non ho nulla a che fare e dei quali non ho alcun desiderio di occuparmi. Il signor Murdstone fa un gesto di impazienza che io mi aspetto da tempo. La signorina Murdstone lo imita. Mia madre rivolge loro un'occhiata sottomessa, chiude il libro e lo mette da parte come un arretrato da riprendere quando avrò finito gli altri compiti. Presto questi arretrati formano una pila che aumenta a palla di neve. E quanto più ingrossa più io istupidisco. Il caso è così disperato e io sento di avvoltolarmi in un tale pantano di assurdità che rinuncio a ogni idea di uscirne e mi abbandono al mio fato. L'aria desolata con cui mia madre e io ci guardiamo l'un l'altro mentre io continuo a prender cantonate è una vera tristezza. Ma il momento più drammatico di queste miserande lezioni è quando mia madre (pensando di non essere osservata da alcuno) cerca di darmi l'imbeccata muovendo appena le labbra. Nell'istante stesso la signorina Murdstone, che non ha aspettato altro per tutto quel tempo, dice con voce profonda e ammonitrice: «Clara!» Mia madre sussulta, diventa rossa e sorride debolmente. Il signor Murdstone si alza dalla poltrona, prende il libro, me lo tira addosso o me lo dà sulle orecchie e mi spinge fuori dalla stanza per le spalle. Anche quando le lezioni sono finite, il peggio deve ancora venire sotto forma di uno spaventevole problema. È stato inventato per me e mi viene enunciato oralmente dal signor Murdstone; comincia: «Se vado in una fabbrica di formaggi e compro cinquemila forme di doppio-Gloucester a quattro pence e mezzo l'una, pagamento a contanti...» Al che vedo la signorina Murdstone illuminarsi segretamente di gioia. Mi lambicco il cervello su questi formaggi senza alcun risultato né alcuna luce fino all'ora di pranzo, quando, dopo essermi ridotto un mulatto a forza di empire i pori della mia pelle con la polvere della lavagna, ho una fetta di pane per aiutarmi a venir fuori da tutto quel cacio, e sono considerato in disgrazia per tutto il resto della giornata. Mi sembra, a questa distanza di tempo, che i miei disgraziati studi avessero in genere questo andamento. Sarei andato molto bene se non ci fossero stati i Murdstone; ma l'influenza di quei due agiva su di me come il fascino di due serpenti su di uno sciagurato uccelletto. Anche quando riuscivo a superare la mattinata in modo passabile, non ci guadagnavo gran che oltre il pranzo; perché la signorina Murdstone non sopportava di vedermi disoccupato e se io imprudentemente mostravo di non aver nulla da fare, richiamava su di me l'attenzione di suo fratello dicendo: «Clara, mia cara, non c'è niente come il lavoro... dà un esercizio a tuo figlio»; cosa che mi faceva immediatamente precipitare in qualche nuovo cimento. Quanto a divertirmi un po' con i bambini della mia età, mi capitava assai di rado; perché la tetra teologia dei Murdstone considerava tutti i ragazzi una torma di piccole vipere (sebbene ci fu una volta un fanciullo, fra i Discepoli) e riteneva che si contaminassero a vicenda. Il naturale risultato di questo trattamento, continuato, mi sembra, per sei mesi o più, fu di rendermi tetro, ottuso e ostinato. E non meno mi rese tale il senso di essere ogni giorno più escluso e alienato da mia madre. Credo che sarei giunto quasi all'idiozia se non fosse stato per una circostanza. E fu questa. Mio padre aveva lasciato una piccola raccolta di libri in una stanzetta del piano di sopra, alla quale avevo libero accesso (dato che era attigua alla mia) e che non venne mai violata da nessun altro di casa. Da quel benedetto stanzino vennero fuori Roderik Random, Peregrine Pickle, Humphrey Clinker, Tom Jones, il Vicario di Wakefield, Don Chisciotte, Gil Blas e Robinson Crusoe, glorioso esercito, per tenermi compagnia. Mantennero in vita la mia fantasia e la mia speranza in qualche cosa oltre quel luogo e quel tempo - essi e le Mille e una notte e i Racconti dei genii - e non mi fecero alcun danno; perché, qualunque cosa di male potesse esserci in alcuni, non era tale per me: non la capivo. Mi stupisce, adesso, come trovassi il tempo, in mezzo ai miei arrovellamenti e brancolamenti su ardui temi, di leggere quei libri, come feci. Ed è strano come riuscissi a consolarmi dei miei piccoli guai (che erano guai grossi per me) impersonando in essi i miei personaggi preferiti - come feci - e mettendo il signore e la signorina Murdstone in quelli malvagi, come feci egualmente. Sono stato Tom Jones (un Tom Jones da fanciulli, una creatura innocente) per tutta una settimana. Ho sostenuto una mia personale interpretazione di Roderick Random per un mese intero, credo. Lessi con avidità alcuni volumi di Viaggi per mare e per terra - adesso ho dimenticato quali - che erano su quegli scaffali; e ricordo che per giorni e giorni mi aggirai per la regione a me concessa nella nostra casa armato della parte centrale di un vecchio paio di forme da stivali: perfetta realizzazione di Capitan Qualcuno della Reale Marina Britannica, in pericolo di essere circondato dai selvaggi e deciso a vender cara la propria vita. Il Capitano non perse mai la sua dignità per il fatto di essere colpito sulle orecchie da una grammatica latina. Io sì, ma il Capitano era un Capitano e un eroe, a dispetto di tutte le grammatiche di tutti i linguaggi del mondo, morti o vivi. Fu questo il mio unico e costante conforto. Quando ci penso, mi torna sempre a mente il quadro di una sera d'estate, con i ragazzi che giocano nel cimitero e io seduto sul letto, intento a leggere come se fosse questione di vita o di morte. Ogni fienile dei dintorni, ogni pietra della chiesa, ogni palmo del cimitero avevano nella mia mente qualche associazione connessa con quei libri e rappresentava una località resa da essi famosa. Ho visto Tom Pipes arrampicarsi sul campanile; ho osservato Strap, con la bisaccia sulle spalle, fermarsi a riposare davanti al portello; e so che il commodoro Trunnion tenne quella riunione col signor Pickle nella sala della birreria del nostro piccolo villaggio. Il lettore conosce adesso, al pari di me, chi fossi quando giunsi a quel punto della mia storia giovanile a cui sto per fare ritorno. Un mattino, quando entrai nel salotto con i miei libri, trovai mia madre piena d'ansia nel volto, la signorina Murdstone con un'aria ferma e il signor Murdstone che legava qualche cosa all'estremità di una bacchetta, una bacchetta corta e sottile che smise di legare quando entrai e fece volteggiare sibilando nell'aria. «Ti ripeto, Clara,» disse il signor Murdstone, «che sono stato frustato più volte io stesso.» «Certo, è naturale,» disse la signorina Murdstone. «Sicuro, mia cara Jane,» balbettò docile mia madre. «Ma... pensi che abbia fatto bene a Edward?» «Pensi che gli abbia fatto male, Clara?» chiese con gravità il signor Murdstone. «Questo è il punto,» affermò sua sorella. Al che mia madre rispose: «Certo, mia cara Jane,» e non disse altro. Fui in apprensione di essere personalmente interessato in questo dialogo e cercai l'occhio del signor Murdstone mentre lampeggiava sul mio. «Bene, David,» disse - e gli vidi ancora quell'occhiata dura mentre parlava - «oggi devi essere molto più attento del solito.» Fece nuovamente volteggiare la bacchetta con un altro sibilo, e, finiti questi preparativi, se la mise a fianco con uno sguardo espressivo e prese il suo libro. Come inizio, era un buon stimolante per la mia presenza di spirito. Sentii che le parole della mia lezione mi filavano via non già una per una, o riga per riga, ma a intere pagine. Tentai di trattenerle, ma pareva, se così posso esprimermi, che avessero messo i pattini e scivolassero via da me con una scorrevolezza inarrestabile. Cominciammo male e proseguimmo peggio. Ero entrato con l'idea di fare una bella figura, convinto di essere ben preparato; ma risultò che mi ero sbagliato completamente. I libri si accumularono l'uno dopo l'altro sulla pila dei fallimenti, mentre la signorina Murdstone ci teneva fermamente d'occhio per tutto il tempo. E quando arrivammo ai cinquemila formaggi (che quel giorno, ricordo, trasformò in bacchette), mia madre scoppiò in lacrime. «Clara!» disse la signorina Murdstone con la sua voce ammonitrice. «Credo di non star troppo bene, mia cara Jane,» rispose mia madre. Vidi lui dare un'occhiata solenne a sua sorella mentre si alzava prendendo la bacchetta e dicendo: «Suvvia, Jane, non possiamo aspettarci che Clara sopporti con perfetta fermezza, la pena e il tormento che David le ha procurato quest'oggi. Sarebbe stoicismo. Clara ha fatto progressi e si è molto rafforzata, ma non possiamo pretendere tanto da lei. David, noi due andremo di sopra, vieni, ragazzo.» Mentre lui mi spingeva fuori della porta, mia madre corse verso di noi. La signorina Murdstone esclamò: «Clara! Sei una perfetta sciocca?» e si interpose. Vidi mia madre chiudersi le orecchie e la sentii piangere. Mi portò su nella mia stanza, lento e solenne - sono sicuro che provava un piacere in questa ufficiale ostentazione di giustizia esecutiva - e, quando fummo là, mi prese improvvisamente la testa sotto il braccio. «Signor Murdstone! Signore!» gridai. «No! Vi prego non picchiatemi! Ho cercato di imparare, signore, ma non posso farlo quando voi e la signorina Murdstone siete là. Non posso proprio.» «Non puoi proprio, David?» disse. «Proveremo con questo.» Mi teneva la testa come in una morsa, ma io mi torsi in qualche modo e lo fermai per un momento supplicandolo di non percuotermi. Ma fu solo un momento, perché un attimo dopo mi colpì forte e nello stesso istante gli presi in bocca la mano con cui mi teneva, la strinsi fra i denti e morsi a fondo. Mi sento ancora allegare i denti a pensarci. Allora colpì come se avesse voluto battermi a morte. Al di sopra di tutto il baccano che facevamo, udii un gran correre su per le scale e le loro grida: sentii mia madre che urlava, e Peggotty. Poi lui scomparve e la porta fu chiusa a chiave dal di fuori; e io ero disteso sul pavimento, caldo e febbricitante, pesto, dolorante e furioso per quanto potessi. Come ricordo bene, quando mi fui calmato, quell'innaturale quiete che sembrava regnare su tutta la casa! Come ricordo bene, appena il bruciore e la furia cominciarono a raffreddarsi, quanto mi sentii disgraziato! Rimasi in ascolto per parecchio tempo, ma non si udiva alcun rumore. Mi tirai su dal pavimento e mi vidi la faccia nello specchio, così gonfia, brutta e congestionata che quasi mi fece paura. I solchi delle frustate mi davano acute fitte e mi strappavano nuovi gemiti a ogni mossa. Ma non erano nulla a confronto con il senso di colpa che provavo. Mi gravava sul cuore con una maggiore oppressione che se fossi stato, oso dire, il più atroce dei criminali. Era cominciato a imbrunire e io avevo chiuso la finestra (ero stato lì per la maggior parte del tempo, con la testa appoggiata al davanzale un po' piangendo, un po' sonnecchiando e un po' guardando svogliatamente fuori), quando la chiave girò nella serratura e la signorina Murdstone entrò con un po' di pane e carne e del latte. Li pose sul tavolo senza dir parola, fissandomi frattanto con esemplare fermezza, e poi si ritirò chiudendo a chiave la porta dietro di sé. Era già buio da un pezzo, e io me ne stavo lì seduto domandandomi se sarebbe venuto qualcun altro. Quando la cosa apparve improbabile, almeno per quella notte, mi spogliai e andai a letto; e lì cominciai a domandarmi con apprensione che cosa sarebbe avvenuto di me. Era un atto criminale quello che avevo commesso? Sarei stato arrestato e messo in prigione? Ero addirittura in pericolo di venire impiccato? Non dimenticherò mai il mio risveglio il mattino dopo; il mio sentirmi allegro e fresco nel primo momento e poi il ripiombare nella squallida e tetra oppressione del ricordo. La signorina Murdstone ricomparve prima che mi fossi alzato, mi disse, con le sole parole necessarie, che ero libero di passeggiare in giardino per una mezz'ora e non più, e si ritirò lasciando la porta aperta perché potessi valermi di quella concessione. Ne approfittai e così feci ogni mattina della mia prigionia, che durò cinque giorni. Se avessi potuto vedere mia madre da sola, mi sarei gettato in ginocchio davanti a lei implorando il suo perdono; ma per tutto quel tempo non vidi alcuno, salvo la signorina Murdstone ed eccettuato il momento delle preghiere serali in salotto, alle quali ero scortato dalla signorina Murdstone dopo che tutti gli altri avevano preso posto: lì io me ne stavo, piccolo fuorilegge, tutto solo presso la porta, e di là ero solennemente condotto via dal mio carceriere prima che alcuno si alzasse dalla sua devota posa. Notai solo che mia madre era il più lontano possibile da me e voltava il viso da un'altra parte così che non potei mai vederglielo; e che la mano del signor Murdstone era avvolta in una larga benda di lino. Non potrei dare ad alcuno un'idea di quanto furono lunghi quei cinque giorni: nel mio ricordo occupano uno spazio di anni. Il modo con cui stavo in ascolto di tutti gli avvenimenti della casa che potessero essere per me udibili: lo squillo dei campanelli, l'aprirsi e chiudersi delle porte, il mormorio delle voci, i passi sulle scale; e poi ogni risata, o fischiettìo, o canto, là fuori, che sembravano più tristi di ogni altra cosa nella mia solitudine e nella mia disgrazia; e l'incerto passaggio delle ore, specialmente di notte, quando mi svegliavo credendo che fosse mattino e mi accorgevo che la famiglia non era ancora andata a letto e che l'intera notte doveva ancora venire; gli smorti sogni e gli incubi che avevo; il ritorno del mattino, del mezzogiorno, del pomeriggio, della sera, quando ì ragazzi giocavano nel cimitero e io li guardavo di lontano dall'interno della mia stanza vergognandomi di mostrarmi alla finestra per tema che si accorgessero della mia prigionia; la strana sensazione di non sentirmi parlare; i fuggevoli intervalli di qualche cosa di simile alla gaiezza che veniva col mangiare e col bere e se ne andava con essi; la caduta della pioggia, una sera, con un fresco odore, e il suo scrosciare sempre più fitto fra me e la chiesa, finché quella pioggia stessa e la notte che avanzava parvero soffocarmi nel buio, nella paura e nel rimorso: tutto questo mi sembra essersi ripetuto e ripetuto per anni invece che per giorni tanto vivamente e profondamente mi è rimasto impresso nella memoria. L'ultima notte della mia prigionia, fui svegliato udendo pronunciare in un sussurro il mio nome. Balzai a sedere sul letto e, tendendo le braccia nel buio, dissi: «Sei tu, Peggotty?» Non ci fu risposta immediata ma, poco dopo, udii ancora il mio nome, in un tono così misterioso e imponente che, credo, sarei uscito di me se non mi fosse venuto in mente che doveva provenire dal buco della serratura. Raggiunsi a tastoni la porta e, avvicinando le labbra alla serratura, bisbigliai: «Sei tu, cara Peggotty?» «Sì, Davy, tesoro mio,» rispose. «Ma fa piano come un topo, se no il gatto ci sentirà.» Capii che alludeva alla signorina Murdstone, e mi resi conto della gravità del caso perché la sua stanza era attigua alla mia. «Come sta la mamma, cara Peggotty? È molto arrabbiata con me?» Potei sentire Peggotty che piangeva sommessa di là dalla porta, come facevo io al di qua, prima di rispondere: «No, non molto.» «Che cosa vogliono fare di me, Peggotty? Lo sai?» «Collegio. Vicino a Londra,» fu la risposta di Peggotty. Dovetti farglielo ripetere perché la prima volta mi aveva parlato quasi in gola essendomi dimenticato di toglier la bocca dal buco della serratura e mettervi l'orecchio; e, sebbene sentissi solleticarmi le labbra dalle sue parole, non potevo udirle. «Quando, Peggotty?» «Domani.» «Per questo la signorina Murdstone ha tolto i miei abiti dai cassetti?» Lo aveva fatto, in realtà, benché abbia dimenticato di farne cenno. «Sì,» disse Peggotty. «Valigia.» «Potrò vedere la mamma?» «Sì,» rispose Peggotty. «Domani.» Allora Peggotty incollò la bocca al buco della serratura e vi fece passare attraverso queste parole con un sentimento e un ardore quali mai passarono, oso dire, attraverso un buco di serratura: sparando ogni frase, breve e spezzata, in uno scoppiettìo convulso suo proprio. «Davy, caro. Se non ti sono rimasta azzatamente vicina... negli ultimi tempi, come facevo prima... non è stato perché non ti voglia bene. Te ne voglio ancora e anche di più, piccolo mio. Ma perché ho pensato che era meglio per te. E anche per qualcun altro. Davy, amore, mi ascolti? Puoi sentirmi?» «S-s-s-sì, Peggotty!» singhiozzai. «Amor mio!» disse Peggotty con compassione infinita. «Quello che ti voglio dire è... che non devi mai dimenticarmi... Perché io non ti dimenticherò mai... E mi prenderò molta cura della tua mamma, Davy... quanta ne ho presa sempre di te... E non la lascerò... Forse verrà il giorno in cui sarà felice di posare ancora la sua povera testa... sul braccio della sua stupida, bisbetica vecchia Peggotty... E ti scriverò, caro... anche se non sono istruita... E io... io...» Peggotty si mise a baciare la serratura non potendo baciare me. «Grazie, cara Peggotty!» dissi. «Oh, grazie, grazie! Vuoi promettermi una cosa, Peggotty? Vorrai scrivere al signor Peggotty, e alla piccola Emily, e alla signora Gummidge e a Ham per dirgli che non sono così cattivo come possono credere, e che gli mando tutto il mio amore... specialmente alla piccola Emily? Lo farai, Peggotty? Ti prego!» Quell'anima buona promise e tutti e due baciammo il buco della serratura con il più profondo affetto. Ricordo che lo accarezzai come se fosse stato il suo onesto volto... e ci separammo. Da quella notte sorse nel mio petto, verso Peggotty, un sentimento che non so definire bene. Ella non sostituì mia madre; nessuno avrebbe potuto farlo; ma occupò uno spazio del mio cuore, che si richiuse su di lei, e io provai per lei qualche cosa che non ho più provato per nessun essere umano. Era anche una sorta di comico affetto; e tuttavia, se fosse morta, non posso pensare che cosa avrei fatto o come avrei potuto rappresentare praticamente la tragedia che sarebbe stata per me. Al mattino la signorina Murdstone comparve come il solito e mi disse che dovevo andare in collegio, cosa che per me non era la novità che supponeva. Mi avvertì anche che, appena vestito, dovevo scendere in salotto per far colazione. Là trovai mia madre, molto pallida e con gli occhi rossi: corsi nelle sue braccia e le chiesi perdono per la mia anima dolente. «Oh, Davy!» disse. «Come hai potuto offendere una persona che amo? Cerca di essere migliore, prega per essere migliore! Io ti perdono; ma sono così addolorata, Davy, che tu abbia così cattivi sentimenti nel cuore.» Erano riusciti a convincerla che ero un cattivo soggetto, ed ella era più angosciata per questo che per la mia partenza. Lo sentii penosamente. Tentai di mangiare la mia ultima colazione, ma le lacrime caddero sul pane imburrato e scivolarono nel tè. Vidi mia madre guardarmi ogni tanto, e poi dare un'occhiata alla vigile signorina Murdstone e poi abbassare lo sguardo o volgerlo altrove. «Portate la cassetta del signorino Copperfield!» ordinò la signorina Murdstone quando si udì un rumore di ruote al cancello. Cercai con gli occhi Peggotty, ma non c'era; né lei né il signor Murdstone si fecero vedere. La mia vecchia conoscenza, il corriere, era alla porta; la cassetta fu portata alla sua vettura e vi fu issata. «Clara!» disse la signorina Murdstone col suo tono ammonitore. «Sono pronta, mia cara Jane,» rispose mia madre. «Addio Davy. Tu parti per il tuo bene. Addio, bambino mio. Tornerai a casa per le vacanze e diventerai più buono.» «Clara!» ripeté la signorina Murdstone. «Certo, mia cara Jane,» rispose mia madre, che mi tratteneva. «Io ti perdono, mio caro bambino. Dio ti benedica.» «Clara!» ammonì ancora la signorina Murdstone. La signorina Murdstone fu così buona da accompagnarmi al carro e da dirmi, per via, di sperare che mi sarei pentito prima di andare a finir male; dopo di che salii sul veicolo e il pigro cavallo si avviò trascinandoselo dietro. V • SONO MANDATO VIA DA CASA Potevamo aver fatto un mezzo miglio, e il mio fazzoletto era tutto inzuppato, quando il corriere fermò brusco. Nel guardar fuori per sapere perché, vidi, con mio gran stupore, Peggotty sbucare da un cespuglio e arrampicarsi sul carro. Mi prese fra le braccia e mi strinse contro il suo busto finché la pressione sul mio naso divenne estremamente dolorosa, sebbene badassi a questo solo più tardi, quando me lo sentii molto sensibile. Peggotty non disse una sola parola. Liberato un braccio, se lo ficcò fino al gomito in una tasca e ne tirò fuori dei cartocci di dolci, che mi cacciò nelle tasche, e un borsellino, che mi mise in mano; ma non pronunciò verbo. Dopo una seconda e definitiva stretta con entrambe le braccia, scese dalla vettura e corse via; e, credo e ho sempre creduto, senza un sol bottone sul suo vestito. Ne presi uno, fra i parecchi che erano rotolati tutt'intorno, e lo conservai gelosamente come ricordo per molto tempo. Il corriere mi guardò come per chiedermi se sarebbe tornata. Scossi la testa e dissi che pensavo di no. «Allora avanti,» disse al pigro cavallo, che proseguì secondo il comando. Poiché, nel frattempo, avevo pianto tutte le mie lacrime, cominciai a pensare che non sarebbe servito a nulla piangere ancora, considerando in particolare che né Roderick Random né il Capitano della Reale Marina Britannica avevano mai pianto, per quanto potessi ricordare, in situazioni difficili. Il corriere, vedendomi così risoluto, mi propose di stendere il fazzoletto ad asciugare sul dorso del cavallo. Lo ringraziai e consentii; e, così disteso, il fazzoletto mi parve stranamente piccolo. Adesso avevo tutto il tempo per esaminare il borsellino. Era di cuoio rigido, con lo scatto, e vi erano dentro tre brillanti scellini, che evidentemente Peggotty aveva lucidato col bianchetto per mia maggior gioia. Ma il suo contenuto più prezioso erano due mezze corone avvolte in un foglietto su cui era scritto, per mano di mia madre: «A Davy, con tutto il mio amore.» Ne fui così sopraffatto che chiesi al corriere di essere così gentile da porgermi ancora il fazzoletto; ma lui mi disse che, a parer suo, era meglio farne a meno, e io pensai che in realtà era meglio così; mi asciugai gli occhi con la manica e la smisi. La smisi sul serio, per quanto, in conseguenza delle mie precedenti emozioni, fossi preso ogni tanto da una crisi di singhiozzi. Dopo che fummo andati avanti traballando per un po' di tempo, domandai al corriere se mi avrebbe accompagnato per tutto il viaggio. «Tutto il viaggio fin dove?» chiese lui. «Fin là,» dissi io. «Là dove?» chiese ancora il corriere. «Vicino a Londra,» risposi. «Accidenti!» esclamò il corriere. «Questo cavallo,» e diede una strappata alle redini per indicarlo, «cadrebbe più morto di un maiale affumicato prima di aver fatto metà della strada.» «Allora mi portate solo fino a Yarmouth?» domandai. «In quei paraggi,» rispose. «Là ti porterò alla diligenza e la diligenza ti porterà... dove devi andare.» Poiché era stato questo un discorso lunghissimo per il corriere (che si chiamava signor Barkis) - il quale, come ho fatto notare in un precedente capitolo, era di temperamento flemmatico e per nulla discorsivo - gli offrii una focaccetta come segno di attenzione, e lui se la mangiò in un boccone, esattamente come avrebbe fatto un elefante, e senza mostrare sul suo grosso viso un'espressione più viva di quella che un elefante avrebbe potuto mostrare. «Ohé, li ha fatti lei?» chiese il signor Barkis, sempre piegato in avanti, con quel suo fare ciondolante, sul predellino della vettura, con un braccio su ciascun ginocchio. «Volete dire Peggotty, signore?» «Ah!» esclamò il signor Barkis. «Proprio lei.» «Sì. Fa lei tutta la nostra pasticceria e si incarica di tutto in cucina.» «Senti, senti.» Atteggiò le labbra come se volesse mettersi a fischiettare, ma non fischiettò. Rimase seduto contemplando le orecchie del cavallo, come se ci vedesse qualche cosa di nuovo, e se ne stette così per un bel pezzo. Poi disse di sfuggita: «Niente spasimanti, immagino.» «Croccanti avete detto, signor Barkis?» Perché pensavo che volesse mangiare qualche altro dolce e avesse specificamente alluso a questo genere di ghiottonerie. «Spasimanti,» ripeté il signor Barkis. «Innamorati; non c'è nessuno che va con lei?» «Con Peggotty?» «Ah!» disse. «Proprio lei.» «Oh, no. Non ha mai avuto innamorati.» «Davvero? Però!» esclamò il signor Barkis. Di nuovo atteggiò le labbra a fischiettare e di nuovo non fischiettò, ma rimase seduto a contemplar le orecchie del cavallo. «E così,» continuò il signor Barkis dopo un lungo intervallo di meditazione, «lei fa tutte le torte con le mele e bada a tutto in cucina, va bene?» Risposi che così stavano i fatti. «Be', ti dirò una cosa,» disse il signor Barkis. «Può darsi che tu le scriva?» «Certo che le scriverò,» risposi. «Ah!» disse lui volgendo lentamente gli occhi verso di me. «Be', se ti capita di scriverle, forse ti ricorderai di dirle che Barkis è pronto; te ne ricorderai?» «Che Barkis è pronto?» ripetei innocentemente. «È tutto qui il messaggio?» «S-s-ì,» rispose con aria meditativa. «S-s-ì. Barkis è pronto.» «Ma voi sarete di ritorno a Blunderstone domani, signor Barkis,» obiettai, balbettando un poco all'idea che l'indomani sarei stato molto lontano di là, «e potrete farle avere molto meglio il vostro messaggio.» Comunque, visto che rifiutava questo suggerimento scuotendo la testa e confermava la sua precedente richiesta dicendo con profonda gravità: «‹Barkis è disposto›. Il messaggio è questo,» io fui pronto a incaricarmi della sua trasmissione. Mentre aspettavo la diligenza nell'albergo di Yarmouth quel pomeriggio stesso, mi procurai un foglio e un calamaio e scrissi a Peggotty un biglietto che suonava così: «Mia cara Peggotty. Sono arrivato qui sano e salvo. Barkis è pronto. Tutto il mio affetto alla mamma. Il tuo affezionato. P.S. Lui dice che vuole che tu lo sappia particolarmente: Barkis è pronto.» Quando mi fui assunto questo incarico per il futuro, il signor Barkis ricadde in un perfetto silenzio; e io, completamente spossato da tutto ciò che era avvenuto negli ultimi tempi, mi abbandonai su di un sacco nel carro e mi addormentai. Dormii profondamente finché raggiungemmo Yarmouth, che mi apparve così totalmente nuova e strana nel cortile dell'albergo a cui ci fermammo, che subito abbandonai una latente speranza di incontrarmi lì con qualcuno della famiglia del signor Peggotty, forse addirittura con la piccola Emily. La diligenza era nel cortile, tutta brillante, ma ancora senza i cavalli; e, in quelle condizioni, sembrava che nulla fosse più inverosimile del fatto che potesse mai arrivare a Londra. Stavo pensando a questo e domandandomi dove sarebbe andata a finire la mia cassetta, che il signor Barkis aveva tirato giù e lasciato sul lastricato, presso il timone della diligenza (proseguendo poi lungo il cortile per voltare il suo veicolo) e anche dove sarei andato a finire io stesso, quando una signora si sporse da un bovindo dove erano appesi certi polli e pezzi di carne, e chiese: «È questo il signorino che viene da Blunderstone?» «Sì, signora,» dissi. «Il vostro nome?» chiese lei. «Copperfield, signora,» risposi. «Non torna,» ribatté lei. «Qui non è stato prenotato nessun pranzo a questo nome.» «È forse Murdstone, signora?» dissi. «Se siete il signorino Murdstone,» disse la signora, «perché mi avete dato prima un altro nome?» Le spiegai come stavano le cose, e lei suonò un campanello e ordinò: «William! conducilo in sala da pranzo!» al che un cameriere uscì di corsa dalla cucina, sul lato opposto del cortile, per condurmi, e parve molto sorpreso nel vedere che doveva condurre solo me. Era una grande sala con due grandi mappe alla parete. Non credo che avrei potuto sentirmi più straniero a quel luogo se le mappe fossero state vere contrade lontane e io abbandonato in mezzo a esse. Mi parve di prendermi un'eccessiva libertà sedendomi, col berretto in mano, sull'estremità della sedia più vicina alla porta; e quando il cameriere stese una tovaglia apposta per me e vi mise sopra la saliera e l'oliera, credo di esser diventato tutto rosso dalla modestia. Mi portò delle costolette e dei legumi, togliendo il coperchio ai piatti in modo così brusco che temetti di averlo offeso in qualche modo. Ma lui mi rialzò notevolmente il morale avvicinando per me una sedia al tavolo e dicendo con grande affabilità: «Coraggio, giovanotto, salta su.» Lo ringraziai e presi il mio posto a tavola; ma trovai estremamente difficile maneggiare il coltello e la forchetta con qualche cosa che assomigliasse alla destrezza o evitare di macchiarmi col sugo finché rimaneva piantato davanti a me fissandomi in faccia e facendomi arrossire nel modo più pauroso ogni volta che incontravo i suoi occhi. Dopo avermi visto alla seconda costoletta disse: «C'è qui mezza pinta di birra per te. La vuoi subito?» Lo ringraziai e dissi «Sì.». Allora la versò da una brocca in un grande bicchiere e la tenne alzata contro luce per farla apparire più brillante. «Anima mia!» esclamò. «Sembra un bel po', vero?» «Sembra proprio un bel po',» risposi sorridendo, perché ero felice di trovarlo così simpatico. Era un tipo dagli occhi ammiccanti e il volto pieno di foruncoletti, con i capelli ritti su tutta la testa; e, standosene lì con un braccio sul fianco mentre con l'altro teneva alto il bicchiere nella luce, aveva un'aria quanto mai amichevole. «C'era qui un signore, ieri,» disse, «un signore tarchiato, un certo Topsawyer... lo conosci, per caso?» «No,» dissi, «non credo» «In calzoncini e ghette, cappello a larghe tese, giacca grigia, cravattone picchiettato,» proseguì il cameriere. «No,» risposi io timidamente, «non ho il piacere...» «Venne qui,» continuò lui guardando il bicchiere contro luce, «ordinò un bicchiere di questa birra - volle ordinarla - io lo sconsigliavo - se la bevve e cadde morto. Era troppo vecchia per lui. Non bisognava spillarla, questo è il fatto.» Fui colpito a fondo nell'udire un così triste incidente e dissi che forse era meglio farmi avere un po' d'acqua. «Ma vedete,» disse il cameriere sempre guardando il bicchiere contro luce e tenendo un occhio chiuso, «ai nostri padroni non piace che la roba ordinata venga lasciata lì. Si sentono offesi. Se volete, la berrò io. Io ci sono abituato e l'abitudine è tutto. Non credo che mi farà male: basta che tiri indietro la testa e beva d'un fiato. Devo farlo?» Gli risposi che gli sarei stato molto obbligato se la beveva, purché pensasse di poterlo fare senza pericolo, ma solo a questa condizione. Quando lo vidi tirare indietro la testa e bere d'un fiato, confesso che ebbi una terribile paura che gli capitasse lo stesso destino del compianto signor Topsawyer e cadesse esanime sul tappeto. Ma non gli fece alcun male anzi, mi parve che stesse meglio di prima. «Che cosa abbiamo qui?» disse mettendomi una forchetta nel piatto. «Costolette per caso?» «Costolette,» dissi. «Dio mi benedica!» esclamò. «Non mi ero accorto che fossero costolette. Diamine, le costolette sono proprio quello che ci vuole per eliminare i brutti effetti di questa birra! Una vera fortuna!» Così con una mano prese una costoletta per l'osso e con l'altra una patata, e mangiò con ottimo appetito e con mia estrema soddisfazione. Dopo di ciò prese un'altra costoletta e un'altra patata, e infine ancora una costoletta e ancora una patata. Quando avemmo finito mi portò uno sformato e, dopo avermelo messo dinanzi, parve meditare e rimanere assorto per qualche momento. «Com'è il pasticcio?» chiese poi tornando in sé. «È uno sformato,» risposi. «Uno sformato!» esclamò. «Il ciel mi benedica, è proprio così! Ma guarda!» e lo osservò da vicino. «Non mi dirai mica che è uno sformato con la besciamella!» «Proprio così.» «Oh, diamine,» disse prendendo un cucchiaio, «lo sformato con la besciamella è il mio sformato preferito! Una vera fortuna. Su, piccolo, guardiamo chi ne mangia di più.» Ne mangiò certo di più il cameriere. Mi invitò più volte a farmi sotto e vincere, ma con il suo cucchiaio da tavola contro il mio cucchiaino da tè, la sua celerità contro la mia, il suo appetito contro il mio, fui lasciato indietro fin dal primo boccone e non ebbi più possibilità di ricupero. Credo di non aver mai visto alcuno godersi uno sformato in quel modo; e quando ebbe finito continuava a ridere come se il suo godimento durasse ancora. Nel vederlo così gioviale e di buona compagnia, fu allora che gli chiesi carta, penna e inchiostro per scrivere a Peggotty. Non solo me li portò immediatamente, ma fu così buono da starmi a osservare mentre scrivevo la lettera. Quando ebbi finito mi domandò dove sarei andato in collegio. Risposi: «Vicino a Londra,» che, era tutto quello che sapevo. «Oh, anima mia!» esclamò profondamente costernato. «Quanto mi dispiace!» «Perché?» domandai. «Signore Iddio!» rispose scuotendo la testa. «È il collegio dove ruppero le costole a quel bambino... due costole... era proprio un bambinetto. Direi che avesse... lasciami pensare... quanti anni hai, tu?» Gli dissi che ero fra gli otto e i nove. «Proprio la sua età,» affermò. «Aveva otto anni e sei mesi quando gli ruppero la prima costola; otto anni e otto mesi quando gli ruppero la seconda e per lui fu finita.» Non potei nascondermi, né nascondere al cameriere, che era una coincidenza molto sconfortante, e mi informai di come avessero fatto. La sua risposta non mi sollevò affatto perché consisteva in due fosche parole: «A bastonate.» Il suon del corno della diligenza, nel cortile, fu un opportuno diversivo che mi fece balzar su e chiedere esitante, con quel misto di orgoglio e di diffidenza che dà il possesso di un borsellino (lo tirai fuori di tasca) se c'era qualche cosa da pagare. «C'è un foglio di carta da lettere,» mi rispose. «Hai mai comprato un foglio di carta da lettere?» Non potei ricordare di averlo mai fatto. «È caro,» mi disse, «a causa della tassa. Tre pence. Così siamo tassati in questo paese. Non c'è altro eccetto il cameriere. All'inchiostro non ci pensare. Lo considero in perdita.» «Che cosa dovreste... che cosa dovrei... Quanto devo... che cosa sarebbe giusto pagare al cameriere, per favore?» balbettai divenendo di fiamma. «Se non avessi famiglia e la mia famiglia non avesse il vaiolo vaccino,» disse il cameriere, «non vi chiederei sei pence. Se non dovessi mantenere un parente anziano e una sorella bellina,» - qui il cameriere si mostrò molto agitato - «non vi chiederei nemmeno un quarto di penny. Se avessi un buon posto e qui mi trattassero bene, vi pregherei di accettare qualche cosetta invece di chiederla. Ma vivo di rifiuti... e dormo nella carbonaia...» e a questo punto il cameriere scoppiò in lacrime. Fui molto afflitto dalle sue sventure e mi resi conto che qualsiasi compenso inferiore ai nove pence sarebbe stato pura brutalità e durezza di cuore. Gli diedi dunque uno dei miei tre brillanti scellini, che egli ricevette con molta umiltà e venerazione, e si fece girare sul pollice subito dopo per vedere se era buono. Rimasi un tantino sconcertato nell'accorgermi, quando fui aiutato a salire dietro la diligenza, che si sospettava mi fossi divorato l'intero pranzo senza alcun aiuto. Lo scoprii avendo udito per caso la signora del bovindo dire al postiglione: «State attento a questo ragazzo, George, che non abbia a scoppiare!» e notando che le cameriere del luogo uscivano a guardarmi con risolini soffocati come se fossi un piccolo fenomeno. Il mio disgraziato amico cameriere, che si era perfettamente riavuto, non parve essere per nulla turbato da tutto questo, ma si unì all'ammirazione generale senza mostrare la minima confusione. Se ebbi qualche dubbio su di lui, penso che dovette vagamente risvegliarsi in quel momento; ma sono propenso a credere che, con la semplice ingenuità di un bimbo e la naturale fiducia che un fanciullo ripone negli adulti (qualità che purtroppo ogni fanciullo sostituisce prematuramente con una saggezza mondana) non ebbi, nell'insieme, nessun serio sospetto su di lui, nemmeno allora. Devo confessare che trovai alquanto penoso il sentirmi fatto oggetto, senza meritarlo, di scherzi fra il cocchiere e il postiglione circa il fatto che la diligenza doveva pesare molto posteriormente, dato che sedevo appunto lì, e la molto maggior convenienza di farmi viaggiare su un furgone. E poiché la storia del mio supposto appetito si diffuse fra i viaggiatori esterni, essi vi si divertirono in egual modo; e mi domandarono se, in collegio, avrei pagato la retta di due o tre ragazzi, e se era stato fatto per me un contratto speciale o normale, e altre piacevoli domande. Ma il peggio fu che mi resi conto che avrei dovuto vergognarmi di mangiar qualche cosa quando se ne fosse offerta l'opportunità, e che, dopo un desinare piuttosto leggero, avrei dovuto tenermi la fame per tutta la notte, perché, nella furia, avevo lasciato i miei dolci all'albergo. Le mie apprensioni si attuarono. Quando ci fermammo per la cena, non ebbi il coraggio di toccar cibo, sebbene mi sarebbe molto piaciuto, ma me ne rimasi seduto presso il fuoco dicendo che non avevo bisogno di nulla. Nemmeno questo mi salvò, tuttavia, da nuovi scherzi: perché un signore dalla voce rauca e i lineamenti rozzi, che aveva tirato fuori panini imbottiti da una scatola per tutto il viaggio, eccettuato quando si attaccava a una bottiglia, disse che ero come il boa constrictor, che trangugia tutto in una volta quanto può bastargli per molto tempo; dopo di che si fece un spanciata di manzo lesso. Eravamo partiti da Yarmouth alle tre del pomeriggio e dovevamo essere a Londra circa alle otto del mattino successivo. Il tempo era da piena estate e la serata bellissima. Quando attraversammo un villaggio, mi raffigurai quali potevano essere l'interno delle case e le occupazioni dei loro abitatori; e quando i ragazzi ci corsero dietro e si aggrapparono dietro la diligenza rimanendovi appesi per un pezzo, mi domandai se i loro padri erano ancora vivi e se si sentivano felici a casa loro. Avevo dunque una quantità di cose a cui pensare, e inoltre la mia mente continuava ad arrovellarsi su che tipo di luogo fosse quello a cui ero diretto: una paurosa meditazione. A volte, ricordo, mi abbandonavo a pensieri sulla mia casa e su Peggotty; e tentavo, in un modo confuso e cieco, di ricordare che cosa provavo e che tipo di ragazzo ero prima che mordessi il signor Murdstone; ma per quanto mi sforzassi non ci riuscivo: tanto avevo l'impressione di averlo morso in una remota antichità. La notte non fu piacevole quanto la sera perché cominciò a far freddo; e poiché mi avevano messo fra due signori (quello dai lineamenti rozzi e un altro) per impedirmi di ruzzolar fuori dalla diligenza, fui quasi soffocato dal loro continuo addormentarsi e cadermi addosso con tutto il loro peso. A volte mi schiacciavano talmente che non potevo fare a meno di gridare: «Oh! per piacere!» cosa che non piaceva loro affatto perché li svegliava. Davanti a me c'era una signora anziana con un gran mantello di pelliccia, che, nel buio, assomigliava più a un mucchio di fieno che a una signora, tanto era infagottata. Questa signora aveva con sé un paniere e per molto tempo non riuscì a trovare dove metterlo o che farne finché scoprì che, date le mie gambe corte, poteva essere alloggiato sotto di me. Quella cesta mi faceva venire il crampo alle gambe e me le indolenziva fino a condurmi alla disperazione; ma se arrischiavo il minimo movimento facendo battere un bicchiere che vi era dentro contro qualche altra cosa (il che avveniva immancabilmente), lei mi allungava un maledetto calcio dicendo: «Su, non dar fastidio. Hai le ossa abbastanza giovani, questo è certo.» Alla fine sorse il sole e allora i miei compagni parvero dormire più a loro agio. È difficile concepire le difficoltà che li avevano travagliati tutta notte e che avevano trovato espressione nei rantoli e nei grugniti più terrificanti. Via via che il sole si alzava, il loro sonno diveniva più leggero, e così, a poco a poco, si svegliarono. Ricordo di essere rimasto molto meravigliato dalla falsità con cui ognuno di loro affermava di non aver chiuso occhio e il non comune sdegno con cui ognuno respingeva l'accusa. Provo ancor oggi lo stesso genere di stupore, avendo invariabilmente notato che, di tutte le debolezze umane, quella che la nostra comune natura è meno disposta a confessare (non so immaginare perché) è la debolezza di esserci addormentati in diligenza. Non ho bisogno di soffermarmi qui a riferire quale meraviglioso luogo mi apparisse Londra quando la vidi in distanza, come mi convincessi che tutte le avventure dei miei eroi favoriti accadessero e continuassero costantemente ad accadere laggiù, e come vagamente entrassi nell'idea che fosse piena di meraviglie e di cattiveria più di ogni altra città della terra. Ci avvicinammo gradatamente e, a tempo debito, giungemmo alla locanda nel distretto di Whitechapel a cui eravamo diretti. Ho dimenticato se fosse il Toro Azzurro o il Cinghiale Azzurro, ma so che si trattava di qualche cosa di azzurro e che la sua immagine era dipinta dietro la diligenza. L'occhio del postiglione, che stava scendendo da cassetta, si accese su di me, e, volgendosi alla porta della biglietteria, egli gridò: «C'è nessuno che sia venuto a prendere un ragazzo registrato sotto il nome di Murdstone, di Blunderstone, Suffolk, da consegnare a chi lo richieda?» Nessuno rispose. «Provate Copperfield, signore, per piacere,» dissi guardando a terra senza speranza. «C'è nessuno che sia venuto a prendere un ragazzo registrato sotto il nome di Murdstone, di Blunderstone, Suffolk, ma che si chiama Copperfield, da consegnare a chi lo richieda?» ripeté il postiglione. «Su, c'è nessuno?» No. Non c'era nessuno. Mi guardai ansioso intorno; ma il mio sguardo interrogativo non fece alcuna impressione sui presenti, se si eccettua un tipo in ghette, con un occhio solo, il quale suggerì che avrebbero fatto meglio a mettermi al collo un collare di rame e legarmi alla stalla. Fu portata una scala e io scesi dopo la signora che somigliava a un mucchio di fieno: non avevo osato muovermi prima che la sua cesta fosse tolta. Frattanto la carrozza si era vuotata, il bagaglio fu presto scaricato, i cavalli erano stati portati via prima del bagaglio, e adesso la diligenza stessa venne spinta e fatta indietreggiare da alcuni stallieri, sgombrando la via. Nessuno appariva ancora a reclamare il ragazzo impolverato che veniva da Blunderstone nel Suffolk. Più solo di Robinson Crusoe, il quale non aveva nessuno che lo stesse a guardare e fosse testimonio della sua solitudine, entrai nella biglietteria e, dietro invito dell'impiegato di servizio, passai dietro il banco e mi sedetti sulla bilancia su cui si pesavano i bagagli. Lì, mentre me ne stavo rannicchiato a contemplare i pacchi, le balle e i registri, con l'odore di stalla nelle narici (che da allora rimase per me sempre associato con quella mattinata) una processione delle più terribili considerazioni cominciò a svolgersi nella mia mente. Supponendo che nessuno venisse a prendermi, per quanto tempo mi avrebbero concesso di restare lì? Mi avrebbero tenuto abbastanza a lungo da poter spendere sette scellini? Avrei dovuto dormire, di notte, in una di quelle casse di legno, con gli altri bagagli, e, la mattina, lavarmi alla pompa del cortile? O mi avrebbero mandato via ogni notte per farmi rientrare il mattino dopo, quando l'ufficio si apriva, finché qualcuno fosse venuto a reclamarmi? E qualora non ci fosse stato alcun errore e il signor Murdstone avesse ordito questo piano per sbarazzarsi di me, che cosa avrei dovuto fare? Se anche mi permettevano di restare lì finché non avessi speso i miei sette scellini, non potevo sperare di restarci quando fossi ridotto alla fame. Sarebbe stato ovviamente scomodo e spiacevole per i clienti oltre a implicare, da parte dell'Azzurro Quel-che-era, il rischio di dovermi pagare il funerale. Se me ne andavo subito per tentar di tornare a casa a piedi, come avrei trovato la strada? come potevo sperare di camminare così a lungo? come potevo fidarmi di qualcuno, eccetto Peggotty, anche se riuscivo a tornare? Se poi avessi rintracciato le più vicine autorità adatte e mi fossi offerto di ingaggiarmi come soldato o come marinaio, ero così piccolo che non mi avrebbero certo accettato. Questi pensieri, e cento altri dello stesso genere, mi portarono a calor rosso e mi resero pazzo di paura e di angoscia. Ero nel pieno di questa febbre quando entrò un uomo e bisbigliò qualche cosa all'impiegato; questi mi prese immediatamente su dalla bilancia e mi rifilò a lui come se fossi stato pesato, valutato, consegnato e pagato. Mentre uscivo dall'ufficio, tenuto per mano dalla mia nuova conoscenza, gli diedi un'occhiata. Era un giovane magro e pallidiccio con le guance scavate e un mento quasi nero come quello del signor Murdstone; ma qui finivano le somiglianze perché i favoriti erano rasati e i capelli, invece di essere lisci e lucidi, erano ruvidi e secchi. Indossava un abito di panno nero, piuttosto ruvido e secco anche lui e piuttosto corto di maniche e di gambe, e portava al collo una cravatta bianca che non era eccessivamente pulita. Non supposi, e non suppongo, che quella cravatta fosse tutta la sua biancheria, ma era certo tutta quella che mostrava o di cui desse indizio. «Sei il nuovo ragazzo?» chiese. «Sì, signore,» risposi. Almeno supponevo di esserlo. Non ne ero sicuro. «Io sono uno dei maestri del Collegio Salem,» mi disse. Gli feci un inchino e mi sentii molto intimidito. Mi vergognavo a tal punto di alludere a una cosa volgare come la mia cassetta davanti a uno studioso e maestro del Collegio Salem, che ci eravamo già alquanto allontanati dal cortile quando ebbi il coraggio di menzionarla. Tornammo indietro, in seguito alla mia umile supposizione che avrebbe potuto essermi utile in seguito; e lui disse all'impiegato che il corriere era già stato incaricato di venirla a prendere a mezzogiorno. «Scusatemi, signore,» gli dissi quando avemmo percorso all'incirca la stessa distanza di prima, «è molto lontano?» «Dalle parti di Blackheath,» mi rispose. «E questo posto è lontano, signore?» domandai con diffidenza. «Una discreta camminata,» disse. «Prenderemo la diligenza: sono circa sei miglia.» Mi sentivo così debole e stanco che l'idea di tener duro ancora per sei miglia mi appariva superiore alle mie forze. Mi feci coraggio per dirgli che non avevo preso nulla dal giorno prima e che, se mi avesse permesso di comprarmi qualche cosa da mangiare, gliene sarei stato molto obbligato. Parve sorpreso - lo vedo ancora fermarsi e guardarmi - e, dopo aver meditato un poco, disse di dovere far visita a una persona anziana che abitava non lontano e che la cosa migliore per me sarebbe stata di comprar del pane, o quale altro cibo egualmente sano preferissi, e far colazione in quella casa, dove avrei potuto trovare anche un po' di latte. Di conseguenza guardammo nella vetrina di un fornaio, e, dopo che io ebbi fatto una serie di proposte per comprare tutto ciò che avrebbe potuto farmi male, ed egli le ebbe respinte una per una, ci decidemmo in favore di una pagnottina di pane scuro, che mi costò tre pence. Poi, in una drogheria, comprammo un uovo e una fetta di pancetta affumicata: acquisti tutti che mi lasciarono ancora ciò che consideravo una buona quantità di spiccioli del mio secondo scintillante scellino, e che mi fecero considerare Londra come un luogo veramente a buon mercato. Fatte queste provviste, tirammo avanti tra un gran frastuono e trambusto che confusero la mia testa già stanca oltre ogni possibilità di descrizione, e attraversammo un ponte che, senza dubbio, era il Ponte di Londra (credo proprio che egli me lo abbia detto, ma ero mezzo addormentato) finché giungemmo alla casa di quella povera persona, che faceva parte di una serie di ospizi di carità, come capii dal loro aspetto e dall'iscrizione su di una lastra di pietra posta su di una porta, secondo la quale essi erano stati istituiti per venticinque donne povere. Il maestro del Collegio Salem alzò il saliscendi di una fra numerose porticine nere, tutte eguali, ognuna con una finestrina a vetri romboidale da un parte e un'altra finestrina a vetri romboidali più in alto; ed entrammo nell'appartamentino di una di queste povere vecchie, la quale stava soffiando sul fuoco per far bollire qualche cosa in una piccola casseruola. Nel veder entrare il maestro, la vecchia si fermò col soffietto sul ginocchio, e disse qualche parola che mi parve suonasse come: «Il mio Charley!» ma, vedendo entrare anche me, si alzò e, stropicciandosi le mani, fece una sorta di mezzo e impacciato inchino. «Potreste cuocere, per favore, la colazione di questo signorino?» chiese il maestro del Collegio Salem. «Se posso?» rispose la vecchia. «Certo che posso.» «Come sta la signora Fibbiston, quest'oggi?» chiese il maestro guardando un'altra vecchia seduta in una poltrona presso il fuoco, così simile a un mucchio di stracci che ringrazio ancor oggi il cielo per non essermici seduto sopra per sbaglio. «Ah, molto male,» disse la prima vecchia. «È una delle sue giornate brutte. Se per qualche caso il fuoco dovesse spegnersi, credo proprio che se ne andrebbe per non tornare più.» Mentre la guardavano, la guardai anch'io. Sebbene fosse una giornata calda, sembrava non pensare ad altro che al fuoco. Mi venne in mente che fosse gelosa perfino del pentolino che vi era sopra, e ho ragione di credere che fu piena di rabbia per l'uso che se ne fece allo scopo di bollirvi il mio uovo e friggervi la mia pancetta, perché la vidi, con i miei occhi sconcertati, scuotere il pugno verso di me mentre venivano eseguite quelle operazioni culinarie e nessun altro la guardava. Il sole entrava a fiotti dalla finestrina, ma lei sedeva volgendogli il proprio dorso e quello della sua poltrona, proteggendo il fuoco come se fosse lei a tenerlo assiduamente caldo invece di esserne riscaldata, e fissandolo nel modo più sospettoso. La fine dei preparativi per la mia colazione, liberando il fuoco, le procurò una così intensa gioia che rise forte, e devo dire che fu un riso tutt'altro che melodioso. Mi sedetti davanti alla mia pagnottina scura, al mio uovo e alla mia fettina di pancetta, con in più una scodella di latte, e feci il più delizioso dei desinari. Mentre ero nel pieno della mia gioia, la vecchia della casa disse al maestro: «Avete con voi il flauto?» «Sì,» rispose lui. «Suonatelo un po',» disse la vecchia con voce accattivante. «Su.» Il maestro, allora, infilò una mano sotto la falda della sua giacca e ne trasse un flauto in tre pezzi, che avvitò insieme, e cominciò senz'altro a suonare. Dopo averci ripensato sopra per molti anni, la mia impressione è che non può esserci mai stato al mondo qualcuno che suonasse peggio. Emise i più strazianti suoni che abbia mai udito emettere con alcun mezzo, naturale o artificiale. Ignoro che arie fossero - se pur c'era qualcosa di simile in quella esecuzione, cosa di cui dubito - ma l'influenza di quei toni su di me fu, anzi tutto, di farmi pensare a tutti i miei guai fino a potere appena trattenere le lacrime; poi di togliermi l'appetito; infine di darmi una sonnolenza tale da non riuscire a tenere gli occhi aperti. Torno a chiuderli e ancora mi assopisco se appena l'onda dei ricordi mi risommerge. Ancora una volta la stanzetta, con la sua credenza ad angolo aperta, le sue sedie a spalliera quadrata, la scaletta a gomito che portava al piano di sopra e le tre penne di pavone in bella mostra sulla mensola del camino - ricordo di essermi domandato, appena entrato, che cosa avrebbe pensato quel pavone se avesse saputo a che cosa erano destinati i suoi ornamenti - ancora una volta, dico, quando ci ripenso, quella stanzetta svanisce dinanzi a me e io chino la testa e mi addormento. Il flauto non si ode più, e odo invece lo scarrucolìo delle ruote della diligenza: sono ancora in viaggio. La diligenza sobbalza, mi sveglio di colpo e il flauto è tornato, e il maestro del Collegio Salem è lì seduto con le gambe accavallate, che suona in modo straziante mentre la vecchietta della casa lo guarda deliziata. Svanisce anche lei a sua volta, svanisce lui, svanisce tutto e non vi è più flauto, non più maestro né Collegio Salem, né David Copperfield, non c'è più nulla tranne un sonno profondo. Sognai, credo, che una volta, mentre egli stava soffiando nel suo angoscioso strumento, la vecchietta della casa che gli si era sempre più avvicinata in estatica ammirazione, si chinasse sullo schienale della sua sedia per gettargli amorosamente le braccia attorno al collo, facendolo sostare per un momento. Io ero in uno stato intermedio tra la veglia e il sonno, o allora o immediatamente dopo; perché, quando riprese - era un fatto reale che si fosse interrotto - vidi e udii la stessa vecchietta domandare alla signora Fibbiston se non era delizioso (intendendo il flauto), al che la signora Fibbiston rispose «Oh, sì, sì!» indicando il fuoco, al quale, sono convinto, attribuiva il merito di tutta quella esecuzione. Quando già avevo l'impressione di avere sonnecchiato abbastanza, il maestro del Collegio Salem svitò il flauto nei suoi tre pezzi, li rimise al posto in cui erano prima e mi portò via. Trovammo la diligenza lì vicino e ci arrampicammo sull'imperiale; ma io ero così morto di sonno che, quando ci fermammo lungo la strada per prender su qualche altro, mi misero nell'interno, dove non c'era alcun passeggero e dove dormii profondamente finché mi accorsi che la diligenza andava a passo d'uomo su per un'erta collina tra un verde fogliame. Poco dopo si fermò: era giunta a destinazione. Una breve camminata ci portò - voglio dire il maestro e me - al Collegio Salem, che era cintato da un alto muro di mattoni e aveva un aspetto molto tetro. Sopra una porta che si apriva in questo muro c'era una tavola con su scritto: COLLEGIO SALEM; e attraverso una grata che si apriva in quella porta venimmo scrutati, quando suonammo il campanello, da una faccia arcigna che, appena la porta fu aperta, vidi appartenere a un uomo massiccio con il collo taurino e una gamba di legno, tempie sporgenti e capelli tagliati corti tutt'attorno al capo. «Il nuovo ragazzo,» disse il maestro. L'uomo dalla gamba di legno mi squadrò in lungo e in largo - non ci impiegò molto tempo perché c'era poco da squadrare in me - chiuse la porta dietro di noi e sfilò la chiave. Ci eravamo già avviati verso l'edificio tra folti alberi scuri quando lui gridò dietro alla mia guida: «Un momento!» Ci voltammo e lo vedemmo in piedi sulla porta della piccola portineria in cui viveva, con un paio di stivali in mano. «Ecco qui! È venuto il ciabattino,» disse, «mentre eravate fuori, signor Mell, e dice che non può rappezzarli più. Dice che non c'è rimasto nemmeno un pezzetto degli stivali originali e si domanda che cosa vi potevate aspettare che facesse.» Così dicendo gettò le scarpe verso il signor Mell, che tornò indietro di qualche passo per raccattarle e le contemplò (molto sconsolatamente, temo) mentre riprendevamo a camminare insieme. Osservai allora per la prima volta che le scarpe che aveva ai piedi erano rovinate un bel po' oltre i limiti del portabile e che la calza stava scappando fuori da uno strappo come un bocciuolo. Il Collegio Salem era un edificio quadrato, di mattoni, con due ali e dall'aspetto nudo e spoglio. Tutt'intorno c'era una tal pace che io chiesi al signor Mell se i ragazzi erano fuori; parve sorpreso che ignorassi che si era nel periodo delle vacanze. Che tutti i ragazzi erano tornati alle loro case. Che il signor Creakle, il proprietario, era al mare con la signora e la signorina Creakle; e che io ero stato mandato là in tempo di vacanze per punizione delle mie malefatte: cose tutte che mi spiegò mentre proseguivamo. Contemplai l'aula, in cui mi condusse, come il più miserando e desolato luogo che avessi mai visto. La vedo ancora. Una lunga sala con tre lunghe file di scrivanie e sei di panche, e attorno tutta irta di pioli per appendervi i cappelli e le lavagne. Brandelli di vecchi quaderni e vecchi esercizi sono sparsi sul pavimento sudicio. Alcune casette per bachi da seta, costruite con gli stessi materiali, sono disseminate qua e là sulle scrivanie. Due miserabili topolini bianchi, abbandonati dal loro proprietario, corrono su e giù in un castello ammuffito di cartone e fil di ferro scrutando in tutti gli angoli con i loro occhietti rossi in cerca di qualche cosa da mangiare. Un uccello, in una gabbia poco più grande di lui, fa ogni tanto un dolente strepito saltando sul suo trespolo, alto due pollici, o cadendone, ma non canta né cinguetta. Nella stanza c'è un odore singolare e malsano, come di fustagno ammuffito, mele dolci stantie e libri marci. Non ci potrebbe essere più inchiostro sparso dappertutto se la stanza fosse priva di tetto fin dalla sua costruzione e gli aperti cieli avessero piovuto, nevicato, grandinato, soffiato inchiostro per tutte le stagioni dell'anno. Avendomi il signor Mell lasciato per portare di sopra i suoi non più riparabili stivali, me ne andai pian piano verso l'estremità superiore della sala, osservando tutto via via che avanzavo. Improvvisamente mi trovai davanti un cartello di cartone, scritto in bella calligrafia, che stava su di una scrivania e recava queste parole: «Attenti. Morde.» Saltai subito sulla scrivania, temendo che ci fosse sotto perlomeno un grosso cane. Ma, sebbene guardassi tutt'ingiro con occhi sgomenti, non poterci scorgere alcuna traccia di esso. Stavo ancora scrutando da ogni parte, quando tornò il signor Mell e mi domandò che cosa facessi là sopra. «Chiedo scusa, signore,» dico io, «ma, se non vi dispiace, sto cercando il cane.» «Il cane?» dice lui. «Quale cane?» «Non è un cane, signore?» «Che cosa non è un cane?» «Quello a cui bisogna stare attenti; quello che morde.» «No, Copperfield,» dice lui gravemente, «non è un cane. È un ragazzo. Ho avuto ordine, Copperfield, di attaccarti questo cartello alla schiena. Mi dispiace di cominciare con te in questo modo, ma devo farlo.» Così dicendo mi tirò giù e mi legò il cartello, che era stato esattamente costruito a questo scopo, sulle spalle, come uno zaino; e dovunque andassi, da allora in poi, ebbi la consolazione di portarmelo dietro. Quanto abbia sofferto per quel cartello nessuno può immaginarlo. Fosse o no possibile alla gente di vedermi, immaginavo sempre che qualcuno lo stesse leggendo. Non mi giovava affatto voltarmi e non trovare alcuno; perché, dovunque fosse rivolto il mio dorso, là mi figuravo sempre che ci fosse qualche lettore. Quell'uomo crudele con la gamba di legno aggravava le mie sofferenze. Era un'autorità, e se mai mi vedeva appoggiato a un albero, o a un muro, o alla casa, tuonava con voce formidabile dalla porta della portineria: «Ehi, signorino! Dico a voi, Copperfield! Mettete bene in vista quel distintivo, o farò rapporto!» Il luogo di ricreazione era un cortile nudo e ghiaioso che si stendeva lungo tutto il retro dell'edificio e degli uffici; sapevo che i domestici leggevano quel cartello, che lo leggeva il macellaio, che lo leggeva il panettiere; in una parola, che chiunque entrasse in casa o ne uscisse, al mattino, quando mi si ordinava di passeggiare in quel cortile, leggeva che bisognava fare attenzione a me perché mordevo. Ricordo che cominciai veramente ad aver paura di me stesso come di una sorta di ragazzo selvaggio che dava morsi. C'era una vecchia porta, in questo cortile di ricreazione, sulla quale i ragazzi si erano abituati a incidere i loro nomi. Era completamente coperta di tali iscrizioni. Nel mio terrore per la fine delle vacanze e il loro ritorno, non potevo leggere il nome di un ragazzo senza domandarmi con quale tono e con quale enfasi avrebbe letto: «Attenti. Morde.» C'era un ragazzo - un certo J. Steerforth - che aveva inciso il suo nome molto profondamente e più volte, e che, pensavo, avrebbe letto l'iscrizione a voce alta e poi mi avrebbe tirato i capelli. Un altro, un certo Tommy Traddles, che temevo ci avrebbe scherzato, sopra fingendo di essere atterrito di me. Di un terzo, George Demple, fantasticavo che l'avrebbe canticchiata. Ho fissato quella porta, piccola creatura raggelata dal terrore, finché i proprietari di tutti quei nomi - il signor Mell diceva che ve n'erano allora quarantacinque nel collegio - parvero mettermi al bando per acclamazione generale, gridando, ognuno al suo modo: «Attenti. Morde!» Lo stesso avveniva per i posti alle scrivanie e alle panche. Lo stesso per i filari di letti vuoti a cui gettavo timide occhiate quando andavo o quando ero a letto. Ricordo di avere sognato, per più notti di seguito, di essere con mia madre come usavamo un tempo, o di andare a una festa dal signor Peggotty, o di viaggiare sull'imperiale della diligenza, o di pranzare di nuovo col mio sfortunato amico cameriere, e in tutte queste circostanze facevo strillare e sbigottire la gente con l'infelice rivelazione di non avere niente altro addosso che la mia camicina da notte e quel cartello. Nella monotonia della mia vita e nella mia costante apprensione della riapertura del collegio, era quella davvero una pena intollerabile. Ogni giorno dovevo fare lunghi compiti col signor Mell; ma li facevo, e, non essendoci nessun signore o signorina Murdstone, me la cavavo senza guai. Prima e dopo di essi passeggiavo, sorvegliato, come ho detto, dall'uomo con la gamba di legno. Con quale vivezza mi tornano alla memoria la nube di tristezza che avvolgeva la casa, le verdi e rotte lastre nel cortile, la vecchia botte sconnessa per raccogliere l'acqua piovana, e i tronchi scoloriti di alcuni di quei torvi alberi che sembravano aver sgocciolato alla pioggia più di ogni altro albero e meno di ogni altro avere stormito al sole! All'una pranzavamo, il signor Mell e io, all'estremo di una lunga e nuda sala da pranzo piena di tavoli e che sapeva di grasso. Seguivano altre lezioni fino all'ora del tè, che il signor Mell prendeva in una tazzina azzurra e io in un boccale di stagno. Per tutto il giorno, fino alle sette o alle otto di sera, il signor Mell, a una sua scrivania appartata nell'aula, lavorava duro con penna, inchiostro, righello, registri e carta per preparare i conti (come scroprii) dell'ultimo semestre. Dopo aver messo in ordine le sue cose per la notte, tirava fuori il suo flauto e ci soffiava dentro fino a farmi pensare che, a poco a poco, avrebbe finito col soffiare tutto il suo essere nella larga imboccatura a un estremo dello strumento per colar fuori dai tasti. Immagino la mia piccola persona nelle stanze semibuie, seduta con la testa sulla mano, ad ascoltare la dolente esecuzione del signor Mell e a imparare a memoria le lezioni per il giorno dopo. Mi immagino con i miei libri chiusi, sempre ad ascoltare la dolente esecuzione del signor Mell, e rievocando attraverso di essa le consuetudini di casa mia e il soffiar del vento sulle pianure di Yarmouth, oppresso dalla tristezza e dalla solitudine. Mi immagino andare a letto in quelle stanze deserte e sedermi sulla sponda chiedendo fra le lacrime una parola di conforto da Peggotty. Mi immagino, al mattino, scendere al terreno e guardare attraverso il lungo e spettrale spiraglio di una finestra sulle scale la campana del collegio che pende dalla cima di un padiglione sormontato da una banderuola, con in cuore la paura del momento in cui suonerà per chiamare allo studio J. Steerforth e tutti gli altri. Questa paura è solo seconda, nelle mie presaghe apprensioni, a quella del giorno in cui l'uomo dalla gamba di legno aprirà il cancello rugginoso per fare entrare il terribile signor Creakle. Non posso pensare che fossi un personaggio molto pericoloso in nessuna di queste circostanze, ma in tutte portavo lo stesso ammonimento sulla schiena. Il signor Mell non mi parlò mai molto, ma non fu mai duro con me. Suppongo che ci facessimo compagnia a vicenda senza parlarci. Ho dimenticato di dire che, a volte, parlava fra sé, e sogghignava, e stringeva i pugni, e digrignava i denti, e si strappava i capelli in modo inesplicabile. Ma aveva queste singolarità: le prime volte ne fui impaurito, in seguito mi ci abituai. VI • ALLARGO LA CERCHIA DELLE MIE CONOSCENZE Avevo condotto questa vita da circa un mese, quando l'uomo dalla gamba di legno cominciò ad arrancare dappertutto con una grande scopa di filacce e un secchio d'acqua, dal che arguii che si stavano facendo preparativi per ricevere il signor Creakle e i ragazzi. Non mi ero sbagliato; perché la scopa entrò presto nell'aula scolastica e ne scacciò il signor Mell e me, che ci rifugiammo dove potemmo e tirammo avanti come potemmo per alcuni giorni, durante i quali ci trovammo sempre fra i piedi di due o tre ragazze raramente viste prima, e circondati da una nube di polvere così insistente che io starnutai quasi come se il Collegio Salem fosse stato un'enorme tabacchiera. Un giorno fui informato dal signor Mell che il signor Creakle sarebbe arrivato quella sera stessa. E la sera, dopo il tè, sentii che era venuto. Prima dell'ora di andare a letto, l'uomo dalla gamba di legno venne a prendermi per portarmi davanti a lui. L'ala dell'edificio riservata al signor Creakle era molto più comoda della nostra e aveva un giardinetto accogliente che appariva assai piacevole a confronto con il polveroso cortile di ricreazione: un tal deserto in miniatura da farmi pensare che solo un cammello o un dromedario avrebbero potuto sentirsi lì a loro agio. Mi parve ardito perfino notare che il corridoio, era bene arredato, mentre venivo avanti tremando per giungere alla presenza del signor Creakle: la quale mi sconcertò tanto, quando vi fui ammesso, che vidi appena la signora Creakle, o la signorina Creakle (che erano entrambe nel salotto), o qualsiasi altra cosa a eccezione del signor Creakle, un signore robusto, decorato da un gran fascio di catene da orologio e di sigilli, seduto in una poltrona, con un bicchierone e una bottiglia a fianco. «Dunque!» esclamò il signor Creakle. «Questo è il signorino a cui bisogna limare i denti! Voltatelo.» L'uomo dalla gamba di legno mi voltò in modo che mostrassi il cartello; e, dopo avergli dato il tempo per farne un attento esame, mi fece voltare ancora col viso verso il signor Creakle, ponendosi lui stesso al suo fianco. Il signor Creakle aveva una faccia rossa e collerica, gli occhi piccoli e sprofondati nella testa, grosse vene sulla fronte, un nasetto inconsistente e un gran mento. Era calvo sul sommo del capo e si spazzolava sulle tempie pochi capelli sottili e impomatati, che già volgevano al grigio, in modo che si unissero sulla fronte. Ma la caratteristica che m'impressionò di più fu che non aveva voce e parlava come in un sussurro. Lo sforzo che questo gli costava, o la coscienza di parlare in quel flebile modo, rendevano, quando parlava, ancor più iraconda la sua faccia iraconda e ancor più turgide le sue grosse vene, tanto che non mi meraviglio, guardando indietro, se questa mi colpì come la sua peculiarità principale. «Bene,» disse il signor Creakle. «Qual è il rapporto su questo ragazzo?» «Non c'è ancora niente contro di lui,» rispose l'uomo dalla gamba di legno. «Non si sono presentate occasioni.» Mi parve che il signor Creakle fosse deluso, e mi parve anche che la signora e la signorina Creakle (a cui rivolsi ora un'occhiata per la prima volta e che erano entrambe sottili e tranquille) non lo fossero. «Venite qui, signore,» ordinò il signor Creakle facendomi un cenno. «Venite qui!» fece eco l'uomo dalla gamba di legno ripetendo il gesto. «Ho il piacere di conoscere il vostro patrigno,» sussurrò il signor Creakle prendendomi per un orecchio; «ed è un uomo degno e di forte carattere. Mi conosce e io conosco lui. E voi mi conoscete? eh?» incalzò il signor Creakle pizzicandomi l'orecchio con feroce gaiezza. «Non ancora, signore,» dissi io contraendomi per il dolore. «Non ancora, eh?» ripeté il signor Creakle. «Ma mi conoscerete presto, eh?» «Lo conoscerete presto, eh?» ripeté l'uomo dalla gamba di legno. Scoprii in seguito che, con la sua voce robusta, egli faceva da interprete al signor Creakle per i ragazzi. Ero quanto mai atterrito e dissi che lo speravo, col suo permesso. Frattanto mi sentivo ardere l'orecchio tanto me lo pizzicava. «Vi dirò quello che sono,» bisbigliò il signor Creakle lasciandomi finalmente l'orecchio, con un ultimo pizzicotto che mi fece venir le lacrime agli occhi. «Sono un tartaro.» «Un tartaro,» disse l'uomo dalla gamba di legno. «Quando dico che farò una cosa, la faccio,» proseguì il signor Creakle, «e quando dico che voglio che una cosa sia fatta, voglio che sia fatta.» «... voglio che una cosa sia fatta, voglio che sia fatta,» ripeté l'uomo dalla gamba di legno. «Sono un carattere deciso,» disse il signor Creakle. «Ecco quello che sono. Faccio il mio dovere. Ecco quello che faccio. La mia carne e il mio sangue» - nel dir così guardò la signora Creakle - «se si voltano contro di me, non sono più mia carne e mio sangue. Li rinnego. Quel tale» - e si volse all'uomo dalla gamba di legno - «si è fatto vedere ancora?» «No,» fu la risposta. «No,» ripeté il signor Creakle. «Sa come stanno le cose. Mi conosce. Stia alla larga. Dico che stia alla larga,» insisté il signor Creakle battendo il pugno sul tavolo e fissando la signora Creakle, «perché mi conosce. Adesso avete cominciato a conoscermi anche voi, caro amico, e potete andare. Portatelo via.» Fui felicissimo di essere licenziato, perché la signora e la signorina Creakle si stavano entrambe asciugando gli occhi, e io mi sentivo a disagio per loro non meno che per me. Ma avevo in mente una petizione che mi riguardava così da vicino da non poter fare a meno di dire, meravigliandomi del mio stesso coraggio: «Vi prego, signore...» Il signor Creakle bisbigliò: «Ah! Che c'è?» e chinò gli occhi su di me come se avesse voluto incenerirmi. «Vi prego, signore,» balbettai, «se potessi avere il permesso (sono davvero molto pentito di quello che ho fatto) di togliermi questa scritta prima che tornino i ragazzi...» Ignoro se il signor Creakle facesse sul serio o volesse solo spaventarmi, ma diede un tal balzo sulla poltrona che io mi ritirai precipitosamente senza attendere la scorta dell'uomo dalla gamba di legno, e non mi fermai prima di aver raggiunto la mia camerata, dove, accorgendomi di non essere inseguito, andai a letto, dato che era l'ora, e vi rimasi per un paio d'ore scosso da un tremito. Il mattino dopo tornò il signor Sharp: era il primo maestro, superiore del signor Mell. Il signor Mell prendeva i pasti con i ragazzi, mentre il signor Sharp pranzava e cenava alla tavola del signor Creakle. Era un signore molliccio, dall'aria delicata, mi parve, con un gran naso e un certo modo di portar la testa inclinata da un lato, come se fosse un po' troppo pesante per lui. Aveva i capelli molto morbidi e ondulati, ma fui avvertito dal primo ragazzo di ritorno che si trattava di una parrucca (di seconda mano, disse lui) e che il signor Sharp andava ogni sabato pomeriggio a farsela ondulare. Chi mi diede questa notizia non fu altri che Tommy Traddles. Era stato il primo a tornare. Mi si presentò informandomi che avrei trovato il suo nome sull'angolo destro della porta, sopra il chiavistello; allora io dissi: «Traddles?» e lui rispose: «Proprio lui,» dopo di che mi chiese un completo resoconto su di me e sulla mia famiglia. Fu una vera fortuna per me che Traddles fosse tornato per primo. Si divertì tanto alla vista del mio cartello da risparmiarmi l'imbarazzo di mostrarlo o di nasconderlo, presentandomi a ogni ragazzo che tornava, grande o piccolo, immediatamente al suo arrivo con questa formula: «Guarda qui! Proprio un bello scherzo!» Per non minor fortuna, la maggior parte dei ragazzi tornò alquanto giù di morale, ed essi non fecero, a mie spese, tutti quegli schiamazzi che mi aspettavo. Certo, alcuni di loro mi danzarono attorno come una torma di Pellirosse, e la maggior parte non poté resistere alla tentazione di fingere che fossi un cane e di darmi pacche e carezze perché non li mordessi dicendomi «A cuccia, da bravo!» e chiamandomi Fido. Questo, naturalmente, era spiacevole, fra tanti estranei, e mi costò qualche lacrima, ma nell'insieme andò molto meglio di quanto mi fossi immaginato. Comunque, non mi considerarono ufficialmente accolto nel collegio finché non arrivò J. Steerforth. Fui condotto davanti a questo ragazzo, che godeva fama di essere molto istruito, aveva un bellissimo aspetto ed era maggiore di me di almeno mezza dozzina d'anni, come davanti a un magistrato. Sotto una tettoia del cortile di ricreazione, egli si informò minutamente dei particolari del mio castigo e si compiacque di esprimere la sua opinione dicendo che era una «bella vergogna»; cosa per cui gli rimasi sempre legato in seguito. «Quanto denaro hai, Copperfield?» mi chiese passeggiando al mio fianco dopo aver sistemato la mia faccenda in questi termini. Gli dissi di avere sette scellini. «Faresti bene a darli a me per custodirli,» disse. «Almeno se vuoi. Se non vuoi non sei costretto.» Mi affrettai ad aderire alla sua amichevole proposta, e, aperto il borsellino di Peggotty, lo rovesciai nelle sue mani. «Vuoi comprare qualche cosa subito?» «No, grazie,» risposi. «Se vuoi, puoi farlo, sai?» mi disse Steerforth. «Basta che tu dica una parola.» «No, grazie signore,» ripetei. «Forse ti piacerebbe spendere un paio di scellini o giù di lì in una bottiglia di ribes da bersi poi su in camera,» disse Steerforth. «So che fai parte della mia camerata.» Non ci avevo davvero mai pensato, ma risposi che sì, mi sarebbe piaciuto. «Benissimo,» proseguì Steerforth. «E direi che saresti felice di spendere un altro scellino in dolci di mandorle.» Risposi che sì, mi sarebbe piaciuto anche questo. «E un altro scellino in biscotti e un altro in frutta eh?» continuò Steerforth. «A parer mio, piccolo Copperfield, ci staresti.» Sorrisi perché lui sorrideva, ma intimamente ero anche un po' turbato. «Bene,» concluse Steerforth. «Li faremo bastare per quanto è possibile, ecco tutto. Farò per te del mio meglio. Posso uscire quando voglio e farò entrare di contrabbando il foraggio.» Così dicendo si mise il denaro in tasca e mi disse gentilmente di non darmi pensiero: avrebbe provveduto lui a che tutto andasse bene. Mantenne la parola, sebbene avessi il segreto sospetto che tutto quello che andava bene per lui andasse male per me - perché temevo che fosse il totale sperpero delle due mezze corone di mia madre - sebbene avessi conservato il pezzo di carta in cui erano avvolte: un salvataggio prezioso. Quando salì di sopra per andare a letto, mostrò l'equivalente di tutti i miei sette scellini e lo depose sul mio letto, al chiaro di luna, dicendo: «Ecco qui, piccolo Copperfield, hai a disposizione un trattamento da re.» Non potevo pensare a far gli onori del festino, con l'età che avevo, in sua presenza; mi tremavano le mani al solo pensarlo. Lo pregai di essere così gentile da assumere la presidenza; e poiché la mia richiesta venne appoggiata dagli altri ragazzi della camerata, egli acconsentì e si sedette sul mio cuscino distribuendo le cibarie - con perfetta equità, devo dire - mescendo il ribes in un bicchierino senza stelo, che era di sua proprietà. Quanto a me, sedevo alla sua sinistra, mentre gli altri erano raggruppati intorno a noi, sui letti vicini e sul pavimento. Come ricordo bene quella nostra riunione in cui si parlava a sussurri; o, per meglio dire, in cui loro parlavano e io rispettosamente ascoltavo. La luce lunare filtrava appena nella stanza attraverso la finestra disegnando un'altra pallida finestra sul pavimento, e la maggior parte di noi era in ombra eccetto quando Steerforth intingeva uno stecchino in una scatola di fosforo, volendo cercare qualche cosa sulla tavola, e gettava su di noi un bagliore azzurro che subito svaniva! Un certo senso di mistero, conseguenza dell'oscurità, della segretezza di quella baldoria, dei sussurri con cui tutto veniva detto, si impadronisce ancora di me, e io ascolto tutto ciò che essi mi dicono con un vago senso di solennità e di paura, che mi allieta nel farmeli sentire tutti vicini e mi atterrisce (sebbene finga di ridere) quando Traddles sostiene di vedere un fantasma in un angolo. Udii ogni sorta di cose sulla scuola e su tutti coloro che ne facevano parte. Seppi che il signor Creakle non si era vantato senza ragione di essere un tartaro; che era il più duro e il più severo dei maestri; che picchiava a destra e a manca ogni giorno della sua vita, lanciandosi alla carica fra i ragazzi come un ussaro e menando botte senza pietà. Che non conosceva niente altro se non l'arte di picchiare, essendo, quanto a lui, più ignorante (disse Steerforth) dell'ultimo dei ragazzi del collegio; che era stato, molti anni prima, un piccolo commerciante di luppolo nel distretto e che aveva messo su il collegio dopo aver fatto bancarotta col luppolo e aver sperperato il denaro della signora Creakle. E una gran quantità di cose del genere, che mi domandavo come mai sapessero. Sentii che l'uomo dalla gamba di legno, che si chiamava Tungay, era un barbaro irriducibile che aveva un tempo aiutato il signor Creakle nel commercio del luppolo ed era poi entrato con lui nel mondo della scuola in conseguenza dell'aver perso una gamba, come supponevano i ragazzi, al servizio di lui, dell'aver fatto per lui una gran quantità di cose disoneste e dell'essere a conoscenza dei suoi segreti. Seppi che, con la sola eccezione del signor Creakle, Tungay considerava l'intero collegio, maestri e ragazzi, come suoi naturali nemici e che l'unico piacere della sua vita consisteva nell'essere arcigno e malvagio. Udii che il signor Creakle aveva un figlio che non era mai stato amico di Tungay e che, quando era assistente nel collegio, aveva una volta fatto rimostranze al padre in un'occasione in cui la disciplina era stata esercitata con eccessiva crudeltà; si supponeva inoltre che avesse protestato contro il modo con cui suo padre trattava sua madre. Di conseguenza il signor Creakle lo aveva cacciato di casa e da allora la signora e la signorina Creakle avevano condotto una vita assai triste. Ma la cosa più straordinaria che sentii del signor Creakle fu che vi era nel collegio un ragazzo sul quale non aveva mai osato alzare la mano e che quel ragazzo era J. Steerforth. Lo stesso Steerforth lo confermò quando se ne venne a parlare, dicendo che gli sarebbe piaciuto vederglielo tentare. Richiesto da un ragazzino timido (che non ero io) su come si sarebbe comportato se lui avesse tentato di farlo, Steerforth intinse uno stecchino nella sua scatola di fosforo per illuminare la sua risposta e dichiarò che, tanto per cominciare, lo avrebbe sbattuto a terra colpendolo in fronte con la bottiglia d'inchiostro da sette scellini e sei pence che era sempre sulla mensola del camino. Noi restammo acquattati nell'ombra per qualche momento, senza respiro. Seppi che, a quanto si supponeva, tanto il signor Sharp quanto il signor Mell avevano uno stipendio da fame; e che, quando a desinare c'era carne calda e carne fredda sulla tavola del signor Creakle, sempre ci si attendeva che il signor Sharp dicesse di preferire la fredda; cosa che fu confermata da J. Steerforth, l'unico convittore privilegiato. Sentii dire che la parrucca del signor Sharp non gli si adattava affatto bene e che egli non aveva alcuna ragione di mostrarsi così «pimpante» - qualcuno disse «arrogante» - a proposito di essa perché, sotto, si vedevano benissimo i suoi capelli rossi. Seppi che un ragazzo, figlio di un commerciante di carbone, era tenuto come pagamento del conto del carbone e che per questo era chiamato «Scambio o Permuta», espressione tratta dal libro di matematica dove è così indicata questa operazione. Sentii dire che la birra che ci veniva servita era un vero furto a danno dei nostri genitori e lo sformato un abuso. Udii che l'intero collegio considerava la signorina Creakle innamorata di Steerforth; e certo, mentre me ne stavo seduto nel buio, pensando alla sua voce sonora, al suo bel volto, ai suoi modi disinvolti e ai suoi capelli ricciuti, dovetti trovar la cosa molto probabile. Seppi anche che il signor Mell era un buon diavolo ma senza il becco di un quattrino, e che senza dubbio la vecchia signora Mell, sua madre, era povera come Giobbe. Pensai allora alla mia colazione e a quelle parole che erano suonate come «Il mio Charley!» ma, sono felice di ricordarlo, rimasi muto come un pesce in proposito. Tutti questi discorsi, e parecchi altri dello stesso genere, prolungarono alquanto il banchetto. La maggior parte dei convitati se n'era andata a letto appena finito di mangiare e di bere; e noi, che eravamo rimasti a sussurrare o ad ascoltare semivestiti, alla fine ci coricammo a nostra volta. «Buona notte, piccolo Copperfield,» disse Steerforth. «Mi prenderò cura di te.» «Siete molto buono,» gli risposi pieno di gratitudine. «Ve ne sono veramente obbligato.» «Non hai una sorella, per caso?» chiese Steerforth sbadigliando. «No,» risposi. «Peccato,» commentò lui. «Se ne avessi avuta una, credo che sarebbe stata una fanciulla graziosa, timida, piccolina, con gli occhi brillanti. Mi sarebbe piaciuto conoscerla. Buona notte, piccolo Copperfield.» «Buona notte, signore,» risposi. Continuai a pensare a lui per molto tempo, dopo essere andato a letto, e ricordo che mi sollevai per guardarlo disteso nella luce lunare, col suo bel viso voltato verso di me e la testa naturalmente reclinata sul braccio. Ai miei occhi era una personaggio di gran potere, e per questo il mio pensiero correva spontaneamente a lui. Non vi erano ombre nel futuro che si illuminava su di lui nel chiaro di luna. Non vi era nulla di fosco nelle orme che lasciava nel giardino in cui sognai di passeggiare per tutta la notte. VII • IL MIO «PRIMO SEMESTRE» AL COLLEGIO SALEM La scuola cominciò sul serio il giorno dopo. Ricordo che mi fece un'impressione profonda l'improvviso trasformarsi del frastuono di voci nell'aula in un silenzio di morte quando il signor Creakle entrò, dopo colazione, e si fermò sulla soglia volgendo lo sguardo su di noi come un gigante da fiaba che sorvegliasse i suoi prigionieri. Tungay stava a fianco del signor Creakle. Non aveva alcuna ragione, pensai, per gridare «Silenzio!» in tono così feroce, perché i ragazzi erano rimasti di colpo silenziosi e irrigiditi. Il signor Creakle fu visto parlare, e Tungay fu udito dire queste parole: «Dunque, ragazzi, comincia un nuovo semestre. State attenti a quello che farete in questa ripresa. Venite con nuovo vigore alle lezioni, ve lo consiglio, perché io vengo con nuovo vigore alle punizioni. Non cederò di un pollice. Non vi servirà a nulla fregarvi la schiena; non cancellerete i segni che ci lascerò io. E adesso, tutti al lavoro.» Quando questo spaventoso esordio ebbe termine e Tungay se ne fu andato arrancando, il signor Creakle si avvicinò al mio posto e mi disse che, se io ero famoso per mordere, era famoso per mordere anche lui. Mi mostrò poi la sua canna e mi domandò come la giudicavo come dente. Era un dente acuto, eh? Un bel doppio dente, eh? Aveva una bella punta, eh? Mordeva bene, eh? Mordeva bene? E a ogni domanda mi menava un colpo secco che mi faceva contorcere. Così presi presto familiarità col Collegio Salem (come disse Steerforth) e presto fui anche in lacrime. Non intendo però dire che questi fossero speciali segni di distinzione riservati a me solo. Al contrario, una vasta maggioranza di ragazzi (specialmente i più piccoli) ebbero simili prove di attenzione via via che il signor Creakle faceva il giro dell'aula. Metà del collegio stava contorcendosi e piangendo prima ancora che fosse iniziato il lavoro della giornata; e non oso ricordare quanti altri si contorsero e piansero prima che il lavoro della giornata fosse finito, per timore di apparire esagerato. Direi che non c'è mai stato un uomo il quale abbia tratto più godimento del signor Creakle dalla sua professione. Nel battere i ragazzi provava un piacere simile a quello di soddisfare un ingordo appetito. Sono certo che non poteva resistere, specialmente davanti a un ragazzino paffutello: un tipetto del genere aveva per lui un tal fascino che la sua mente non trovava requie finché non lo avesse segnato e marchiato per tutto il giorno. Io stesso ero paffuto e dovevo saperlo. Quando ripenso adesso a quell'uomo, il sangue mi ribolle contro di lui con quel disinteressato sdegno che proverei se avessi saputo tutto di lui senza essere mai stato in suo potere; ma mi ribolle in particolare perché so che era un bruto inetto, non più meritevole della carica a lui affidata che di essere Primo Ammiraglio o Generalissimo: nelle quali funzioni avrebbe probabilmente commesso infinitamente meno mali. Miserabili, piccoli propiziatori di un idolo senza rimorsi, come eravamo abietti dinanzi a lui! Quale ingresso nella vita mi appare adesso, guardandomi indietro, l'essere stati così bassi e servili verso un uomo di quelle tendenze e di quelle pretese! Eccomi seduto ancora alla scrivania osservando i suoi occhi: osservando umilmente i suoi occhi mentre corregge col righello il quaderno di aritmetica di un'altra vittima le cui mani sono state appena colpite da quello stesso righello, e che cerca di farne scomparire il dolore accarezzandosele con un fazzoletto. Sono tutto occupato in questo. Non guardo i suoi occhi per ozio, ma perché ne sono morbosamente attratto, nell'atterrito desiderio di sapere che cosa farà adesso e se toccherà a me soffrire o a qualche altro. Oltre di me, tutta una fila di ragazzini, con lo stesso interesse negli occhi, lo fissa in egual modo. Credo che lo sappia, sebbene finga di non badarci. Fa tremende smorfie mentre corregge il quaderno; e adesso volge lo sguardo di sbieco verso la nostra fila e tutti noi ci sprofondiamo tremanti nei nostri libri. Un momento dopo lo stiamo ancora spiando. Un infelice reo, trovato colpevole di aver sbagliato un esercizio, si avvicina al suo comando. Il reo balbetta scuse, pronuncia una solenne promessa di far meglio domani. Il signor Creakle dice una battuta scherzosa prima di picchiarlo e noi ridiamo: miserabili cuccioli, ridiamo, coi volti color della cenere e il cuore che ci cade nelle scarpe. Eccomi seduto ancora alla scrivania in un sonnolento pomeriggio estivo. Un ronzio di bisbigli si leva intorno a me, come se i ragazzi fossero altrettanti mosconi. Una sensazione appiccicaticcia di tiepido grasso di carne si impadronisce di me (abbiamo pranzato da un'ora o due) e ho la testa pesante come piombo. Darei il mondo intero per poter dormire. Sto seduto con gli occhi fissi sul signor Creakle, battendo le ciglia verso di lui come un piccolo gufo; quando il sonno mi sopraffà per un attimo, egli mi appare ancora attraverso il velo del torpore, correggendo quei quaderni di aritmetica, finché mi arriva silenzioso alle spalle e mi sveglia a una più netta percezione di lui con un solco rosso sulla schiena. Eccomi nel cortile della ricreazione, con l'occhio ancora affascinato da lui sebbene non possa vederlo. La finestra vicina, dietro la quale so che sta pranzando, fa le sue veci, e io fisso quella invece di lui. Se appare lì presso il suo volto, il mio assume un'espressione implorante e sottomessa. Se guarda attraverso il vetro, il più audace dei ragazzi (Steerforth eccettuato) interrompe a mezzo un grido o uno strillo e diviene contemplativo. Un giorno Traddles (il più sfortunato ragazzo del mondo) manda per caso in frantumi quel vetro con una palla. Rabbrividisco ancora adesso alla terribile sensazione di vedere che il fatto è avvenuto e di rendermi conto che la palla è rimbalzata sul sacro capo del signor Creakle. Povero Traddles! Stretto in un vestituccio azzurro cielo che gli rendeva le braccia e le gambe simili a salsicciotti tedeschi o a rotolate con la marmellata, era il più allegro e il più disgraziato dei ragazzi. Veniva sempre sferzato - credo che lo fu ogni santo giorno di quel semestre eccetto un lunedì di vacanza in cui fu solo picchiato col righello sulle mani - ed era sempre in procinto di scriverne allo zio senza farlo mai. Dopo avere appoggiato per un momento la testa sulla scrivania, subito si rianimava in qualche modo e riprendeva a ridere, e disegnava scheletri su tutta la sua lavagna prima ancora di avere gli occhi asciutti. Dapprima mi domandai stupito quale consolazione Traddles traesse dal disegnare scheletri; e per qualche tempo lo considerai una specie di asceta il quale, con quei simboli di mortalità, volesse ricordarsi che le sferzate non potevano durare in eterno. Ma credo che lo facesse solo perché erano facili a disegnarsi non richiedendo i lineamenti. Era un ragazzo di onore, Traddles, e considerava un sacro dovere, per i ragazzi, sostenersi a vicenda. Per questo pagò di persona in parecchie occasioni; una in particolare, quando Steerforth rise in chiesa e il sacrestano credette che fosse stato Traddles e lo portò fuori. Lo vedo ancora andarsene sotto sorveglianza fra il disprezzo di tutta la congregazione. Non disse mai chi era il vero colpevole, sebbene il giorno dopo fosse ancora tutto dolorante per la punizione e restasse chiuso in cella per tante ore che ne uscì con un intero cimitero di scheletri brulicanti per tutto il suo dizionario latino. Ma ebbe il suo compenso. Steerforth affermò che in Traddles non vi era nulla di vile e noi lo considerammo come la lode più alta. Per parte mia, sarei stato disposto ad affrontare molte cose (sebbene fossi assai meno coraggioso di Traddles e molto più piccolo) per avere un tal premio. Vedere Steerforth andare in chiesa davanti a noi dando il braccio alla signorina Creakle, fu uno dei più imponenti spettacoli della mia vita. Non giudicavo la signorina Creakle eguale in bellezza alla piccola Emily, e non l'amavo (non avrei osato); ma la consideravo una giovinetta quanto mai attraente e insuperabile quanto a gentilezza. Quando Steerforth, in calzoni bianchi, le reggeva il parasole, mi sentivo orgoglioso di conoscerlo e pensavo che ella non poteva fare a meno di adorarlo con tutto il cuore. Il signor Sharp e il signor Mell erano entrambi personaggi notevoli ai miei occhi; ma Steerforth stava a loro come il sole a due stelle. Steerforth continuava a proteggermi e si dimostrò un amico utilissimo, poiché nessuno osava dar fastidio a chi fosse onorato dal suo appoggio. Non poteva - o comunque non lo fece mai - difendermi dal signor Creakle, che era quanto mai severo con me; ma ogni volta che venivo trattato peggio del solito, mi diceva regolarmente che avevo bisogno di un po' del suo coraggio e che lui stesso non avrebbe saputo resistere a tanto: cosa che io prendevo come un incoraggiamento e che consideravo molto gentile da parte sua. Ci fu un vantaggio, e uno solo che sappia, nella severità del signor Creakle. Egli trovava un ostacolo nel mio cartello quando, passeggiando in su e in giù, giungeva dietro la panca su cui sedevo e voleva menarmi un colpo di passaggio. Per questo mi fu presto tolto e non lo vidi più. Una circostanza casuale rafforzò la mia intimità con Steerforth in un modo che mi riempì di orgoglio e di soddisfazione, sebbene desse luogo ogni tanto a qualche inconveniente. Avvenne in una certa occasione in cui egli mi faceva l'onore di parlare con me nel cortile di ricreazione, e io notai che qualche cosa o qualcuno - adesso non ricordo bene di che si trattasse - assomigliava a qualche cosa o a qualcuno nel Pellegrino Pickle. Lì per lì non disse nulla, ma la sera, quando andai a letto, mi domandò se avevo quel libro. Gli risposi di no e gli spiegai come avevo potuto leggerlo al pari degli altri libri che ho già nominato. «E te li ricordi?» mi chiese Steerforth. «Oh, sì,» risposi; avevo una buona memoria ed ero certo di ricordarli benissimo. «E allora ti dirò una cosa, piccolo Copperfield,» disse Steerforth, «tu me li racconterai. La sera non riesco ad addormentarmi presto e in genere mi sveglio molto presto al mattino. Li passeremo tutti l'uno dopo l'altro. Faremo una vera e propria Mille e una notte.» Mi sentii estremamente lusingato da questo accordo e cominciammo a metterlo in esecuzione quella sera stessa. Quale strazio abbia fatto dei miei autori preferiti in seguito alla mia interpretazione personale di essi, non sono in grado di dirlo e non desidero affatto saperlo; ma avevo in essi una profonda fede e, per quanto mi consta, un modo semplice e vivo di narrare quel che narravo: doti, queste, che fecero poi molta strada. Il rovescio della medaglia era che spesso, di notte, avevo un gran sonno o mi sentivo poco in vena e poco disposto a riassumere il racconto; e allora era una dura fatica, ma dovevo affrontarla, perché deludere o scontentare Steerforth era fuori questione. Al mattino, poi, quando mi sentivo stanco e sarei stato felice di godermi un'altra ora di riposo, era assai fastidioso essere svegliato, come la sultana Scheherazade, e costretto ad addentrarmi in una lunga storia prima che suonasse la campana della sveglia. Ma Steerforth era deciso, e siccome, in compenso, mi spiegava le operazioni di matematica e gli esercizi e tutto ciò che nei miei compiti era troppo difficile per me, non ci perdevo nulla nell'affare. Devo però rendermi giustizia. Non ero mosso da motivi interessati o egoistici, e tanto meno avevo paura di lui. Lo ammiravo e lo amavo, e la sua approvazione era per me un sufficiente compenso: così prezioso, che oggi ricordo con nostalgia queste piccole cose. Steerforth era anche pieno di riguardi; e lo dimostrò in una particolare circostanza, con una inflessibilità che dovette riuscire piuttosto tormentosa lo sospetto, per il povero Traddles e per gli altri. La promessa lettera di Peggotty - e che lettera confortante fu quella! - arrivò nelle prime settimane del semestre; e con essa una torta con un magnifico contorno di arance e due bottiglie di sciroppo di primule. Questo tesoro, come di dovere, lo misi ai piedi di Steerforth pregandolo di distribuirlo. «Adesso ti dirò una cosa, piccolo Copperfield,» disse, «lo sciroppo lo metteremo da parte per inumidirti la gola durante i tuoi racconti.» Arrossii a questa idea e, modestamente, lo pregai di non pensarci nemmeno. Ma lui ribatté di avere notato che spesso ero rauco - un tantino impastato, fu la sua esatta espressione - e che ogni goccia di quello sciroppo doveva essere dedicata allo scopo che aveva detto. Di conseguenza fu chiuso a chiave nella sua cassetta, travasato da lui stesso in un'ampolla con una cannuccia di penna d'oca nel tappo e somministrato a me quando si poteva supporre che avessi bisogno di un corroborante. A volte, per farne uno specifico ancor più sovrano, era così buono da spremervi dentro succo d'arancia, o rinforzarlo con zenzero, o farvi sciogliere una caramella di menta; e, sebbene non possa affermare che il gusto risultasse migliorato da questi esperimenti, o che fosse esattamente quello il composto da scegliersi come stomatico, ultima cosa la notte e prima al mattino, io lo bevevo con animo grato ed ero molto sensibile alla sua attenzione. Mi sembra che ci soffermassimo per mesi sul Pellegrino e per ancor più mesi su altri racconti. L'istituzione non venne mai meno per mancanza di storie, di questo sono sicuro; e lo sciroppo durò almeno quanto il materiale narrativo. Il povero Traddles - non penso mai a quel ragazzo se non con uno strano desiderio di ridere e con le lacrime agli occhi - fungeva in qualche modo da coro; mostrava di esser preso da convulsioni di allegria nei passaggi comici e di essere sopraffatto dal terrore quando apparivano nella narrazione qualche episodio o qualche personaggio pauroso. Molto spesso ne ero sconcertato. Ricordo che era un suo caratteristico scherzo fingere di non potersi trattenere dal battere i denti ogni volta che si accennava all'alguazil nelle avventure di Gil Blas; e mi sovviene che quando Gil Blas incontrò il capitano dei ladroni a Madrid, questo sfortunato burlone simulò un tale accesso di spavento da essere udito dal signor Creakle, vagante in cerca di preda per il corridoio, e generosamente frustato per schiamazzi in dormitorio. Quanto c'era di me di romanzesco e di sognante fu alimentato da tutto questo raccontare nell'ombra, e sotto questo aspetto l'esperienza poté non giovarmi molto. Ma l'essere accarezzato come una specie di trastullo nella mia camerata e la coscienza che questo mio talento faceva parlare di me i ragazzi e richiamava su di me molta attenzione sebbene fossi il più piccolo, mi stimolavano in quella fatica. In una scuola diretta dalla pura crudeltà, sia o no un ignorante chi la presiede, non è probabile che ci sia da imparare molto. Credo che i nostri ragazzi formassero in genere un gruppo ignorante quanto poté mai esserlo una qualsiasi altra scolaresca al mondo; erano troppo tormentati e malmenati per imparare; non potevano trarne profitto più di quanto alcuno possa trarre un profitto qualsiasi da una vita di continua disgrazia, tormento e ansia. Ma la mia piccola vanità, e l'aiuto di Steerforth, mi incitavano in qualche modo; e, senza risparmiarmi molto, se pur qualche cosa mi risparmiarono, in fatto di punizioni, mi resero, per tutto il tempo che fui là, un'eccezione nell'insieme, tanto da permettermi di raccattare e trattenere qualche briciola di sapere. In questo fui molto aiutato dal signor Mell, il quale aveva per me una predilezione che ricordo con gratitudine. Sempre mi addolorava vedere come Steerforth lo trattasse con sistematico disprezzo e di rado perdesse l'occasione per ferire i suoi sentimenti o indurre gli altri a farlo. E questo mi turbò per molto tempo, tanto più perché avevo presto confidato a Steerforth, a cui non potevo tenere celato un tale segreto più di quanto potessi nascondergli una torta o qualsiasi altra mia proprietà tangibile, tutto quel che riguardava le due vecchie che il signor Mell mi aveva condotto a visitare; e avevo sempre paura che Steerforth lo rivelasse e se ne servisse contro di lui. Credo che nessuno di noi immaginasse, quel primo mattino in cui feci colazione e mi addormentai all'ombra delle penne di pavone e al suono del flauto, quali conseguenze sarebbero derivate dall'ingresso della mia insignificante persona in quell'ospizio per poveri. Ma la mia visita provocò eventi imprevisti, e anche molto seri, a loro modo. Un giorno in cui il signor Creakle era rimasto a casa per una indisposizione che, naturalmente, diffuse una viva gioia in tutta la scuola, durante le lezioni del mattino c'era stato parecchio chiasso. Il grande sollievo e la profonda soddisfazione che i ragazzi provavano li avevano resi difficili da tenere; e sebbene il terribile Tungay fosse apparso due o tre volte con la sua gamba di legno prendendo nota dei nomi dei più indisciplinati, non aveva fatto grande impressione perché essi erano perfettamente sicuri che il giorno dopo avrebbero avuto dei guai qualunque cosa facessero, e, senza la minima esitazione, pensavano bene di spassarsela almeno quel giorno. A rigore era un giorno di mezza vacanza, un sabato. Ma poiché il fracasso nel cortile di ricreazione avrebbe disturbato il signor Creakle e il tempo non era favorevole per andare a passeggio, ci fu ordinato di rimanere in classe nel pomeriggio e di attendere a qualche compito più facile del solito che era stato preparato per l'occasione. Era il giorno della settimana in cui il signor Sharp usciva per farsi arricciare la parrucca, e così il signor Mell, che aveva sempre i lavori più ingrati, quali che fossero, teneva scuola da solo. Se potessi associare l'idea di un toro o di un orso con un'anima mite come quella del signor Mell, ripensando a quel pomeriggio in cui lo strepito era giunto al colmo lo paragonerei a uno di questi animali aggredito da migliaia di cani. Me lo ricordo chinare la testa dolente, sostenendola con la mano ossuta, sul libro che era sulla scrivania, e tentare disperatamente di tirare avanti col suo faticoso lavoro tra un fracasso che avrebbe fatto venir le vertigini al Presidente della Camera dei Comuni. V'erano ragazzi che saltavano dentro e fuori dal loro posto giocando ai quattro cantoni con altri; ragazzi che ridevano, ragazzi che cantavano, ragazzi che parlavano, ragazzi che ballavano, ragazzi che urlavano; ragazzi che strascicavano i piedi, ragazzi che turbinavano intorno a lui ghignando, facendo smorfie, facendogli il verso alle spalle o davanti agli occhi, beffando con varie mimiche la sua povertà, le sue scarpe, le sue vesti, sua madre, tutto ciò che gli appartenesse e per cui avrebbero dovuto nutrire rispetto. «Silenzio!» gridò il signor Mell alzandosi di scatto e battendo il libro sulla scrivania. «Che cosa significa tutto questo? È impossibile sopportarlo. C'è da impazzire. Come potete comportarvi così verso di me, ragazzi?» Il libro con cui aveva colpito la scrivania era il mio; e poiché gli stavo a fianco, seguendo i suoi occhi mentre egli li volgeva attorno alla stanza, vidi tutti i ragazzi fermarsi, alcuni improvvisamente sorpresi, altri mezzo impauriti e alcuni, forse, pentiti. Il posto di Steerforth era all'estremità dell'aula, al lato opposto della lunga sala. Lui se ne stava indolentemente disteso con le spalle contro il muro e le mani in tasca, e guardava il signor Mell con la bocca stretta come se stesse fischiando, quando il signor Mell guardò lui. «Silenzio, signor Steerforth!» gridò. «Fate silenzio voi,» rispose Steerforth arrossendo. «A chi credete di parlare?» «Sedetevi,» comandò il signor Mell. «Sedetevi voi,» rispose Steerforth, «e badate ai fatti vostri.» Ci fu una risatina e un tentativo di applauso; ma il signor Mell era così bianco in volto che seguì immediatamente un silenzio, e un ragazzo che si era precipitato dietro di lui per imitare ancora sua madre, cambiò idea e finse di temperare una penna. «Se credete, Steerforth,» disse il signor Mell, «che io non mi sia accorto dell'influenza che potete esercitare qui, su tutte queste giovani menti,» - e pose la mano, senza badare a quel che faceva (immaginai), sulla mia testa - «o che non vi abbia osservato, pochi minuti fa, incitare contro di me i più giovani di voi, vi sbagliate.» «Io non mi prendo la pena di pensare minimamente a voi,» rispose freddamente Steerforth, «quindi si dà il caso che non mi sono sbagliato affatto.» «E quando vi servite della vostra posizione di favore qui dentro, signore,» continuò il signor Mell col labbro che gli tremava convulso, «per insultare un gentiluomo...» «Un che? Dov'è?» lo interruppe Steerforth. A questo punto qualcuno gridò: «Vergogna, Steerforth! È troppo!» Era Traddles, che il signor Mell mise fuor di questione imponendogli di tenere la lingua a posto. «Per insultare un uomo che non ha fortuna nella vita, signore, che non vi ha mai fatto la minima offesa, e che non merita l'insulto per molte ragioni che voi siete abbastanza intelligente e in età per capire,» continuò il signor Mell con le labbra che gli tremavano sempre più, «commettete un'azione bassa e vile. E adesso, signore, potete sedervi o stare in piedi a vostro talento. Copperfield, proseguiamo.» «Un momento, piccolo Copperfield,» disse Steerforth avanzando nell'aula. «Vi dirò come stanno le cose una volta per tutte. Quando vi prendete la libertà di chiamarmi basso e vile o qualsiasi altra cosa del genere, vi dirò che siete uno spudorato mendicante. Mendicante lo siete sempre stato e lo sapete; ma quando fate così siete un mendicante spudorato.» Non so bene se stesse per colpire il signor Mell, o il signor Mell stesse per colpire lui o se entrambi avessero la stessa intenzione. Vidi l'intera scolaresca irrigidirsi come pietrificata, e d'un tratto il signor Creakle fu in mezzo a noi con Tungay al suo fianco e la signora e la signorina Creakle che guardavano dalla soglia come atterrite. Il signor Mell rimase seduto per qualche momento, assolutamente immobile, coi gomiti sulla scrivania e la faccia fra le mani. «Signor Mell,» disse il signor Creakle scuotendolo per un braccio; e il suo sussurro fu adesso così udibile che Tungay non credette necessario ripetere le sue parole, «spero che non vi siate dimenticato di voi stesso.» «No, signore, no,» rispose il maestro mostrando il volto, scuotendo la testa e fregandosi le mani in grande agitazione. «No, signore. No. Mi sono ricordato di chi sono, io... no, signor Creakle, non ho dimenticato chi sono, io... me ne sono ricordato, signore. Io... Io... potrei desiderare che voi vi foste ricordato di me un poco prima, signor Creakle. Sarebbe... sarebbe stato più gentile, signore... più giusto, signore. Mi avrebbe risparmiato qualche cosa, signore.» Il signor Creakle, guardando duramente il signor Mell, pose la mano sulla spalla di Tungay, portò un piede sulla panca più vicina e si sedette sulla scrivania. Dopo aver guardato ancora con severità il signor Mell dall'alto del suo trono, poiché egli continuava a scuotere la testa e a strusciarsi le mani, sempre in quello stato di agitazione, il signor Creakle si volse a Steerforth dicendo: «Ebbene, signore, visto che costui non si degna di parlarmi, che cosa è tutto questo?» Steerforth evase per un momento la domanda, guardando pieno di disprezzo e d'ira il suo avversario e restando in silenzio. Ricordo che, in questo intervallo, non potei fare a meno di pensare alla nobiltà del suo aspetto e a quanto scialbo e comune apparisse il signor Mell in suo confronto. «Che cosa voleva intendere, parlando di favoriti, allora?» disse Steerforth alla fine. «Favoriti?» ripeté il signor Creakle, con le vene della fronte che si gonfiavano a un tratto. «Chi ha parlato di favoriti?» «Ne ha parlato lui,» rispose Steerforth. «E, di grazia, che cosa intendevate con questo, signore?» domandò il signor Creakle volgendosi con asprezza al suo assistente. «Intendevo, signor Creakle,» rispose lui a voce bassa, «quello che ho detto; che nessun allievo ha il diritto di valersi di una posizione di favore per avvilirmi.» «Per avvilire voi?» esclamò il signor Creakle. «Per il cielo! Ma permettetemi di domandarvi, signor Come-vi-chiamate,» e qui il signor Creakle incrociò le braccia, con la sua canna e tutto, sul petto e aggrottò le sopracciglia in modo che i suoi piccoli occhi divennero appena visibili sotto di esse: «quando avete parlato di favoriti avete mostrato il rispetto dovuto alla mia persona? Alla mia persona, signore,» proseguì il signor Creakle tendendo improvvisamente la testa verso di lui e tirandola di nuovo indietro, «quella del capo di questo istituto e del vostro datore di lavoro?» «Non è stato saggio, signore, lo ammetto volentieri,» rispose il signor Mell. «Non lo avrei fatto se fossi stato più calmo.» Qui Steerforth intervenne: «Allora ha detto che sono basso, allora ha detto che sono vile, e allora l'ho chiamato mendicante. Se io fossi stato più calmo non lo avrei chiamato così. Ma l'ho fatto e sono pronto a subirne le conseguenze.» Senza forse considerare se c'era una qualsiasi conseguenza possibile, mi sentii ardere di entusiasmo per questo generoso discorso. Fece impressione anche sui ragazzi perché si udì fra loro un mormorio basso sebbene nessuno dicesse una parola. «Sono stupito, Steerforth - sebbene la vostra franchezza vi faccia onore,» disse il signor Creakle, «vi faccia certo onore - sono sorpreso, Steerforth, devo dire, che abbiate potuto rivolgere un tale epiteto a una persona impiegata e stipendiata dal Collegio Salem.» Steerforth diede in una breve risata. «Questo non è rispondere alla mia osservazione, signore,» ribatté il signor Creakle. «Mi aspetto da voi qualche cosa di più, Steerforth.» Se il signor Mell appariva scialbo ai miei occhi, in confronto di quel bel ragazzo, sarebbe assolutamente impossibile dire quanto scialbo mi apparisse il signor Creakle. «Fateglielo negare,» disse Steerforth. «Negare di essere un mendicante, Steerforth?» gridò il signor Creakle. «Evvia, dov'è che va a mendicare?» «Se non è un mendicante lui stesso, lo è un suo prossimo parente,» rispose Steerforth. «Il che fa lo stesso.» Mi lanciò un'occhiata, e la mano del signor Mell mi batté delicatamente sulla spalla. Io alzai gli occhi con il rossore nel volto e il rimorso nel cuore, ma lo sguardo del signor Mell era fisso su Steerforth. Continuava a battermi delicatamente la spalla, ma guardava lui. «Poiché desiderate che mi giustifichi, signor Creakle,» continuò Steerforth, «e dica quello che intendo, quello che ho da dire è questo: che sua madre vive di carità in un ospizio.» Il signor Mell continuò a fissarlo e a battermi piano sulla spalla, e disse fra sé in un sussurro, se udii bene: «Sì, me lo aspettavo.» Il signor Creakle si volse al suo assistente con un cipiglio severo e una cortesia elaborata. «Adesso avete udito quello che afferma questo signore, signor Mell. Abbiate la bontà, vi prego, di metterlo a posto dinanzi a tutta la scuola.» «Ha ragione, signore, non c'è nulla da correggere,» rispose il signor Mell in un silenzio di morte; «quello che ha detto è vero.» «Siate così gentile, allora, da dichiarare pubblicamente, vi prego,» riprese il signor Creakle piegando la testa da un lato e ruotando gli occhi su tutta la classe, «se sono mai venuto a conoscenza di ciò fino a questo momento.» «Direttamente, non credo,» rispose lui. «Come? Non sapete?» esclamò il signor Creakle. «Non sapete proprio?» «Temo che non abbiate mai supposto molto buona la mia condizione materiale,» rispose l'assistente. «Sapete bene qual è e quale è sempre stata la mia posizione qui.» «Temo, se arrivate a questo,» ribatté il signor Creakle con le vene della fronte più gonfie che mai, «che la vostra posizione qui sia stata assolutamente falsa, e che voi abbiate preso questa scuola per un'istituzione di carità. Signor Mell, col vostro permesso, dobbiamo dividerci. E quanto prima sarà, meglio sarà.» «Non c'è momento più adatto di questo,» rispose il signor Mell alzandosi. «Come volete, signore,» disse il signor Creakle. «Mi congedo da voi, signor Creakle, e da voi tutti,» disse il signor Mell volgendo uno sguardo in giro all'aula e ancora battendomi delicatamente sulla spalla. «James Steerforth, il miglior augurio che possa farvi è che giungiate a vergognarvi di quello che avete fatto oggi. Ora come ora preferirei sapervi qualsiasi cosa eccetto che un amico mio o di chiunque mi stia a cuore.» Ancora una volta posò la mano sulla mia spalla; poi, preso il suo flauto e pochi libri dalla scrivania, e lasciatavi la chiave per il suo successore, abbandonò l'aula con tutto il suo avere sotto braccio. Il signor Creakle tenne allora un discorso, per mezzo di Tungay, nel quale ringraziava Steerforth per avere difeso (forse con eccessivo calore) l'indipendenza e la rispettabilità del Collegio Salem, e che concluse stringendo la mano a Steerforth lanciavamo tre evviva, non sapevo bene perché ma immaginavo per Steerforth e così partecipai ad essi con tutto il mio ardore sebbene mi sentissi molto infelice. Poi il signor Creakle sferzò Tommy Traddles avendolo sorpreso in lacrime, invece che in esultanza, a causa della partenza del signor Mell; e tornò al suo sofà, o al suo letto o a qualsiasi altro posto donde era venuto. Fummo lasciati a noi stessi e ci guardammo l'un l'altro, ricordo, con un'aria molto confusa. Quanto a me, sentivo che avevo tanto da rimproverarmi e di cui pentirmi in quello che era accaduto, che nulla avrebbe potuto aiutarmi a reprimere le lacrime se non il timore che Steerforth, il quale spesso - lo vedevo - volgeva lo sguardo verso di me, potesse giudicare poco amichevole - o dovrei piuttosto dire, considerando le nostre relative età e i sentimenti che nutrivo per lui, irriverente - l'emozione che mi angosciava, se l'avessi mostrata. Era molto arrabbiato con Traddles, e disse di esser contento che le avesse prese. Il povero Traddles, che aveva superato la fase di star con la testa appoggiata alla scrivania e si andava consolando al solito con una schiera di scheletri, disse che non gliene importava. Il signor Mell era stato trattato ingiustamente. «Chi lo ha trattato ingiustamente, ragazzetta?» chiese Steerforth. «Tu, lo hai fatto,» rispose Traddles. «E che cosa ho fatto?» «Che cosa hai fatto?» ribatté Traddles. «Hai ferito i suoi sentimenti e gli hai fatto perdere il posto.» «I suoi sentimenti!» ripeté Steerforth con disprezzo. «I suoi sentimenti ne caveranno presto qualche vantaggio, te lo garantisco. I suoi sentimenti non sono come i tuoi, signorina Traddles. E quanto al suo posto - che era un magnifico posto, vero? - credi che non scriverò a casa per fargli avere un po' di denaro, Marietta?» Giudicammo molto nobile questa intenzione di Steerforth, la cui madre era una ricca vedova e si diceva facesse quasi tutto quello che lui le chiedeva. Fummo tutti lietissimi di vedere Traddles battuto e Steerforth levato alle stelle: specialmente quando ci disse, come si degnò di dirci, di aver fatto quello che aveva fatto esclusivamente per noi e per il nostro bene, e che ci aveva reso un gran favore senza averci alcun interesse. Ma devo dire che, quella notte, mentre tiravo avanti con un racconto, al buio, il vecchio flauto del signor Mell parve tristemente risuonare più di una volta al mio orecchio; e che, quando infine Steerforth fu stanco e io mi abbandonai nel mio letto, immaginai di udirlo suonare in qualche parte così dolorosamente che mi sentii pieno di angoscia. Lo dimenticai presto nella contemplazione di Steerforth che, con un disinvolto dilettantismo e senza alcun libro (mi sembrava che sapesse tutto a memoria) continuò le lezioni del signor Mell finché fu trovato un nuovo maestro. Questi proveniva da un ginnasio, e, prima di entrare nelle sue funzioni, pranzò un giorno in salotto per essere presentato a Steerforth. Steerforth lo apprezzò moltissimo e ci disse che era una «pasta». Senza capire con esattezza quale dotta distinzione implicasse questo termine, lo rispettai enormemente grazie ad essa e non ebbi alcun dubbio sulla sua superiore dottrina: sebbene non si prendesse mai per me quelle pene - non ch'io fossi qualcuno - che si era preso il signor Mell. Ci fu solo un altro evento, in questo semestre, al di fuori della quotidiana vita scolastica, che fece in me un'impressione tale da sopravvivere ancor oggi. E sopravvive per molte ragioni. Un pomeriggio che stavamo tutti tribolando in uno stato di terribile disperazione e il signor Creakle menava botte a destra e a manca che era uno spavento, Tungay entrò e annunciò col suo solito vocione: «Visite per Copperfield!» Furono scambiate poche parole fra lui e il signor Creakle: chi erano i visitatori e in quale stanza bisognava farli entrare; e poi io, che, secondo l'usanza, mi ero alzato in piedi appena fatto l'annuncio e mi sentivo venir meno dallo stupore, ebbi l'ordine di salire per le scale di servizio e mettermi una gala pulita prima di entrare nella sala da pranzo. Obbedii a queste ingiunzioni con un batticuore e una fretta che i miei giovani spiriti non avevano mai conosciuto; e, quando raggiunsi la porta del salotto e mi passò per la testa l'idea che potesse esser mia madre - fin allora avevo solo pensato al signore o alla signorina Murdstone - trassi la mano dalla maniglia e sostai per dare un singhiozzo prima di entrare. Lì per lì non vidi alcuno; ma, sentendo una pressione contro la porta, guardai dietro di essa e lì, con mia gran meraviglia, c'erano il signor Peggotty e Ham che mi facevano inchini e scappellate e si schiacciavano a vicenda contro il muro. Non potei fare a meno di ridere; ma molto più per il piacere di vederli che per il buffo modo con cui mi apparivano. Ci stringemmo le mani molto cordialmente; e io risi e risi finché mi tirai fuori di tasca il fazzoletto per asciugarmi gli occhi. Il signor Peggotty (che, ricordo, rimase sempre a bocca aperta per tutta la visita) apparve molto preoccupato quando mi vide far questo e diede di gomito a Ham perché dicesse qualche cosa. «Su, allegro, signorino Davy!» disse Ham col suo bonario sorriso. «Perdinci come siete cresciuto!» «Sono cresciuto?» chiesi asciugandomi gli occhi. Non piangevo per nulla di particolare, che io sappia; ma in qualche modo il rivedere i vecchi amici mi portava al pianto. «Cresciuto, signorino Davy? Altro che cresciuto!» disse Ham. «Altro che cresciuto!» fece eco il signor Peggotty. Mi fecero di nuovo ridere scambiandosi le loro risa, e allora ridemmo tutti e tre finché mi sentii in pericolo di piangere ancora. «Sapete come sta la mamma, signor Peggotty?» dissi. «E come sta la mia cara vecchia Peggotty?» «Magnificamente,» rispose il signor Peggotty. «E la piccola Emily? e la signora Gummidge?» «Ma... gnificamente,» rispose il signor Peggotty. Ci fu un silenzio. Il signor Peggotty, per colmarlo, trasse dalle sue tasche due magnifiche aragoste, un enorme granchio e un sacchetto di tela pieno di gamberetti, e li ammucchiò sulle braccia di Ham. «Vedete,» disse il signor Peggotty, «sapendo che, quando stavate da noi, vi piaceva un po' di profumo, ci siamo presi la libertà. La vecchia madre li ha bolliti, li ha. La signora Gummidge li ha bolliti. Sì,» disse lentamente il signor Peggotty, che mi sembrava indugiasse sull'argomento non avendone un altro pronto, «la signora Gummidge, ve lo assicuro, li ha bolliti.» Espressi i miei ringraziamenti; e il signor Peggotty, dopo aver guardato Ham, che rivolgeva al pesce un sorriso pecorino, senza fare alcun tentativo per aiutarlo, disse: «Vedete, quando il vento e la marea sono favorevoli, noi veniamo a Gravesen con una delle nostre paranze di Yarmouth. Mia sorella mi ha scritto il nome di questo posto e mi ha detto che se mai mi capitava di andare a Gravesen dovevo venire a cercare il signorino Davy e portargli i suoi rispetti, augurargli devotamente ogni bene e riferirgli della sua famiglia, che sta tutta magnificamente. La piccola Emily, vedete, quando saremo tornati scriverà a mia sorella che vi ho visto e che anche voi state magnificamente, e così sarà tutta una giostra.» Dovetti meditare un poco prima di capire quello che il signor Peggotty intendeva con questa immagine, espressiva di un completo giro di comunicazioni. Poi lo ringraziai di cuore e dissi, rendendomi conto di arrossire, che immaginavo che anche la piccola Emily fosse cambiata da quando raccoglievamo conchiglie e sassolini sulla spiaggia. «Sta diventando una donna, ecco quello che sta diventando,» mi rispose il signor Peggotty. «Domandatelo a lui.» Intendeva Ham, che raggiava di gioia e di approvazione sopra il sacchetto dei gamberi. «Che bel faccino che ha!» esclamò il signor Peggotty mentre il suo volto si illuminava come una lucerna. «E che istruzione!» aggiunse Ham. «E come scrive!» continuò il signor Peggotty. «Caratteri neri come il giaietto, e così grandi che si possono vedere da ogni luogo.» Era davvero delizioso vedere da quale entusiasmo fosse animato il signor Peggotty quando parlava della sua piccola protetta. È ancora davanti a me col suo volto onesto e peloso, radiante di un orgoglio e di un felice amore per i quali non trovo parole. I suoi occhi leali si accendono e scintillano come se nelle loro profondità si agitasse qualche cosa di luminoso. Il suo largo petto si gonfia per il piacere. Le sue mani forti e pesanti si stringono insieme per l'ardore; ed egli sottolinea tutto quello che dice agitando la destra che, ai miei occhi di pigmeo, appare un martello da fabbro. Ham aveva la sua stessa esultanza. Credo che avrebbero parlato ancor più di lei se non fossero stati intimiditi dall'inatteso arrivo di Steerforth, il quale, vedendomi in un angolo, intento a parlare con due estranei, interruppe l'arietta che stava cantando e disse: «Non sapevo che tu fossi qui, piccolo Copperfield!» (perché non era la consueta stanza delle visite) e ci passò vicino per uscire. Non so se lo chiamai, mentre se ne andava, per l'orgoglio di avere un amico come Steerforth o per il desiderio di spiegargli come mi trovavo ad avere amici come il signor Peggotty. Ma dissi modestamente (buon Dio, come tutto ciò mi torna in mente dopo tanto tempo): «Non andatevene, Steerforth, vi prego. Questi sono due barcaioli di Yarmouth - brava e cara gente - parenti della mia bambinaia, che sono venuti da Gravesen per vedermi.» «Ah, sì?» disse Steerforth tornando. «Sono felice di vederli. Come state?» C'era una disinvoltura nei suoi modi - modi gai e spigliati, senza alcuna spavalderia - che ancor oggi credo suscitasse una specie di fascino. Credo ancora che in virtù del suo portamento, dei suoi spiriti vitali, della sua voce piacevole, della bellezza del suo volto e della sua figura, e, per quanto sappia, di certi innati poteri di attrazione (che penso ben pochi posseggano) portasse con sé una sorta di incanto al quale era naturale debolezza cedere e a cui pochi avrebbero saputo resistere. Non potei non vedere quanto i miei amici si trovassero bene con lui e come in un attimo parvero pronti ad aprirgli il loro cuore. «Vi prego, signor Peggotty,» dissi, «dovete far sapere a casa mia, quando sarà spedita quella lettera, che il signor Steerforth è molto buono con me e che non so che cosa farei qui senza di lui.» «Sciocchezze!» disse Steerforth ridendo. «Non dovete raccontare niente di simile.» «E se il signor Steerforth dovesse mai venire nel Norfolk o nel Suffolk, signor Peggotty,» proseguii, «quando ci sarò io, potete star sicuri che lo porterò a Yarmouth, se vorrà, a vedere la vostra casa. Non avete mai visto una casa così bella, Steerforth. È stata ricavata da una barca.» «Ricavata da una barca?» esclamò Steerforth. «È proprio la casa che ci vuole per un così perfetto barcaiolo.» «Proprio così, signore, proprio così,» disse Ham con un largo sorriso, «Avete ragione, signore! Signorino Davy, il signore ha ragione. Un perfetto barcaiolo! Oh, oh, ecco quello che è!» Il signor Peggotty era non meno compiaciuto di suo nipote, sebbene la modestia gli impedisse di accogliere così rumorosamente un complimento personale. «Be', signore,» disse con un riso basso, inchinandosi e ripiegandosi sul petto i lembi del fazzoletto che aveva al collo. «Grazie, signore, grazie. Faccio quello che posso nel mio genere di vita, signore.» «Il migliore degli uomini non può far di più, signor Peggotty,» rispose Steerforth. Aveva già imparato il suo nome. «Ci scommetto che è quello che fate anche voi, signore,» disse il signor Peggotty scuotendo la testa, «e che lo fate bene... proprio bene. Grazie, signore. Vi sono obbligato, signore, per la buona accoglienza. Sono rozzo, signore, ma di me ci si può fidare... almeno, spero che ci si possa fidare, capite. La mia casa non è gran cosa da vedere, signore, ma la metto di cuore al vostro servizio se mai doveste venirvi col signorino Davy. Sono un vero sguiscione, sono,» continuò il signor Peggotty che, con questa parola, intendeva una lumaca alludendo alla sua lentezza nel prender congedo, perché aveva tentato di andarsene dopo ogni battuta e sempre, per una ragione o per un'altra, era tornato indietro; «ma vi auguro a tutti e due di stare bene e di essere felici!» Ham fece eco a questi sentimenti, e ci separammo da loro nel modo più cordiale. Quella sera fui quasi tentato di parlare a Steerforth della piccola Emily, ma ero troppo timido per pronunciarne il nome e avevo troppa paura che mi deridesse. Ricordo di aver meditato un bel po', e con una sorta di disagio, a quanto aveva detto il signor Peggotty, sul suo avviarsi a divenire una donna; ma decisi che erano sciocchezze. Trasportammo i crostacei, o il «profumo», come li aveva chiamati modestamente il signor Peggotty, nella nostra camerata senza essere notati, e quella sera ci concedemmo una grande cena. Ma Traddles non poté uscirne felicemente. Era troppo disgraziato per affrontare anche una semplice cena come chiunque altro. Durante la notte si sentì male - era completamente a terra - a causa del granchio; e dopo essere stato semiavvelenato da pozioni nere e pillole turchine in dosi tali che Demple (il cui padre era medico) definì sufficienti ad abbattere un cavallo, si ebbe una buona sferzata e sei capitoli del Testamento greco per aver rifiutato di confessare. Il resto del semestre è, nel mio ricordo, un guazzabuglio in cui si frammischiano la tenace lotta quotidiana per l'esistenza; il cader dell'estate e il cambiamento di stagione; le mattine gelate in cui eravamo buttati giù dal letto dallo squillo della campana, e il freddo, freddissimo sapore delle buie notti quando la campana ci mandava a letto di nuovo; l'aula della sera, malamente illuminata e poco riscaldata, e l'aula del mattino che non era niente altro che una grande macchina per rabbrividire; l'alternarsi del manzo lesso e del manzo arrosto, del montone lesso e del montone arrosto; le fette di pane e burro, i libri di scuola orecchiuti, le lavagne scheggiate, i quaderni macchiati di lacrime, le sferzate, i colpi di righello, il taglio dei capelli, le domeniche piovose, gli sformati col grasso di rognone e una sudicia atmosfera d'inchiostro che avvolgeva il tutto. Ben ricordo, tuttavia, come la lontana idea delle vacanze, dopo essere apparsa per un tempo immenso come un punto immobile, cominciò ad avanzare verso di noi e a crescere sempre più. Come dal conto dei mesi si passò a quello delle settimane e poi dei giorni; e come allora cominciai a temere di non essere richiamato a casa, e, quando seppi da Steerforth che ero stato richiamato e fui sicuro di tornare, ebbi cupi presentimenti di potermi rompere una gamba prima della partenza. Come rapidamente, infine, l'ultimo giorno di scuola si avvicinò: la settimana dopo la prossima, la prossima settimana, questa settimana, dopodomani, domani, oggi, stasera... finché sono nella diligenza di Yarmouth e torno a casa. Più volte mi addormentai e mi svegliai bruscamente in quella diligenza, e feci molti sogni sconclusionati su tutte queste cose. Ma, quando mi svegliavo ogni tanto, la campagna fuori del finestrino non era il cortile di ricreazione del Collegio Salem, e quello che risuonava ai miei orecchi non era la sferza del signor Creakle che colpiva Traddles, ma la frusta del cocchiere che incitava i cavalli. VIII • LE MIE VACANZE. IN PARTICOLARE UN POMERIGGIO FELICE Quando arrivammo, prima di giorno, alla locanda dove la diligenza fermava, che non era quella dove serviva il mio amico cameriere, fui condotto in una bella cameretta sulla cui porta era dipinto: DELFINO. Ricordo che avevo un gran freddo, nonostante il tè bollente che mi avevano fatto prendere a terreno, davanti a un bel fuoco; e fui felicissimo di infilarmi nel letto del Delfino, tirarmi sul capo le coperte del Delfino e addormentarmi. Il signor Barkis, il corriere, doveva venire a prendermi alle nove del mattino. Mi alzai alle otto, un po' stordito per la brevità del mio riposo, e mi trovai pronto prima dell'ora stabilita. Mi accolse esattamente come se non fossero trascorsi nemmeno cinque minuti da quando eravamo stati insieme l'ultima volta e io fossi entrato nell'albergo solo per cambiare un seipence o qualche cosa di simile. Appena io e la mia cassetta fummo sul carro e il corriere si fu seduto, il pigro cavallo si mosse con tutti noi al suo passo consueto. «Avete un ottimo aspetto, signor Barkis,» gli dissi pensando che sarebbe stato contento di saperlo. Il signor Barkis si strofinò la gota col polsino e poi guardò il polsino come se si aspettasse di trovarci sopra un po' della sua lanugine; ma non diede altro indizio di avere apprezzato il complimento. «Ho inviato il vostro messaggio, signor Barkis», continuai: «Ho scritto a Peggotty.» «Ah!» disse il signor Barkis. Aveva un'aria arcigna e rispondeva secco secco. «C'era qualche cosa di sbagliato, signor Barkis?» domandai dopo una breve esitazione. «Macché,» rispose il signor Barkis. «Dico nel messaggio.» «Il messaggio magari andava bene,» disse il signor Barkis; «ma tutto è finito lì.» Poiché non capivo che cosa intendesse dire, ripetei insistendo: «Finito lì, signor Barkis?» «Non ne è seguito nulla,» mi spiegò guardandomi di traverso. «Nessuna risposta.» «Vi aspettavate una risposta, allora, signor Barkis?» chiesi io spalancando gli occhi. Perché questa era per me una nuova luce. «Quando un uomo dice di essere pronto,» rispose il signor Barkis volgendomi ancora uno sguardo lento, «è come se dicesse che aspetta una risposta.» «Ebbene, signor Barkis?» «Ebbene,» disse lui riportando gli occhi sulle orecchie del suo cavallo, «quest'uomo è ancora qui che aspetta da allora.» «Glielo avete detto, signor Barkis?» «No... no,» brontolò lui meditandoci sopra. «Non ho nessun diritto di andare a dirglielo. Non le ho mai detto sei parole di fila: io non andrò certo a dirglielo.» «E sareste contento se lo facessi io, signor Barkis?» chiesi con aria dubbiosa. «Tu puoi dirglielo, se vuoi,» rispose il signor Barkis volgendomi un altro sguardo lento, «che Barkis aspettava una risposta. Dille... come si chiama?» «Come si chiama?» «Eh!» confermò con un cenno del capo. «Peggotty.» «È il suo nome? O il suo cognome?» «Oh, non è il suo nome. Il suo nome è Clara.» «Senti, senti,» commentò il signor Barkis. Parve trovare un immenso campo di riflessione in questa circostanza e se ne stette meditabondo, fischiettando fra sé per qualche tempo. «Be',» concluse infine. «Dille: ‹Peggotty! Barkis sta aspettando una risposta.› Forse lei dirà: ‹Una risposta a che cosa?› E tu dirai: ‹A quello che ti ho detto.› ‹E che cos'è?› dirà lei. ‹Che Barkis è pronto,› dirai tu.» Il signor Barkis accompagnò questi ingegnosissimi suggerimenti con una gomitata che mi lasciò una fitta nel fianco. Dopo di che si piegò verso il cavallo, al suo solito modo, e non fece altra allusione al soggetto a eccezione di quando, una mezz'ora dopo, si trasse di tasca un gessetto e scrisse «Clara Peggotty» sull'interno della tenda del suo carro, apparentemente come un promemoria personale. Ah, che strana sensazione era quella di tornare a casa ora che non era più la mia casa, e di accorgermi che ogni oggetto su cui posavo gli occhi mi ricordava la felice casa di un tempo, quasi un sogno che non avrei più potuto sognare! I giorni in cui mia madre e io e Peggotty eravamo tutti l'uno per l'altro e non c'era alcuno fra noi mi sorgevano dinanzi così penosamente, lungo la strada, che mi domando se fossi lieto di trovarmi lì... mi domando se non avrei preferito essere rimasto lontano e dimenticare tutto in compagnia di Steerforth. Ma ormai ero lì; e presto mi trovai davanti alla nostra casa, dove i vecchi e nudi olmi torcevano le loro tante braccia nella triste aria invernale e brandelli dei vecchi nidi di cornacchia erano trascinati via dal vento. Il corriere tirò giù la mia cassetta davanti al cancello del giardino e mi lasciò. Io percorsi il sentiero verso casa lanciando occhiate alle finestre con la paura di vedere, a ogni passo, il signor Murdstone o la signorina Murdstone affacciarsi minacciosi a una di esse. Tuttavia non apparve alcun volto; e, arrivato alla casa, sapendo che la porta, prima di buio, si poteva aprire senza bussare, entrai con passo timido e cheto. Dio solo sa quanto era immerso nella mia infanzia il ricordo che fu svegliato in me dalla voce di mia madre nel vecchio salotto quando misi piede nell'anticamera. Cantava sommessa. Credo che devo averla sentita cantare così su di me quando giacevo fra le sue braccia e non ero che un neonato. La melodia era nuova per me, e tuttavia così antica che colmò fino all'orlo il mio cuore; come un amico che torni dopo una lunga assenza. Pensai, dal modo solitario e pensoso con cui mia madre mormorava quel canto, che fosse sola. Ed entrai piano piano nella stanza. Era seduta presso il fuoco e allattava un piccolino di cui si teneva contro il collo la mano minuta. Aveva gli occhi chini verso il suo volto e se ne stava lì, cantando per lui. Fin qui avevo avuto ragione: non vi era altra compagnia. Le parlai, ed ella sussultò con un grido. Ma, nel vedermi, mi chiamò il suo caro Davy, il suo bambino! E, attraversata metà della stanza per venirmi incontro, si inginocchiò sul pavimento, e mi baciò, e posò la mia testa sul suo petto, accanto alla creaturina che aveva lì il suo nido, e mi pose la mano sulle labbra. Vorrei essere morto. Vorrei essere morto allora con quel sentimento nel cuore. Sarei stato più degno del cielo di quanto sia mai stato poi. «È tuo fratello,» disse mia madre accarezzandomi. «Davy, mio caro ragazzo! Povero bambino mio!» E mi baciò ancora e ancora, cingendomi il collo. Era così quando Peggotty entrò di corsa e si gettò sul pavimento accanto a noi e per un quarto d'ora parve fuori di sé. Pare che non mi aspettassero così presto, perché il corriere era arrivato molto prima del solito. Pare anche che il signore e la signorina Murdstone fossero andati a fare una visita nelle vicinanze e non sarebbero tornati prima di notte. Non avevo mai sperato questo. Non avevo mai creduto possibile che noi tre avremmo potuto stare insieme indisturbati, ancora una volta; e per un momento mi parve che fossero tornati i vecchi giorni. Desinammo insieme presso il fuoco. Peggotty era lì per servirci, ma mia madre non volle lasciarglielo fare e la costrinse a mettersi a tavola con noi. Io ebbi il mio vecchio piatto con su la vignetta di una nave da guerra a vele spiegate, che Peggotty aveva riposto in qualche parte per tutto il tempo che ero stato via, e non avrebbe voluto vedere rompersi, diceva, nemmeno per cento sterline. Ebbi il mio vecchio bicchiere con su scritto David, la mia vecchia forchetta e il coltellino che non tagliava. Mentre eravamo a tavola, mi parve l'occasione opportuna per parlare a Peggotty del signor Barkis, e lei, prima ancora che avessi finito quel che avevo da dirle, cominciò a ridere e a gettarsi il grembiule sul volto. «Peggotty,» disse mia madre, «di che si tratta?» Ma Peggotty non faceva che rider di più e, quando mia madre tentò di toglierle il grembiule, se lo tenne ancor più stretto sulla faccia così che sembrava aver la testa in un sacco. «Che cosa fai, sciocca?» disse mia madre ridendo. «Oh, diavolo di un uomo!.» esclamò Peggotty. «Vuole sposarmi.» «Sarebbe una buona occasione per te, no?» disse mia madre. «Oh! non lo so,» rispose Peggotty. «Non domandatemelo. Non lo vorrei nemmeno se fosse d'oro. Come non vorrei nessun altro.» «E allora perché non glielo dici, scioccherella?» «Dirglielo?» ribatté Peggotty sporgendo lo sguardo di sopra il grembiule. «Non me ne ha mai fatto parola. Sa il fatto suo. Se fosse così audace da dirmi una sola parola, lo prenderei a sberle.» Aveva la faccia rossa come non gliel'avevo mai vista, credo: né la sua né nessun'altra; ma lei si limitava a coprirsela per pochi momenti ogni volta, quando la prendeva un violento accesso di risa; e, dopo due o tre di queste crisi, continuò a desinare. Notai che mia madre, sebbene sorridesse quando Peggotty la guardava, era divenuta seria e pensierosa. Mi ero accorto fin da prima che era cambiata. Il suo volto era ancora molto grazioso ma appariva consunto e troppo affilato; le mani erano così sottili e pallide da sembrarmi quasi trasparenti. Ma il mutamento a cui mi riferisco adesso era un altro: si rivelava nei suoi modi, che erano divenuti ansiosi e inquieti. Alla fine disse tendendo la mano e ponendola affettuosamente su quella della sua vecchia domestica: «Cara Peggotty, non hai intenzione di maritarti?» «Io, signora?» rispose Peggotty spalancando gli occhi. «Dio vi benedica, no!» «Non ancora?» chiese mia madre teneramente. «Mai!» esclamò Peggotty. Mia madre le prese la mano dicendo: «Non lasciarmi, Peggotty. Resta con me. Forse non sarà per molto tempo. Che cosa farei senza di te?» «Io lasciarvi, mio bene!» gridò Peggotty. «Nemmeno per tutto il mondo e sua moglie in più. Andiamo, chi vi ha messo questa idea nella testolina?» Perché Peggotty era abituata da tempo a parlare talora a mia madre come a una bambina. Ma mia madre non rispose, se non per ringraziarla, e Peggotty proseguì impetuosa secondo il suo modo. «Io lasciarvi? Mi par di vedermi. Peggotty che se ne va via da voi! Mi piacerebbe coglierla sul fatto! No, no, no,» insisté Peggotty scuotendo la testa e incrociando le braccia; «queste cose non le fa, mia cara. Non che non ci siano certi gattimammoni che sarebbero molto contenti di vedergliele fare, ma non avranno questa soddisfazione. Tanto peggio per loro. Starò con voi finché non sarò divenuta una vecchia bisbetica e brontolona. E quando sarò troppo sorda, zoppa, cieca, sdentata e biascicona per servire a qualche cosa, nemmeno a farmi criticare, andrò dal mio Davy e lo pregherò di prendermi con sé.» «E io, Peggotty,» dissi, «sarò felice di vederti e ti accoglierò come una regina.» «Dio ti benedica!» esclamò Peggotty. «Lo so che lo farai!» E mi baciò in anticipo, in grato riconoscimento della mia ospitalità. Dopo di che si coprì ancora la testa col grembiule e diede in un altro scoppio di risa a beneficio del signor Barkis. E poi prese il piccolo su dal suo lettino e lo cullò. E poi sparecchiò la tavola; e poi tornò con un'altra cuffia, e la sua scatola da lavoro, e il metro e il pezzetto di candela, tutto proprio come una volta. Ci sedemmo attorno al fuoco conversando con vera gioia. Io raccontai loro quale crudele maestro fosse il signor Creakle, ed esse mi commiserarono profondamente. Raccontai quale magnifico ragazzo fosse Steerforth e quale protettore per me, e Peggotty disse che avrebbe camminato per miglia pur di vederlo. Presi il piccolino fra le braccia quando si svegliò e lo cullai amorosamente. Quando si addormentò ancora scivolai al fianco di mia madre stringendomi a lei secondo la mia vecchia consuetudine, interrotta da tanto tempo, e mi sedetti cingendole la vita con le braccia e appoggiandole sulla spalla la mia piccola gota rossa; e ancora una volta sentii fluire su di me i suoi bei capelli come l'ala di un angelo, pensavo sempre, lo ricordo e mi sentii veramente felice. Mentre me ne stavo così, guardando il fuoco e osservando vaghi disegni nei carboni ardenti, quasi mi sembrava di non essere mai stato via, che il signore e la signorina Murdstone fossero figure inconsistenti come quei disegni e destinate a svanire con lo spegnersi del fuoco, e che non vi fosse nulla di reale in tutto ciò che ricordavo, salvo mia madre, Peggotty e io. Peggotty continuò a rammendare una calza finché ci fu luce abbastanza, e poi rimase seduta con la calza infilata come un guanto nella sinistra e l'ago nella destra, pronta a dare un altro punto appena ci fosse un bagliore. Non riesco a concepire di chi potessero essere tutte quelle calze che Peggotty non finiva mai di rammendare, o di dove provenisse quell'interminabile rifornimento di calze bisognose di rammendi. Fin dalla mia prima infanzia la vedo continuamente occupata in quel genere di cucito e mai in altri, per nessuna ragione. «Mi domando,» disse Peggotty, che ogni tanto era presa da accessi di curiosità sugli argomenti più inattesi, «che cosa è successo della prozia di Davy.» «Oh, Dio, Peggotty!» esclamò mia madre uscendo da una fantasticheria, «Che assurdità dici!» «Be', me lo domando davvero,» rispose Peggotty. «Che cosa può averti messo in testa un tipo simile?» domandò la mamma. «Non avevi nessun altro al mondo a cui pensare?» «Non so come sia,» disse Peggotty, «sarà forse perché sono stupida, ma la mia testa non riesce mai a pescar fuori la gente per sua propria scelta. Tutti vanno e vengono, o non vanno né vengono, a loro talento. Mi domando proprio che cosa è successo di lei.» «Come sei sciocca, Peggotty!» ribatté mia madre. «Si direbbe che tu desideri una sua seconda visita.» «Il cielo me ne guardi!» esclamò Peggotty. «Bene, allora non parlare di queste cose spiacevoli, anima benedetta. La signorina Betsey è senza dubbio chiusa nella sua villetta davanti al mare e ci resterà. A ogni modo non è probabile che venga a disturbarci ancora.» «No!» meditò Peggotty. «No, non è affatto probabile. Mi domando se, quando morirà, lascerà qualche cosa a Davy.» «Dio mi protegga, Peggotty,» rispose mia madre, «sei proprio priva di buon senso! Come se non sapessi che si è infuriata con questo povero bambino solo perché era nato.» «Immagino che non sarebbe disposta a perdonarlo, adesso,» insinuò Peggotty. «E perché dovrebbe essere disposta a perdonarlo, adesso?» chiese mia madre piuttosto seccamente. «Adesso che ha un fratello, voglio dire,» spiegò Peggotty. La mamma cominciò immediatamente a piangere, domandandosi come Peggotty osava dire una cosa simile. «Come se questo piccolo innocente nella sua culla avesse mai fatto del male a te o a qualche altro, brutta gelosa!» disse. «Faresti meglio a sposare il corriere Barkis. Perché non lo sposi?» «Renderei felice la signorina Murdstone, se lo facessi,» rispose Peggotty. «Che brutto carattere hai, Peggotty!» ribatté mia madre. «Sei gelosa della signorina Murdstone quanto può esserlo una sciocca. Immagino che vorresti tenere tu stessa le chiavi e distribuire tutto. Non me ne meraviglierei proprio, se fosse così. Eppure lo sai che lo fa solo per bontà e con le migliori intenzioni! Lo sai che è così, Peggotty... lo sai benissimo.» Peggotty brontolò qualche cosa come «All'inferno le migliori intenzioni!» e qualche altra cosa sul fatto che le migliori intenzioni erano un po' troppe. «Lo so quello che vuoi dire, ossessione che non sei altro,» proseguì mia madre. «Ti capisco perfettamente, Peggotty. Lo sai, e mi meraviglio che tu non diventi rossa come questo fuoco. Ma una cosa per volta. Adesso si tratta della signorina Murdstone, Peggotty, e di qui non si scappa. Non l'hai sentita ripetere centinaia di volte che a parer suo sono troppo spensierata e troppo... troppo...» «Graziosa,» suggerì Peggotty. «Be',» ribatté mia madre quasi ridente, «se lei è tanto sciocca da dire così, ne ho forse colpa io?» «Nessuno dice questo,» rispose Peggotty. «No, spero proprio di no! Non l'hai sentita ripetere centinaia di volte che per questo desiderava risparmiarmi una quantità di preoccupazioni che a suo parere non sono adatte a me e per le quali in realtà non credo di essere adatta? Non è forse la prima ad alzarsi e l'ultima ad andare a letto? Non va continuamente su e giù, non fa ogni sorta di faccende, non va a frugare dappertutto, nella carbonaia, nella dispensa e che so io, cosa che non può essere molto piacevole? E tu vuoi insinuare che in tutto questo non ci sia un po' di devozione?» «Io non insinuo nulla,» disse Peggotty. «Sì, che lo fai,» replicò mia madre. «Non fai niente altro, oltre il tuo lavoro. Sei sempre lì a insinuare: per te è una gioia. E quando parli delle buone intenzioni del signor Murdstone...» «Non ne ho mai parlato,» affermò Peggotty. «No, ma hai fatto insinuazioni. È proprio quello che sto dicendo. È il tuo peggior difetto. Tu hai bisogno di insinuare. Ho detto proprio adesso che ti conosco, e vedi che è così. Quando parli delle buone intenzioni del signor Murdstone e pretendi di sminuirle (perché non credo che tu lo faccia realmente nell'intimo del tuo cuore, Peggotty) devi essere convinta al pari di me di quanto siano buone e di come lo guidino in tutto quello che fa. Se sembra essere stato troppo severo con una certa persona, Peggotty - tu sai, e anche Davy sa, ne sono certa, che non alludo a nessuno dei presenti - è solo perché ha la convinzione che sia per il bene di questa persona. Egli ama naturalmente una certa persona, per amor mio; e agisce solo per il bene di lei. È miglior giudice di quanto non sia io; perché so benissimo di essere una creatura debole, leggera e fanciullesca mentre lui è un uomo fermo, grave e serio. E si dà,» continuò mia madre mentre le lacrime proprie della sua natura appassionata le rigavano il volto, «si dà molta pena per me; e io dovrei essergli molto grata e molto sottomessa anche nel pensiero; e quando non lo sono, Peggotty, ne soffro e mi condanno, e dubito del mio stesso cuore, e non so più che fare.» Peggotty stava seduta col mento appoggiato sul piede della calza, guardando silenziosamente il fuoco. «Su, Peggotty,» disse mia madre cambiando tono, «non allontaniamoci l'una dall'altra, perché non potrei sopportarlo. Tu sei la mia vera amica, lo so, se ho ancora delle amiche in questo mondo. Quando ti chiamo sciocca, opprimente, o qualche cosa del genere, Peggotty, voglio solo dire che sei la mia vera amica e che lo sei sempre stata, fin dalla sera in cui il signor Copperfield mi portò per la prima volta in questa casa e tu uscisti dal cancello per venirmi incontro.» Peggotty non fu tarda a rispondere e a ratificare il patto di amicizia dandomi uno dei suoi migliori abbracci. Credo di avere avuto, al momento, qualche sprazzo di luce sul vero carattere di questa conversazione; ma oggi sono sicuro che quella buona creatura l'aveva suscitata e vi aveva assunto la sua parte solo perché mia madre potesse trovare in essa il conforto di quella piccola ricapitolazione contraddittoria a cui si era abbandonata. Il suo intento fu raggiunto, perché ricordo che mia madre fu molto più serena durante il resto della serata e che Peggotty la tenne meno d'occhio. Dopo il tè, quando il fuoco fu attizzato e smoccolate le candele, lessi a Peggotty un capitolo del libro sui coccodrilli in ricordo dei vecchi tempi - se lo tolse di tasca: ignoro se lo avesse conservato lì fin da allora - e poi parlammo del collegio Salem, cosa che mi riportò a Steerforth, il mio grande argomento. Eravamo molto felici, e quella serata, ultima della sua stirpe e destinata a chiudere quel volume della mia vita, non mi uscirà mai dalla memoria. Erano quasi le dieci quando udimmo un rumore di ruote. Ci alzammo tutti e mia madre disse in fretta che, poiché era così tardi e il signore e la signorina Murdstone desideravano che i ragazzi andassero a letto e si svegliassero presto, era forse meglio che io mi ritirassi. La baciai e salii subito con la mia candela, prima che quelli entrassero. Parve alla mia fantasia infantile, mentre salivo nella stanza da letto in cui ero stato imprigionato, che essi portassero nella casa una folata d'aria fredda dalla quale l'antico clima familiare fu travolto come una foglia. Mi sentii a disagio circa lo scendere a colazione il mattino dopo, poiché non avevo posto gli occhi sul signor Murdstone dal giorno in cui avevo commesso quel crimine memorando. Comunque, visto che bisognava farlo, scesi dopo due o tre false partenze che si arrestarono a mezza strada, e altrettanti ritorni in punta di piedi nella mia stanza; e mi presentai in salotto. Lui era in piedi davanti al caminetto, col dorso rivolto al fuoco, mentre la signorina Murdstone preparava il tè. Mi guardò fisso quando entrai, ma non diede alcun segno di riconoscimento. Dopo un attimo di confusione, andai da lui dicendo: «Vi chiedo perdono, signore. Sono molto addolorato di quello che ho fatto e spero che vorrete perdonarmi.» «Sono lieto di sentire che sei addolorato, David,» mi rispose. La mano che mi tese era quella che avevo morso. Non potei impedire ai miei occhi di indugiare un attimo sulla cicatrice rossa che scorgevo; ma non era così rossa come divenni io quando gli vidi in volto quell'espressione sinistra. «Come state, signora?» dissi alla signorina Murdstone. «Ah, povera me!» sospirò lei porgendomi il ramaiolino del tè invece delle dita. «Quanto durano le vacanze?» «Un mese signora.» «A cominciare da quando?» «Da oggi, signora.» «Oh!» disse la signorina Murdstone. «Dunque un giorno di meno.» Tenne così un calendario delle vacanze e ogni mattina cancellava un giorno esattamente nello stesso modo. Lo fece con aria tetra finché giunse a dieci, ma, quando cominciarono i numeri di due cifre, divenne più speranzosa e, col passar del tempo, perfino faceta. Fu proprio quel primo giorno che ebbi la disgrazia di gettarla, sebbene in genere non andasse soggetta a tali debolezze, in uno stato di violenta costernazione. Entrai nella stanza dove erano sedute lei e mia madre, e, con molta cura, presi fra le braccia, dal grembo della mamma, il piccolino, che aveva solo poche settimane. Improvvisamente la signorina Murdstone diede un tale strido che per poco non lo lasciai cadere. «Mia cara Jane!» esclamò mia madre. «Gran Dio, Clara, non vedi?» gridò la signorina Murdstone. «Vedere che cosa, cara Jane?» chiese mia madre; «dove?» «Lo ha preso!» stridette la signorina Murdstone. «Il ragazzo ha preso il bambino!» Era divenuta un cencio per l'orrore; ma riprese forze per fare un balzo su di me e strapparmelo dalle braccia. Poi tornò ad afflosciarsi, e si sentì così male che dovemmo darle la sua acquavite di ciliege. Quando si riebbe, mi fu da lei solennemente proibito di toccare mai più mio fratello per qualunque motivo; e la mia povera mamma, che, lo vedevo bene, desiderava tutt'altro, confermò sottomessa la proibizione dicendo: «Senza dubbio hai ragione, mia cara Jane.» In un'altra occasione in cui eravamo tutti e tre riuniti, quello stesso caro piccolino - mi era realmente caro per amore di nostra madre - fu l'innocente causa di una crisi per la signorina Murdstone. Mia madre, che aveva guardato a lungo i suoi occhi mentre lo teneva in grembo, disse: «Davy! vieni qui!» e guardò i miei. Vidi la signorina Murdstone metter giù le sue perline. «Davvero,» disse dolcemente mia madre, «sono identici. Credo che siano i miei. Mi sembra che abbiano proprio il colore dei miei. Ma sono straordinariamente eguali.» «Di che parli, Clara?» chiese la signorina Murdstone. «Mia cara Jane,» balbettò mia madre un po' smarrita per il tono aspro della domanda, «trovo che gli occhi del piccolo e quelli di Davy sono esattamente identici.» «Clara!» disse la signorina Murdstone alzandosi furiosa, «certe volte sei una vera sciocca.» «Mia cara Jane,» protestò mia madre. «Una vera sciocca,» ripeté la signorina Murdstone. «Chi altri potrebbe paragonare il bambino di mio fratello col tuo ragazzo? Non hanno niente in comune. Sono in tutto diversi. Assolutamente diversi sotto ogni aspetto. E spero che rimarranno tali. Non resterò qui a udire certi confronti.» E così dicendo uscì piena di maestà e sbatté la porta dietro di sé. Insomma, non ero un favorito della signorina Murdstone. E non ero, insomma, un favorito di nessuno, laggiù, nemmeno di me stesso; perché quelli che mi amavano non potevano mostrarlo e quelli che non mi amavano lo mostravano così apertamente che avevo sempre la dolente coscienza di apparire forzato, zotico e balordo. Sentivo di metterli a disagio come essi mettevano a disagio me. Se entravo nella stanza in cui erano e mia madre appariva allegra, una nube di ansia passava sul suo volto dal momento del mio ingresso. Se il signor Murdstone era del suo miglior umore, glielo smorzavo. Se la signorina Murdstone era del suo peggiore, glielo intensificavo. Avevo un sufficiente intuito per capire che, in ogni caso, la vittima era mia madre; che aveva paura di parlarmi o di essere affettuosa con me per non offenderli così facendo e dover subire poi una predica; che non solo era continuamente in apprensione per le offese che poteva recare lei, ma anche per le eventuali mie, e osservava ansiosa i loro sguardi se appena mi muovevo. Decisi quindi di tenermi quanto più potevo fuori dalla loro strada; e sentii battere dall'orologio della chiesa molte ore invernali nella mia triste stanza, avvolto nel mio cappottuccio e immerso nella lettura di un libro. Di sera, a volte, andavo in cucina per starmene seduto insieme a Peggotty. Là mi trovavo bene e non avevo paura di essere quello che ero. Ma nessuna di queste risorse fu approvata in salotto. L'umore tormentante e tormentoso che vi dominava me le precluse entrambe. Ero ancora considerato necessario all'educazione della mia povera mamma, e, rappresentando una delle prove a cui ella doveva essere sottoposta, non si poté tollerare che mi assentassi. «David,» mi disse il signor Murdstone un dopopranzo quando io stavo per lasciar la stanza come al solito; «sono spiacente di notare che hai un carattere cupo.» «Scontroso come un orso,» aggiunse la signorina Murdstone. Rimasi fermo e chinai il capo. «Ora, David,» continuò il signor Murdstone, «un carattere cupo e ostinato è fra tutti il peggiore.» «E fra tutti i caratteri di questo genere che ho mai visto,» notò sua sorella, «questo del ragazzo è il più ribelle e caparbio. Penso, mia cara Clara, che anche tu lo avrai notato.» «Ti chiedo scusa, mia cara Jane,» disse mia madre, «ma sei proprio sicura - certo vorrai scusarmi, mia cara Jane - di capire Davy?» «Dovrei vergognarmi di me stessa, Clara,» rispose la signorina Murdstone, «se non fossi in grado di capire questo ragazzo o qualsiasi altro. Non pretendo di essere profonda, ma mi rivendico un certo buon senso.» «Certo, mia cara Jane,» ammise mia madre, «hai una forte facoltà di comprensione...» «Oh per carità, no! Ti prego di non dir queste cose, Clara,» la interruppe aspra la signorina Murdstone. «Ma sono sicura che è così,» riprese mia madre, «tutti lo sanno. Ne faccio tanto profitto io stessa in molti modi - almeno dovrei farne - che nessuno può esserne convinto più di me; e per questo parlo con molta esitazione, mia cara Jane, te lo assicuro.» «Diciamo dunque che non capisco il ragazzo, Clara,» ribatté la signorina Murdstone aggiustandosi le catenelle sui polsi. «Ammettiamo pure, se vuoi, che non lo capisca affatto. È troppo profondo per me. Ma forse la perspicacia di mio fratello può permettergli di avere qualche lume sul suo carattere. E credo che mio fratello stesse parlando proprio di questo quando noi - non molto civilmente - lo abbiamo interrotto.» «Credo, Clara,» disse il signor Murdstone con voce grave, «che, su questo soggetto, possano esservi giudici migliori e più spassionati di te.» «Edward,» rispose timidamente mia madre, «tu sei, su ogni soggetto, molto miglior giudice che io non pretenda di essere. Tanto tu quanto Jane. Dicevo solo...» «Dicevi solo qualche cosa di fiacco e di sconsiderato,» replicò lui. «Cerca di non farlo più, mia cara Clara, e controllati.» Le labbra di mia madre si mossero, come se ella rispondesse: «Sì, mio caro Edward,» ma non si udì alcun suono. «Osservavo dunque, David,» riprese il signor Murdstone voltando rigidamente la testa e gli occhi verso di me, «che sono spiacente di notare in te un carattere cupo. Non è questa un'inclinazione che io possa tollerare di lasciare svilupparsi sotto i miei occhi senza sforzarmi di correggerla. Devi far di tutto per cambiarla, signorino. Noi dobbiamo far di tutto per cambiarla se tu non lo fai.» «Vi chiedo scusa, signore,» balbettai. «Non ho mai avuto intenzione di essere cupo da quando sono tornato.» «Non rifugiatevi in una menzogna, signorino!» mi rispose così fieramente che vidi mia madre tendere involontariamente la mano tremante come per interporsi fra noi. «Ti sei ritirato tutto immusonito nella tua camera. Sei rimasto nella tua camera mentre avresti dovuto essere qui. Adesso sai una volta per tutte, che io esigo che tu stia qui e non là. Inoltre esigo che, qui, tu obbedisca. Mi conosci, David. Voglio che sia così.» La signorina Murdstone diede una risatella rauca. «Voglio un contegno rispettoso, pronto e sollecito verso di me,» continuò, «e verso Jane Murdstone, e verso tua madre. Non voglio vedere questa stanza evitata, come se fosse infetta, secondo il talento di un ragazzo. Siediti.» Me lo ordinò come a un cane, e obbedii come un cane. «Un'altra cosa,» disse. «Noto che sei portato verso le compagnie basse e volgari. Non devi familiarizzare con la servitù. La cucina non ti migliorerà nei molti aspetti sotto i quali hai bisogno di essere migliorato. Della donna che ti istiga non dico nulla... visto che tu, Clara,» e si volse a mia madre con voce bassa, «per lunghe abitudini e radicati capricci, hai per lei una debolezza non ancora superata.» «Una mania veramente assurda!» esclamò la signorina Murdstone. «Dico solo,» riprese volgendosi a me, «che disapprovo la tua preferenza per compagnie come quella della signora Peggotty e che dovrai farne a meno. Dunque, David, mi hai capito, e sai quali saranno le conseguenze se non mi obbedirai alla lettera.» Lo sapevo benissimo - forse meglio che lui non pensasse, almeno per quanto riguardava la mia povera mamma - e gli obbedii alla lettera. Non mi ritirai più nella mia stanza; non mi rifugiai più presso Peggotty; ma me ne stetti seduto ad annoiarmi in salotto giorno dopo giorno, aspettando la sera e il momento di andare a letto. Quale fastidiosa costrizione subii, standomene seduto nella stessa posizione per ore e ore, senza osare muovere un braccio o una gamba per paura che la signorina Murdstone si lamentasse (come faceva al minimo pretesto) della mia irrequietezza, e senza osare muovere un occhio per paura che ella vi scorgesse qualche sguardo ostile o inquisitorio che le avrebbe dato nuovo motivo di lamentele verso di me! Che noia insopportabile starsene lì ad ascoltare il tic-tac dell'orologio; a osservare la signorina Murdstone che infilava lucenti perline di acciaio; a domandarmi se si sarebbe mai sposata e, in tal caso, con quale mai sorta di disgraziato; a contare le modanature nella cornice della cappa del camino; a vagabondare con lo sguardo per il soffitto e tra i riccioli e gli svolazzi della tappezzeria lungo le pareti! Quante passeggiate solitarie feci, per sentieri fangosi, nel maltempo invernale, portando dappertutto quel salotto con dentro il signore e la signorina Murdstone: mostruoso fardello di cui ero costretto a caricarmi, incubo che non era possibile spezzare, peso che mi opprimeva lo spirito e lo ottundeva! Quanti pasti consumai nel silenzio e nell'imbarazzo, sempre con la sensazione che vi fossero un coltello e una forchetta di troppo, i miei; un appetito di troppo, il mio; un piatto e una sedia di troppo, i miei; e qualcuno di troppo, io! Quante serate trascorsi, quando venivano portate le candele e io dovevo occuparmi in qualche modo, ma, non osando leggere un libro divertente, mi immergevo in qualche trattato di aritmetica duro di linguaggio e ancor più duro di cuore; quando le tavole dei pesi e delle misure prendevano il ritmo di ariette come Britagna regna o Bando alla malinconia; quando non volevano star ferme per essere imparate ma si infilavano come l'ago della nonna nella mia sventurata testa entrando da un orecchio e uscendo dall'altro! In quanti sbadigli e assopimenti caddi, a dispetto di tutte le mie precauzioni; con quali sobbalzi mi risvegliai da brevi sonni furtivi; quante risposte non ebbi alle piccole osservazioni che raramente facevo; quale nullità mi sembrava d'essere, a cui nessuno badava e che era tuttavia fra i piedi di tutti; quale enorme sollievo era per me sentire la signorina Murdstone che salutava il primo rintocco delle nove e mi ordinava di andare a letto. Così si trascinarono le vacanze finché arrivò il mattino in cui la signorina Murdstone disse: «Ecco l'ultimo giorno!» e mi diede la tazza di tè che concludeva quel periodo. Non mi dispiaceva di andarmene. Ero caduto in uno stato di intontimento; ma mi stavo riprendendo un poco e pensavo a Steerforth, sebbene il signor Creakle si profilasse dietro di lui. Ancora una volta il signor Barkis apparve al cancello e ancora la signorina Murdstone, con la sua voce ammonitrice, disse «Clara!» quando mia madre si chinò su di me per salutarmi. La baciai, baciai il fratellino, e allora fui molto triste; ma non triste per la partenza, perché l'abisso fra noi era lì, ogni giorno, e continua era la nostra separazione. E non tanto è vivo nella mia mente l'abbraccio che mi diede, sebbene non avrebbe potuto esser più fervido, quanto quello che seguì a quell'abbraccio. Ero già nel carro del corriere quando la udii che mi chiamava. Guardai fuori: era sola e ferma al cancello del giardino, sollevando il suo piccolo fra le braccia per farmelo vedere. L'aria era fredda e immobile, e non un capello della sua testa, non un lembo del suo abito si agitavano mentre lei mi guardava intenta, alzando il bambino. Così la persi di vista. Così la rividi in seguito, nei miei sonni di collegio - una silenziosa presenza accanto al mio letto - che mi guardava con lo stesso volto intento - tenendo il suo bambino fra le braccia. IX • UN COMPLEANNO MEMORABILE Sorvolo tutto quello che accadde in collegio finché, in marzo, giunse il mio compleanno. Non ricordo nulla, se non che Steerforth era più ammirevole che mai. Se ne sarebbe andato alla fine di quel semestre, se non prima, e mi appariva più animato e indipendente di prima, e quindi più attraente; ma oltre questo non ricordo altro. Il grande ricordo che segna questa epoca nella mia mente sembra essersi inghiottiti tutti i ricordi minori restando isolato. Mi è perfino difficile credere che ci sia un intervallo di due interi mesi fra il mio ritorno al Collegio Salem e l'arrivo del mio compleanno. Posso solo accettare che il fatto andò così perché so che dovette andare così; altrimenti sarei convinto che non vi fu alcuna interruzione di tempo e che un avvenimento seguì l'altro da presso. Come ricordo bene quel giorno! Sento ancora l'odore della nebbia che gravava sul luogo; vedo la bianca, spettrale gelata dietro di essa; mi sento i capelli cosparsi di brina cadermi freddi e umidi sulle guance; guardo lungo la fosca prospettiva dell'aula, con una crepitante candela qua e là a illuminare il mattino brumoso, e l'alito dei ragazzi che sale in spire fumose nel freddo crudo mentre loro si soffiano sulle dita e battono i piedi sul pavimento. Era dopo la colazione, e ci avevano appena richiamati dentro dal cortile di ricreazione, quando il signor Sharp entrò dicendo: «David Copperfield è chiamato in salotto.» Mi aspettavo un cestino da Peggotty, e mi illuminai a quell'annuncio. Alcuni dei ragazzi che mi erano intorno misero avanti i loro diritti a non esser dimenticati nella distribuzione di quel che vi sarebbe stato di buono, e io uscii dal mio posto con grande alacrità. «Non aver fretta, David,» disse il signor Sharp. «Abbiamo tempo a sufficienza, ragazzo mio, non aver fretta.» Avrei potuto meravigliarmi del tono commosso con cui parlava, se vi avessi fatto attenzione; ma ci pensai solo più tardi. Mi affrettai verso il salotto: e là trovai il signor Creakle, seduto a colazione con la sua sferza e un giornale davanti, e la signora Creakle con una lettera aperta in mano. Ma nessun cestino. «David Copperfield,» disse la signora Creakle facendomi accomodare su un divano e sedendosi accanto a me. «Devo parlarti in particolare. Ho qualche cosa da dirti, ragazzo mio.» Il signor Creakle, a cui naturalmente volsi lo sguardo, scosse la testa senza guardarmi e soffocò un sospiro con una gran fetta di pane imburrato. «Tu sei troppo giovane per sapere come il mondo cambia di giorno in giorno,» proseguì la signora Creakle, «e come, su di esso, la gente se ne va continuamente. Ma tutti noi dobbiamo impararlo, David; alcuni quando sono ancora giovani, altri da vecchi, e altri in tutti i momenti della loro vita.» La guardai molto compreso. «Quando sei partito da casa, alla fine delle vacanze,» disse la signora Creakle dopo una pausa, «stavano tutti bene?» E dopo un'altra pausa: «Stava bene anche tua mamma?» Tremai senza sapere con precisione perché, e continuai a guardarla gravemente, senza tentar di rispondere. «Perché,» disse lei, «sono dolente di dirti di avere saputo questa mattina che tua mamma è molto malata.» Si levò una nebbia tra la signora Creakle e me, e per un momento mi parve che la sua immagine vi si muovesse dentro. Poi sentii lacrime ardenti scorrermi sul volto e tornai di nuovo in me. «È malata gravemente,» aggiunse. Adesso sapevo tutto. «È morta.» Non c'era bisogno di dirmelo. Io ero già scoppiato in un pianto desolato e mi ero sentito orfano nel vasto mondo. Fu molto amorevole con me. Mi tenne lì tutto il giorno lasciandomi solo ogni tanto; e io piangevo, e mi addormentavo stanco di piangere, e mi svegliavo per piangere ancora. Quando non ebbi più lacrime, cominciai a pensare; e allora più grave fu l'oppressione sul mio petto e il mio dolore divenne una pena sorda per cui non vi era sollievo. E tuttavia i miei pensieri si svolgevano con una certa oziosa futilità; non erano intenti alla calamità che mi opprimeva il cuore, ma vagavano pigramente presso di essa. Pensavo alla nostra casa chiusa e silenziosa. Pensavo al piccolino che, a quanto mi aveva detto la signora Creakle, andava languendo da qualche tempo e tutti pensavano sarebbe morto egualmente. Pensavo alla tomba di mio padre nel cimitero, presso la nostra casa, e a mia madre, giacente là sotto l'albero che conoscevo così bene. Quando fui lasciato solo, salii su di una sedia e mi guardai nello specchio per vedere quanto fossero rossi i miei occhi e angosciato il mio volto. Considerai se le mie lacrime, ora che erano trascorse alcune ore, fluivano realmente in minor misura, come mi sembrava, e che cosa, in rapporto con la mia perdita, mi avrebbe commosso di più al pensarvi, tornando a casa... perché dovevo tornare a casa per il funerale. Sono consapevole di aver sentito che vi era adesso in me una particolare dignità in confronto agli altri ragazzi e che, nel mio dolore, ero divenuto importante. Se mai un bambino fu colpito da un sincero dolore, fui io quello. Ma ricordo che questa importanza fu per me una sorta di soddisfazione quando, nel pomeriggio, andai a passeggiare nel cortile di ricreazione mentre i ragazzi erano a scuola. Quando li vidi lanciarmi occhiate dalle finestre avviandosi alle loro lezioni, mi sentii insigne e presi un aspetto più malinconico, e camminai più lentamente. Quando le lezioni ebbero termine ed essi uscirono e mi rivolsero la parola, trovai molto generoso in me non essere altero con alcuno di loro e occuparmi di ognuno esattamente come prima. Dovevo partire la sera successiva; non con la vettura di posta ma con la pesante diligenza notturna che chiamavano la Contadina ed era principalmente usata da gente di campagna che compiva brevi tragitti intermedi lungo l'intero percorso. Quella sera non ci furono racconti, e Traddles insisté per prestarmi il suo cuscino. Ignoro quale vantaggio pensasse che potessi trarne, perché avevo il mio: ma era tutto quello che poteva prestarmi, povero ragazzo, a parte un foglio di carta da lettere pieno di scheletri; e quello me lo diede al momento della partenza come un lenimento alla mia pena e un contributo alla pace del mio spirito. Lasciai il collegio Salem l'indomani nel pomeriggio. Non pensavo, nel lasciarlo, che non vi sarei tornato più. Viaggiammo lentamente per tutta la notte e non raggiungemmo Yarmouth prima delle nove o delle dieci del mattino. Mi guardai attorno cercando il signor Barkis, ma non c'era; in sua vece un vecchietto grasso, dal fiato corto e l'aspetto allegro, vestito di nero, con stinti fiocchetti di nastro al ginocchio dei calzoncini, calze nere e cappello a larga tesa, venne sbuffando al finestrino della diligenza e disse: «Il signorino Copperfield?» «Sì, signore.» «Volete venire con me, signorino, per favore?» disse aprendo lo sportello, «avrò il piacere di condurvi a casa.» Misi la mano nella sua, domandandomi chi fosse, e ce ne andammo a un negozio in una via stretta, sul quale era scritto: OMER, TESSUTI, SARTORIA, MERCERIA, ARREDI FUNEBRI ECC. Era un negozietto chiuso e soffocante, pieno di ogni sorta di vesti, fatte e disfatte, compresa una vetrina stipata di cappelli di castoro e di berretti. Entrammo in una stanzuccia dietro il negozio, dove vidi tre ragazze che lavoravano in un mare di stoffa nera, ammucchiata sul tavolo, e di brandelli e ritagli di essa, sparsi su tutto il pavimento. Vi era un bel fuoco e un odore di crespo caldo che mozzava il fiato: non sapevo allora che odore fosse, ma adesso lo so. Le tre ragazze, che apparivano molto occupate, ma a loro agio, alzarono gli occhi per guardarmi e poi tornarono al lavoro. Punto dopo l'altro, punto dopo l'altro, punto dopo l'altro. In egual tempo, da un laboratorio in fondo a un piccolo cortile su cui dava la finestra, veniva un suono di martello regolare che assumeva una sorta di cadenza: rat - tat-tat, rat - tat-tat, rat - tat-tat, senza variazioni. «Bene,» disse la mia guida a una delle tre ragazze, «come andiamo, Minnie?» «Saremo pronte in tempo per la prova,» rispose lei allegramente senza guardarlo. «Non aver paura, papà.» Il signor Omer si tolse il cappello dalla larga tesa, si sedette e ansimò. Era così grasso che dovette ansare parecchio prima di poter dire: Benissimo.» «Papà,» disse Minnie scherzando, «che tricheco che stai diventando!» «Be', non so come sia, mia cara,» rispose lui meditandoci, «ma è proprio così.» «Ami troppo i tuoi comodi, vedi,» disse Minnie. «Prendi le cose con tanta calma.» «Prenderle diversamente non serve, cara mia,» rispose il signor Omer. «No davvero,» confermò la figlia. «Qui siamo tutti abbastanza allegri, grazie al cielo! Non è vero, papà?» «Spero di sì, cara,» disse il signor Omer. «E adesso che ho ripreso fiato, tirerò giù le misure a questo giovane studente. Volete passare nel negozio, signorino Copperfield?» Precedetti il signor Omer in ottemperanza alla sua preghiera; ed egli, dopo avermi mostrato un rotolo di panno che definì extra superiore e un lutto perfino troppo bello per parentele di qualsiasi genere, mi prese varie misure annotandole in un registro. Mentre le annotava richiamò la mia attenzione sul suo assortimento e su certe mode che, diceva, erano «appena venute su» e su certe altre che, diceva, erano «appena andate via». «E, a causa di tutto questo va e vieni noi ci rimettiamo spesso un bel mucchietto di denaro,» disse il signor Omer. «Ma le mode sono come gli esseri umani. Anche loro arrivano, nessuno sa quando, perché o come; e anche loro se ne vanno, nessuno sa come, quando o perché. Tutto è come la vita, a mio parere, se considerate la cosa da questo punto di vista.» Io ero troppo angosciato per discutere il problema, che probabilmente sarebbe stato al di là dei miei limiti in ogni circostanza; e il signor Omer mi riportò nella stanzetta respirando con qualche difficoltà lungo il percorso. Poi, affacciandosi a una piccola e ripidissima discesa di gradini dietro una porta, gridò: «Portate su quel tè con pane e burro!» il quale tè, dopo un certo tempo, durante il quale me ne rimasi seduto a guardarmi intorno e a pensare e ad ascoltare il fruscìo degli aghi nella stanzetta e la cadenza martellata dall'altra parte del cortile, apparve su di un vassoio e risultò che era per me. «Io sapevo già di voi,» disse il signor Omer dopo avermi contemplato per alcuni minuti durante i quali non feci molto onore alla colazione perché tutte quelle cose nere mi toglievano l'appetito, «sapevo già di voi da molto tempo, mio giovane amico.» «Davvero, signore?» «Da quando siete in vita,» confermò il signor Omer. «Potrei dire anche da prima. Prima di voi ho conosciuto vostro padre. Era alto cinque piedi e nove pollici e mezzo, e adesso giace venticinque piedi sotto terra.» «Rat - tat-tat, rat - tat-tat, rat - tat-tat,» si sentiva in fondo al cortile. «Giace venticinque piedi sotto terra a dir poco,» continuò affabilmente il signor Omer. «Non ricordo bene se fu per sua richiesta o per desiderio della signora.» «Sapete come sta il mio fratellino, signore?» chiesi. Il signor Omer scosse la testa. «Rat - tat-tat, rat - tat-tat, rat - tat-tat.» «È fra le braccia della sua mamma,» rispose. «Oh, povero piccolo! È morto?» «Non addoloratevi più di quanto non possiate farne a meno,» disse il signor Omer. «Sì, il bambino è morto.» Le mie ferite si riaprirono a questa notizia. Lasciai la colazione, appena assaggiata, e andai a posare la testa a un altro tavolo, in un angolo della stanzetta, che Minnie si affrettò a sgombrare per paura che macchiassi con le mie lacrime i panni da lutto che vi eran sopra. Era una graziosa e brava ragazza, e mi scostò i capelli dagli occhi sfiorandomeli con affettuosa delicatezza; ma era felice di avere quasi terminato, nel tempo richiesto, il suo lavoro, e così diversa da me! Poco dopo il martellìo finì e un giovanotto di bell'aspetto attraversò il cortile per entrare nella stanza. Aveva un martello in mano e la bocca piena di piccoli chiodi che dovette togliersi prima di poter parlare. «Bene, Joram!» disse il signor Omer. «E tu come vai?» «Benissimo,» rispose Joram. «Tutto fatto, signore.» Minnie arrossì un poco e le altre due ragazze si sorrisero. «Diamine! Allora ci hai lavorato stanotte al lume di candela mentre ero al circolo! È così?» esclamò il signor Omer chiudendo un occhio. «Sì,» confermò Joram. «Poiché avevate detto che, se finivo in tempo, avremmo potuto fare una giterella tutti insieme, Minnie, io... e voi.» «Oh! Pensavo che tu volessi lasciarmi fuori,» disse il signor Omer ridendo fino ad avere un accesso di tosse. «Poiché siete stato così buono da dir questo,» concluse il giovanotto, «mi ci sono messo d'impegno, capite. Volete dirmi la vostra opinione sul lavoro?» «Sicuro,» disse il signor Omer alzandosi. «Mio caro,» e si fermò volgendosi a me, «vorreste vedere la...» «No, papà,» lo interruppe Minnie. «Pensavo che potesse fargli piacere,» rispose il signor Omer. «Ma forse hai ragione tu.» Non posso dire come sapessi che era la bara della mia cara mamma, quella che andavano a vedere. Non avevo mai sentito costruirne una, né, che sappia, ne avevo mai viste: ma mi era venuto in mente quello che doveva essere quel rumore appena lo ebbi udito; e, quando il giovanotto entrò, non ebbi dubbi su quello che aveva fatto. Avendo ora finito il lavoro, le due ragazze di cui non avevo udito i nomi, si tolsero di dosso con la spazzola i ritagli e i fili e andarono nel negozio per metterlo in ordine e ricevere i clienti. Minnie rimase nel retro per ripiegare quello che avevano fatto e disporlo in due ceste. Fece tutto questo sulle sue ginocchia canticchiando, frattanto un'arietta allegra. Joram, che non avevo dubbi fosse il suo innamorato, entrò e le rubò un bacio mentre ella era così affaccendata (parve non preoccuparsi minimamente di me), e disse che suo padre era andato per il calesse e che lui doveva affrettarsi per farsi trovar pronto. Poi uscì di nuovo; e allora lei si mise in tasca il ditale e le forbici, si infilò accuratamente l'ago infilato di nero sul petto della sua veste, e indossò svelta l'abito da passeggio guardandosi a un piccolo specchio dietro la porta nel quale vidi riflesso il suo volto felice. Osservai tutto questo seduto al tavolo nell'angolo, con la testa abbandonata sulla mano e i pensieri che vagavano sulle cose più diverse. Presto il calesse si fermò davanti al negozio e vi furono caricate per prime le ceste, poi io, e infine salirono loro tre. Ricordo che era una sorta di veicolo per metà calesse e per metà furgone, dipinto di scuro e tirato da un cavallo nero dalla lunga coda. C'era spazio in abbondanza per tutti noi. Non credo di aver mai provato in vita mia (adesso sono forse più saggio) un sentimento strano come fu quello di trovarmi con loro, ricordare quale era stato il loro lavoro e vederli godersi la scarrozzata. Non ero irritato con loro; ne avevo piuttosto paura, come se fossi stato gettato fra esseri con i quali non sentivo alcuna comunità di natura. Erano allegrissimi. Il vecchio sedeva davanti per guidare, e i due giovani stavano dietro di lui e, ogni volta che egli parlava loro, si tendevano in avanti, l'uno da una parte del suo volto paffuto, l'altro dall'altra, ascoltandolo con molta attenzione. Avrebbero parlato anche a me, ma io mi tenevo indietro, tutto avvilito nel mio angolo, sgomentato dalle loro espressioni amorose e dalla loro ilarità, sebbene fosse tutt'altro che rumorosa, e quasi meravigliato che nessun castigo piombasse su di loro per la durezza del loro cuore. Così, quando si fermarono per ristorare il cavallo e mangiarono e bevvero in tutta allegria, io non potei toccare nulla di quello che essi prendevano e mantenni intatto il digiuno. E così, quando giungemmo a casa, mi lasciai cadere giù dalla parte posteriore del veicolo quanto più in fretta potei per non trovarmi in loro compagnia davanti a quelle solenni finestre che mi guardavano cieche, come occhi un tempo fulgidi e ora chiusi. E oh, quanto poco ebbi bisogno di pensare a quello che più avrebbe potuto spingermi al pianto, al mio ritorno, vedendo la finestra della stanza di mia madre e, accanto ad essa, quella che, nei tempi felici, era stata la mia! Mi trovai fra le braccia di Peggotty prima di raggiungere la porta, ed essa mi condusse in casa. Il suo dolore esplose veemente nel primo vedermi; ma subito si controllò, e mi parlò sommessa, e avanzò silenziosa come se la morta potesse essere disturbata. Seppi che da lungo tempo non andava a letto. Di notte continuava a restar seduta per vegliare. Finché la sua povera cara era su questa terra, diceva, non l'avrebbe mai abbandonata. Il signor Murdstone non badò affatto a me quando entrai nel salotto in cui era, ma rimase seduto accanto al fuoco, piangendo silenziosamente e meditando nella sua poltrona. La signorina Murdstone, che era affaccendata alla scrivania coperta di lettere e di fogli, mi tese le fredde unghie e mi chiese, con un sussurro metallico, se mi avevano preso le misure per il lutto. Risposi: «Sì.» «E le camicie,» disse la signorina Murdstone, «le hai riportate a casa?» «Sì, signora. Ho riportato a casa tutte le mie vesti.» Questa fu tutta la consolazione che la sua fermezza mi concesse. Non dubito che, in tale occasione, provasse un raffinato piacere nell'esibire quello che chiamava il suo autocontrollo, la sua fermezza, la sua forza di mente, il suo senso comune e tutto il diabolico elenco delle sue sgradevoli doti. Era particolarmente orgogliosa del suo senso pratico; e lo dispiegava adesso riducendo tutto a penna e inchiostro senza che nulla la commuovesse. Per tutto il resto del giorno, e in seguito da mattina a sera, rimase seduta alla scrivania grattando compostamente con un'aspra penna, parlando a chiunque con lo stesso imperturbabile bisbiglio, senza mai rilassare un muscolo del suo volto, o addolcire il tono della sua voce, o mostrarsi con un atomo del suo vestito in disordine. Suo fratello prendeva un libro ogni tanto, ma non glielo vidi mai leggere. Lo apriva e lo guardava come se stesse leggendo, ma rimaneva per un'ora intera senza voltar pagina, e poi lo rimetteva al suo posto e camminava su e giù per la stanza. Io, di solito, stavo seduto con le mani intrecciate a guardarlo e a contare i suoi passi un'ora dopo l'altra. Raramente parlava alla sorella e mai a me. Sembrava essere l'unica cosa inquieta, a eccezione dei pendoli, nell'immobilità della casa. In questi giorni che precedettero il funerale, io vidi poco Peggotty, se non che, scendendo o salendo le scale, la trovavo sempre vicino alla stanza in cui giacevano mia madre e il suo bambino; inoltre veniva da me ogni sera e si sedeva al capo del mio letto mentre mi addormentavo. Un giorno o due prima della sepoltura - penso si trattasse di un giorno o due ma mi rendo conto della confusione che è nella mia mente per quel che riguarda quel triste periodo in cui nulla sembra indicare una progressione - ella mi condusse nella stanza. Ricordo solo che, sotto qualche cosa di bianco che copriva il letto, con un piacevole senso di lindo e di fresco tutt'intorno, mi parve che giacesse, divenuta corpo, la solenne immobilità della casa; e che, quando ella cercò di trarre delicatamente indietro la coperta, io gridai: «Oh no! oh no!» e le trattenni la mano. Se il funerale fosse avvenuto ieri non potrei averne un ricordo più vivo. Perfino l'aria del salotto buono quando varcai la soglia, il fuoco brillante, lo scintillare del vino nelle caraffe, le decorazioni dei bicchieri e dei piatti, il lieve e dolce profumo della torta, l'odore del vestito della signorina Murdstone, e le nostre vesti nere. Il signor Chillip è nella stanza e viene a parlare con me. «Come state, signorino David?» mi dice affabilmente. Non posso rispondergli che sto bene. Gli do la mano, che egli mi tiene nella sua. «Povero me!» esclama il signor Chillip sorridendo mitemente, con qualche cosa di brillante nell'occhio. «I nostri piccoli amici ci crescono sotto gli occhi. Crescono senza che ce ne accorgiamo, signora.» E si rivolge alla signorina Murdstone, che non risponde. «Come si è sviluppato, signora!» dice il signor Chillip. La signorina Murdstone risponde solo con un cipiglio e un cenno formale: il signor Chillip, sconfitto, si ritira in un angolo portandomi con sé e non apre più bocca. Lo noto perché noto tutto quello che avviene, non perché mi curi di me o me ne sia mai curato da quando sono tornato a casa. E adesso il campanello comincia a suonare e arrivano il signor Omer con un altro per prepararci. Come Peggotty mi soleva dire tanto tempo fa, coloro che avevano accompagnato mio padre alla stessa tomba venivano preparati nella stessa stanza. Siamo il signor Murdstone, il nostro vicino signor Grayper, il signor Chillip e io. Quando usciamo, i portatori e il loro carico sono nel giardino; e procedono davanti a noi giù per il sentiero, e oltre gli olmi, e attraverso il cancello e nel cimitero dove ho udito tante volte gli uccelli cantare nelle mattine d'estate. Stiamo fermi attorno alla tomba. Il giorno mi sembra diverso da ogni altro giorno, la luce non ha lo stesso colore: ha un colore più fosco. E ora v'è un silenzio solenne, che abbiamo portato con noi dalla casa insieme a ciò che riposa nella polvere; e, mentre restiamo così, a testa nuda, odo la voce del pastore che suona lontana, nell'aria aperta, e tuttavia chiara e distinta, nel pronunciare: «Io sono la resurrezione e la via, dice il Signore!» Allora odo dei singhiozzi e, appartata fra gli astanti, vedo quella serva buona e fedele che, fra tutti gli abitanti della terra, io amo di più e a cui, nel mio cuore infantile, sono certo che il Signore dirà un giorno: «Hai agito bene.» Vi sono molte facce che conosco, nella piccola folla; volti che ho conosciuto in chiesa, quando il mio si volgeva continuamente attorno; volti che mia madre vide per la prima volta quando giunse al villaggio nel fiore della sua giovinezza. Io non bado a loro - non bado a nulla oltre il mio dolore - e tuttavia li vedo e li riconosco tutti; e anche nel fondo, molto lontana, vedo Minnie intenta, che lancia ogni tanto occhiate al suo innamorato che mi sta accanto. Tutto è finito, la fossa è stata riempita e ci volgiamo per andar via. Dinanzi a noi sorge la nostra casa, così graziosa e immutata, così collegata nella mia mente con l'idea recente di ciò che è scomparso, che tutte le mie angosce non sono state nulla di fronte a quella che essa richiama. Ma mi portano via; e il signor Chillip mi parla; e, quando siamo a casa, mi avvicina dell'acqua alle labbra; e, quando gli chiedo il permesso di salire nella mia stanza, mi congeda con la delicatezza di una donna. Tutto questo, lo ripeto, è cosa di ieri. Eventi successivi sono volati via da me verso quella sponda dove tutte le cose dimenticate riappariranno, ma questo rimane come un'alta rocca sull'oceano. Sapevo che Peggotty sarebbe venuta nella mia stanza. La pace sabatica di quel giorno (era così simile a una domenica! ma l'ho dimenticato) si confaceva a entrambi. Mi si sedette accanto sul mio lettino; e, tenendomi la mano, portandosela a volte alle labbra, carezzandomela a volte con le sue, quasi avesse cercato di consolare il mio fratellino, mi raccontò, a suo modo, tutto quello che poteva dirmi su quanto era avvenuto. «Non stava più bene da molto tempo,» disse Peggotty. «Aveva la mente piena di incertezze e non era felice. Quando nacque il bambino, credetti dapprima che si sarebbe rimessa, ma era troppo delicata e cominciò a deperire di giorno in giorno. Prima che venisse il bambino, le piaceva spesso starsene seduta da sola, e allora piangeva; ma in seguito prese l'abitudine di cantare per lui... così dolcemente che una volta, nell'udirla, pensai che era come una voce nell'aria, che andasse dileguando. «Negli ultimi tempi credo che fosse divenuta ancora più timida e più spaventata; ogni parola aspra era un colpo per lei. Ma con me era sempre la stessa. Non cambiò mai con la sua sciocca Peggotty, no, la mia cara bambina.» Qui Peggotty si interruppe e, per un poco, mi batté dolcemente sulla mano. «L'ultima volta che la vidi come era un tempo fu la sera che tornasti a casa, bambino mio. Il giorno che partisti, mi disse: ‹Non rivedrò più il mio caro piccolo. Me lo dice qualche cosa, e so che dice la verità.› «Dopo di allora tentò di tenersi su; e molte volte, quando le dicevano che era spensierata e gaia, faceva credere di esserlo davvero; ma ormai erano tutte cose passate. Non disse mai a suo marito quello che aveva detto a me... aveva paura di parlarne con chiunque altro... finché una sera, poco più di una settimana prima che avvenisse, gli disse: ‹Mio caro, credo di star per morire.› «‹Adesso non ci penso più, Peggotty,› mi disse quella sera quando la misi a letto. «Ci crederà sempre più, poveretto, ogni giorno di più per quei pochi giorni che rimangono; e poi sarà finito. Sono molto stanca. Se questo è sonno, resta vicina a me mentre dormo; non lasciarmi. Dio benedica i miei due figli! Dio protegga e custodisca il mio bambino senza padre.› «Da allora non la lasciai più,» disse Peggotty. «Spesso parlava con quei due da basso - perché gli voleva bene; non poteva fare a meno di voler bene a quelli che le erano attorno - ma, quando si allontanavano dal suo letto, sempre si volgeva a me, come se non ci fosse riposo se non dove era Peggotty, e non si addormentava mai in altro modo. «L'ultima notte, la sera, mi baciò e disse: ‹Se dovesse morire anche il mio piccolo, Peggotty, ti prego, fa' che me lo mettano fra le braccia e ci seppelliscano insieme.› (E fu fatto, perché quel povero agnellino visse solo un giorno più di lei.) ‹Fa' che il mio diletto ragazzo venga con voi al luogo del nostro riposo,› disse, ‹e digli che la sua mamma, quando giaceva qui, lo ha benedetto non una volta ma mille volte.›.» Seguì un altro silenzio e un altro lieve battito sulla mia mano. «Era già notte avanzata,» continuò Peggotty, «quando mi chiese da bere; e quando ebbe bevuto, mi rivolse un sorriso così mansueto, povera cara!... Così bello! «Era sorta l'alba, e il sole stava alzandosi quando mi ricordò quanto era sempre stato buono e riguardoso con lei il signor Copperfield, e quanta pazienza aveva avuto e come le dicesse, quando lei dubitava di se stessa, che un cuore amante era migliore e più forte di un cuore saggio e che lui trovava in lei la felicità. ‹Peggotty cara,› mi disse allora, ‹portami più vicina a te,› perché era molto debole. ‹Mettimi quel tuo braccio amorevole sotto il collo,› mi disse, ‹e voltami verso di te, perché il tuo volto si allontana e voglio che mi sia più vicino.› Feci quello che chiedeva; e, oh, Davy, era venuto il momento in cui si erano avverate le parole che ti dissi quando partisti la prima volta... e lei fu felice di posare la sua povera testa sul braccio della sua stupida, bisbetica, vecchia Peggotty... e morì come un bambino che si addormenti!» Così finì il racconto di Peggotty. Dal momento in cui seppi della morte di mia madre, l'immagine di lei, come era stata negli ultimi tempi si era dileguata dalla mia mente. Da quell'istante la ricordai solo come la giovane madre delle mie prime impressioni, che soleva arrotolarsi e arrotolarsi i suoi lucidi ricci attorno al dito e danzare con me in salotto al crepuscolo. Quello che Peggotty mi aveva raccontato adesso, non solo non mi riportò all'ultimo periodo, ma mi radicò nella memoria la prima immagine. Potrà essere strano, ma è vero. Con la morte ella era tornata a volo alla sua calma e serena gioventù, cancellando tutto il resto. La madre che giaceva nella tomba era la madre della mia infanzia; la piccola creatura fra le sue braccia ero io stesso quale ero stato un tempo, placato per sempre sul suo seno. X • VENGO TRASCURATO E POI SI PROVVEDE A ME Il primo atto di amministrazione che la signorina Murdstone compì quando fu trascorso il giorno della cerimonia solenne e la luce fu liberamente ammessa nella casa, fu di dare a Peggotty un mese di preavviso. Per quanta avversione Peggotty potesse avere per quel servizio, credo che lo avrebbe continuato per amor mio, preferendolo a quanto di meglio ci fosse al mondo. Mi disse che dovevamo separarci e mi spiegò perché; e ci condolemmo a vicenda con tutta sincerità. Per quel che riguardava il mio futuro, non fu detta una parola né fatto un passo. Direi che sarebbero stati felici se avessero potuto sbarazzarsi anche di me con un mese di preavviso. Una volta radunai tutto il mio coraggio per chiedere alla signorina Murdstone quando sarei tornato in collegio; e lei mi rispose seccamente di credere che non ci sarei tornato più. Non mi fu detto altro. Ero quanto mai ansioso di sapere che cosa avrebbero fatto di me, e così pure Peggotty; ma né lei né io riuscivamo a cogliere la minima informazione sull'argomento. Era avvenuto un cambiamento, nella mia condizione, che, mentre mi liberava da una quantità di guai attuali, avrebbe potuto procurarmi, se fossi stato capace di considerarlo a fondo, guai ben maggiori nel futuro. Si trattava di questo: tutte le costrizioni da cui ero stato oppresso, furono abbandonate a un tratto. Non solo non mi si chiedeva più di occupare il mio uggioso posto in salotto, ma in diverse occasioni, quando mi sedetti lì, la signorina Murdstone mi accennò di andarmene con un cipiglio. Non solo non mi si ordinò di evitare la compagnia di Peggotty, ma nessuno si curò di cercarmi né di chiedermi dove fossi purché me ne stessi lontano dai piedi del signor Murdstone. Dapprima ebbi il quotidiano terrore che volesse riprendere in mano egli stesso la mia educazione o che si dedicasse a essa la signorina Murdstone; ma presto cominciai a pensare che questi timori erano senza fondamento e che tutto quello che potevo aspettarmi era di essere abbandonato a me stesso. Non mi sembra che questa scoperta mi procurasse allora troppa pena. Ero ancora stordito dal colpo della morte di mia madre e in uno stato di indolenza per tutto ciò che fosse accessorio. Ricordo infatti di avere pensato, in certi momenti, all'eventualità di non essere più educato né curato e di venir su trasandato e cupo, trascinando una vita oziosa per il villaggio; come pure alla possibilità di liberarmi da questo destino andandomene in qualche parte, come un eroe di romanzo, a cercar fortuna. Ma queste erano visioni passeggere, sogni a occhi aperti che facevo ogni tanto quasi li vedessi lievemente dipinti o scritti sulle pareti della mia stanza, e che, dileguando, ne lasciavano ancora vuota la superficie. «Peggotty,» mormorai pensoso una sera mentre mi scaldavo le mani al fuoco della cucina, «il signor Murdstone mi ha in uggia ancora più di prima. Non gli sono mai stato molto simpatico, Peggotty, ma adesso cerca di non vedermi nemmeno, se può.» «Forse sarà perché è addolorato,» disse Peggotty accarezzandomi i capelli. «Anch'io sono addolorato, Peggotty. Se lo credessi solo addolorato, non ci baderei affatto. Ma non è questo; ho, no, non si tratta davvero di questo.» «Come lo sai che non si tratta di questo?» chiese Peggotty dopo un silenzio. «Oh, il suo dolore è un'altra cosa, del tutto diversa. È addolorato in questo momento, mentre se ne sta seduto accanto al fuoco con la signorina Murdstone; ma se entrassi io, Peggotty, sarebbe qualche cosa di più che addolorato.» «E che cosa sarebbe?» chiese Peggotty. «Sarebbe furioso,» risposi imitando involontariamente il suo cupo cipiglio. «Se fosse solo addolorato non mi guarderebbe come fa. Io sono soltanto addolorato, e questo mi rende più buono.» Peggotty non disse nulla per un po' di tempo; e io continuai a scaldarmi le mani, silenzioso come lei. «Davy,» disse infine. «Sì, Peggotty.» «Ho tentato, mio caro, in tutti i modi che ho potuto escogitare - tutti quelli che mi si presentavano e tutti quelli che non mi si presentavano, insomma - di trovare un servizio conveniente qui a Blunderstone; ma non c'è niente di simile, amor mio.» «E che cosa intendi di fare, Peggotty?» chiesi io ansioso. «Pensi di andare a cercar fortuna?» «Credo che sarò costretta a ritirarmi a Yarmouth,» rispose Peggotty, «e stabilirmi là.» «Avresti potuto andar più lontano,» dissi illuminandomi un poco, «e sarebbe stato come perderti. Laggiù, mia cara vecchia Peggotty, potrò vederti qualche volta. Non sarai all'altro capo del mondo, non è vero?» «Tutto al contrario, ringraziando Dio!» esclamò Peggotty tutta ravvivata. «Finché starai qui, piccolo mio, verrò a vederti tutte le settimane che Dio manda in terra. Un giorno ogni settimana che passa!» Questa promessa mi tolse un gran peso dal cuore: ma non era ancora tutto perché Peggotty proseguì: «Vedi, Davy, prima di tutto andrò, per un'altra quindicina di giorni, da mio fratello... giusto per avere il tempo di guardarmi intorno e tornare a essere quella che sono. E così ho pensato che forse, visto che adesso non hanno bisogno di te, potrebbero lasciarti venire con me.» Se qualche cosa, che non fosse un mutamento di relazioni con coloro che mi circondavano, eccettuata Peggotty, poteva darmi un senso di piacere in quel periodo, era, più di ogni altro, questo progetto. L'idea di vedermi ancora intorno quei volti onesti, felici di accogliermi; di ritrovare la pace dei dolci mattini domenicali quando le campane suonavano, le pietre cadevano nell'acqua e i battelli si levavano come ombre nella nebbia; di vagabondare su e giù con la piccola Emily raccontandole i miei crucci e trovando incantesimi contro di essi nelle conchiglie e nei sassolini della riva, mi riportava la calma nel cuore. Naturalmente un attimo dopo tutto fu sconvolto dal timore che la signorina Murdstone non desse il suo consenso; ma anche questo fu presto messo a posto perché la signorina venne a fare un'ispezione serale nella dispensa, mentre noi stavamo ancora parlando, e Peggotty, con una temerarietà che mi sbigottì, affrontò subito l'argomento. «Il ragazzo starà in ozio, laggiù,» disse la signorina Murdstone guardando in un vaso di sottaceti, «e l'ozio è la radice di ogni male. Ma di certo starebbe in ozio anche qui... e in qualsiasi altro posto, a parer mio.» Mi accorsi che Peggotty aveva pronta una risposta furiosa; ma se la inghiottì per amor mio e rimase zitta. «Hum!» brontolò la signorina Murdstone sempre con lo sguardo attento ai sottaceti; «quello che più di tutto ha importanza - un'importanza fondamentale - è che mio fratello non sia disturbato e non abbia noie. Penso che sarà meglio acconsentire.» La ringraziai, senza alcuna manifestazione di gioia per paura che ciò potesse indurla a ritirare il suo consenso. Né potei fare a meno di considerarlo una precauzione prudente dopo che ella mi ebbe guardato al di sopra del vaso dei sottaceti con una tale traboccante acidità da far credere che i suoi occhi neri ne avessero assorbito il contenuto. Comunque il permesso fu dato e non fu ritirato; e quando il mese di preavviso ebbe termine, Peggotty e io eravamo pronti alla partenza. Il signor Barkis entrò in casa per prendere i bagagli di Peggotty. Prima di allora non lo avevo mai visto varcare il cancello del giardino. Mi diede un'occhiata, mentre si metteva in spalla la cassa più grande e si avviava, che mi parve significativa, se pur qualche cosa di significativo poteva mai apparire sul volto del signor Barkis. Peggotty, naturalmente, era molto depressa nel lasciare quella che per tanti anni era stata la sua casa e dove si erano formati i due più profondi affetti della sua vita, per mia madre e per me. Il mattino presto era anche andata a fare una visita al cimitero; salì sul carro e si sedette col fazzoletto davanti agli occhi. Finché rimase in quella posizione, il signor Barkis non diede alcun segno di vita. Stava seduto al suo solito posto e con la sua solita attitudine come un grosso pupazzo imbottito. Ma quando lei cominciò a guardarsi attorno e a parlarmi, scosse la testa e più volte fece larghi sorrisi. Non ho la minima nozione di a chi li rivolgesse né che cosa volesse intendere con essi. «È una bella giornata, signor Barkis,» dissi come atto di cortesia. «Brutta non è,» rispose il signor Barkis, che in genere controllava il suo linguaggio e non amava compromettersi. «Adesso Peggotty sta proprio bene, signor Barkis,» notai per sua soddisfazione. «Davvero?» disse il signor Barkis. Dopo averci riflettuto sopra con un'aria sagace, il signor Barkis le diede un'occhiata e disse: «State proprio bene?» Peggotty rise e rispose di sì. «Ma dico realmente e veramente, sapete. State bene?» mugolò il signor Barkis scivolandole più vicino sul sedile e dandole di gomito. «State bene? Proprio bene realmente e veramente. State bene, eh?» A ognuna di queste domande il signor Barkis si spingeva ancor più vicino a lei e le dava un altro colpetto di gomito; così che, in ultimo, ci trovammo tutti ammucchiati insieme sull'angolo sinistro del carro e io ero così strizzato da sentirmi mancare il fiato. Poiché Peggotty richiamò la sua attenzione sulle mie pene, il signor Barkis mi lasciò subito un po' di spazio e finì col ritrarsi a poco a poco. Ma non potei fare a meno di notare che egli sembrava convinto di aver trovato un meraviglioso espediente per esprimersi in modo chiaro, piacevole e arguto senza l'inconveniente di dover inventare una conversazione. E, ripensandoci, ridacchiò fra sé per qualche tempo in modo molto manifesto. A poco a poco tornò a Peggotty e, ripetendo: «State proprio bene?» si abbatté su di noi come prima finché non mi restò quasi un briciolo di fiato in corpo. Poco dopo fece la stessa incursione su di noi con la stessa domanda e lo stesso risultato. Alla fine, tutte le volte che lo vedevo avvicinarsi mi alzavo e, in piedi sul predellino, facevo finta di ammirare il panorama; dopo di che mi trovai molto meglio. Fu così gentile da fermarsi a un'osteria, espressamente per noi, e convitarci a base di montone arrosto e birra. Perfino in un momento in cui Peggotty stava bevendo fu preso dal desiderio di uno di questi approcci e per poco non la fece soffocare. Ma, avvicinandoci alla fine del nostro viaggio, ebbe altre cose da fare e minor tempo per la galanteria; e quando arrivammo sul selciato di Yarmouth, fummo tutti troppo scossi e sballottati, temo, per aver modo di pensare ad altro. Il signor Peggotty e Ham erano ad attenderci al vecchio posto. Ricevettero me e Peggotty con grande affetto e strinsero la mano a Barkis che, col cappello gettato sulla nuca e una certa espressione di vergogna in faccia e, giù giù, fino alle gambe, mi parve presentare un insieme piuttosto inconsistente. Ognuno di loro prese uno dei bauli di Peggotty, e stavamo per andarcene quando il signor Barkis mi fece solennemente segno con l'indice di andare con lui sotto un portico. «Io dico,» mugolò il signor Barkis, «che tutto è andato bene.» Lo guardai in faccia e risposi, con un tentativo di essere molto profondo: «Oh!» «Adesso non è finita qui,» continuò il signor Barkis con un cenno confidenziale. «È andato tutto bene.» Di nuovo risposi: «Oh!» «Voi sapete chi era pronto,» disse il mio amico. «Era Barkis e soltanto Barkis.» Assentii senza capire. «Va tutto bene,» concluse il signor Barkis stringendomi la mano. «Sono vostro amico. Avete cominciato voi a farla andar bene. Va tutto bene.» Nei suoi tentativi di essere particolarmente chiaro, il signor Barkis era così assolutamente misterioso, che io avrei potuto continuare a guardarlo in faccia per un'ora e senza dubbio non avrei cavato da lui maggiori informazioni che dal quadrante di un orologio fermo; sennonché Peggotty mi chiamò. Mentre camminavamo, lei mi domandò che cosa mi avesse detto; e io le risposi che aveva detto che tutto andava bene. «Che sfacciato!» esclamò Peggotty, «ma non me ne importa! Davy caro, che ne diresti se pensassi a sposarmi?» «Diamine... immagino che continueresti a volermi bene, Peggotty, quanto me ne vuoi adesso,» risposi dopo averci pensato sopra un poco. Con gran meraviglia di quelli che passavano per la strada, come dei suoi due parenti che ci precedevano, quella buona creatura fu costretta a fermarsi e abbracciarmi sul posto con mille proteste del suo inalterabile amore. «Dimmi che cosa ne penseresti, caro,» mi domandò ancora quando queste espansioni furono finite e noi ci eravamo rimessi in cammino. «Se pensassi a sposare... il signor Barkis, Peggotty?» «Sì.» «Penserei che sarebbe una bellissima cosa. Perché allora, Peggotty, avresti sempre il carro e il cavallo a disposizione per venirmi a trovare, e potresti farlo per nulla ed esser sicura di venire.» «Che buon senso ha questo amore!» esclamò Peggotty. «A che cosa ho pensato per tutto questo mese? Sì, tesoro; e credo che sarei molto più indipendente, vedi. Senza contare che lavorerei molto più volentieri in una casa mia, adesso, che in quella di qualsiasi altro. Non so che cosa sarei capace di fare, adesso, come domestica di estranei. E sarei sempre vicina al luogo in cui riposa la mia diletta,» aggiunse Peggotty pensosa, «e potrei andare a vederla quando volessi; e quando io giungerò al riposo, potrò essere sepolta non lontano dalla mia cara bambina.» Nessuno di noi disse nulla per un poco. «Ma non ci penserei nemmeno una volta,» riprese Peggotty allegramente, «se il mio Davy ci avesse qualche cosa da ridire... nemmeno se mi facessero la richiesta in chiesa trenta volte tre e mi si dovesse consumare l'anello in tasca.» «Guardami, Peggotty,» le risposi, «e vedi da te se non sono realmente felice e non lo desidero sinceramente!» E davvero lo desideravo con tutto il cuore. «Bene, amor mio,» disse Peggotty dandomi una stretta, «ci ho pensato su notte e giorno in tutti i modi che ho potuto, e spero nel modo giusto; ma voglio pensarci ancora e parlarne a mio fratello; frattanto ce lo terremo per noi, Davy, per te e per me. Barkis è un brav'uomo di animo semplice,» continuò Peggotty, «e se farò con lui il mio dovere credo che sarà colpa mia se non mi troverò... se non starò proprio bene,» concluse ridendo di cuore. Questa citazione del signor Barkis era così appropriata e ci divertì tanto che ridemmo ancora più volte ed eravamo di ottimo umore quando giungemmo in vista della casa del signor Peggotty. Appariva esattamente la stessa, sennonché, forse, appariva un po' rimpiccolita ai miei occhi; e la signora Gummidge ci aspettava sulla porta come se fosse rimasta lì da sempre. Nell'interno era tutto eguale, fino alle alghe marine nel vaso blu nella mia stanza. Entrai nel magazzino e mi guardai attorno: e le stesse aragoste, granchi e gamberi, in preda allo stesso desiderio di attanagliare il mondo in genere, apparivano nello stesso stato di agglomeramento nello stesso vecchio angolo. Ma non riuscivo a vedere la piccola Emily, e allora domandai al signor Peggotty dove fosse. «È a scuola, signore,» mi rispose asciugandosi sulla fronte il sudore, conseguenza dell'aver portato il baule di Peggotty; «sarà a casa,» e guardò l'orologio della Selva Nera, «tra venti minuti o una mezz'ora. Tutti noi sentiamo la sua mancanza, Dio la benedica.» La signora Gummidge diede un gemito. «Allegra, ragazza!» gridò il signor Peggotty. «Io la sento più di ogni altro,» disse la signora Gummidge; «sono una povera creatura sola e derelitta, e lei era quasi l'unica cosa che non mi andava di traverso.» La signora Gummidge, uggiolando e scuotendo la testa, si mise a sventolare il fuoco. Il signor Peggotty, volgendo gli occhi su tutti noi mentre ella era così occupata, disse a voce bassa coprendosi la bocca con la mano: «Pensa al vecchio!» Dal che congetturai a buon diritto che, dalla mia prima visita, nessun miglioramento era avvenuto nel morale della signora Gummidge. Ora, tutto quel luogo era, o avrebbe dovuto essere, delizioso come sempre; e tuttavia non mi faceva la stessa impressione. Ne ebbi piuttosto un senso di delusione. Forse perché la piccola Emily non era in casa. Conoscevo la strada per cui sarebbe tornata, e poco dopo mi trovai a girellare lungo il sentiero per incontrarla. Presto una figura apparve in distanza, e immediatamente riconobbi Emily, che era ancora piccola di statura, sebbene fosse cresciuta. Ma quando mi fu più vicina e io vidi i suoi occhi azzurri ancora più azzurri, e ancor più luce attorno alle fossette delle sue gote, e tutto in lei ancor più grazioso e più gaio, un curioso sentimento s'impadronì di me e mi costrinse a fingere di non riconoscerla e a passarle accanto come se stessi fissando qualche cosa nella lontananza. Se non mi sbaglio, devo aver fatto la stessa cosa anche in seguito, nella mia vita. La piccola Emily non se ne curò affatto; mi vide benissimo, ma, invece di voltarsi e chiamarmi, corse via ridendo. Questo mi costrinse a correrle dietro, e lei andava così veloce che eravamo molto vicini alla casetta quando la raggiunsi. «Oh, sei proprio tu,» disse la piccola Emily. «Diamine, lo sapevi bene chi ero,» dissi io. «E tu non avevi capito chi ero io?» replicò Emily. Io volevo baciarla, ma lei si coprì con le mani le labbra di ciliegia, e disse che adesso non era più una bambina, e fuggì, ridendo più che mai, dentro casa. Sembrava divertirsi a stuzzicarmi, un mutamento che mi stupì moltissimo. La tavola era apparecchiata per il tè, e la nostra piccola cassapanca fu messa al suo vecchio posto, ma, invece di venire a sedersi accanto a me, lei andò a far compagnia alla lamentosa signora Gummidge: e quando il signor Peggotty le chiese perché, si scompigliò i capelli su tutto il volto per nasconderlo e non riuscì a far altro che ridere. «Una micetta è!» disse il signor Peggotty battendole delicatamente sulla spalla con la sua grossa mano. «Proprio così! proprio così!» esclamò Ham. «Signorino Davy, proprio così!» e si sedette volgendole delle risatelle soffocate, in uno stato di ammirazione e di piacere frammisti che gli infuocarono il volto. In realtà la piccola Emily era viziata da tutti loro; e da nessuno più che dal signor Peggotty stesso, del quale poteva far quel che voleva solo andando a posargli la guancia contro gli ispidi favoriti. Questa, almeno, fu la mia opinione quando la vidi far così; e pensai che il signor Peggotty aveva tutte le ragioni. Ma era così affettuosa e dolce, e aveva un modo così cattivante di essere a un tempo timida e astuta, che mi legò a sé più che mai. Era anche di buon cuore; perché quando, seduti attorno al fuoco dopo il tè, il signor Peggotty, nel fumo della sua pipa, fece un'allusione alla perdita che avevo subito, ebbe le lacrime agli occhi e mi rivolse, da un capo all'altro del tavolo, uno sguardo così affettuoso che gliene fui riconoscente dal profondo. «Ah!» disse il signor Peggotty prendendole i ricci e facendoseli scorrere sulla mano come rivi d'acqua, «ecco un'altra orfana, vedete, signore? E qui,» aggiunse colpendo Ham sul petto col rovescio della mano, «ce n'è un altro, sebbene non abbia molto l'aria di esserlo.» «Se avessi voi come tutore, signor Peggotty,» dissi scuotendo la testa, «credo che neanche io mi sentirei molto orfano.» «Ben detto, signorino Davy!» esclamò Ham in estasi. «Evviva! Ben detto. Nemmeno voi vi sentireste! Evviva, evviva!» E qui restituì il colpo al signor Peggotty, e la piccola Emily si alzò per baciare lo stesso signor Peggotty. «E come sta il vostro amico, signore?» mi chiese questi. «Steerforth?» «Eccolo il nome!» gridò il signor Peggotty volgendosi a Ham. «Lo sapevo che era qualche cosa di simile.» «Dicevate che era Rudderford,» osservò Ham ridendo. «Ebbene?» ribatté il signor Peggotty. «Si governa col timone, no? Non ero tanto lontano. Come sta, signore?» «Quando ho lasciato il collegio stava benissimo, signor Peggotty.» «Quello sì che è un amico!» disse il signor Peggotty tendendo la sua pipa. «Se si parla di amici, è un vero amico! Dio mi aiuti, fa piacere a guardarlo!» «È molto bello, no?» dissi, sentendo che il cuore mi si scaldava a questa lode. «Bello?» esclamò il signor Peggotty. «Supera gli altri come... come un... be', non so come che cosa superi gli altri. È così fiero!» «Sì! È proprio il suo carattere,» dissi. «Coraggioso come un leone, e non potete immaginare quanto sia leale, signor Peggotty.» «E suppongo,» proseguì il signor Peggotty guardandomi attraverso il fumo della sua pipa, «che in fatto di istruzione si lascerebbe indietro chiunque.» «Sì,» risposi felice; «sa tutto. Ha un'intelligenza sorprendente.» «Quello sì che è un amico!» mormorò il signor Peggotty scuotendo gravemente la testa. «Sembra che nulla gli costi fatica,» dissi. «Capisce quello che deve fare solo con un'occhiata. È il miglior giocatore di cricket che abbia conosciuto. A dama vi dà tutte le pedine che volete, e vince come niente.» Il signor Peggotty scosse ancora la testa come per dire: «Naturalmente.» «Parla così bene,» continuai, «che nessuno può tenergli testa; e non so che direste, signor Peggotty, se lo sentiste cantare.» Nuova scrollata di capo da parte del signor Peggotty, come per dire: «Non c'è da dubitarne.» «E poi è un ragazzo così generoso, sensibile e nobile,» dissi ormai lanciato nel mio tema preferito, «che è appena possibile fargli tutti gli elogi che merita. Non mi sentirò mai abbastanza riconoscente per la generosità con cui mi ha protetto, io che, nel collegio, ero tanto più giovane e tanto inferiore a lui.» Proseguivo così con grande ardore quando il mio sguardo si arrestò sul volto della piccola Emily, che si protendeva sul tavolo ascoltando con la più profonda attenzione: tratteneva il fiato, i suoi occhi azzurri brillavano come gioielli e le sue gote erano soffuse di rossore. Appariva così singolarmente intenta e graziosa che mi fermai in una sorta di meraviglia; tutti la osservarono in egual tempo perché, quando mi arrestai, risero fissandola. «Emily è come me,» disse Peggotty: «le piacerebbe conoscerlo.» Emily rimase confusa nel sentirsi guardata da tutti, e chinò la testa mentre il suo volto arrossiva ancor più. Poi, alzando gli occhi e guardando attraverso i riccioli scomposti, nel vedere tutti i nostri sguardi ancora rivolti su di lei (io, almeno, sono sicuro che avrei potuto continuare a fissarla per ore), scappò via e non si fece vedere fin quasi al momento di andare a letto. Mi coricai nel vecchio lettino a poppa del battello, e il vento venne mugliando attraverso la pianura come faceva un tempo. Ma, questa volta, non potei fare a meno di fantasticare che gemesse per coloro che non erano più; e invece di temere che il mare potesse gonfiarsi durante la notte e portar via il battello, pensai al mare che era ingrossato dopo l'ultima volta che avevo udito quel fragore, e aveva travolto la mia casa felice. Ricordo che, mentre i suoni del vento e delle acque cominciavano ad affievolirsi nel mio orecchio, inserii una breve clausola nelle mie orazioni e pregai di poter crescere e sposare la piccola Emily, scivolando così dolcemente nel sonno. I giorni passarono in fretta come erano passati la prima volta, eccetto che - e fu una grande eccezione - la piccola Emily ed io andammo raramente a vagabondare sulla spiaggia. Lei aveva lezioni da imparare e lavori di cucito da fare; e rimaneva assente per gran parte del giorno. Ma sentivo che non ci saremmo dati a quei vecchi vagabondaggi nemmeno se fosse stato altrimenti. Per quanto selvaggia e piena di estri infantili, Emily era divenuta una piccola donna più di quanto avessi supposto. Sembrava essersi allontanata enormemente da me in poco più di un anno. Mi voleva bene, ma mi derideva e mi tormentava; quando cercavo di andarle incontro, sgattaiolava per un'altra strada e la trovavo ridente sulla porta nel tornare deluso. I momenti migliori erano quando lei se ne stava quietamente al lavoro, sulla soglia, e io sedevo ai suoi piedi, sul gradino di legno, leggendo per lei. Mi sembra, oggi, di non aver mai visto soli radiosi come in quei fulgidi pomeriggi di aprile; di non aver mai contemplato una figuretta solare come quella che ero solito vedere seduta sulla soglia della vecchia barca; di non aver mai più potuto ammirare quei cieli, quelle acque, quelle barche gloriose che veleggiavano nell'aria dorata. Giusto la prima sera dopo il nostro arrivo, il signor Barkis comparve con un'aria straordinariamente assente e impacciata e con un fagotto di aranci avvolti in un fazzoletto. Poiché non vi fece la minima allusione, si suppose che li avesse dimenticati per caso quando se ne andò; finché Ham, che gli era corso dietro per restituirglieli, tornò con la notizia che erano per Peggotty. Dopo di allora apparve ogni sera esattamente alla stessa ora e sempre con un fagottino, al quale non faceva mai allusione, e che metteva regolarmente dietro la porta per lasciarlo lì. Queste offerte affettive erano del tipo più vario ed eccentrico. Ricordo fra di esse una doppia serie di piedini di porco, un grande puntaspilli, un mezzo staio di mele o giù di lì, un paio di orecchini di giaietto, alcune cipolle di Spagna, un canarino in gabbia e uno zampone salato. Il corteggiamento del signor Barkis, per quanto ricordo, era di un genere tutto particolare. Molto raramente diceva una parola; si sedeva accanto al fuoco quasi nello stesso atteggiamento con cui sedeva sul suo carro e piantava gli occhi addosso a Peggotty, che gli stava di fronte. Una sera, ispirato, credo, da insolito ardore, si precipitò sul pezzetto di candela che lei teneva a portata di mano per incerare il filo, se Io mise nella tasca del panciotto e se lo portò via. Dopo di allora, il suo gran diletto fu di tirarlo fuori quando veniva richiesto, mezzo incollato alla fodera della tasca e quasi allo stato fuso, e di intascarlo nuovamente quando non ce n'era più bisogno. Sembrava godersela un mucchio e non sentire minimamente la necessità di parlare. Anche quando portava fuori Peggotty per una passeggiata nella pianura, credo che non provasse alcuna inquietudine in proposito, accontentandosi di chiederle ogni tanto se stava proprio bene. Ricordo che a volte, quando se n'era andato, Peggotty si tirava il grembiule sul volto e rideva per mezz'ora. In realtà eravamo tutti più o meno divertiti, a eccezione della sventurata signora Gummidge, il cui corteggiamento sembrava essere stato di natura perfettamente parallela, e che era continuamente ricondotta, da queste operazioni, al ricordo del suo vecchio. Alla fine, quando il termine della mia visita stava per scadere, fu annunciato che Peggotty e il signor Barkis avrebbero passato un giorno di vacanza insieme e che la piccola Emily e io li avremmo accompagnati. La notte che precedette ebbi un sonno quanto mai agitato pregustando il piacere di passare un'intera giornata con Emily. Al mattino fummo tutti in piedi per tempo; e, mentre eravamo ancora a colazione, apparve in distanza il signor Barkis, che guidava un calesse verso l'oggetto dei suoi affetti. Peggotty era vestita come al solito, nel suo lindo e semplice lutto; ma il signor Barkis smagliava in una giacca azzurra a cui il sarto aveva dato una così generosa misura che i polsini avrebbero reso inutili i guanti nel più rigido inverno mentre il colletto era così alto che gli tirava su i capelli fino al cocuzzolo. Anche i suoi fulgidi bottoni erano del massimo formato. Completato da pantaloni grigi e panciotto di camoscio, il signor Barkis mi parve un vero fenomeno di rispettabilità. Mentre eravamo tutti in faccende davanti alla porta, vidi il signor Peggotty lì pronto con una vecchia scarpa, che doveva esserci tirata dietro per augurio e che lui porgeva, a questo scopo, alla signora Gummidge. «No, Daniel. Sarebbe meglio che lo facesse qualcun altro,» disse la signora Gummidge. «Io sono una povera donna sola e derelitta, e tutto ciò che non mi ricorda gente sola e derelitta mi va di traverso.» «Su, vecchia ragazza!» gridò il signor Peggotty. «Prendetela e tiratela.» «No, Daniel,» rispose la signora Gummidge lamentandosi e scuotendo la testa. «Se fossi meno sensibile potrei far di più. Voi non siete sensibile come me, Daniel; le cose non vi vanno di traverso e voi non andate di traverso alle cose. È meglio che la tiriate voi.» Ma qui Peggotty, che era andata passando in gran fretta dall'uno all'altro baciando tutti, gridò dalla vettura, in cui frattanto ci eravamo tutti sistemati (Emily e io su due seggioline affiancate) che doveva farlo la signora Gummidge. Così la signora Gummidge tirò; e, mi dispiace dirlo, fece cadere una nube di tristezza sulla nostra festosa partenza, perché scoppiò immediatamente in lacrime e si abbandonò sopraffatta fra le braccia di Ham dichiarando di saper benissimo di essere un inutile fardello e che avrebbero fatto meglio a portarla subito all'ospizio. Cosa che mi parve molto sensata e che Ham avrebbe dovuto mettere senz'altro in atto. Partimmo comunque per la nostra escursione festiva; e la prima cosa che facemmo fu di fermarci a una chiesa, dove il signor Barkis legò il cavallo a un cancello ed entrò con Peggotty lasciando la piccola Emily e me soli nel calesse. Io colsi l'occasione per mettere il braccio attorno alla vita di Emily e le proposi che, siccome ero ormai alla vigilia della partenza, dovevamo decidere di essere molto affettuosi reciprocamente e molto felici per tutto quel giorno. La piccola Emily acconsentì e mi permise di darle un bacio; e io divenni eroico. Ricordo che le dichiarai di non poter amare altri che lei per tutta la vita e di essere pronto a versare il sangue di chiunque aspirasse al suo affetto. Quanto si divertì, la piccola Emily, a queste parole! Con quale contegnosa sicurezza di essere immensamente più adulta e più saggia di me quella donnina ammaliatrice disse che ero «uno sciocchino»; e poi rise in un modo così affascinante che io dimenticai il dolore di essere stato chiamato in modo così mortificante, nel piacere di guardarla. Il signor Barkis e Peggotty rimasero in chiesa un bel pezzo, ma infine ne uscirono e allora riprendemmo a scarrozzare verso la campagna. Mentre si procedeva, il signor Barkis si volse verso di me e disse ammiccando (fra parentesi dirò che, prima di allora, non avrei mai pensato che fosse capace di ammiccare): «Qual era il nome che io scrissi sulla tenda del carro?» «Clara Peggotty,» rispose: «E qual è il nome che scriverei adesso, se ci fosse qui una tenda?» «Ancora Clara Peggotty?» arrischiai. «Clara Peggotty BARKIS!» rispose lui e scoppiò in una risata ruggente che fece traballare il calesse. In una parola si erano sposati ed erano entrati in chiesa appunto per questo. Peggotty aveva deciso che la cosa doveva esser fatta con la più assoluta semplicità; e il pastore glielo aveva concesso rinunciando ai testimoni della cerimonia. Rimase un poco confusa quando il signor Barkis diede l'inaspettato annuncio della loro unione, e non si stancava di abbracciarmi a garanzia del suo immutato affetto; ma presto tornò in se stessa e si disse felice che tutto fosse finito. Trottammo fino a una piccola osteria in una via secondaria, dove eravamo attesi e dove ci fu servito un ottimo desinare, e passammo la giornata lieti e contenti. Se Peggotty si fosse sposata ogni giorno negli ultimi dieci anni non avrebbe potuto mostrare maggior disinvoltura in questa occasione; non appariva in lei alcun cambiamento: era la stessa di sempre, e uscì perfino a fare una passeggiatina con la piccola Emily e con me prima del tè, mentre il signor Barkis fumava filosoficamente la pipa, godendosi, immagino, la contemplazione della sua felicità. Se è così, quella felicità gli aguzzò l'appetito, perché ricordo perfettamente che, sebbene avesse mangiato a desinare un bel po' di maiale e verdure finendo con un paio di polli, sentì il bisogno di farsi portare, al tè, del prosciutto freddo e ne fece fuori parecchio senza la minima emozione. Ho pensato spesso, in seguito, a quale strano, innocente e inconsueto matrimonio fu quello! Salimmo di nuovo in calesse appena fu buio e tornammo con comodo guardando le stelle e parlando su questo tema. Io ne fui il principale espositore e spalancai straordinariamente gli orizzonti mentali del signor Barkis. Gli dissi tutto quello che sapevo, ma lui avrebbe preso per oro colato tutto ciò che mi fosse passato per la testa di raccontargli, perché aveva una profonda venerazione per le mie capacità e, proprio in quella occasione, informò sua moglie, davanti a me, che ero un «piccolo Rescio», col che credo che intendesse un prodigio. Quando fu esaurito l'argomento stelle, o meglio quando ebbi esaurito le facoltà mentali del signor Barkis, la piccola Emily e io ci facemmo un mantello con una vecchia coperta e restammo lì sotto per il resto del viaggio. Ah, come l'amavo! Quale felicità, pensavo, se fossimo stati sposati e fossimo andati a vivere in qualche parte fra gli alberi e i campi, senza divenire adulti, senza divenire saggi, eterni fanciulli, vagabondando con la mano nella mano, nel sole e per prati fioriti, posando di notte il capo sul musco, in un dolce sonno di purezza e di pace, per essere infine sepolti dagli uccelli dopo la morte! Un quadro di questo genere, fuori del mondo reale, fulgido della luce della nostra innocenza e vago come le stelle lontane, mi fu nella mente per tutta la strada. Sono felice di pensare che, al matrimonio di Peggotty, furono presenti due cuori candidi come quello della piccola Emily e il mio. Sono felice di pensare che gli Amori e le Grazie assunsero queste lievi forme nel suo semplice corteo nuziale. Fummo dunque di ritorno alla vecchia barca nelle prime ore della sera; e là il signore e la signora Barkis ci salutarono per avviarsi tranquillamente verso la loro casa. Sentii allora, per la prima volta, di avere perduto Peggotty. E davvero sarei andato a letto col cuore gonfio sotto qualsiasi altro tetto che non fosse stato quello che riparava il capo della piccola Emily. Il signor Peggotty e Ham capirono, al pari di me, quali fossero i miei pensieri, e furono pronti a disperderli con un po' di cena e con i loro volti ospitali. La piccola Emily venne a sedersi accanto a me sulla cassapanca per l'unica volta in tutta la mia visita: e fu la meravigliosa conclusione di una giornata meravigliosa. Era una notte di marea; e subito dopo che fummo andati a letto, il signor Peggotty e Ham uscirono per la pesca. Io mi sentii pieno di ardimento sentendomi solo nella casa solitaria come protettore di Emily e della signora Gummidge, e non desiderai altro se non che un leone o un serpente, o qualche altro mostro male intenzionato, si precipitasse su di noi e io potessi annientarlo coprendomi di gloria. Ma poiché quella notte niente di simile si trovò a passeggiare per la pianura di Yarmouth, mi aggrappai al miglior sostituto che avessi sognando draghi fino al mattino. Col mattino arrivò Peggotty, che mi chiamò come al solito di sotto la mia finestra come se anche il corriere signor Barkis fosse stato un sogno dal principio alla fine. Dopo colazione mi portò a casa sua, che era proprio una bella casetta. Di tutto il mobilio che conteneva deve avermi particolarmente impressionato un certo vecchio scrittoio di un qualche legno scuro, in salotto (la cucina col pavimento a mattonelle era la stanza comune), con un coperchio a ribalta, che si apriva, si abbassava e formava il piano di una scrivania nella quale vi era una grande edizione in quarto del Libro dei martiri di Foxe. Questo volume prezioso, di cui non ricordo una parola, lo scoprii immediatamente e subito mi ci immersi; e in seguito non visitai mai la casa senza inginocchiarmi su di una sedia, aprire lo scrigno in cui tale gemma era conservata, spalancar le braccia sulla scrivania e mettermi con nuova lena a divorare il libro. Era particolarmente edificato, temo, dalle incisioni, che erano numerose e rappresentavano ogni sorta di cupi orrori; ma, da allora, i Martiri e la casa di Peggotty divennero inseparabili nella mia mente, e lo sono ancora. Quel giorno stesso mi congedai dal signor Peggotty, da Ham, dalla signora Gummidge e dalla piccola Emily; e passai la notte da Peggotty, in una stanzetta sotto il tetto (con il libro dei coccodrilli in uno scaffale a capo del letto), che sarebbe stata sempre la mia, disse Peggotty, e sarebbe sempre stata tenuta per me esattamente nello stesso stato. «Giovane o vecchio, caro Davy, finché sarò in vita e avrò questa casa sulla mia testa,» disse Peggotty, «troverai questa stanza come se ti aspettassi qui di minuto in minuto. La terrò in ordine ogni giorno come facevo con la tua stanzetta, amor mio; e se dovessi andare in Cina potrai star sicuro che sarà tenuta nello stesso modo finché sarai via.» Sentii con tutto il cuore la sincerità e la costanza della mia vecchia bambinaia e la ringraziai per quanto potei. Cosa che non fu nulla di straordinario perché lei mi parlava così tenendomi le braccia al collo, al mattino, e io dovevo tornare a casa quel mattino stesso, come appunto feci, accompagnato sul carro da lei e dal signor Barkis. Mi lasciarono al cancello, e non fu facile né lieve; e uno strano spettacolo fu per me veder partire il carro portandosi via Peggotty e lasciando me sotto i vecchi olmi a contemplar la casa nella quale non c'era più un volto che avrebbe guardato il mio con amore o simpatia. Caddi adesso in uno stato di abbandono che non posso ricordare senza compassione. Precipitai improvvisamente in una solitudine - lontano da ogni attenzione amichevole, lontano dai rapporti con ogni altro ragazzo della mia età, lontano da ogni compagnia che non fosse quella dei miei mortificati pensieri - che sembra gettare la sua ombra su questo stesso foglio mentre scrivo. Che cosa avrei dato perché mi mandassero nel più duro collegio che vi sia mai stato! per avere un qualsiasi insegnamento, in qualsiasi luogo! Ma nessuna speranza di questo genere si illuminava davanti a me. Quei due mi disamavano e mi abbandonavano al mio destino cupi, severi e ostinati. Credo che, in quel tempo, il signor Murdstone si trovasse in strettezze; ma questo ha poca importanza. Non poteva soffrirmi; e nell'allontanarmi così da sé tentava, credo, di togliermi di testa l'idea di avere dei diritti su di lui: e ci riuscì. Non ero materialmente maltrattato. Non mi picchiavano né mi costringevano a soffrir la fame; ma il male che mi facevano non aveva soste né mitigazioni e veniva fatto in modo freddo e sistematico. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, ero semplicemente trascurato. A volte, quando ci ripenso, mi domando che cosa avrebbero fatto se mi fossi ammalato: se mi avrebbero abbandonato nella mia stanza solitaria a languire nel mio isolamento consueto, o se qualcuno mi sarebbe venuto in aiuto. Quando il signore e la signorina Murdstone erano in casa, prendevo i pasti con loro; in loro assenza mangiavo da solo. Per tutto il tempo girellavo per la casa e nei dintorni completamente abbandonato, salvo il fatto che mi impedivano di farmi una qualsiasi amicizia, forse temendo che, se me la fossi procurata, avrei potuto lagnarmi con qualcuno. Per questa ragione, sebbene il signor Chillip mi avesse spesso invitato ad andare a fargli visita (era vedovo, avendo perduto anni prima una mogliettina dai capelli biondi, che ricordo appena collegandola nei miei pensieri con una gattina pezzata di bianco, rosso e nero un po' sbiadita) solo raramente godevo la felicità di passare un pomeriggio nel suo piccolo ambulatorio, a leggere qualche libro nuovo per me, con l'odore di un'intera farmacopea nelle narici, o a pestare qualche cosa in un mortaio sotto la sua mite sorveglianza. Per la stessa ragione, a cui si aggiungeva senza dubbio l'antica antipatia per lei, solo raramente mi si concedeva di andare a far visita a Peggotty. Fedele alla sua promessa, lei veniva a trovarmi, o a incontrarmi in qualche luogo delle vicinanze, una volta la settimana e non mai a mani vuote; ma molte e amare furono le mie delusioni quando mi si negava il permesso di restituirle la visita a casa sua. Alcune poche volte, tuttavia, a lunghi intervalli, mi fu concesso di andare; e allora scoprii che il signor Barkis era un po' avaro, o, come si esprimeva rispettosamente Peggotty, un «tantino trattenuto», e custodiva un bel po' di denaro in una cassa sotto il letto, che, a sentir lui, era solo piena di giacche e di calzoni. In questa cassa le sue ricchezze si nascondevano con una così tenace modestia, che i più discreti prelevamenti potevano essere tentati solo grazie ad accorti artifici; così che Peggotty doveva preparare un lungo ed elaborato piano, una vera Congiura delle Polveri, per le spese di ogni sabato. In tutto questo periodo ero così consapevole dello sgominio di tutto ciò che avevo potuto promettere e del mio completo abbandono, che mi sarei sentito assolutamente infelice, non ne ho alcun dubbio, se non fosse stato per i miei vecchi libri. Erano il mio unico conforto; ed io fui fedele a loro come loro lo furono a me: li lessi e rilessi non so più quante volte. Mi avvicino adesso a un periodo della mia vita di cui non potrò mai perdere il ricordo finché avrò memoria, e la cui rievocazione mi è spesso comparsa davanti, come uno spettro, al di fuori della mia volontà, a infestare epoche più felici. Mi trovavo fuori, un giorno, bighellonando in qualche parte, al modo svogliato e meditabondo che mi suggeriva il mio genere di vita, quando, nel voltare l'angolo di un sentiero presso la nostra casa, mi imbattei nel signor Murdstone che passeggiava con un signore. Mi confusi, e stavo per oltrepassarli quando quel signore gridò: «Ma guarda! Brooks!» «No, signore, David Copperfield,» dissi. «Non venirmelo a raccontare. Tu sei Brooks,» insisté il signore. «Sei Brooks di Sheffield. Questo è il tuo nome.» A queste parole lo osservai più attentamente. Mi ricordai anche della sua risata, e riconobbi in lui il signor Quinion, quello che ero andato a visitare a Lowestoft col signor Murdstone prima... non importa... non c'è bisogno che ricordi quando. «E come te la passi? dov'è che fai i tuoi studi, Brooks?» chiese il signor Quinion. Mi aveva messo una mano sulla spalla e mi fece voltare perché camminassi con loro. Io non sapevo che rispondere e diedi uno sguardo interrogativo al signor Murdstone. «Per il momento è a casa,» disse quest'ultimo. «Non segue alcun corso di studi. Non so che cosa farne, di lui. È un carattere difficile.» Il suo antico sguardo falso si fermò per un momento su di me; poi il suo occhio si rabbuiò in un cipiglio ed egli, pieno di avversione, lo volse altrove. «Hum!» disse il signor Quinion guardandoci entrambi, mi parve. «Bella giornata.» Seguì un silenzio, e io stavo pensando al miglior modo per liberarmi la spalla dalla sua mano e andarmene, quando lui disse: «Immagino che sarai ancora un ragazzino sveglio, eh, Brooks?» «Sì! È abbastanza sveglio,» disse il signor Murdstone con impazienza. «Fareste meglio a lasciarlo andare. Non vi sarà grato per il fastidio che gli date.» A questo accenno il signor Quinion mi lasciò e io mi affrettai a tornare a casa. Nel voltarmi indietro mentre entravo in giardino, vidi il signor Murdstone appoggiato al cancelletto del cimitero mentre il signor Quinion gli parlava. Tutti e due mi guardavano, e capii che parlavano di me. Quella notte il signor Quinion dormì a casa nostra. Il mattino seguente, dopo colazione, avevo scostato la sedia e stavo per lasciar la stanza quando il signor Murdstone mi richiamò. Poi si accostò gravemente a un altro tavolo, dove sua sorella era seduta davanti alla propria scrivania. Il signor Quinion, con le mani in tasca, guardava fuori dalla finestra; e io rimasi in piedi guardandoli tutti. «David,» disse il signor Murdstone, «il mondo in cui siamo esige che un giovane sia attivo; non imbronciato e fannullone.» «Come te,» aggiunse sua sorella. «Jane Murdstone, lascia che parli io, di grazia. Ripeto, David, che il mondo in cui siamo esige che un giovane sia attivo e non imbronciato e fannullone. E questo specialmente per un giovane del tuo carattere, che ha bisogno di una quantità di emendamenti e a cui non si può rendere un miglior servizio che costringerlo ai modi del mondo che lavora, piegarlo e domarlo.» «Perché qui l'ostinazione non serve a nulla,» disse sua sorella. «Ha bisogno solo di essere frantumata. Deve essere frantumata e lo sarà.» Lui diede uno sguardo metà di rimprovero e metà di approvazione e continuò: «Immagino che tu sappia, David, che non sono ricco. In ogni caso lo sai adesso. Tu hai già ricevuto una certa notevole educazione. Gli studi sono costosi; e anche se non lo fossero e io potessi sostenerne la spesa, sono convinto che non sarebbe affatto vantaggioso per te continuare la scuola. Quella che ti sta davanti è la lotta con il mondo; e quanto prima la comincerai, tanto meglio sarà.» Credo che, nel limite delle mie povere possibilità, pensassi di averla già cominciata: ma, comunque sia, lo penso adesso. «Tu hai già sentito parlare dell'ufficio di contabilità» disse il signor Murdstone. «L'ufficio di contabilità, signore?» ripetei. «Di Murdstone e Grinby, commercio di vini,» rispose. Penso di averlo guardato con incertezza perché lui proseguì in fretta: «Avrai sentito parlare dell'ufficio di contabilità, o dell'azienda, o delle cantine, o della banchina o di qualche cosa del genere.» «Credo di aver sentito parlare dell'azienda, signore,» dissi ricordando quello che avevo sentito dire vagamente delle risorse sue e di sua sorella. «Ma non so quando.» «Non importa quando,» rispose. «Questa azienda è diretta dal signor Quinion.» Diedi un'occhiata deferente a quest'ultimo, che continuava a guardare fuori della finestra. «Il signor Quinion mi fa notare che dà lavoro ad alcuni altri ragazzi e che non vede ragione per non dare lavoro anche a te, alle stesse condizioni.» «Visto che non ha,» osservò il signor Quinion a voce bassa e voltandosi a mezzo, «nessun'altra prospettiva, Murdstone.» Con un gesto impaziente e addirittura irritato il signor Murdstone concluse senza badare alle sue parole: «Queste condizioni sono che tu guadagnerai quanto basta per il tuo vitto e per gli spiccioli. Il tuo alloggio (a cui ho già provveduto) sarà pagato da me, e così pure il bucato...» «Che dovrà essere tenuto entro i limiti stabiliti da me,» disse sua sorella. «Anche ai tuoi abiti penseremo noi,» continuò il signor Murdstone, «visto che, per ora, non sarai in grado di provvedervi da solo. Così adesso, David, partirai per Londra col signor Quinion, per cominciare a vivere nel mondo per tuo conto.» «Insomma abbiamo provveduto a te,» concluse la sorella, «e tu vedrai di fare il tuo dovere.» Sebbene capissi benissimo che lo scopo di queste dichiarazioni era di sbarazzarsi di me, non ricordo bene se ne fossi compiaciuto o atterrito. Ho l'impressione di essere rimasto con le idee molto confuse in proposito e che, oscillando fra i due estremi, non ne toccassi alcuno. Né avevo molto tempo per chiarirmi le idee poiché il signor Quinion doveva partire l'indomani. Contemplatemi, il giorno dopo, con un cappellino bianco tutto consunto e circondato da un crespo nero per il lutto di mia madre, giacchetta nera e un paio di rigidi calzoni di velluto a coste, che la signorina Murdstone considerava la miglior difesa per le mie gambe in quella lotta con il mondo che dovevo affrontare. Contemplatemi così acconciato e con i miei piccoli beni terreni davanti a me in un bauletto, mentre me ne sto seduto, povero bambino solo e derelitto (come avrebbe detto la signora Gummidge) nella sedia di posta che porta il signor Quinion a Yarmouth per prendere la diligenza di Londra! Guardate come la nostra casa e la chiesa impiccoliscono nella lontananza; come la tomba dietro l'albero è coperta dall'interporsi di altri oggetti; come la guglia del campanile non sale più verso l'alto dal mio vecchio campo di giuochi lasciando vuoto il cielo. XI • COMINCIO A VIVERE PER MIO CONTO, E NON MI PIACE Oggi conosco abbastanza il mondo per aver quasi perso la facoltà di stupirmi eccessivamente di qualsiasi cosa; ma è per me ancora oggetto di qualche sorpresa il fatto di essere stato mandato allo sbaraglio, con tanta disinvoltura, all'età che avevo. Un bambino di ottime qualità e con un forte potere di osservazione, pronto, volenteroso, sensibile, facile a esser ferito nel corpo e nello spirito, mi sembra veramente strano che nessuno abbia fatto un sol gesto per venirgli in aiuto. Ma nessun gesto fu fatto; e io, a dieci anni, divenni un piccolo operaio al servizio di Murdstone e Grinby. Il magazzino di Murdstone e Grinby era sulle rive del fiume, giù ai Blackfriars. Restauri moderni hanno mutato il luogo: si trattava dell'ultima casa in fondo a una via stretta che piegava verso il fiume terminando con alcuni gradini dove la gente si imbarcava. Era una vecchia casa in rovina con una propria banchina, che dava direttamente sull'acqua quando la marea era alta, e sul fango a bassa marea; e letteralmente infestata dai topi. Le stanze a pannelli, scolorite dal sudiciume e dal fumo di un centinaio d'anni, direi; i pavimenti e le scale sconnessi; gli squittii e le risse dei vecchi topi grigi nelle cantine; e la sporcizia e il marciume del luogo, sono, nella mia memoria, non già cose di molti anni fa, ma del momento presente. Mi sono tutte davanti proprio come nella maledetta ora in cui vi capitai per la prima volta, con la mano tremante in quella del signor Quinion. Murdstone e Grinby commerciavano con gente di vario tipo, ma un importante settore della loro attività consisteva nel rifornimento di vini e liquori ad alcune navi postali. Non ricordo adesso dove fossero dirette per lo più, ma credo che alcune di esse facessero viaggi regolari alle Indie orientali e occidentali. So che una delle conseguenze di questo traffico era una gran quantità di bottiglie vuote, e certi uomini e ragazzi avevano il compito di guardarle contro luce, buttar via quelle incrinate e lavare e risciacquare le altre. Quando le bottiglie vuote erano finite, c'era da incollare le etichette su quelle piene, o da metterci i turaccioli, o da imprimere sui turaccioli il sigillo, o da incassare le bottiglie pronte. Questo era il mio lavoro, e io ero uno dei ragazzi lì occupati. Eravamo in tre o quattro, me compreso. Il mio posto di lavoro si trovava in un angolo del magazzino, dove il signor Quinion poteva vedermi quando, nell'ufficio di contabilità, si alzava sulla traversa superiore del suo sgabello e mi lanciava un'occhiata dalla finestra che era sopra la sua scrivania. Qui, il mattino in cui cominciai a vivere per mio conto sotto così felici auspici, il più anziano dei ragazzi fu incaricato di spiegarmi il mio lavoro. Si chiamava Mick Walker e portava un grembiule sbrindellato e un berretto di carta. Mi fece sapere che suo padre era un barcaiolo e sfilava con un cappello di velluto nero nel corteo del Lord Mayor. Mi informò anche che il nostro principale collega era un altro ragazzo che mi presentò con il nome - per me straordinario - di Patata Infarinata. Scoprii comunque che questo giovane non era stato battezzato con tal nome, ma che questo gli era stato appioppato nel magazzino in grazia della sua carnagione, che era pallida come se infarinata. Il padre di Patata era un traghettatore il quale aveva in più la prerogativa di essere pompiere e come tale era ingaggiato in uno dei maggiori teatri, dove una giovane parente dello stesso Patata - credo la sua sorellina - faceva il diavoletto nelle pantomime. Nessuna parola può esprimere la segreta angoscia del mio animo nel vedermi capitato in quella compagnia; paragonai questi miei colleghi di ogni giorno a venire con quelli della mia più felice infanzia - per non parlare di Steerforth, di Traddles e del resto di quei ragazzi - e mi sentii frantumate nel cuore le mie speranze di divenire un uomo colto e notevole. Non posso descrivere l'intimo ricordo del senso, che provai, di essere ormai privo di speranze; della vergogna della mia condizione; della desolazione del mio cuore di fanciullo al pensiero che giorno per giorno tutto ciò che avevo imparato e pensato, e in cui mi ero compiaciuto, su cui avevo fondato le mie fantasie e la mia emulazione, sarebbe a poco a poco fuggito da me per non tornare mai più. Ogni volta che Mick Walker si allontanò nel corso di quel pomeriggio, io frammischiai le mie lacrime all'acqua in cui lavavo le bottiglie; e singhiozzai come se ci fosse un'incrinatura nel mio cuore e me lo sentissi sempre in pericolo di spezzarsi. L'orologio dell'ufficio di contabilità segnava la mezza e tutti si preparavano ad andare a desinare quando il signor Quinion batté alla sua finestra e mi accennò di entrare. Entrai e vi trovai un corpulento signore di mezza età in soprabito bruno e calzoni e scarpe neri, che non aveva più capelli in testa (una testa grande e lucente) di quanti ve ne siano su di un uovo, e con una larga faccia che si volse verso di me in tutta la sua pienezza. Gli abiti erano logori, ma il collo della camicia imponente. Portava un certo brioso bastoncino con due grandi fiocchi color ruggine; e dalla giacca gli pendeva un occhialetto, per ornamento, come scoprii in seguito, perché ci guardava attraverso assai di rado e, quando lo faceva, non poteva vedere niente. «È questo,» disse il signor Quinion alludendo a me. «Questo,» disse lo sconosciuto con un certo fare strascicato di condiscendenza nella voce e una certa indescrivibile aria di signorilità che mi fecero molta impressione, «è il signorino Copperfield. Spero di trovarvi in buona salute, signore.» Sa il cielo quanto mi trovassi a disagio, ma in quell'epoca della mia esistenza, le lamentele eccessive non erano nel mio carattere; così dissi di star benissimo e di sperare altrettanto di lui. «Grazie al cielo,» rispose lo sconosciuto, «sto perfettamente bene. Ho ricevuto una lettera del signor Murdstone nella quale mi palesa il suo desiderio che io riceva in una stanza sul retro della mia casa, che attualmente è vacante... e che, in breve, è da affittare come... in breve,» disse lo sconosciuto con un sorriso e un'effusione di confidenza, «come stanza da letto... al giovane principiante che ho adesso il piacere di...» e qui agitò una mano nell'aria e incastrò il mento nel colletto della camicia. «Questo è il signor Micawber,» disse il signor Quinion rivolgendosi a me. «Hem!» confermò lo straniero. «Tale è il mio nome.» «Il signor Micawber,» continuò il signor Quinion, «è conosciuto dal signor Murdstone. Riceve ordini per noi su commissione, quando riesce a trovarne. Il signor Murdstone gli ha scritto a proposito del tuo alloggio e lui ti ospiterà come pigionante.» «Il mio indirizzo,» disse il signor Micawber, «è Windsor Terrace, City Road. Io... in breve,» proseguì con la stessa aria di signorilità e una nuova effusione di confidenza, «abito lì.» Gli feci un inchino. «Sotto l'impressione,» continuò il signor Micawber, «che le vostre peregrinazioni in questa metropoli non siano ancora state molto estese, e che voi abbiate qualche difficoltà nel penetrare gli arcani della moderna Babilonia in direzione di City Road... in breve,» concluse il signor Micawber in un'altra effusione di confidenza, «che possiate perdervi... sarò felice di venire a prendervi stasera e di impartirvi la conoscenza della via più breve.» Lo ringraziai di tutto cuore, perché era molto gentile da parte sua offrirmi di assumersi quel disturbo. «A che ora,» chiese il signor Micawber, «dovrò...» «Circa le otto,» rispose il signor Quinion. «Circa le otto,» ripeté il signor Micawber. «Permettetemi di augurarvi una buona giornata, signor Quinion. Non vi disturberò oltre.» Così si mise il cappello e se ne andò col bastoncino sotto braccio: molto impettito e mettendosi a canticchiare un motivo appena fu fuori dell'ufficio. Allora il signor Quinion mi impegnò formalmente a fare del mio meglio nel magazzino di Murdstone e Grinby, per un salario, credo, di sei scellini la settimana. Non son sicuro se fossero sei o sette. Propendo a credere, data la mia incertezza su questo punto, che fossero sei dapprima e sette in seguito. Mi pagò una settimana anticipata (credo di sua tasca), e io diedi sei pence a Patata perché quella sera mi portasse il baule a Windsor Terrace: per quanto piccolo era troppo pesante per le mie forze. Spesi altri sei pence per il desinare, che consistette in un pasticcio di carne e un giro alla pompa più vicina; e trascorsi l'ora che ci era concessa per il pasto a gironzolare per le strade. La sera, all'ora convenuta, il signor Micawber riapparve. Mi lavai le mani e la faccia per fare maggior onore alla sua squisita distinzione, e ci avviammo insieme verso la nostra casa, come immagino dovrò chiamarla da ora in poi. Il signor Micawber, per tutto il percorso, cercò di imprimermi bene in mente i nomi delle vie e la forma delle case d'angolo, affinché potessi ritrovare facilmente la strada il giorno dopo. Arrivati che fummo a questa casa in Windsor Terrace (che, mi accorsi, era frusta come lui, ma, pure come lui, cercava di fare tutto lo sfoggio che poteva), mi presentò alla signora Micawber, una dama esile e sfiorita, senza nulla di giovanile, che sedeva nel salotto (il primo piano era assolutamente privo di mobili e le veneziane rimanevano abbassate per ingannare i vicini), con un bambino al petto. Questo piccolo era uno di due gemelli; e posso notare qui che molto raramente, finché stetti con quella famiglia, li vidi entrambi contemporaneamente staccati dalla signora Micawber. Ce n'era sempre uno che poppava. V'erano altri due bambini; il signorino Micawber, di circa quattro anni, e la signorina Micawber, di circa tre. Loro e una ragazza di carnagione scura che sbuffava sempre, faceva da domestica e, prima che fosse passata mezz'ora, mi informò di essere «orfana», proveniente dal vicino ospizio di San Luca, completavano la famiglia. La mia stanza era all'ultimo piano, sul retro: una stanza senza finestre, tutta stampigliata con una decorazione che la mia giovane fantasia si raffigurò come una tartina azzurra, e molto scarsamente ammobiliata. «Non avrei mai pensato,» disse la signora Micawber quando venne su, gemelli e tutto, per mostrarmi l'appartamento, e si fu seduta a prender fiato, «prima di sposarmi, quando vivevo col papà e la mamma, che mi sarei trovata nella necessità di avere un pigionante. Ma poiché il signor Micawber è in difficoltà, ogni considerazione dei sentimenti privati deve farsi da parte.» Io dissi: «Sì, signora.» «In questo momento,» continuò la signora Micawber, «le difficoltà del signor Micawber sono tali che quasi ci travolgono; e non so se gli sarà possibile superarle. Quando vivevo in casa mia col papà e la mamma, davvero non avrei nemmeno capito il significato di queste parole, nel senso in cui le adopero adesso, ma experientia docet, come era solito dire il papà.» Non sono sicuro se ella mi disse che il signor Micawber era stato ufficiale di Marina, o se me lo sono immaginato io. So solo che, ancor oggi, credo che egli fosse in marina ai suoi bei tempi, pur ignorando il perché. Attualmente egli era una specie di commesso viaggiatore cittadino per una quantità di ditte diverse; temo, guadagnandoci poco. «Se i creditori del signor Micawber non vorranno concedergli un po' di respiro,» proseguì la signora Micawber, «ne sopporteranno le conseguenze; e prima verranno a una conclusione, meglio sarà. Non si può cavar sangue da una pietra, né, per ora, si può ottenere dal signor Micawber alcun acconto (per non parlare delle spese legali).» Non ho mai potuto capire se la mia precoce indipendenza ingannò la signora Micawber circa la mia età, o se lei era ormai così posseduta da quell'argomento che ne avrebbe parlato perfino ai due gemelli se non avesse avuto altri con cui sfogarsi, ma questo fu il tono con cui cominciò, e proseguì poi su di esso per tutto il tempo che la conobbi. Povera signora Micawber! Diceva di avere tentato di darsi da fare; e senza dubbio lo aveva fatto. Il centro del portone di casa era interamente coperto da una gran targa di ottone su cui era inciso: «Istituto per Signorine della signora Micawber»: ma non mi risultò che alcuna signorina avesse mai frequentato quel collegio, o lo frequentasse, o si proponesse di frequentarlo, né che fosse mai stato fatto il minimo preparativo per riceverne una. Gli unici visitatori che io vidi, o di cui udii parlare, erano i creditori. Quelli arrivavano a tutte le ore e alcuni di essi erano decisamente feroci. Un certo tale dalla faccia sporca, credo che fosse un calzolaio, era solito infilarsi nel corridoio già alle sette del mattino e gridare dalle scale al signor Micawber: «Venite fuori! Non siete ancora uscito, lo sapete bene. Volete pagarmi o no? Non nascondetevi; lo sapete che è una bassezza. Se fossi in voi non sarei così meschino. Mi pagate o no? Dovete pagarmi, mi sentite? Venite fuori!» Non ricevendo risposta a queste intimazioni, passava pieno di furia alle espressioni: «Imbroglioni» e «ladri»; e poiché anche queste rimanevano senza effetto, ricorreva a volte all'estremo espediente di attraversar la strada e tuonare verso le finestre del secondo piano, dove sapeva che c'era il signor Micawber. In queste occasioni il signor Micawber era trascinato dal dolore e dall'umiliazione (me ne accorsi una volta dalle strida di sua moglie) fino al punto di mostrar di agire contro se stesso con un rasoio; ma mezz'ora dopo si puliva con estrema cura le scarpe e usciva mugolando un motivetto con un'aria più aristocratica che mai. La signora Micawber possedeva una non minore elasticità. L'ho vista cadere in deliquio alle tre, davanti alla cartella delle tasse, e, alle quattro, mangiare cotolette di vitello impanate e bere birra calda, il tutto pagato con due cucchiai da tè portati al monte dei pegni. Una volta in cui aveva appena ricevuto una citazione, tornando a casa, per qualche motivo, più presto del solito, alle sei, la trovai distesa in deliquio (naturalmente con uno dei gemelli) sotto la grata della stufa, con tutti i capelli tirati sul volto; ma non la vidi mai più allegra di quella stessa sera, intenta a cucinare una cotoletta di vitello e a raccontarmi storie del suo papà e della sua mamma e della gente che solevano ricevere. In questa casa e con questa famiglia trascorrevo le mie ore di libertà. Provvedevo da solo alla mia colazione con una pagnottina da un penny e un penny di latte. Tenevo un'altra pagnottina e un pezzetto di formaggio su di un particolare scaffale di una particolare credenza per farne la mia cena quando tornavo la sera. Tutto ciò apriva un vuoto nei miei sei o sette scellini, lo so fin troppo; stavo nel magazzino tutto il giorno e dovevo mantenermi con questa somma per tutta la settimana. Dal lunedì mattina al sabato sera non avevo consigli, né guida, né incoraggiamento, né conforto, né assistenza, né aiuto di alcun genere né da parte di alcuno che possa ricordare, quanto è vero che spero di andare in paradiso! Ero così giovane e infantile, e così poco qualificato - come avrebbe potuto essere altrimenti? - ad assumermi l'intera responsabilità della mia esistenza, che spesso, al mattino, andando da Murdstone e Grinby, non sapevo resistere alla tentazione delle paste rafferme messe in vendita a metà prezzo nelle vetrine dei pasticceri, e spendevo in esse il denaro che avrei dovuto serbare per il desinare. Allora restavo senza pranzo, o compravo un panino o una fetta di sformato. Ricordo due rosticcerie che alternavo a seconda delle mie finanze. Una era in un cortile presso la chiesa di San Martino - proprio dietro la chiesa - che adesso è scomparso. Gli sformati di questa bottega erano fatti con l'uva passa, piuttosto di buona qualità, ma cari: quello da due pence non era più grande di un più ordinario sformato da un penny. Una buona bottega per questi ultimi era nello Strand: nella parte che è stata ricostruita in seguito. Era uno sformato grosso e pallido, molle e pesante, con dentro grossi acini d'uva schiacciati, molto radi. Arrivava caldo verso l'ora in cui passavo ogni giorno, e più volte mi servì da desinare. Quando facevo un buon pranzo regolare mi concedevo una cervellata con un panino da un penny o una porzione da quattro pence di bue al sangue presa in una rosticceria, o una porzione di pane e formaggio e un bicchiere di birra da una vecchia e miserevole osteria di fronte al nostro luogo di lavoro, chiamata il Leone, o il Leone e qualche altra cosa che ho dimenticato. Ricordo che una volta, col mio pane (che mi ero portato da casa il mattino) sotto braccio, avvolto in un foglio, come un libro, entrai in una trattoria alla moda, famosa per i suoi piatti di bue, presso Drury Lane, e ordinai una «porzioncina» di quella squisitezza per mangiarmela col pane. Che cosa pensasse il cameriere di un così singolare e piccolo cliente che entrava solo solo, non saprei dire; ma me lo vedo ancor oggi, che mi guarda a occhi sbarrati mentre consumo il mio desinare e chiama l'altro cameriere perché assista allo spettacolo. Gli diedi mezzo penny di mancia, e mi dispiace che se lo sia preso. Mi sembra che avessimo una mezz'ora libera per il tè. Quando avevo abbastanza denaro solevo comprarmi mezza pinta di caffè già fatto e una fetta di pane e burro. Quando non ne avevo, andavo a guardare un negozio di cacciagione in Fleet Street; oppure gironzolavo per tutto il tempo fino al mercato di Covent Garden per contemplare gli ananassi. Mi piaceva immensamente vagabondare nei dintorni dell'Adelphi perché, con quegli archi oscuri, era un posto pieno di mistero. Mi vedo uscire, una sera, da uno di quegli archi, in una piccola osteria presso il fiume, con uno spazio aperto davanti, dove alcuni scaricatori di carbone stavano ballando; per osservarli mi sedetti su di una panca. Mi domando che cosa avranno pensato di me. Ero così bambino e così piccolo che spesso, quando mi avvicinavo al banco di qualche osteria sconosciuta chiedendo un bicchiere di birra chiara o scura per mandar giù quello che avevo mangiato a desinare, non osavano darmelo. Ricordo che una sera afosa andai al banco di un'osteria e dissi al padrone: «Quanto costa un bicchiere della vostra migliore birra: ma proprio la migliore?» Perché era un'occasione speciale. Non so quale. Forse il mio compleanno. «Due pence e mezzo,» rispose lui, «è il prezzo della Genuina Extra.» «Allora,» dico io tirando fuori il denaro, «spillatemi per piacere un bicchiere di Genuina Extra con molta spuma.» L'oste mi squadrò dalla testa ai piedi, di là dal banco, con uno strano sorriso in faccia; e, invece di spillarmi la birra, si volse dietro un divisorio e disse qualche cosa a sua moglie. Lei venne fuori dal retro, col lavoro in mano, «si unì a lui nel contemplarmi. Me li vedo davanti tutti e tre in questo momento: l'oste in maniche di camicia, appoggiato alla ribalta del banco, la moglie che mi guarda dallo sportello, e io, alquanto confuso, che li fisso dall'altra parte del banco. Mi fecero una quantità di domande: come mi chiamavo, quanti anni avevo, dove abitavo, dove lavoravo e come ero capitato lì. Alle quali domande, per non compromettere nessuno, temo di avere inventato risposte appropriate. Mi servirono la birra, sebbene sospetti che non fosse Genuina Extra; e la moglie del padrone, aprendo la porta a due sportelli del banco e chinandosi su di me, mi restituì il denaro e mi diede un bacio metà ammirativo e metà compassionevole, ma schietto e molto femminile, su questo non ho dubbi. So di non esagerare, inconsciamente e involontariamente, la scarsità delle mie risorse e le difficoltà della mia vita. So che, se mai il signor Quinion mi dava uno scellino, in qualsiasi momento, lo spendevo in un desinare o in una merenda. So che lavoravo dalla mattina alla sera, cencioso fanciullo, con uomini e ragazzi volgari. So che vagabondavo per le strade nutrito scarsamente e male. So che, se non fosse stato per la grazia divina, sarei potuto facilmente divenire, tanta era la cura che ci si prendeva di me, un ladroncello o un piccolo vagabondo. Tuttavia, anche da Murdstone e Grinby, mantenevo una certa distinzione. A parte il fatto che il signor Quinion faceva tutto quello che un uomo distratto e molto indaffarato, costretto a occuparsi di un essere così fuori del comune, poteva, per trattarmi su di un piede diverso dagli altri, non feci mai parola, con uomini o ragazzi, di come fossi capitato lì, né diedi mai il minimo segno che mi dispiacesse di esserci capitato. Nessun altro che io seppe mai che soffrivo in segreto e che soffrivo nel modo più vivo. Come ho già detto, va oltre le mie possibilità descrivere le mie sofferenze. Ma facevo il mio lavoro e non rivelavo i miei pensieri. Mi resi conto fin dagli inizi che, se non lavoravo bene come gli altri, non potevo evitare la sgarberia e il disprezzo. E divenni subito svelto e abile per lo meno quanto gli altri ragazzi. Per quanto fossi perfettamente affabile con loro, la mia condotta e i miei modi erano abbastanza diversi dai loro per mettere fra noi una distanza. I ragazzi e gli uomini parlavano in genere di me come del «signorino» o del «piccolo di Suffolk». Un uomo chiamato Gregory, capo degli imballatori, e un certo Tripp, il carrettiere, che portava una giacca rossa, a volte solevano chiamarmi «David»: ma per lo più, credo, quando eravamo in grande confidenza e quando io mi ero sforzato, durante il lavoro, di intrattenerli con alcuni ricordi delle mie antiche letture, che andavano rapidamente scomparendo dalla mia memoria. Una volta Patata Infarinata saltò su ribellandosi alla distinzione in cui mi tenevano; ma Mick Walker lo rimise subito a posto. Consideravo totalmente insperabile una liberazione da un tal genere di esistenza, e quindi ci rinunciai senz'altro. Ma sono assolutamente convinto che mai, nemmeno per un'ora, mi riconciliai con essa o mi sentii altro che miserevolmente infelice. Tuttavia la sopportavo; e nemmeno a Peggotty, un po' per l'amore che le portavo, un po' per la vergogna, rivelai la verità in alcuna lettera (sebbene molte ne passassero tra noi). Le difficoltà del signor Micawber si aggiungevano alle angustie del mio animo. Nella mia disperata condizione divenni molto attaccato a quella famiglia, e solevo aggirarmi rimuginando fra me i calcoli che la signora Micawber faceva su modi e mezzi di salvezza, e oppresso dal peso dei debiti del signor Micawber. Il sabato sera, che era per me una gran festa - in parte perché era magnifico tornare a casa con sei o sette scellini in tasca, guardando nelle vetrine e pensando a che cosa si sarebbe potuto comprare con una tale somma, e in parte perché tornavo a casa prima - la signora Micawber mi faceva le sue più strazianti confidenze; e così pure la domenica mattina, quando versavo la porzione di tè o di caffè, che mi ero comprato la sera prima, in una ciotoletta da barba e mi sedevo a colazione più tardi del solito. Non era nulla di straordinario, per il signor Micawber, singhiozzare violentemente all'inizio di una di queste conversazioni del sabato sera, e mettersi a cantare sulla gioia che la bella Nan dava a Jack, verso la fine. L'ho visto tornare a cena in un fiume di lacrime dichiarando che non gli restava altro che la prigione, e andare a letto calcolando la spesa di mettere i bovindi alla casa «qualora saltasse fuori qualche cosa», secondo la sua espressione preferita. E la signora Micawber era esattamente lo stesso. Una curiosa amicizia a eguale livello, nata, suppongo, dalle nostre rispettive condizioni, sorse tra me e questa gente nonostante la comica differenza di età. Ma io non mi lasciai mai indurre ad accettare i loro inviti di mangiare e bere con loro, a loro spese (sapendo che se la passavano male col macellaio e col fornaio, e spesso non ne avevano abbastanza per loro stessi), finché la signora Micawber non mi accolse nella sua totale confidenza. Cosa che fece una sera nel modo seguente: «Signorino Copperfield,» mi disse la signora Micawber, «io non vi considero un estraneo, e quindi non esito a dirvi che le difficoltà del signor Micawber stanno arrivando a una crisi.» Mi sentii molto rattristato nell'udir questo, e guardai con profonda simpatia gli occhi arrossati della signora. «Tolto un fondo di formaggio olandese - che non è adatto alle esigenze dei bambini -» proseguì la signora Micawber, «non c'è veramente una briciola di qualche cosa nella dispensa. Ero solita parlare di dispensa, quando vivevo col papà e la mamma, e adesso mi servo di questa parola quasi inconsciamente. Quello che voglio dire è che non abbiamo in casa nulla da mangiare.» «Dio mio!» esclamai profondamente preoccupato. Avevo in tasca due o tre scellini della mia paga settimanale - dal che presumo che questa conversazione deve essere avvenuta la sera di un mercoledì - e mi affrettai a tirarli fuori pregando la signora Micawber, con schietta emozione, di volerli accettare come prestito. Ma quella dama, baciandomi, e facendomeli rimettere in tasca, rispose che non poteva nemmeno pensarci. «No, mio caro signorino Copperfield,» disse, «lungi da me un'idea simile! Ma voi avete una discrezione superiore alla vostra età, e potete rendermi un favore di altro genere, se volete; un favore che accetterei con riconoscenza.» Pregai la signora di indicarmelo. «Mi sono privata io stessa del vasellame,» disse la signora Micawber. «Sei tazzine da tè, due saliere e un paio di zuccheriere: grazie a queste, in momenti diversi, ho ottenuto denaro in prestito, segretamente, con le mie stesse mani. Ma i gemelli sono per me un grave impegno e, d'altra parte, queste transazioni, dati i miei ricordi del papà e della mamma, mi sono molto penose. Vi sono ancora alcune cosette a cui possiamo rinunciare. I sentimenti del signor Micawber non permetterebbero mai, a lui, di sbarazzarsene personalmente; e Clickett» - era la ragazza dell'ospizio - «con la sua mente volgare, si prenderebbe delle spiacevoli libertà se riponessi in lei tanta confidenza. Signorino Copperfield, se potessi chiedervi...» Capii adesso quello che la signora Micawber desiderava, e la pregai di servirsi di me senza limitazioni. Cominciai quella sera stessa a collocare gli oggetti più facilmente portabili; e insistetti in spedizioni del genere quasi ogni mattina, prima di recarmi da Murdstone e Grinby. Il signor Micawber aveva alcuni pochi libri su di una piccola cassettiera che chiamava la biblioteca; e questi partirono per primi. Li portai, l'uno dopo l'altro, a una bancarella in City Road - una parte della quale, presso casa nostra, a quel tempo era quasi tutta occupata da bancarelle e vendite di uccelli - e li vendetti per quello che mi davano. Il padrone di questa bancarella, che abitava in una casupola lì vicino, soleva ubriacarsi tutte le sere ed essere violentemente rampognato da sua moglie tutte le mattine. Più di un volta, quando andavo là di buon ora, mi accolse in un letto pieghevole, con un taglio sulla fronte o un occhio nero, testimonianze dei suoi eccessi serali (temo che avesse la sbornia litigiosa), e mentre lui, con la mano tremante, cercava di trovare gli scellini necessari in una o nell'altra tasca dei suoi abiti gettati sul pavimento, sua moglie, con un bambino fra le braccia e le scarpe scalcagnate, non la finiva di vituperarlo. Spesso aveva perso il denaro e allora mi diceva di tornare; ma sua moglie ne aveva sempre un po' - direi che se lo era preso durante le sue ubriacature - e concludeva segretamente l'affare sulle scale, mentre scendevamo insieme. Anche al monte dei pegni cominciai a essere molto conosciuto. Il principale signore in funzione dietro il banco si era fatto una grande idea di me, e spesso, ricordo, mi pregava di declinargli all'orecchio un sostantivo o un aggettivo latino, o di coniugargli un verbo della stessa lingua, mentre trattava la mia bisogna. Dopo questi affari, la signora Micawber dava un piccolo trattenimento, che in genere era una cena, e questi pasti avevano un particolare gusto che ricordo assai bene. Alla fine le difficoltà del signor Micawber giunsero a una crisi: fu arrestato un mattino presto e portato nella prigione del King's Bench, nel Borough. Uscendo di casa mi disse che il dio della luce era tramontato per lui; e io pensai proprio che il suo cuore fosse spezzato al pari del mio. Ma seppi in seguito che era stato visto giocare un'allegra partita a birilli prima di pranzo. La prima domenica dopo che era stato portato laggiù, dovevo andare a trovarlo e desinare con lui. Dovevo chiedere la via per arrivare a un certo posto, e proprio vicino a quel posto ne avrei visto un altro simile, e proprio vicino a quello avrei visto un cortile, dovevo attraversarlo e andare avanti dritto finché avrei incontrato un secondino. Feci tutto questo, e quando alla fine incontrai il secondino (povero bambino che ero!) e pensai che, quando Roderick Random era in una prigione per debiti, v'era là un uomo con niente altro addosso che un vecchio tappeto, il secondino ondeggiò vagamente davanti ai miei occhi offuscati e al mio cuore palpitante. Il signor Micawber mi aspettava dietro il cancello; salimmo nella sua stanza (penultimo piano) e piangemmo tutte le nostre lacrime. Mi scongiurò solennemente, ricordo, di prendere insegnamento dalla sua sorte e di non dimenticare che, se un uomo aveva una entrata annua di venti sterline e spendeva diciannove sterline, diciannove scellini e sei pence, sarebbe stato felice, ma se spendeva ventun sterline, sarebbe stato miserabile. Dopo di che mi chiese uno scellino in prestito per la birra scura, mi diede un ordine di pagamento per tale somma da presentarsi alla signora Micawber, mise via il fazzoletto e si rianimò. Sedemmo davanti a un modesto fuoco con due mattoni nella grata rugginosa, uno per lato, per impedire che consumasse troppo carbone; finché un altro debitore, che divideva la stanza col signor Micawber, tornò dal forno con un lombo di montone che era il nostro capitale sociale sotto forma di desinare. Allora fui spedito dal «capitano Hopkins» nella stanza sopra, con gli omaggi del signor Micawber: ero un suo piccolo amico e lo pregavo di prestarmi un coltello e una forchetta. Il capitano Hopkins mi prestò coltello e forchetta con i suoi omaggi per il signor Micawber. Nella sua stanzetta c'erano una signora molto sudicia e due pallide ragazze, sue figlie, coi capelli arruffati. Pensai che era più sicuro chiedere in prestito al capitano Hopkins un coltello e una forchetta che non un pettine. Il capitano stesso era nella più miseranda delle condizioni, con grandi favoriti e un vecchio, vecchissimo pastrano scuro senza giacca sotto. Vidi il suo letto arrotolato in un angolo e, su di uno scaffale, tutto quanto possedeva in fatto di vassoi, piatti e pentole; e divinai (Dio sa come) che, sebbene le due ragazze coi capelli scarmigliati fossero le figlie del capitano Hopkins, la signora sudicia non era sposata al suddetto capitano. La mia timida permanenza sulla soglia non durò più di due minuti al massimo; ma tornai giù con tutto questo ben sicuro nella mia mente, non meno di quanto lo fossero il coltello e la forchetta nella mia mano. Tutto considerato, ci fu in quel pranzo qualche cosa di zingaresco che non era sgradevole. Riportai il coltello e la forchetta al capitano Hopkins nelle prime ore del pomeriggio e tornai a casa per confortare la signora Micawber col resoconto della mia visita. Lei cadde in deliquio appena mi vide e poi preparò un piccolo bricco di zabaglione di birra aromatizzato con noce moscata per consolarci mentre parlavamo di quell'argomento. Non so come accadde che il mobilio di casa andasse in vendita a beneficio della famiglia, né chi lo vendette; so solo che, in questo, io non c'entrai. Venduto, comunque, fu, e portato via in un furgone; eccetto il letto, poche sedie e il tavolo della cucina. Con queste proprietà ci accampammo, per così dire, nei due salotti della casa vuota in Windsor Terrace: la signora Micawber, i bambini, l'«orflana» e io stesso. In queste due stanze vivevamo notte e giorno. Non ho idea per quanto tempo, ma mi sembra per un tempo assai lungo. Alla fine la signora Micawber decise di trasferirsi nella prigione, dove il signor Micawber era riuscito ad assicurarsi una stanza per sé solo. Così portai la chiave dell'appartamento al padron di casa, che fu lietissimo di riaverla; e i letti furono mandati al King's Bench, eccetto il mio, per il quale fu affittata una stanzetta fuori mura, nei pressi di quello stesso stabilimento, con mia grande soddisfazione poiché i Micawber e io eravamo divenuti ormai troppo affiatati, nelle nostre disgrazie, per separarci. L'«orflana» fu egualmente sistemata in un alloggio gratuito delle stesse vicinanze. Il mio era un tranquillo abbaino sul retro, col tetto in pendenza, che dava sull'attraente panorama di un deposito di legname; e, quando ne presi possesso, riflettendo che i guai del signor Micawber erano finalmente arrivati a una crisi, mi parve un vero paradiso. Per tutto questo tempo continuavo a lavorare da Murdstone e Grinby nello stesso modo grossolano, con gli stessi grossolani compagni e con lo stesso senso di degradazione immeritata che avevo avuto fin dagli inizi. Ma, certo per mia fortuna, non feci mai una sola conoscenza, né mai scambiai parola, con i numerosi ragazzi che incontravo andando al magazzino, o tornandone, o girellando per le strade all'ora dei pasti. Conducevo la stessa vita segretamente infelice, ma la conducevo nello stesso modo solitario e limitato a me stesso. Gli unici cambiamenti di cui abbia consapevolezza sono, anzitutto, che ero divenuto più cencioso, e, secondariamente, che mi ero liberato di gran parte del peso di dover badare al signore e alla signora Micawber, perché alcuni parenti o amici si erano impegnati ad aiutarli nella loro attuale condizione, ed essi vivevano, in prigione, molto più comodamente di quanto avessero vissuto per molto tempo in libertà. Adesso solevo far colazione con loro grazie a certi arrangiamenti di cui ho dimenticato i particolari. Ho anche dimenticato a che ora si aprissero i cancelli, al mattino, permettendomi di entrare; ma so che spesso ero in piedi alle sei e che il mio favorito rifugio nell'intervallo era il vecchio Ponte di Londra, dove solevo rannicchiarmi in uno dei recessi di pietra per veder passare la gente, o affacciarmi alla balaustrata per contemplare il sole che scintillava nell'acqua e accendeva la fiamma dorata sulla cima del Monumento. L'«orflana» mi incontrava qui qualche volta, per sentirsi raccontare certe meravigliose fandonie relative alle banchine e alla Torre: delle quali non posso dire altro se non che spero di averci creduto io stesso. La sera solevo tornare alla prigione e andare su e giù per il passeggio col signor Micawber, o giocare a carte con la signora Micawber ascoltando i suoi ricordi del papà e della mamma. Se il signor Murdstone sapesse dove ero, non potrei dire. Non ne parlai mai da Murdstone e Grinby. Gli affari del signor Micawber, per quanto la crisi fosse passata, erano alquanto intricati per via di un certo «atto» del quale sentivo parlar sempre e che, suppongo adesso, doveva essere un qualche precedente accordo fatto con i suoi creditori, sebbene fossi allora così lontano dall'averne un'idea chiara che ricordo di averlo confuso con una di quelle diaboliche pergamene che si crede fossero un tempo così diffuse in Germania. Alla fine parve che questo documento fosse stato tolto di mezzo in qualche modo; comunque cessò di essere quello scoglio che era stato, e la signora Micawber mi informò che la «sua famiglia» aveva deciso che il signor Micawber doveva appellarsi, per il suo rilascio, all'Atto dei Debitori Insolvibili, che lo avrebbe rimesso in libertà, pensava lei, entro sei mesi circa. «E allora,» disse il signor Micawber che era presente, «non dubito che, se il Cielo vorrà, potrò cominciare a essere a posto col mondo e a vivere in un modo assolutamente nuovo, se... insomma se salterà fuori qualche cosa.» Per non tralasciare nulla di ciò che potesse essere messo su carta, ricordo che il signor Micawber, verso questo tempo, redasse una petizione alla Camera dei Comuni invocando una modifica alla legge sul carcere per debiti. Annoto qui questo ricordo perché è per me un esempio del modo con cui adattavo le mie antiche letture alla mia nuova vita, e creavo romanzi per me stesso, traendoli dalle strade, e dagli uomini e dalle donne che conoscevo; e di come certi tratti del carattere che, suppongo, svilupperò inconsciamente nel descrivere la mia vita si formassero a poco a poco in questo frattempo. V'era nella prigione un circolo nel quale il signor Micawber, come gentiluomo, era una grande autorità. Egli aveva esposto al circolo l'idea di questa petizione, e il circolo l'aveva vigorosamente approvata. Di conseguenza il signor Micawber (che era un uomo eccellente e l'essere più attivo che sia mai esistito per ogni cosa eccettuati i suoi affari, e che non era mai tanto felice come quando poteva occuparsi di qualcosa che non gli avrebbe recato il minimo profitto) si mise al lavoro per la sua petizione, la compose, la ricopiò su di un immenso foglio, la dispiegò su di un tavolo e fissò un'ora in cui tutto il circolo e tutti coloro che erano nell'edificio, se volevano, potevano salire nella sua stanza e firmarla. Quando seppi dell'imminenza di questa cerimonia, divenni così ansioso di vederli arrivare, l'uno dopo l'altro, sebbene conoscessi già la maggior parte di loro e loro conoscessero me, che ottenni un'ora di permesso da Murdstone e Grinby e mi stabilii a questo scopo in un angolo della stanza. Tutti i principali membri del circolo che potevano entrare in quella cameretta senza riempirla si schierarono a sostegno del signor Micawber davanti alla petizione, mentre il mio vecchio amico capitano Hopkins (che si era lavato per fare onore a un avvenimento così solenne) vi stava a fianco per leggerla a tutti coloro che ne ignorassero il contenuto. La porta venne allora spalancata e tutta la popolazione cominciò a entrare in lunga fila: la folla aspettava fuori mentre uno entrava, firmava e usciva. A ognuno, via via, il capitano Hopkins chiedeva: «L'avete letta?» - «No.» - «Volete che ve la legga?» Se quello mostrava debolmente la minima disposizione ad ascoltarla, il capitano Hopkins, con una gran voce risonante, gliela leggeva fino all'ultima parola. Il capitano l'avrebbe letta ventimila volte se ventimila persone avessero voluto ascoltarlo, una per una. Ricordo una certa cadenza ridondante che dava ad alcune frasi come: «I rappresentanti del popolo riuniti in Parlamento», «I postulanti si rivolgono perciò all'onorevole Camera», «I sudditi meno fortunati della sua graziosa Maestà», come se le parole fossero qualche cosa di concreto nella sua bocca e di gusto delizioso. Il signor Micawber, frattanto, ascoltava con un tantino della vanità dell'autore e contemplava (senza turbamento) le punte che orlavano il muro di fronte. Mi domando quanta di quella gente mancasse nella folla di figure immaginarie che continuavano a sfilare davanti a me in processione, all'eco della voce del capitano Hopkins, quando andavo su e giù fra Southwark e Blackfriars o gironzolavo all'ora dei pasti per le strade buie, le cui pietre, per quanto sappia, possono sussistere ancora, consunte dal mio piede infantile! Quando i miei pensieri, oggi, tornano a quella lenta agonia della mia giovinezza, mi domando quante delle storie che inventai per gente come quella siano sospese come una nebbia di fantasia su fatti reali ben ricordati! Quando calpesto l'antico suolo non mi meraviglio se mi sembra di vedere e di commiserare un innocente fanciullo romantico che cammina dinanzi a me e trae il suo mondo immaginario da così strane esperienze e così sordide cose. XII • POICHÉ LA VITA PER MIO CONTO CONTINUA A NON PIACERMI, PRENDO UNA GRANDE DECISIONE A tempo debito, l'appello del signor Micawber fu maturo per la discussione; e, con mia gran gioia, il gentiluomo fu assolto in forza dell'Atto dei Debitori Insolvibili. I suoi creditori non si mostrarono implacabili; e la signora Micawber mi confidò che perfino il vendicativo calzolaio aveva dichiarato in piena corte che non gli portava rancore, ma che, quando gli si doveva del denaro, desiderava essere pagato. Disse che, secondo il suo parere, ciò era proprio della natura umana. Quando la sua causa si fu conclusa, il signor Micawber tornò al King's Bench perché vi erano ancora alcuni conti da regolare e alcune formalità da compiere prima che potesse essere effettivamente rilasciato. Il circolo lo accolse con grandi effusioni e, quella sera stessa, tenne una riunione musicale in suo onore; frattanto la signora Micawber ed io ci concedevamo in privato un fritto di agnello, circondati dalla famiglia addormentata. «In un'occasione così importante, signorino Copperfield,» disse la signora Micawber, «vi darò un altro sorso di flip,», perché ne avevamo già bevuti parecchi, «alla memoria del mio papà e della mia mamma.» «Sono morti, signora?» chiesi dopo aver bevuto quel brindisi in un bicchiere da vino. «La mamma lasciò questa vita,» rispose la signora Micawber, «prima che cominciassero le difficoltà del signor Micawber, o per lo meno prima che divenissero critiche. Il papà visse tanto da poter dare più volte garanzia per il signor Micawber, e infine spirò, rimpianto da molti.» La signora Micawber scosse la testa e lasciò cadere una pia lacrima sul gemello che aveva in braccio in quel momento. Poiché non potevo sperare che mi si presentasse un'occasione più favorevole per avanzare una domanda che mi interessava da vicino, le dissi: «Posso chiedervi, signora, che cosa intendete fare, voi e il signor Micawber, ora che il signor Micawber ha superato le sue difficoltà ed è libero? Avete già deciso?» «La mia famiglia,» rispose la signora Micawber, che pronunciava sempre queste tre parole in tono solenne, sebbene non riuscissi mai a scoprire chi si celava sotto questa denominazione, «la mia famiglia è di opinione che il signor Micawber dovrebbe lasciare Londra ed esercitare i suoi talenti in campagna. Il signor Micawber è un uomo di grande talento, signorino Copperfield.» Dissi di esserne sicuro. «Di grande talento,» ripeté la signora Micawber. «La mia famiglia è di opinione che, con un po' di interessamento, si potrebbe ottenere qualche cosa alla Dogana per un uomo della sua abilità. E, poiché le influenze della mia famiglia sono locali, è suo desiderio che il signor Micawber si trasferisca a Plymouth. Considerano indispensabile che egli si trovi sul luogo.» «Per essere pronto?» suggerii. «Esattamente,» rispose la signora Micawber. «Per essere pronto... qualora saltasse fuori qualche cosa.» «E andrete anche voi, signora?» Gli eventi del giorno, combinandosi con i gemelli, se non con il flip, avevano reso la signora Micawber piuttosto isterica, ed ella versò abbondanti lacrime nel rispondere: «Non abbandonerò mai il signor Micawber. Il signor Micawber può avermi nascosto le sue difficoltà nel primo momento, ma forse il suo temperamento esuberante lo avrà indotto ad attendere di averle superate. La collana di perle e i braccialetti che ho ereditato dalla mamma, sono stati venduti per meno della metà del loro valore; e il completo di corallo, che era stato il dono di nozze del mio papà, è stato dato via proprio per niente. Ma non abbandonerò mai il signor Micawber. No!» esclamò la signora Micawber ancor più appassionata, «non lo farò mai! È inutile chiedermelo!» Mi sentii molto a disagio - come se la signora Micawber supponesse che le avessi chiesto di fare qualche cosa del genere! - e me ne rimasi seduto guardandola con apprensione. «Il signor Micawber ha i suoi torti. Non nego che è imprevidente. Non nego che mi ha tenuta all'oscuro per quanto riguardava le sue risorse e i suoi impegni,» continuò fissando la parete; «ma non abbandonerò mai il signor Micawber!» Poiché adesso la signora Micawber alzava la voce in un vero e proprio strido, io fui così atterrito che mi precipitai nella stanza del circolo e disturbai il signor Micawber nel momento in cui presiedeva a una lunga tavolata dirigendo il coro di Vai, uh, Bertino, Vai, oh, Bertino, Vai, uh, Bertino, Vai, uh, e vai, oh-o-o! per portargli la notizia che la signora Micawber era in uno stato inquietante. Al che lui scoppiò immediatamente in lacrime e venne via insieme a me col panciotto pieno di teste e code di gamberetti, piatto forte della cena. «Emma angelo mio!» gridò il signor Micawber irrompendo nella stanza; «che succede?» «Non ti abbandonerò mai, Micawber!» esclamò lei. «Vita mia!» disse il signor Micawber prendendola fra le braccia. «Ne sono perfettamente sicuro.» «È il genitore dei miei figli! Il padre dei miei gemelli! È il mio marito adorato,» gridò la signora Micawber dibattendosi; «e io mai - abbandonerò il signor Micawber!» Il signor Micawber fu così profondamente colpito da questa prova della sua devozione (quanto a me, mi scioglievo in lacrime), che si chinò su di lei in modo appassionato implorandola di alzare lo sguardo e di calmarsi. Ma quanto più pregava la signora Micawber di alzare gli occhi, tanto più lei li spalancava nel vuoto; e tanto più la pregava di ricomporsi tanto meno lei lo faceva. Di conseguenza il signor Micawber fu presto così sopraffatto che mischiò le sue lacrime con quelle di lei e con le mie; finché mi pregò di fargli il favore di prendere un sedile e andarmene con quello sulle scale, mentre lui l'avrebbe messa a letto. Io avrei voluto prendere congedo, ma lui non volle sentirne parlare finché non fosse suonata la campana che annunciava l'uscita dei visitatori. Così mi sedetti davanti alla finestra delle scale, finché lui uscì con un'altra sedia e mi si mise accanto. «Come sta ora la signora Micawber, signore?» chiesi. «È molto depressa,» rispose il signor Micawber scuotendo la testa. «Reazione. Ah! questa è stata una giornata terribile! Adesso siamo soli... tutto è fuggito da noi!» Il signor Micawber mi strinse la mano, emise un gemito e infine pianse. Io ero molto commosso e anche deluso perché mi ero aspettato che, in questa felice e tanto attesa occasione, saremmo stati tutti di ottimo umore. Ma il signore e la signora Micawber erano così abituati alle loro antiche difficoltà, credo, che si sentirono in pieno naufragio quando si accorsero di essersene liberati. Tutta la loro elasticità era scomparsa: non li vidi mai nemmeno per la metà infelici come quella sera; tanto che, quando suonò la campana e il signor Micawber mi accompagnò all'ingresso e si separò da me benedicendomi, sentii una gran paura nel lasciarlo solo vedendolo in quello stato di completa desolazione. Ma pur nella confusione e nell'abbattimento di spiriti in cui eravamo stati travolti, così inaspettatamente per me, mi rendevo perfettamente conto che il signore e la signora Micawber con tutta la loro famiglia stavano per lasciare Londra, e che era imminente una separazione fra noi. E quella sera, mentre tornavo a casa, e nelle ore insonni che seguirono quando fui andato a letto, mi si presentò per la prima volta l'idea - non so proprio come mi venne in testa - che in seguito prese forma in una decisione risoluta. Io mi ero ormai così abituato ai Micawber, avevo avuto una tale intimità con loro nelle loro angosce, e rimanevo così completamente privo di amici senza di loro, che la prospettiva di ripiombare in nuovi maneggi per trovarmi un alloggio e di capitare ancora una volta fra gente sconosciuta era per me come sentirmi abbandonato alla deriva nella mia vita presente, di cui conoscevo già tutto quello che l'esperienza mi aveva fatto conoscere. Tutti i più delicati sentimenti che quell'esperienza aveva ferito in me, tutta la vergogna e la disperazione che aveva tenuto vive nel mio cuore, divennero più cocenti nel pensare a questo; e decisi che una tal vita era ormai insopportabile. Che non c'era speranza di sfuggirvi se non vi sfuggivo per mia iniziativa, lo sapevo benissimo. Raramente avevo avuto notizie della signorina Murdstone e mai del signor Murdstone; ma due o tre pacchi di abiti nuovi o rammendati erano stati inviati, per me, al signor Quinion, e in ognuno c'era un pezzo di carta per farmi sapere che J.M. sperava che D.C. si applicasse al lavoro e si dedicasse interamente ai suoi doveri: senza il minimo accenno a una mia possibilità di esser mai qualche cosa di diverso dal comune uomo di fatica in cui mi stavo rapidamente trasformando. L'indomani stesso, mentre la mia mente era nel primo fervore di ciò che avevo concepito, mi fu evidente che la signora Micawber non aveva parlato a caso della loro partenza. Presero alloggio, per una settimana, nella stessa casa in cui abitavo, e al termine di quel periodo sarebbero partiti per Plymouth. Nel pomeriggio, il signor Micawber venne di persona all'ufficio di contabilità per avvertire il signor Quinion che mi avrebbe lasciato il giorno della sua partenza e per fare di me un alto elogio che sono certo di aver meritato. Il signor Quinion, chiamato il carrettiere Tipp, che era sposato e aveva una camera da affittare, mi sistemò per l'avvenire presso di lui: per nostro mutuo consenso, come egli aveva ogni ragione di credere; perché io non dissi nulla, sebbene la mia risoluzione fosse già stata presa. Per tutto il restante periodo della nostra residenza sotto lo stesso tetto, passai le serate col signore e la signora Micawber; e credo che ci affezionassimo sempre più l'uno all'altro via via che il tempo passava. L'ultima domenica mi invitarono a pranzo; e vennero in tavola lombo di maiale con salsa di mele e uno sformato. Io avevo comprato un cavallino di legno, pomellato, come dono di addio per il piccolo Wilkins Micawber - che era il bambino - e una bambola per la piccola Emma. Regalai anche uno scellino all'«orflana», che stava per essere congedata. Passammo una giornata molto piacevole, sebbene fossimo tutti commossi per la separazione vicina. «Non ricorderò mai, signorino Copperfield,» disse la signora Micawber, «il periodo in cui il signor Micawber era in difficoltà, senza pensare a voi. La vostra condotta è sempre stata delicata e obbligante più che non si possa dire. Non siete mai stato un pigionante: siete stato un amico.» «Mia cara,» disse il signor Micawber, «Copperfield,» perché così era solito chiamarmi negli ultimi tempi, «ha un cuore per sentire le sventure dei suoi amici quando una nube li offusca, e una testa per decidere, e una mano per... insomma una generica abilità per collocare con profitto qualsiasi cosa di cui ci si può sbarazzare.» Gli dissi quanto fossi sensibile a questo apprezzamento e quanto spiacente che ci dovessimo lasciare. «Mio caro giovane amico,» disse il signor Micawber, «io sono più vecchio di voi; un uomo che ha qualche esperienza di vita e... e, insomma, che ha qualche esperienza delle difficoltà, generalmente parlando. Attualmente, e finché non salterà fuori qualche cosa (e posso dire di aspettarlo di ora in ora), non ho altro da darvi che dei consigli. Tuttavia il mio consiglio è tanto più degno di essere seguito in quanto... insomma, in quanto io stesso non l'ho mai seguito e sono il...» qui il signor Micawber, che era stato fin allora radioso e sorridente per tutta la testa e il volto, cambiò espressione accigliandosi, «il povero disgraziato che vedete.» «Mio caro Micawber,» implorò sua moglie. «Ho detto,» riprese il signor Micawber dimenticando tutto e tornando a sorridere, «il povero disgraziato che vedete. Il mio consiglio è: mai rimandare al domani quello che si può fare oggi. La procrastinazione è il vero ladro del tempo. Bisogna prenderlo per il colletto.» «La massima del mio povero papà,» osservò la signora Micawber. «Mia cara,» disse il signor Micawber, «il tuo papà si comportava molto bene a modo suo, e non permetta il cielo che io cerchi di denigrarlo. Preso tutto insieme, insomma, non potremo mai incontrare, probabilmente, un altro che all'età sua possegga le sue stesse gambe per portar ghette o che sia capace di leggere gli stessi caratteri di stampa senza occhiali. Ma volle applicare la sua massima al nostro matrimonio, mia cara; e, di conseguenza, questo fu messo in atto così prematuramente che non mi riebbi mai più dalla spesa.» Il signor Micawber guardò con la coda dell'occhio la signora Micawber e aggiunse: «Non che me ne dispiaccia. Tutto al contrario, amor mio.» Dopo di che rimase serio per circa un minuto. «Il mio secondo consiglio, Copperfield,» continuò il signor Micawber, «lo conoscete già. Entrata annua venti sterline, spesa annua diciannove, diciannove e sei, risultato: felicità. Entrata annua venti sterline, spesa annua venti sterline e sei pence, risultato: sciagure. Il fiore è appassito, avvizzita la foglia, il dio della luce tramonta sulla terribile scena e... e insomma siete a terra per sempre. Come me.» Per rendere più imponente il suo esempio, il signor Micawber bevve un bicchiere di ponce con un'aria altamente compiaciuta e soddisfatta e fischiettò la Cornamusa del collegio. Non mancai di assicurarlo che mi sarei fissato bene in mente questi precetti, sebbene in realtà non avessi bisogno di dirlo perché, in quel momento, avevano fatto su di me una visibile impressione. Il mattino dopo, incontrai l'intera famiglia all'ufficio delle diligenze e, col cuore desolato, li vidi prender posto all'esterno, posteriormente. «Signorino Copperfield,» disse la signora Micawber, «Dio vi benedica! Non potrò mai dimenticare tutto questo, lo sapete, e non lo farei nemmeno se potessi.» «Copperfield,» disse il signor Micawber, «addio! Ogni felicità e prosperità! Se nel progressivo volger degli anni potrò convincermi che il mio sciagurato destino è stato un ammonimento per voi, avrò la certezza di non avere occupato del tutto invano il posto che avrebbe potuto avere un altro uomo nell'esistenza. E se mai saltasse fuori qualche cosa (e ne ho qualche fiducia) sarò estremamente felice di aver l'occasione di venire incontro alle vostre speranze.» Credo che, mentre la signora Micawber sedeva sul retro della diligenza con i bambini, e io rimanevo in piedi sulla strada fissandoli intento, una nebbia si sia schiarita dinanzi ai suoi occhi ed ella vedesse infine quale piccolo essere io fossi. Penso così perché mi accennò di salire, con in volto un'espressione materna del tutto nuova, e mi cinse il collo con le braccia, e mi diede lo stesso bacio che avrebbe potuto dare a un suo figlio. Io ebbi appena il tempo di scendere prima che la diligenza partisse, e appena potei scorgere la famiglia per i fazzoletti che sventolava. In un minuto scomparvero. L'«orflana» e io rimanemmo a guardarci storditi negli occhi in mezzo alla strada, poi ci stringemmo le mani e ci salutammo: lei per tornare, immagino, all'ospizio di San Luca, e io per cominciare la mia tediosa giornata da Murdstone e Grinby. Ma non avevo intenzione di trascorrere laggiù ancor molti di questi giorni tediosi. No. Avevo deciso di fuggire: di avventurarmi con un qualsiasi mezzo nella campagna verso l'unica parente che avevo al mondo, e raccontare la mia storia alla zia, la signorina Betsey. Ho già detto di non sapere come questa disperata idea mi fosse entrata nel cervello. Ma, adesso che era lì, vi rimaneva. E si rafforzò in una decisione di cui non ne ho mai concepita una più risoluta in vita mia. Sono tutt'altro che sicuro di aver creduto che ci fosse in essa qualche effettiva speranza, ma sentivo con tutto il mio essere che dovevo metterla in pratica. Più e più volte, per centinaia di volte, dalla notte in cui quel pensiero mi era apparso per la prima volta impedendomi di dormire, ero tornato con la mente alla vecchia storia che mi raccontava la mia povera madre relativamente alla mia nascita: ascoltarla era stato per me una delle maggiori delizie dei vecchi tempi e la sapevo a memoria. Mia zia entrava in questa storia e ne usciva come un personaggio pauroso e terribile; ma v'era, nel suo comportamento, un piccolo tratto sul quale mi piaceva soffermarmi e che mi dava una qualche lieve ombra di incoraggiamento. Non potevo dimenticare che mia madre mi aveva detto di averla sentita toccare i suoi bei capelli con mano non rude; e, sebbene avesse potuto essere, quella, solo una fantasia di mia madre, priva di qualsiasi fondamento, io ne avevo tratto un quadretto della mia terribile zia intenerita da quella infantile bellezza che ricordavo così bene e amavo tanto, il quale mitigava tutto il racconto. È molto probabile che quell'immagine mi sia rimasta per molto tempo nella mente e abbia a poco a poco dato corpo alla mia decisione. Poiché non sapevo nemmeno dove vivesse la signorina Betsey, scrissi una lunga lettera a Peggotty chiedendole incidentalmente se lo ricordava: inventai di aver sentito parlare di una signora del suo tipo, abitante in un luogo che nominai a caso, e di esser curioso di sapere se si trattava di lei. Nel corso della lettera dissi a Peggotty che avevo un particolare bisogno di mezza ghinea; e che, se mi avesse potuto prestare questa somma finché fossi in grado di restituirgliela, le sarei stato molto riconoscente e le avrei poi detto a che cosa mi era servita. La risposta di Peggotty arrivò subito e, come il solito, era piena di devoto affetto. Conteneva la mezza ghinea (temetti che avesse dovuto darsi molta pena per cavarla dallo scrigno del signor Barkis) e mi diceva che la signorina Betsey abitava presso Dover, ma se proprio a Dover o a Hythe, Sandgate, o Folkestone, non poteva precisarlo. Comunque, essendo stato informato da uno dei nostri uomini, a cui avevo chiesto notizie di questi luoghi, che erano molto vicini fra loro, considerai queste notizie sufficienti per il mio scopo e decisi di partire alla fine di quella settimana. Ero un omettino molto onesto e non volevo macchiare il ricordo che stavo per lasciare di me a Murdstone e Grinby: considerai dunque mio dovere restare fino al sabato sera; e, essendo stato pagato con una settimana di anticipo quando ero arrivato, decisi di non presentarmi all'ufficio di contabilità all'ora solita per ricevere il mio salario. Appunto per questo mi ero fatto prestare mezza ghinea, onde non rimanere privo di mezzi per le mie spese di viaggio. Di conseguenza, giunta la sera del sabato, mentre tutti attendevano nel magazzino di esser pagati, appena il carrettiere Tipp, che aveva sempre la precedenza, fu entrato per prendere il suo denaro, strinsi la mano a Mick Walker, lo pregai, quando fosse venuto il suo turno, di dire al signor Quinion che ero andato a portare il mio baule in casa di Tipp, e, augurata l'ultima buona notte a Patata Infarinata, filai via. Il baule era nel mio vecchio alloggio, al di là del fiume, e io ne avevo già scritto l'indirizzo sul verso di uno di quei cartelli che inchiodavamo sui barili: «Signorino David, da consegnarsi quando sarà richiesto all'Ufficio delle Diligenze di Dover.» Lo avevo pronto in tasca per applicarlo al baule dopo averlo portato fuori di casa; e, nell'avviarmi al mio alloggio, mi guardavo intorno cercando qualcuno che potesse aiutarmi a trasportare il baule stesso alla biglietteria. C'era un giovanotto dalle gambe lunghe con un carrettino vuoto, tirato da un asino, fermo presso l'Obelisco, in Blackfriars Road, di cui colsi lo sguardo mentre gli passavo vicino, e che, chiamandomi «soldo di cacio», mi avvertì che «se proprio volevo conoscerlo, poi me ne sarei pentito», alludendo, evidentemente, al modo con cui lo fissavo. Mi fermai per rassicurarlo che non lo avevo fatto con cattive intenzioni ma perché ero incerto se avrebbe accettato o no un lavoro. «Quale lavoro?» chiese il giovane con le gambe lunghe. «Portarmi un baule,» risposi io. «Quale baule?» chiese ancora il giovane. Gli dissi che era il mio, che bisognava andare a prenderlo giù per quella strada e che doveva portarlo all'ufficio delle diligenze di Dover per un compenso di sei pence. «Vada per i sei pence!» disse il giovane dalle gambe lunghe, e, saltato immediatamente sul carrettino, che non era altro che un piano di legno su ruote, sferragliò via a tal velocità che io ebbi un bel da fare per tener dietro al suo somaro. C'era qualche cosa di insolente, in quel giovanotto, e in particolare nel modo con cui masticava paglia mentre mi parlava, che non mi piaceva affatto; comunque, poiché il contratto era stato stipulato, lo condussi su nella stanza che stavo per lasciare, portammo giù il baule e lo mettemmo sul carretto. Non volevo applicarvi l'indirizzo in quella stessa stanza per paura che qualcuno della famiglia del padron di casa potesse chiedermi quello che avevo intenzione di fare e trattenermi; così pregai il giovane di fermarsi un minuto quando avrebbe raggiunto il muro cieco della prigione del King's Bench. Avevo appena pronunciato queste parole, che quello partì con grande strepito come se lui, il mio baule, il carro e l'asino fossero impazziti tutti insieme, ed io ero completamente senza fiato per il correre e il gridargli dietro quando lo raggiunsi al punto stabilito. Accaldato e sconvolto, mi feci cadere di tasca la mia mezza ghinea nel tirar fuori il cartello. Me la misi in bocca per sicurezza e, per quanto mi tremassero le mani, avevo giusto fissato il cartello con mia grande soddisfazione quando mi sentii colpire violentemente sotto il mento dal giovane dalle gambe lunghe e vidi la mia mezza ghinea volare direttamente dalla mia bocca nella sua mano. «Come?» gridò il giovane afferrandomi per il colletto della giacca con un ghigno pauroso. «Questo è un caso da polizia, eh? Volevi svignartela, no? Andiamo alla polizia, furfantello, andiamo alla polizia!» «Restituitemi il mio denaro,» dissi io completamente atterrito, «e lasciatemi.» «Andiamo alla polizia!» ripeté il giovane. «Lo dimostrerai alla polizia che è tuo.» «Restituitemi il denaro e il baule,» gridai scoppiando in lacrime. Il giovanotto continuava a ripetere: «Andiamo alla polizia!» e mi spingeva violentemente contro il somaro come se ci fosse stata una qualche affinità tra quell'animale e un magistrato; poi cambiò idea, saltò sul carretto, si sedette sul mio baule e, gridando che andava difilato alla polizia, sferragliò via più veloce che mai. Io gli corsi dietro con tutte le mie energie, ma non avevo fiato per chiamarlo e, adesso, non avrei osato farlo nemmeno se ne avessi avuto. Evitai per un capello di essere investito almeno una ventina di volte in mezzo miglio. Lo perdevo, lo rivedevo, lo perdevo ancora, ora mi arrivava una frustata, ora un'imprecazione, ora scivolavo nel fango, ora mi trovavo ancora in piedi, ora piombavo nelle braccia di qualcuno, ora andavo a capofitto contro un palo. Alla fine, trafelato e atterrito, con la sensazione che mezza Londra si fosse frattanto voltata a contemplare le mie smanie, lasciai che il giovane se ne andasse col mio baule e il mio denaro; e, anelante e piangente, ma senza mai fermarmi, mi diressi verso Greenwich, che avevo saputo trovarsi sulla strada di Dover, portando con me da questo mondo, verso il ritiro di mia zia, la signorina Betsey, ben poco più di quello che avevo portato in esso la notte in cui il mio arrivo l'aveva tanto irritata. XIII • SEGUITO DELLA MIA DECISIONE Per quanto ne so, quando rinunciai all'inseguimento del giovanotto e del suo asino e presi la via di Greenwich, potrei avere avuto l'idea disperata di far di corsa tutta la strada fino a Dover. Ma, su questo punto, i miei sconvolti sentimenti si rimisero presto, se anche avevo avuto quell'idea; perché mi fermai sulla strada di Kent, in un piazzale che aveva davanti una fontana con una grande e goffa figura al centro, che soffiava dentro una conchiglia. Qui mi sedetti su di una soglia, totalmente esaurito dagli sforzi che avevo fatto e con appena il fiato per piangere la perdita del mio baule e della mia mezza ghinea. Frattanto si era fatto buio; mentre ero lì seduto a riposarmi udii gli orologi battere le dieci. Ma per fortuna era una sera d'estate e faceva bel tempo. Quando ebbi ripreso fiato e mi fui liberato da un senso di soffocazione che mi chiudeva la gola, mi alzai e proseguii. Nel pieno della mia desolazione, non mi passò neppure per la mente l'idea di tornare indietro. Credo che non ci avrei pensato nemmeno se sulla strada di Kent ci fosse stato un nevaio svizzero. Ma il fatto di possedere in tutto solo tre mezzi pence (e mi domando proprio come quei tre mezzi pence mi fossero rimasti in tasca un sabato sera!) non mi dava meno pensiero solo perché avevo ripreso a camminare. Cominciai a raffigurarmi, come un fatto di cronaca, il ritrovamento del mio cadavere, entro un giorno o due, sotto qualche cespuglio; e continuavo ad arrancare disperatamente, anche se più in fretta che potevo, finché mi capitò di passare davanti a una botteguccia su cui era scritto che si compravano abiti da uomo e da donna e che si pagavano i migliori prezzi per stracci, ossa e avanzi di cucina. Il padrone di questa bottega era seduto davanti alla porta in maniche di camicia, fumando; e poiché vi era una gran quantità di giacche e pantaloni appesi al basso soffitto mentre solo due fioche candele ardevano nell'interno per illuminarli, mi parve vedere in lui un uomo di temperamento vendicativo che stesse lì a godersela dopo aver impiccato tutti i suoi nemici. Le mie recenti esperienze col signore e la signora Micawber mi suggerirono che lì c'era la possibilità di tener lontano il lupo almeno per un po' di tempo. Sgattaiolai nella straduzza più vicina, mi sfilai il panciotto, me lo arrotolai accuratamente sotto braccio e tornai alla porta della bottega. «Scusate, signore,» dissi, «avrei questo da vendere per un giusto prezzo.» Il signor Dolloby - Dolloby, per lo meno, era il nome scritto sulla porta della bottega - prese il panciotto, appoggiò la sua lunghissima pipa ben dritta contro lo stipite della porta, entrò nella bottega seguito da me, smoccolò le due candele con le dita, spiegò il panciotto sul banco, lo guardò, lo alzò contro luce, tornò a guardarlo e infine disse: «Be', che cosa chiedete per questo panciottino?» «Oh, voi ve ne intendete di più, signore,» risposi modestamente. «Io non posso fare insieme il venditore e il compratore,» disse il signor Dolloby. «Fate voi un prezzo per il panciottino.» «Potrebbe andare diciotto pence?» arrischiai dopo qualche esitazione. Il signor Dolloby tornò ad arrotolarlo e me lo restituì. «Deruberei la mia famiglia,» disse, «se offrissi nove pence.» Era un modo sgradevole di porre l'affare; perché imponeva a me, del tutto estraneo come ero, l'ingrato compito di chiedere al signor Dolloby di derubare la sua famiglia a mio favore. Comunque, dato l'incalzare delle circostanze, dissi che, se voleva, avrei accettato i nove pence. Il signor Dolloby me li diede, non senza brontolare. Gli augurai la buona notte e uscii dalla bottega, arricchito di quella somma ma impoverito di un panciotto. Tuttavia, se mi abbottonavo la giacchetta, non faceva molta differenza. In verità prevedevo abbastanza chiaramente che la giacchetta gli sarebbe andata dietro e che avrei dovuto fare il più della strada fino a Dover in camicia e calzoni, e che mi sarei potuto considerare fortunato se ci arrivavo almeno in quell'assetto. Ma la mia mente non approfondì questo punto come ci si potrebbe aspettare. Oltre a una generale impressione della distanza che mi stava dinanzi e della crudeltà con cui mi aveva trattato il giovane dal somaro, credo che non avessi la visione esatta delle mie imminenti difficoltà quando ripresi al cammino con i miei nove pence in tasca. Mi era venuto in mente un progetto per passar la notte e mi preparavo a metterlo in esecuzione. Si trattava di dormire sotto il muro dietro il mio antico collegio, in un angolo dove di solito c'era un mucchio di fieno. Pensavo che sarebbe stata una sorta di compagnia avere così vicini i ragazzi e la camerata in cui solevo raccontare le storie: sebbene i ragazzi non avrebbero mai saputo nulla della mia presenza e la camerata non mi avrebbe offerto riparo. Avevo avuto una giornata di dure fatiche ed ero un bel po' sfinito quando sbucai alla fine sulla spianata di Blackheath. Non mi fu facile trovare il Collegio Salem: ma infine lo trovai, trovai un mucchio di fieno nell'angolo e mi abbandonai su di esso, dopo avere però fatto il giro del muro e guardato nelle finestre per assicurarmi che tutto fosse buio e silenzioso nell'interno. Non dimenticherò mai la sensazione desolata di sdraiarmi per la prima volta senza un tetto sul capo!. Il sonno venne su di me come venne su molti altri derelitti contro i quali, quella notte, le porte si chiusero e i cani abbaiarono; e sognai di essere nel mio vecchio letto di collegio, e parlare con i ragazzi della mia stanza. D'improvviso mi trovai dritto a sedere, con il nome di Steerforth sulle labbra, a guardare esterrefatto le stelle scintillanti e tremolanti sopra di me. Quando mi ricordai dov'ero a quell'ora insolita, mi attraversò come un brivido una sensazione che mi fece balzare in piedi, impaurito di non so che cosa, e muovere qualche passo. Ma il più debole bagliore delle stelle e la pallida luce del cielo dove il giorno si avvicinava, mi rassicurarono: e poiché sentivo le palpebre pesanti, tornai a coricarmi e dormii - pur sapendo, nel sonno, di aver freddo - finché i caldi raggi del sole e la campana della sveglia del Collegio Salem mi destarono. Se avessi potuto sperare che Steerforth fosse lì, mi sarei nascosto nei paraggi aspettando che uscisse solo; ma sapevo che doveva essere partito da molto tempo. Traddles c'era ancora, forse, ma era cosa molto dubbia; e io non avevo sufficiente fiducia nella sua discrezione o nella sua fortuna, per quanto sicuro fossi del suo buon carattere, per essere indotto a confidargli le condizioni in cui mi trovavo. Per questo sgattaiolai via da quel muro mentre i ragazzi del signor Creakle si alzavano, e mi cacciai ancora nella lunga strada polverosa che per la prima volta avevo conosciuto come la via di Dover quando ero uno di loro e non immaginavo davvero di potere esser veduto un giorno su di essa come il povero viandante che ero adesso. Com'era diverso, quel mattino domenicale, dai vecchi mattini domenicali di Yarmouth! Al tempo debito udii suonare le campane delle chiese mentre faticosamente avanzavo; incontrai gente che andava in chiesa; oltrepassai un paio di chiese in cui la congregazione era riunita, e il suono dei canti usciva nella luce solare mentre il sacrestano se ne stava seduto a prendere il fresco nell'ombra del portico o sostava sotto il tasso e si riparava gli occhi con la mano osservando accigliato il mio passaggio. Ma la pace e il riposo dell'antico mattino domenicale erano dappertutto, fuori che in me. La differenza era questa. Sudicio e impolverato, con i capelli arruffati, mi sentivo desolatamente colpevole. Se non fosse stato per il mite quadretto che avevo evocato, di mia madre nella sua gioventù e nella sua bellezza, in lacrime accanto al fuoco, e di mia zia intenerita su di lei, non credo che, prima dell'indomani, avrei avuto il coraggio di riprendere il cammino. Ma quell'immagine mi era sempre davanti agli occhi e io la seguii. Percorsi, quella domenica, ventitré miglia sulla strada dritta, ma non certo facilmente perché ero nuovo a quel genere di fatica. Mi vedo, mentre si avvicina la sera, passare il ponte di Rochester, stanco e coi piedi dolenti, sbocconcellando il pane che mi ero comprato per cena. Una o due casette con l'insegna «Alloggio per viaggiatori» appesa fuori mi avevano tentato; ma temevo di spendere i pochi pence che mi restavano e temevo ancor più gli sguardi truci dei vagabondi che avevo incontrato o oltrepassato. Non cercavo dunque altro riparo che il cielo; e dopo avere attraversato penosamente Chatam - che, quale mi apparve quella notte, è solo un incubo di calce, ponti levatoi e navi senza alberi in un fiume fangoso, coperte da un tetto come arche di Noè - arrancai da ultimo fino a una specie di piazzuola erbosa che sovrastava un sentiero dove una sentinella camminava in su e in giù. Qui mi coricai presso un cannone; e, felice della compagnia dei passi della sentinella, sebbene essa ignorasse la mia presenza sopra di lei come i ragazzi del Collegio Salem avevano ignorato il mio riposo sotto il muro, dormii profondamente fino al mattino. La mattina mi trovai tutto irrigidito, con i piedi dolenti, e completamente stordito dal rullo dei tamburi e dal passo delle truppe in marcia, che sembravano circondarmi da ogni parte quando scesi verso il lungo e stretto sentiero. Rendendomi conto che, quel giorno, avrei potuto camminare molto poco, se volevo risparmiar le forze per portare a termine il mio viaggio, decisi di dedicarlo soprattutto alla vendita della mia giacchetta. Di conseguenza me la tolsi, per abituarmi a farne a meno, e, portandola sotto braccio, cominciai a fare un giro di ispezione dei vari rigattieri. Era un buon posto per venderci una giacchetta; perché i venditori di abiti usati erano numerosi e stavano, parlando in generale, all'agguato dei clienti sulla porta delle loro botteghe. Ma siccome la maggior parte di essi tenevano appese, tra la loro mercanzia, una o due giacche da ufficiali, con spalline e tutto, fui intimidito dalla costosità del loro commercio e vagai per molto tempo senza offrire la mia merce ad alcuno. Questa mia modestia mi fece rivolgere alle botteghe di cose per marinai o del tipo di quella del signor Dolloby, piuttosto che ai normali rivenditori. Alla fine ne trovai una che mi parve promettente, all'angolo di un sudicio sentiero terminante in un recinto pieno di pungenti ortiche, contro la cui palizzata alcuni abiti usati da marinaio, che sembravano essere traboccati dalla bottega, svolazzavano fra brande, fucili arrugginiti, cappelli di tela cerata e certi vassoi così pieni di vecchie chiavi rugginose di ogni dimensione, che sembravano abbastanza assortite per aprire tutte le porte del mondo. In questa bottega, che era bassa e angusta, oscurata, più che illuminata, da una finestrella, popolata di abiti appesi e in cui si scendeva per alcuni gradini, mi avventurai col cuore palpitante. E non mi sentii certo rinfrancato quando un brutto vecchio, con la parte inferiore del volto tutta coperta da un'ispida barba grigia, si precipitò fuori da un sudicio covo nel retro e mi afferrò per i capelli. Era un vecchio pauroso a vedersi, con un lurido panciotto di flanella e avvolto da un terribile sentore di rum. Il suo letto, coperto da una coltre sbrindellata di pezze cucite insieme e gettata giù a casaccio, era nel covo da cui era venuto fuori, dove un'altra finestrella mostrava un panorama di ortiche e un asino zoppo. «Oh, che cosa vuoi?» ghignò il vecchio con un uggiolìo monotono e aggressivo a un tempo. «Oh, per i miei occhi e le mie membra, che cosa vuoi? Oh, per i miei polmoni e il mio fegato, che cosa vuoi? Oh, goru, goru!» Fui così sconvolto da queste parole, specialmente dalla ripetizione dell'ultima, incomprensibile, una specie di rantolo in fondo alla gola, che non potei rispondere; e allora il vecchio, sempre tenendomi per i capelli, riprese da capo: «Oh, che cosa vuoi? Oh, per i miei occhi e le mie membra, che cosa vuoi? Oh, per i miei polmoni e il mio fegato, che cosa vuoi? Oh, goru!» E questo «goru» se lo spremette fuori di sé con tal violenza che gli occhi gli balzarono nelle orbite. «Volevo sapere,» risposi tremando, «se sareste disposto a comprare una giacchetta.» «Oh, guardiamola, questa giacchetta,» gridò il vecchio. «Oh, per il mio cuore sulla gratella, fammela vedere questa giacchetta! Oh, per i miei occhi e le mie membra, fuori la giacchetta!» E così dicendo tolse le mani tremanti, simili agli artigli di un grosso uccello, dai miei capelli e mise un paio di occhiali, per nulla decorativi, sui suoi occhi infiammati. «Oh, quanto vuoi per la giacchetta?» gridò il vecchio dopo averla esaminata. «Oh - goru! - quanto vuoi per la giacchetta?» «Mezza corona,» dissi facendo appello a tutte le mie forze. «Oh, per i miei polmoni e il mio fegato,» urlò il vecchio, «no! Oh, per i miei occhi, no! Oh, per le mie membra, no! Diciotto pence. Goru!» Ogni volta che lanciava queste esclamazioni i suoi occhi sembravano lì lì per balzar fuori dalle orbite; e ogni frase che diceva la pronunciava in una sorta di cadenza, sempre la stessa, e più simile a una raffica di vento, quando comincia bassa, si eleva gradualmente e ricade, che a qualsiasi altro termine di paragone che possa trovare. «Be',» dissi io, felice di aver concluso l'affare, «datemi diciotto pence.» «Oh, per il mio fegato,» gridò il vecchio gettando la giacca su di uno scaffale. «Esci di bottega! Oh, per i miei polmoni, esci di bottega! Oh, per i miei occhi e le mie membra - goru! - non chieder denaro; facciamo un cambio.» Mai fui così atterrito in vita mia, prima di allora o dopo; tuttavia gli dissi umilmente che avevo bisogno di denaro e che nient'altro mi sarebbe servito, ma che sarei rimasto ad aspettarlo fuori, se lo desiderava, non avendo alcun desiderio di fargli urgenza. Così uscii e mi sedetti all'ombra in un angolo. E rimasi lì seduto per parecchie ore, tanto che l'ombra divenne sole e il sole tornò ombra, e io restavo sempre lì aspettando il denaro. Oso sperare che non vi sia mai stato un simile pazzo ubriaco nel suo tipo di commercio. Che fosse ben conosciuto nel vicinato e che godesse la reputazione di aver venduto l'anima al diavolo, lo capii presto dalle visite che gli fecero i ragazzi, i quali venivano, alla bottega per dargli noia, ricordargli quella leggenda e invitarlo a tirar fuori il suo oro. «Charley, non sei povero come vuoi far credere, lo sai. Tira fuori il tuo oro. Tira fuori un po' dell'oro che hai avuto vendendoti al diavolo. Su! È nella fodera del materasso, Charley. Scucila e daccene un po'!» Queste parole e numerose offerte di prestargli un coltello per scucir la fodera lo esasperavano a tal punto che l'intera giornata fu un succedersi di sortite da parte sua e di fughe da parte dei ragazzi. A volte, nella sua rabbia, mi prendeva per uno di loro e mi veniva addosso digrignando i denti come se volesse farmi a pezzi; poi, ricordandosi giusto in tempo di chi ero, si rintanava nella bottega e si buttava sul letto, da quanto potevo capire dal suono della sua voce, che intonava freneticamente, con quella cadenza ventosa, la Morte di Nelson, mettendo un Oh! davanti a ogni verso e inserendovi innumerevoli goru. Come se questo non mi bastasse, i ragazzi, collegandomi con l'insieme dell'azienda, data la pazienza e la perseveranza con cui me ne stavo seduto lì fuori, mezzo svestito, mi lapidarono e maltrattarono per tutto il giorno. Lui fece parecchi tentativi per indurmi ad accettare un baratto, ora venendo fuori con una canna da pesca, ora con un violino, ora con un cappello a tricorno e infine con un flauto. Ma io resistetti a tutti questi approcci e rimasi lì, disperatamente seduto, chiedendogli ogni volta, con le lacrime agli occhi, di darmi il denaro o la giacchetta. Infine cominciò a pagarmi a mezzo penny per volta; e impiegò due ore per salire, a poco a poco, fino a uno scellino. «Oh, per i miei occhi e le mie membra!» gridò allora sporgendosi appena col suo orribile volto, dalla porta della bottega; e dopo una lunga pausa: «Te ne andrai per altri due pence?» «Non posso,» dissi; «morirei di fame.» «Oh, per i miei polmoni e il mio fegato, te ne andrai per altri tre pence?» «Me ne andrei per nulla, se potessi,» dissi, «ma mi occorre assolutamente quel denaro.» «Oh, goru!» (mi è proprio impossibile esprimere come spremeva fuori questa esclamazione dal suo torace, mentre si sporgeva verso di me dalla porta mostrando solo il suo volto astuto); «te ne andrai per altri quattro pence?» Ero così stanco e debole che conclusi con questa offerta; e, preso il denaro dalle sue grinfie, non senza tremare, me ne andai, affamato e assetato come non ero mai stato, un po' prima del tramonto. Ma, con una spesa di tre pence, mi rimisi completamente, e, più in forze, tirai avanti zoppicando per sette miglia. Il mio letto, quella notte, fu un altro mucchio di fieno, su cui riposai comodamente dopo essermi lavati i piedi pieni di vesciche e averli avvolti meglio che potei in foglie fresche. Quando, il mattino dopo, ripresi la strada, mi accorsi che si svolgeva attraverso una serie di campi di luppolo e di frutteti. La stagione era abbastanza inoltrata e i frutteti rosseggiavano di mele mature; in alcune zone i raccoglitori di luppolo erano già al lavoro. Tutto questo mi parve bellissimo e decisi che quella notte avrei dormito fra i luppoli: immaginando qualche piacevole compagnia nelle lunghe file di pali attorno a cui si avviticchiava il loro elegante fogliame. Quel giorno i vagabondi erano peggio che mai e mi ispiravano una tal paura che ne ho oggi un ricordo ancor vivo. Alcuni di loro erano ribaldi dall'aspetto feroce che mi squadravano quando passavo, e magari sì fermavano e mi gridavano di tornare indietro per parlare con loro, e, se me la davo a gambe, mi tiravano pietre. Ne ricordo uno ancor giovane - un calderaio ambulante, credo, a giudicare dalla sua borsa di attrezzi e dal suo fornello - che aveva una donna con sé e che si voltò a squadrarmi in questo modo, e poi mi ruggì di tornare indietro con voce così tremenda che mi fermai guardandomi intorno. «Vieni qui, quando ti si chiama,» urlò il calderaio, «se non vuoi che ti scucia la pancia.» Credetti meglio tornare indietro. Mentre lo avvicinavo, cercando di propiziarmelo con gli sguardi, notai che la donna aveva un occhio livido. «Dove vai?» mi chiede il calderaio afferrandomi per il petto della camicia con la sua mano annerita. «Vado a Dover,» risposi. «E di dove vieni?» mi chiese torcendomi ancor più la camicia per tenermi meglio. «Vengo da Londra,» dissi. «Che lavoro hai?» mi chiese il calderaio. «Sei un manolesta?» «N... no,» risposi. «Ah no, per D... ? Se vieni a vantarti della tua onestà con me,» gridò il calderaio, «ti faccio saltare il cervello.» Con la mano libera minacciò di colpirmi e poi mi squadrò dalla testa ai piedi. «Hai in tasca il costo di una pinta di birra?» mi chiese. «Se lo hai, tiralo fuori prima che te lo prenda!» Lo avrei certo tirato fuori, se non avessi incontrato lo sguardo della donna e non l'avessi vista scuotere leggermente la testa e formulare «No!» con le labbra. «Sono poverissimo,» dissi tentando di sorridere, «non ho denaro con me.» «Ah, e questo che significa?» proseguì il calderaio guardandomi così trucemente che quasi temetti mi scorgesse il denaro in tasca. «Signore!» balbettai. «Che significa questo?» ripeté. «Perché porti il fazzoletto di seta di mio fratello? Dammelo subito.» E in un attimo me lo tolse dal collo e lo gettò alla donna. La donna diede in una gran risata, come se lo considerasse uno scherzo, me lo rilanciò, scosse ancora il capo, leggermente come prima, e con le labbra formulò la parola «Va!» Prima però che potessi obbedire, il calderaio mi strappò di mano il fazzoletto con una brutalità che mi fece volar via come una foglia, e, messoselo bravamente al collo, si rivolse alla donna bestemmiando e la sbatté a terra. La vedo sempre cadere indietro sulla dura strada e restarvi distesa con la cuffia che le era ruzzolata via e i capelli bianchi di polvere; né dimenticherò di averla vista, quando mi volsi a guardare di lontano, seduta sul margine laterale, che era una massicciata lungo la strada, asciugarsi il sangue sul volto col lembo del suo scialle, mentre lui proseguiva. Questa avventura mi spaventò tanto che, in seguito, quando vedevo avvicinarsi qualcuno di questa gente, tornavo indietro finché riuscivo a trovare un luogo in cui nascondermi e vi rimanevo finché non fossero passati e li avessi persi di vista; cosa che accadeva così spesso che mi trovai in serio ritardo. Ma in queste difficoltà, come in tutte le altre difficoltà del mio viaggio, fui sostenuto e guidato dalla mia fantastica raffigurazione di mia madre nella sua giovinezza, prima che venissi al mondo. Quell'immagine mi tenne sempre compagnia. Era lì tra i luppoli mentre ero immerso nel sonno; era con me nel mio camminare mattutino; mi fu davanti, a guidarmi, per tutto il giorno. Da allora l'ho associata con le assolate strade di Canterbury, assopite, per così dire, nella calda luce; e con la vista delle sue vecchie case e dei portali, e della maestosa, grigia cattedrale con i corvi che veleggiavano attorno alle torri. Quando giunsi, infine, alle nude e deserte dune presso Dover, ravvivò di speranza il solitario aspetto della scena; e mai mi abbandonò finché non ebbi raggiunto questa prima grande meta del mio viaggio ed ebbi posto effettivamente piede nella città stessa, il sesto giorno dopo la mia fuga. Ma allora, strano a dirsi, quando mi trovai con le scarpe rotte, polveroso, bruciato dal sole, semisvestito, nel luogo tanto desiderato, parve svanire come un sogno per lasciarmi disperato e depresso. Mi informai dapprima di mia zia fra i barcaioli e ricevetti risposte varie. Uno mi disse che abitava nel faro di South Foreland e per questo si era strinata i favoriti; un altro che era stata legata alla grande boa fuori del porto e poteva essere raggiunta solo a mezza marea; un terzo che era stata chiusa nella prigione di Maidstone perché rubava i bambini; un quarto che era stata vista cavalcare una scopa durante l'ultima bufera e volgersi verso Calais. I vetturini, fra i quali condussi in seguito la mia inchiesta, furono egualmente giocosi e non più rispettosi; e i bottegai, a cui non piaceva il mio aspetto, mi risposero in genere, senza nemmeno ascoltare quel che volevo dire, che non avevano nulla per me. Mi sentii più miserabile e derelitto che non mai durante il mio viaggio. Il denaro era tutto andato e non mi restava più nulla da vendere; ero affamato, assetato, esaurito; e mi sentivo lontano dalla mia meta come se fossi rimasto a Londra. Avevo trascorso il mattino in queste ricerche e me ne stavo seduto sul gradino di una bottega deserta all'angolo di una strada, presso la piazza del mercato, meditando se andare verso quelle altre località che ho menzionato, quando un vetturino, passandomi accanto con la sua carrozzella, si lasciò cadere una coperta da cavallo. Qualcosa di bonario nel volto di quell'uomo mi incoraggiò a domandargli, mentre gliela porgevo, se poteva dirmi dove abitasse la signorina Trotwood; sebbene avessi fatto quella domanda tante volte che quasi mi morì sulle labbra. «Trotwood,» ripeté lui. «Guardiamo un po'. Conosco questo nome. È una vecchia signora?» «Sì,» risposi, «piuttosto.» «Parecchio rigida di schiena?» disse raddrizzandosi lui stesso. «Sì,» risposi, «direi che è proprio così.» «Porta una borsa?» chiese, «una borsa molto capace? È arcigna e ti viene addosso brusca brusca?» Mi sentii cascare il cuore nel riconoscere l'indubbia esattezza della descrizione. «Be', allora te lo dico,» continuò. «Se sali lassù,» e indicò con la frusta le colline, «e tiri avanti dritto finché non arrivi a certe case davanti al mare, credo che potrai aver sue notizie. Ma penso che non vorrà saperne di niente, così prenditi questo penny.» Accettai riconoscente il dono e mi ci comprai una pagnottella. Presi la direzione indicatami dal mio amico, sbocconcellando il pane per via, e camminai un bel pezzo senza incontrare le case di cui mi aveva parlato. Alla fine me ne vidi alcune davanti, e, avvicinatomi, entrai in una botteguccia (una di quelle che, a casa mia, usavamo chiamare di generi misti) e chiesi se avevano la bontà di dirmi dove abitava la signorina Trotwood. Mi ero rivolto all'uomo dietro il banco, che stava pesando del riso a una ragazza; ma questa, considerando la domanda rivolta a sé, si voltò di scatto. «La mia padrona?» disse. «Che cosa vuoi da lei, ragazzo?» «Vorrei parlarle, se permettete,» risposi. «Vuoi dire chiederle l'elemosina,» ribatté la damigella. «No,» protestai, «no davvero.» Ma, ricordandomi improvvisamente che, per la verità, non venivo per altro, tacqui tutto confuso e col volto in fiamme. La cameriera di mia zia, come la giudicai da quanto mi aveva detto, mise il riso in un panierino e uscì dal negozio dicendomi che, se volevo sapere dove abitava la signorina Trotwood, potevo seguirla. Io non ebbi bisogno di un secondo permesso, sebbene fossi allora in uno stato di costernazione e di agitazione tale da sentirmi tremar le gambe. Seguii la ragazza e presto giungemmo a una linda casetta con graziosi bovindi: sul davanti v'era un piccolo cortile ghiaioso o giardino pieno di fiori, tenuto con cura e deliziosamente profumato. «Questa è la casa della signorina Trotwood,» disse la ragazza. «Adesso lo sai; ed è tutto quello che posso dirti.» Così dicendo entrò di corsa come per scuotersi di dosso ogni responsabilità per la mia presenza lì; e mi lasciò fermo davanti al cancello del giardino, a guardare sconsolatamente, al di sopra di esso, la finestra del salotto, dove una tenda di mussolina aperta in parte nel mezzo, un grande schermo verde e rotondo, o ventaglio, fissato alla finestra, un tavolino e un'ampia poltrona mi suggerivano che mia zia, in quel momento, se ne stesse seduta là nel peggiore degli umori. Le mie scarpe erano ormai in uno stato pietoso. Le suole erano cadute a pezzi e il cuoio delle tomaie si era lacerato e rotto al punto che di scarpe non era rimasta nemmeno la linea né la forma. Il cappello (che mi era servito anche da berretto da notte) era così pesto e spiegazzato che un vecchio tegame schiacciato e senza manico, in un letamaio, avrebbe potuto confrontarsi con lui senza vergogna. La camicia e i calzoni, macchiati di sudore, di rugiada, di erba, e della terra del Kent su cui avevo dormito - e strappati per di più - avrebbero potuto servire da spaventapasseri nel giardino di mia zia mentre me ne stavo lì fermo davanti al cancello. I miei capelli non avevano conosciuto pettine né spazzola da quando avevo lasciato Londra. La faccia, il collo, le mani, per l'insolita esposizione all'aria e al sole, avevano il color bruno bruciato di una bacca. Dalla testa ai piedi ero impolverato e quasi bianco di calce e di polvere come se fossi uscito da una fornace. In queste condizioni, e pienamente consapevole dello stato in cui mi trovavo, attendevo di presentarmi e fare la mia prima impressione della mia formidabile zia. Poiché l'intatta calma della finestra del salotto mi indusse a pensare, dopo qualche tempo, che ella non fosse là, alzai gli occhi alla finestra del piano di sopra, dove vidi un signore ben messo dall'aspetto piacente, con la testa grigia, che mi strizzò comicamente un occhio, mi fece più volte cenni con la testa, la fece oscillare altrettante volte verso di me, rise e se ne andò. Ero già abbastanza sconcertato fin dapprima, ma lo fui ancor più da questo inatteso comportamento, tanto che ero sul punto di sgattaiolar via per pensare al miglior modo di procedere, quando uscì dalla casa una signora col fazzoletto legato sopra la cuffia, le mani in un paio di guanti da giardinaggio, una sacca da giardino messa davanti come il grembiule di un gabelliere e un gran coltello. Riconobbi immediatamente in lei la signorina Betsey, perché avanzava maestosamente proprio come la mia povera madre aveva tante volte descritto il suo avanzare nel nostro giardino alla Cornacchia di Blunderstone. «Via di qui!» comandò la signorina Betsey scuotendo la testa e tracciando nell'aria una specie di fendente col coltello. «Fila via. Non vogliamo ragazzi qui!» La guardai col cuore in gola mentre si dirigeva a un angolo del giardino e si fermava per scavare qualche radicetta. Poi, senza una briciola di coraggio ma con disperazione infinita, entrai piano e mi fermai accanto a lei toccandola con un dito. «Scusate, signora,» cominciai. Lei sussultò e alzò lo sguardo. «Scusate, zia.» «Eh?» esclamò la signorina Betsey con un tono di sbalordimento di cui non ho più udito l'eguale. «Scusate, zia, sono vostro nipote.» «Oh, Signore!» disse mia zia. E cadde di colpo a sedere sul sentiero del giardino. «Sono David Copperfield di Bluderstone, nel Suffolk... dove veniste la sera in cui nacqui a far visita alla mia cara mamma. Sono stato molto infelice dopo la sua morte. Mi hanno trascurato, non mi hanno fatto studiare, mi hanno abbandonato a me stesso, mi hanno costretto a un lavoro non adatto a me. E allora sono fuggito da voi. Sono stato derubato appena partito, e ho fatto tutta la strada a piedi, e non ho dormito in un letto da quando ho cominciato il viaggio.» E qui il mio controllo cedette tutto d'un tratto, e, allargando le braccia per mostrarle la mia condizione miseranda e chiamarla a testimone delle mie sofferenze, scoppiai in una crisi di pianto che credo fosse rimasta chiusa in me per tutta quella settimana. La zia, senz'altra espressione in viso che non fosse di meraviglia, stette lì seduta sulla ghiaia a contemplarmi finché cominciai a piangere; allora saltò su in gran furia, mi prese per il colletto e mi trascinò nel salotto. Qui, la prima cosa che fece fu di aprire un alto armadio a muro, tirarne fuori parecchie bottiglie e versarmi in bocca un po' del contenuto di ognuna. Credo che fossero state prese a caso perché sono certo di avere gustato acqua di anice, salsa di acciughe e condimento per insalata. Dopo avermi somministrato questi ristori, siccome ero del tutto fuori di me e incapace di controllare i miei singhiozzi, mi depositò sul divano, con uno scialle sotto la testa e il fazzoletto, che si era tolto di testa, sotto i piedi perché non insudiciassi la stoffa; e infine, sedutasi dietro il ventaglio o lo schermo verde, che ho già menzionato, così che non potevo vederla in viso, si mise a gridare a intervalli: «Misericordia!» lanciando queste esclamazioni come colpi di pistola. Dopo un poco suonò il campanello. «Janet,» disse la zia quando entrò la domestica. «Va di sopra, saluta per me il signor Dick e digli che desidero parlargli.» Janet parve un po' sorpresa nel vedermi disteso e rigido sul divano (non osavo muovermi per paura di irritare la zia) ma andò a far la commissione. La zia, con le mani dietro la schiena, passeggiò su e giù per la stanza finché entrò ridendo quel signore che mi aveva ammiccato dalla finestra del primo piano. «Signor Dick,» disse mia zia, «non fate lo sciocco, perché nessuno può essere più sensato di voi quando volete. Lo sappiamo tutti. Dunque non fate lo sciocco per nessuna ragione.» Il signore divenne immediatamente serio e mi guardò, credo, come se volesse pregarmi di non dir nulla della faccenda della finestra. «Signor Dick,» continuò mia zia, «mi avete sentito mai parlare di David Copperfield? Adesso non fate finta di non aver memoria, perché voi e io sappiamo benissimo che l'avete.» «David Copperfield?» ripeté il signor Dick, che non mi parve ricordare gran che in proposito. «David Copperfield? Oh sì, sicuro. David, naturalmente.» «Bene,» disse mia zia, «questo è il suo ragazzo... suo figlio. Somiglierebbe a suo padre per quanto è possibile, se non assomigliasse anche a sua madre.» «Suo figlio?» disse il signor Dick. «Il figlio di David? Senti!» «Sì,» riprese mia zia, «e ha fatto un bel lavoro. È scappato. Ah! sua sorella, Betsey Trotwood, non sarebbe mai scappata.» E mia zia scosse energicamente la testa, sicura del carattere e del comportamento della ragazza che non era mai nata. «Oh! credete che non sarebbe mai scappata?» disse il signor Dick. «Dio vi benedica,» esclamò brusca mia zia, «sentitelo come parla! Non devo saperlo che non sarebbe scappata? Sarebbe vissuta con la sua madrina e ci saremmo volute bene reciprocamente. Di dove o dove, in nome del cielo, avrebbe potuto scappare sua sorella, Betsey Trotwood?» «In nessun posto,» affermò il signor Dick. «Bene, dunque,» ribatté mia zia ammansita dalla risposta, «perché fate finta di aver la testa fra le nuvole, Dick, mentre siete più acuto del bisturi di un chirurgo? Ecco qui, adesso, il giovane David Copperfield, e la domanda che vi pongo è questa: che cosa devo farne?» «Che cosa dovete farne?» ripeté debolmente il signor Dick grattandosi la testa. «Oh, che farne di lui?» «Sì,» confermò mia zia con una espressione grave e l'indice alzato. «Avanti! Mi occorre un consiglio molto solido.» «Be', se fossi in voi,» disse il signor Dick meditando e guardandomi con aria assente, «io...» La contemplazione della mia persona parve ispirargli un'idea improvvisa, ed egli aggiunse in fretta: «lo laverei!» «Janet,» disse mia zia volgendosi con una calma aria di trionfo che allora non compresi, «il signor Dick ha dato un consiglio perfetto. Scalda l'acqua per il bagno.» Sebbene fossi profondamente interessato in questo dialogo, non potei fare a meno di osservare mia zia, il signor Dick e Janet, mentre quel dialogo stesso avveniva, e completare lo sguardo d'insieme che avevo già cominciato a dare alla stanza. Mia zia era una signora alta, con i lineamenti marcati ma per nulla sgradevoli. Nel volto, nella voce, nel passo e nel portamento aveva un'inflessibilità più che sufficiente per spiegare l'impressione che aveva fatto su di una creatura sensibile come mia madre; ma i suoi lineamenti erano piuttosto belli che no, sebbene decisi e austeri. In particolare notai che aveva gli occhi singolarmente brillanti. I suoi capelli, ormai grigi, erano divisi in due semplici bande sotto quella che credo debba esser chiamata una cuffia da casa; intendo una cuffia molto più diffusa allora che non oggi, con lembi laterali che si annodavano sotto il mento. Il suo abito era di color lavanda, perfettamente lindo, ma senza sovrabbondanze come se ella desiderasse esserne imbarazzata il meno possibile. Ricordo che, nella forma, mi parve più simile a un abito da amazzone a cui fosse stato tagliato via quanto di superfluo vi era nella gonna, che a qualsiasi altra cosa. Al fianco portava un orologio d'oro da uomo, a giudicare dalla fattura e dal volume, con catena e ciondoli appropriati; al collo aveva qualche cosa di lino, non dissimile da un collaretto, e qualche cosa ai polsi, come minuscoli polsini. Il signor Dick, come ho già detto, aveva i capelli grigi e un florido aspetto: e con questo avrei detto tutto su di lui se non avesse tenuto la testa curiosamente china - non per l'età; mi ricordava la testa dei ragazzi del signor Creakle dopo essere stati frustati - e non avesse avuto quegli occhi grigi, grandi e prominenti, con una strana sorta di lucentezza acquosa, che mi facevano sospettare, in combinazione con il suo modo di fare assente, la sua sottomissione a mia zia, il suo piacere infantile quando ella lo lodava, che fosse un po' matto; sebbene non riuscissi assolutamente a spiegarmi, se era matto davvero, come mai si trovasse lì. Era vestito come un qualsiasi altro signore: ampia giacca da mattino e panciotto grigi, e calzoni bianchi; orologio nel taschino e, in tasca, monete che faceva risuonare come se ne fosse molto orgoglioso. Janet era una bella ragazza fiorente fra i diciannove e i venti, e la vera immagine della proprietà. Sebbene in quel momento non avessi osservato niente altro in lei, posso menzionare qui quello che scoprii solo più tardi, e cioè che apparteneva a una serie di protégés che mia zia aveva preso al suo servizio espressamente per educarle a rinunciare al sesso maschile, e che generalmente avevano coronato la loro rinuncia sposando il fornaio. La stanza era linda al pari di Janet e di mia zia. Mentre deponevo la penna, un momento fa, per ripensarci, l'aria marina ha soffiato ancora su di me frammista all'odore dei fiori; e ho visto il mobilio di antica foggia ben strofinato e lustrato, la poltrona e il tavolo della zia, egualmente inviolabili, presso il verde schermo rotondo nel bovindo, il tappeto protetto da un mollettone, il gatto, il bollitore per il tè sul suo supporto, i due canarini, le vecchie porcellane, il bacile del ponce pieno di secchi petali di rosa, l'alto armadio a muro che conteneva ogni sorta di bottiglie e di recipienti, e, in meraviglioso contrasto con tutto il resto, me stesso, pieno di polvere e disteso sul sofà, che prendevo nota di ogni cosa. Janet era uscita per preparare il bagno, quando la zia, con mia grande apprensione, si irrigidì di scatto, piena di sdegno, e trovò appena la voce per gridare: «Janet! Asini!» Al che Janet si precipitò giù per le scale come se la casa fosse in fiamme, balzò verso un piccolo spiazzo verde di fronte alla casa e fece allontanare di lì due asini, montati da signore, che avevano osato posarvi gli zoccoli; mentre mia zia, scagliatasi anche lei fuori di casa, afferrava la briglia di un terzo animale cavalcato da un ragazzo, lo faceva voltare, lo traeva fuori da quel sacro recinto e scapaccionava il disgraziato monello di scorta che aveva osato profanare il suolo santificato. Ignoro ancor oggi se mia zia avesse qualche legale diritto di pedaggio su quel verde praticello; ma certo si era messa in mente di averlo, il che per lei era lo stesso. L'unico grande insulto della sua vita, che richiedeva costante vendetta, era il passaggio di un asino su quel luogo immacolato. Quali che fossero le sue occupazioni, per quanto interessante fosse la conversazione a cui partecipava, un asino sconvolgeva immediatamente il corso delle sue idee e lei gli piombava addosso. Secchi d'acqua e annaffiatoi erano tenuti in luoghi segreti, pronti a essere rovesciati sui ragazzi insolenti; bastoni erano stati messi in agguato dietro la porta; si facevano sortite a ogni momento; regnava un continuo stato di guerra. Forse tutto ciò era un piacevole incitamento per i piccoli asinai; o forse gli asini più sagaci, comprendendo come stavano le cose, si divertivano, con la loro costituzionale ostinazione, a passare di lì. So solo che ci furono tre allarmi prima che il bagno fosse pronto, e che, nell'occasione dell'ultimo e più disperato di tutti, vidi mia zia ingaggiata, da sola, con un giovane di quindici anni dai capelli gialli, e sbattergli la gialla testa contro il cancello prima ancora che egli potesse raccapezzarsi su quel che succedeva. Queste interruzioni mi apparivano particolarmente comiche perché in quei momenti ella mi stava dando del brodo a cucchiai (fermamente persuasa che fossi mezzo morto di fame e che, dapprima, dovessi ricevere il nutrimento a piccole dosi), e, mentre avevo la bocca aperta per ricevere il cucchiaio, lei lo rimetteva nella scodella, gridava: «Janet! Asini!» e si precipitava all'attacco. Il bagno fu un gran conforto. Perché cominciavo a sentire fitte acute in tutte le membra per aver dormito nei campi, all'aperto, ed ero così stanco e abbattuto che potevo appena tenermi sveglio per cinque minuti di fila. Dopo il bagno esse (voglio dire la zia e Janet) mi misero addosso una camicia e un paio di calzoni del signor Dick e mi avvilupparono in due o tre grandi scialli A quale tipo di fagotto assomigliassi, non lo so, ma mi sentivo un fagotto ben caldo. Stanco e assonnato com'ero, tornai subito a sdraiarmi sul divano e mi addormentai. Sarà forse stato un sogno nato dalla fantasia che aveva occupato così a lungo la mia mente, ma mi svegliai con l'impressione che mia zia fosse venuta a chinarsi su di me, mi avesse scostato i capelli dal viso accomodandomi il capo perché fossi più comodo, e si fosse soffermata a guardarmi. Le parole: «Bel tipetto» e «Povero piccolo» mi parvero anche risuonare al mio orecchio; ma certo, quando mi svegliai, non c'era niente che potesse indurmi a credere che fossero state pronunciate dalla zia, seduta adesso nel bovindo a guardare il mare di dietro il ventaglio verde, che era montato su una specie di perno e poteva esser girato in ogni direzione. Pranzammo subito dopo il mio risveglio, con pollo arrosto e sformato; io sedevo a tavola, non molto dissimile da un pollo legato e lardellato, a mia volta, e muovevo le braccia con notevole difficoltà. Ma poiché la zia mi aveva infagottato così, non mi lamentai di essere a disagio. Per tutto questo tempo fui profondamente ansioso di sapere che cosa avrebbe fatto di me; ma lei pranzò in completo silenzio, tranne quando fermava per caso gli occhi su di me, che le sedevo di fronte, e diceva: «Misericordia!» cosa che non placava affatto la mia ansia. Sparecchiata la tavola e portatavi una bottiglia di Xeres (di cui ebbi un bicchiere), la zia mandò nuovamente a chiamare il signor Dick, che ci raggiunse e prese l'aria più seria che poté quando ella lo pregò di ascoltare la mia storia, tirandomela poi fuori a poco a poco con una serie di domande. Durante la mia esposizione, la zia tenne gli occhi addosso al signor Dick che, senza di ciò, credo si sarebbe addormentato, e che, se appena scivolava in un sorriso, veniva richiamato all'ordine da un fiero cipiglio. «Che cosa avesse in corpo quella povera sventurata bambina per doversi rimaritare,» disse mia zia quando ebbi finito, «io non riesco a concepirlo.» «Forse si era innamorata del suo secondo marito,» suggerì il signor Dick. «Innamorata!» ripeté la zia. «Che volete dire? Perché doveva innamorarsi?» «Forse,» arrischiò sorridendo il signor Dick, «lo ha fatto per il suo piacere.» «Piacere, davvero!» ribatté mia zia. «Bel piacere, per quella povera piccola, dar la sua ingenua fiducia al primo tanghero di passaggio, che di certo, in un modo o in altro, l'avrebbe maltrattata. Vorrei proprio sapere che cosa si aspettava! Aveva già avuto un marito. Aveva visto David Copperfield andarsene dal mondo, lui, che fin dalla culla era andato dietro alle bambole di cera. Aveva avuto un bambino - oh, due erano i bambini quel venerdì notte in cui diede alla luce questo ragazzino seduto qui! - che cosa voleva di più?» Il signor Dick scosse in segreto la testa verso di me come se considerasse insuperabile un tal problema. «Non ha potuto nemmeno avere un bambino come qualsiasi altra,» proseguì mia zia. «Dov'era la sorella di questo figliuolo, Betsey Trotwood? Scomparsa. Non parlatemene.» Il signor Dick sembrava totalmente atterrito. «E quell'omuncolo di dottore con la testa da una parte,» incalzò la zia, «Jellipps, o come diavolo si chiamava, che ci stava a fare? Tutto quello che riuscì a combinare fu di venirmi a dire come un pettirosso - quel pettirosso che è - ‹È un maschio.› Un maschio! Ah, una vera manica di cretini.» Il fervore di quell'esclamazione portò il signor Dick all'estremo limite dello spavento; e anche me, se devo dire il vero. «E poi, come se questo non fosse abbastanza e lei non avesse abbastanza messo nell'ombra la sorella di questo ragazzo, Betsey Trotwood, si sposa una seconda volta... va a prender per marito un Murderer, o un uomo che ha un nome simile... e mette in ombra anche questo figliuolo! E la naturale conseguenza è, come chiunque non fosse un bambino avrebbe potuto prevedere, che lui si dà al vagabondaggio. È il ritratto di Caino quando era piccolo.» Il signor Dick mi guardò fisso come per identificarmi sotto questo aspetto. «E poi c'è quella donna dal nome pagano,» riprese mia zia, «quella Peggotty, che va a prender marito anche lei. Perché non ne ha visto abbastanza di tutto il male che c'è sotto queste cose: va a prender marito anche lei, come ha raccontato il ragazzo. Spero solo,» concluse la zia crollando il capo, «che suo marito sia uno di quei mariti asso di bastoni, di cui si legge tanto spesso sui giornali, e che sappia darle il fatto suo.» Non potei sopportare di sentir la mia vecchia governante così denigrata e fatta oggetto di un tale augurio. E dissi a mia zia che, in realtà, si ingannava. Che Peggotty era la migliore, la più sincera, la più fedele, la più devota, la più generosa amica e domestica che ci fosse al mondo; che mi aveva sempre amato teneramente; che aveva sempre amato teneramente mia madre; che aveva sostenuto col suo braccio il capo di mia madre morente e che sul suo volto mia madre aveva impresso con riconoscenza l'ultimo bacio. E, soffocato dal ricordo di entrambe, mi sentii venir meno mentre cercavo di dire che la sua casa era la mia, che mi aveva offerto tutto quello che aveva e che sarei andato a cercar rifugio da lei se non fosse stato per la sua umile condizione che mi faceva temere di esserle di peso... mi sentii venir meno, dico, mentre tentavo di dir tutto questo e mi abbandonai sul tavolo col volto nelle mani. «Bene, bene,» disse mia zia, «il ragazzo fa bene a difendere coloro che lo hanno difeso. Janet, Asini!» Credo fermamente che, se non fosse stato per quei malaugurati asini, saremmo giunti a una buona intesa; perché mia zia mi aveva posato la mano sulla spalla, e io, così incoraggiato, avevo avuto l'impulso di gettarle le braccia al collo invocando la sua protezione. Ma l'interruzione e il turbamento che risultò in lei dalla lotta combattuta là fuori, misero fine, per il momento, a ogni idea patetica e tennero mia zia, fino all'ora del tè, a declamare sdegnata al signor Dick la sua decisione di rivolgersi e chieder soddisfazione alle leggi del paese e far causa per violazione di proprietà all'intero corpo degli asinai di Dover. Dopo il tè, restammo seduti alla finestra - in agguato, come immaginai dall'espressione tesa del volto della zia, di altre invasioni - fino al crepuscolo, quando Janet venne a metter sul tavolo delle candele e un giuoco di tavola reale, e abbassò le veneziane. «Adesso, signor Dick,» disse mia zia con uno sguardo solenne e l'indice alzato come prima, «vi farò un'altra domanda. Guardate questo ragazzo.» «Il figlio di David?» chiese il signor Dick con un'aria attenta e interrogativa. «Esattamente,» rispose la zia. «Che cosa fareste di lui adesso?» «Che cosa ne farei del figlio di David?» disse il signor Dick. «Sì,» confermò la zia, «del figlio di David.» «Oh!» esclamò il signor Dick. «Sì. Che farne... Lo metterei a letto.» «Janet,» gridò la zia con lo stesso compiaciuto trionfo che avevo notato prima, «il signor Dick ha dato un consiglio perfetto. Se il letto è pronto, lo metteremo a letto.» Janet rispose che era prontissimo e io fui portato di sopra; amorevolmente ma, in qualche modo, come un prigioniero: la zia andava avanti e Janet fungeva da retroguardia. La sola circostanza che mi indusse ancora a sperare fu che mia zia si fermò sulle scale per chieder spiegazioni di un odore di bruciato che si sentiva, e Janet rispose che aveva adoperato, in cucina, come esca, la mia vecchia camicia. Ma nella mia stanza non vi erano altre vesti oltre lo strano mucchio di cose che indossavo; e quando fui lasciato lì, con una candelina che mia zia mi avvertì sarebbe durata esattamente cinque minuti, la udii chiudere la porta a chiave dall'esterno. Meditando su queste cose, giunsi alla conclusione che probabilmente la zia, la quale non poteva sapere nulla di me, sospettava che avessi l'abitudine di scappare e prendeva le sue precauzioni in proposito per tenermi sotto sicura guardia. La stanza era piacevole, in cima alla casa, e dava sul mare su cui la luna scintillava in tutto il suo fulgore. Dopo che ebbi detto le mie preghiere e la candela si fu consumata, ricordo di essere rimasto seduto sul letto a guardare la luna sulle acque, quasi potessi sperare di leggere in essa il mio destino come su di un libro luminoso; o veder mia madre scender dal cielo con il suo piccolo lungo il fulgido sentiero per guardarmi come mi aveva guardato l'ultima volta che avevo visto il suo dolce viso. Ricordo come il solenne sentimento con cui infine distolsi il mio sguardo di lì, fece luogo a un senso di gratitudine e di pace che la vista del letto con le sue bianche cortine - e ancor più il distendermi mollemente su di esso e il rannicchiarmi tra le lenzuola bianche come neve - mi ispirarono. Ricordo come pensai a tutti i solitari luoghi in cui avevo dormito sotto il cielo notturno, e come pregai di non trovarmi mai più senza una casa e di non dimenticarmi mai di coloro che non l'avevano. Ricordo come mi parve di fluttuare, poi, giù per il malinconico splendore di quel sentiero di luce sul mare, fino al mondo dei sogni. XIV • MIA ZIA PRENDE UNA DECISIONE SU DI ME Al mattino, scendendo, trovai la zia così profondamente assorta nella meditazione, sul tavolo della colazione, con un gomito nel vassoio, che il contenuto del bricco era traboccato dalla teiera e aveva inzuppato d'acqua tutta la tovaglia; il mio ingresso mise in fuga quei pensieri. Ero sicuro di essere stato il soggetto delle sue riflessioni e fui più che mai ansioso di sapere quali intenzioni avesse al mio riguardo. Tuttavia non osavo esprimere la mia ansietà per timore di offenderla. I miei occhi, tuttavia, meno controllati della mia lingua, furono attratti molto spesso da mia zia durante la colazione. Non riuscivo a guardarla per pochi istanti di fila senza trovare il suo sguardo fissato su di me, in uno strano modo assorto, come se fossi a una distanza immensa invece che dall'altra parte del tavolino rotondo. Quando ebbe finito la colazione, la zia, molto deliberatamente, si addossò alla sedia, aggrottò le ciglia, incrociò le braccia e mi contemplò a suo agio, con un'attenzione così ferma che mi sentii addirittura sopraffatto dall'imbarazzo. Non avendo ancora finito la colazione, tentai di nascondere la mia confusione continuando a mangiare: ma il coltello mi cadeva sulla forchetta, la forchetta inciampava nel coltello, facevo saltare in aria, a sorprendente altezza lembi di prosciutto invece di tagliarli per me, e mi stavo soffocando col tè, che insisteva a prendere la via sbagliata invece della giusta, finché rinunciai a tutto e rimasi seduto, pieno di rossore, sotto lo sguardo indagatore della zia. «Ciao,» mi disse la zia dopo un bel pezzo. Alzai gli occhi e accolsi rispettosamente il suo sguardo acuto e brillante. «Gli ho scritto,» proseguì. «A... ?» «Al tuo patrigno,» rispose. «Gli ho mandato una lettera che dovrà darsi la pena di leggere con attenzione, altrimenti lui ed io litigheremo, posso assicurarglielo.» «E lui sa dove sono, zia?» chiesi preoccupato. «Gliel'ho detto,» rispose la zia assentendo. «Sarò... riconsegnato a lui?» balbettai. «Non lo so,» disse. «Vedremo.» «Oh! Non posso immaginare quello che farò,» esclamai, «se dovrò tornare col signor Murdstone!» «Non ne so nulla,» rispose mia zia scuotendo il capo. «Non posso dir nulla di sicuro. Vedremo.» Mi sentii cascar l'anima a quelle parole e rimasi scoraggiato e col cuore gonfio. La zia, senza sembrare concedermi particolare attenzione, si infilò un ruvido grembiule con la pettorina, che prese dall'armadio a muro; lavò le tazze con le sue proprie mani, e quando ogni cosa fu lavata e messa di nuovo sul vassoio e la tovaglia fu posta, ripiegata, sull'insieme, suonò perché venisse Janet a portar via tutto. Poi spazzò via le briciole con uno scopettino (infilandosi prima un paio di guanti) finché il più microscopico granello fu scomparso dal tappeto, e infine spolverò e riordinò la stanza che era già stata spolverata e riordinata al capello. Quando tutti questi lavori furono compiuti in modo per lei soddisfacente, si tolse i guanti e il grembiule, li mise nel particolare angolo dell'armadio a muro da cui erano stati presi, portò la scatola da lavoro al suo tavolo davanti alla finestra aperta e si sedette a cucire con il ventaglio verde fra lei e la luce. «Vorrei che tu andassi di sopra,» mi disse la zia infilando l'ago, «a portare i miei saluti al signor Dick e a dirgli che sarei felice di sapere come procede il suo Memoriale.» Mi alzai pieno di alacrità per sbrigare la commissione. «Immagino,» proseguì guardandomi fissa come aveva guardato l'ago nell'infilarlo, «che signor Dick ti parrà un nome molto breve, eh?» «Ieri mi è parso piuttosto breve,» confessai. «Non devi pensare che non ne abbia uno più lungo, se volesse usarlo,» disse la zia con aria ancor più altera. «Babley - signor Richard Babley - è questo il nome completo di quel gentiluomo.» Stavo per suggerire, con un modesto senso della mia gioventù e della familiarità di cui mi ero già reso colpevole, che avrei fatto meglio a lasciargli il completo beneficio di quel nome, quando mia zia continuò: «Ma non chiamarlo così per nessuna ragione. Non può soffrire il suo nome. È una sua bizzarria. Sebbene non sappia nemmeno se è proprio una bizzarria; perché sa il cielo se non è stato abbastanza maltrattato da gente che lo portava, da odiarlo mortalmente. Adesso il suo nome e signor Dick, qui e in qualsiasi altro posto... se pure potesse andare in qualsiasi altro posto, cosa che si guarda bene dal fare. Così, ragazzo mio, sta attento a non chiamarlo altrimenti che signor Dick.» Promisi di obbedire e salii di sopra coi mio messaggio, pensando, nel salire, che se il signor Dick aveva continuato a lavorare al suo Memoriale con la stessa toga con cui lo avevo visto intento, attraverso la porta aperta, quando ero sceso, probabilmente aveva proceduto a meraviglia. Lo trovai che tirava avanti, di lena con una lunga penna e la testa quasi appoggiata al foglio. Era così assorto che ebbi tutto il tempo, prima che notasse la mia presenza, di osservare il grande aquilone di carta in un angolo, la confusione dei fasci di manoscritti, il numero delle penne e, soprattutto, la quantità di inchiostro (in vasi da mezzo gallone che lui sembrava conservare a dozzine). «Ah! Febo!» disse il signor Dick posando la penna. «Come va il mondo? Vi dirò una cosa,» aggiunse a voce bassa, «non vorrei parlarne, ma è,» e qui mi fece avvicinare con un cenno e mise le labbra al mio orecchio, «è un mondo matto. Matto come un manicomio, ragazzo mio!» concluse il signor Dick prendendo una presa da una scatola rotonda che era sul tavolo e ridendo di cuore. Senza presumere di dare un mio parere su questa questione, gli riferii il messaggio. «Bene,» rispose il signor Dick, «i miei omaggi alla signora e, quanto a me, credo... credo di aver preso l'avvio. Penso proprio di aver preso l'avvio,» ripeté il signor Dick passandosi una mano sui capelli grigi e gettando uno sguardo che era tutto fuorché fiducioso sul suo manoscritto. «Siete andato a scuola?» «Sì, signore,» risposi, «per breve tempo.» «Vi ricordate la data,» disse il signor Dick guardandomi attentamente e prendendo la penna per annotarla, «in cui il re Carlo I è stato decapitato?» Gli risposi che mi sembrava fosse avvenuto nel mille e seicentoquarantanove. «Be',» ribatté il signor Dick grattandosi l'orecchio con la penna e guardandomi con aria dubbiosa. «Così dice il libro; ma non capisco come possa essere. Perché, se la cosa è avvenuta tanto tempo fa, come ha fatto, la gente che gli era intorno, a commetter l'errore di travasare i crucci che erano nella sua testa, dopo avergliela tagliata, nella mia?» Rimasi molto meravigliato dalla domanda, ma non potei dargli alcun lume su questo punto. «È molto strano,» commentò il signor Dick con uno sguardo scoraggiato sui suoi fogli e la mano ancora fra i capelli, «che non possa mettere a posto questa faccenda. Non sono mai riuscito a chiarirla perfettamente. Ma non importa, non importa!» riprese allegramente e rianimandosi. «C'è tutto il tempo necessario! I miei omaggi alla signorina Trotwood; io sto andando avanti benissimo.» Ero sul punto di andarmene quando egli richiamò la mia attenzione sull'aquilone. «Che ve ne pare di questo aquilone?» mi chiese. Gli risposi che era bellissimo. Direi che doveva essere alto non meno di sette piedi. «L'ho fatto io. Andremo insieme a farlo volare, voi e io,» disse il signor Dick. «Guardate qui.» Mi fece vedere che era tutto coperto da una scrittura minutamente e laboriosamente tracciata; ma in modo così chiaro che, mentre davo uno sguardo alle righe, potei leggere qualche altra allusione alla testa di Carlo I in uno o due punti. «Ho una quantità di spago,» disse il signor Dick, «e quando vola in alto porta molto lontano i fatti che ho descritto. È il mio modo di diffonderli. Non so dove possano calare. Dipende dalle circostanze, dal vento e così via; ma c'è sempre qualche probabilità.» Il suo volto era così mite e piacevole e aveva in sé qualche cosa che ispirava tanta reverenza, per quanto florido e cordiale, che mi domandavo se tutto questo non fosse che un bonario scherzo. Così risi, e lui rise, e ci separammo come i migliori amici del mondo. «Bene, figliuolo,» disse mia zia quando fui sceso. «Come va il signor Dick, stamane?» Le riferii che le inviava i suoi omaggi e che stava andando avanti benissimo. «Che pensi di lui?» mi chiese la zia. Io avevo qualche vaga intenzione di eludere la domanda rispondendo che lo consideravo un signore molto garbato; ma mia zia non si poteva metter da parte così facilmente: si pose il lavoro in grembo e disse, congiungendovi sopra le mani: «Su! Tua sorella Betsey Trotwood mi avrebbe detto direttamente il suo parere su chiunque. Cerca di assomigliare più che puoi a tua sorella e parla.» «È forse... il signor Dick... Io chiedo perché non lo so, zia... è forse non del tutto in sé?» balbettai; perché sentivo che mi avventuravo su di un terreno pericoloso. «Nemmeno per idea,» rispose mia zia. «Oh, davvero?» esclamai debolmente. «Se c'è una cosa al mondo,» disse mia zia con gran forza e decisione di modi, «che il signor Dick non è, è questa.» Io non ebbi altro di meglio da offrirle che un altro timido: «Oh, davvero?» «È stato chiamato pazzo,» proseguì la zia. «E provo un egoistico piacere nel dire che è stato chiamato pazzo, perché altrimenti non avrei avuto il beneficio della sua compagnia e dei suoi consigli in questi ultimi dieci anni e più... anzi, proprio da quando tua sorella, Betsey Trotwood, mi deluse tanto.» «Da un tempo così lungo?» dissi. «Ed erano proprio della bella gente quelli che ebbero l'audacia di chiamarlo matto,» continuò mia zia. «Il signor Dick è in certo modo un mio lontano parente... Non importa come, e non c'è bisogno di parlar di questo. Se non fosse stato per me, suo fratello lo avrebbe rinchiuso per tutta la vita. E questo è quanto.» Temo che ci sia stata in me una certa ipocrisia, ma, vedendo che la zia era quanto mai appassionata all'argomento, cercai di apparire anch'io non meno appassionato. «Un meraviglioso imbecille!» disse mia zia. «Solo perché suo fratello Dick era un po' eccentrico - sebbene nemmeno per la metà eccentrico come tanta gente - quello non volle tenerselo in casa, in vista di tutti, e lo spedì in un certo ricovero privato, sebbene fosse stato affidato alle sue particolari cure dal padre defunto, il quale lo credeva idiota fin dalla nascita. Doveva essere molto accorto, lui, per pensare una cosa simile! Il vero matto era lui certamente.» Di nuovo, visto che mia zia sembrava molto convinta di quel che diceva, cercai di apparir del tutto convinto anch'io. «Così mi feci avanti,» proseguì lei, «e avanzai una proposta. Dissi: ‹Vostro fratello è sano... molto più sano di quanto siate o sarete mai voi, almeno c'è da sperarlo. Dategli la sua piccola rendita e lasciate che venga a vivere con me. Io non ho paura di lui, io non sono tanto orgogliosa da vergognarmene, io sono pronta a prendermi cura di lui e non lo maltratterò come ha fatto certa gente (oltre quella del ricovero).› Dopo un bel po' di battibecchi,» disse la zia, «riuscii ad averlo; e da allora è rimasto qui. È l'essere più amichevole e docile che esista, e quanto a consigli... ! Ma nessuno conosce che cosa sia la mente di quell'uomo se non io.» La zia si lisciò l'abito e scosse il capo come se lanciasse una sfida al mondo intero lisciandosela via dal primo e scuotendola fuori dal secondo. «Aveva una sorella prediletta,» aggiunse la zia, «una buona creatura molto affettuosa con lui. Ma fece quello che fanno tutte: prese marito. E lui fece quello che fanno tutti: la rese infelice. La cosa ebbe un tale effetto sulla mente del signor Dick (non sarà questa la pazzia, spero!) che, combinandosi col terrore che ha di suo fratello e col senso della crudeltà di lui, gli provocò la febbre. Questo accadde prima che venisse da me, ma il ricordo lo opprime ancor oggi. Ti ha detto qualche cosa circa il re Carlo I, figliuolo?» «Sì, zia.» «Ah!» esclamò strofinandosi il naso come se la cosa le dispiacesse un po'. «È il suo modo simbolico di esprimere quel fatto. Naturalmente ricollega la sua malattia con qualche cosa che lo ha profondamente agitato e turbato, e questa è la figura, o la similitudine, o comunque si chiami, che preferisce usare. E perché non dovrebbe farlo, se gli sembra adatta?» Io dissi: «Certamente, zia.» «Non è un modo di esprimersi pratico,» commentò la zia, «e nemmeno corrente. Me ne rendo conto; ed è questa la ragione per cui insisto che, nel suo Memoriale, non appaia nemmeno una parola in proposito.» «È un memoriale sulla sua propria storia, quello che sta scrivendo, zia?» «Sì, figliuolo,» mi rispose grattandosi ancora il naso. «Sta preparando un memoriale per il Lord Cancelliere, o il Lord Qualcuno o Qualche altro - uno di quelli, insomma, che sono pagati per ricevere memoriali - relativo alle sue faccende. Suppongo che potrà essere presentato uno di questi giorni. Non è ancora riuscito a stenderlo senza introdurvi quel suo modo di esprimersi; ma questo non significa nulla; serve a tenerlo occupato.» In realtà scoprii in seguito che per tutti i dieci anni precedenti il signor Dick aveva tentato di tenere il re Carlo I fuori dal suo Memoriale; ma ce lo aveva regolarmente tirato dentro, e adesso era ancora a quel punto. «Ripeto,» insisté la zia, «che nessuno conosce che cosa sia la mente di quell'uomo se non io; e che è l'essere più docile e amichevole che esista. A volte gli piace lanciare un aquilone. E con questo? Anche Franklin lanciava gli aquiloni. Era un quacchero o qualche cosa di simile, se non mi sbaglio. E un quacchero che lancia un aquilone è molto più ridicolo di ogni altro.» Se avessi potuto immaginare che mia zia avesse raccontato questi particolari a mio esclusivo vantaggio e come espressione di confidenza verso di me, mi sarei sentito molto lusingato e avrei tratto favorevoli auspici da un tal segno di stima. Ma non potei fare a meno di notare che ci si era immersa soprattutto perché le era venuto in mente quell'argomento, con pochissimo riferimento alla mia persona, sebbene si fosse rivolta a me in mancanza di altri. In egual tempo devo dire che la generosità con cui era scesa in lizza a difesa del povero e innocuo signor Dick, non solo ispirava al mio giovane cuore qualche egoistica speranza, ma lo riscaldava disinteressatamente verso di lei. Credo che cominciai allora ad accorgermi che in mia zia, nonostante le sue numerose eccentricità e i suoi strani umori, v'era qualche cosa degno di stima e di fiducia. Sebbene quel giorno fosse esattamente bisbetica come il giorno prima, e, come allora, sempre dentro e fuori per via dei somari, e fosse colpita dal più furente sdegno quando un giovanotto di passaggio lanciò un'occhiata significativa a Janet attraverso la finestra (che era il più grave misfatto che si potesse commettere contro la dignità di mia zia), mi parve tuttavia incutermi un maggior rispetto, se non una minore paura. Enorme fu l'ansietà che mi oppresse nell'intervallo che necessariamente trascorse prima che si potesse ricevere una risposta alla lettera inviata al signor Murdstone; ma io cercai di dissimularla e, standomene cheto cheto, di rendermi più gradito che potessi tanto alla zia che al signor Dick. Quest'ultimo sarebbe volentieri uscito con me per lanciare il grande aquilone, ma non avevo ancora altre vesti se non l'abbigliamento, tutt'altro che decorativo, nel quale ero stato agghindato il primo giorno e che mi teneva confinato in casa, tranne un'ora, a buio, quando la zia, per amor della mia salute, mi faceva passeggiare su e giù lungo il margine del dirupo, prima di mandarmi a letto. Alla fine arrivò la risposta da parte del signor Murdstone, e la zia mi informò, con mio infinito terrore, che sarebbe arrivato il giorno dopo per parlarle. Il giorno dopo, sempre infagottato nel mio strano abbigliamento, me ne rimasi seduto a contar lo scorrer del tempo, rosso e ardente nel conflitto che combattevano in me le naufraganti speranze e le insorgenti paure, e in attesa di trasalire alla vista del tetro volto il cui indugio mi faceva tremare di minuto in minuto. Mia zia era un po' più imperiosa e severa del solito, ma non osservai in lei alcun altro indizio che si preparasse a ricevere il visitatore da me così temuto. Si sedette al lavoro davanti alla finestra, e io mi sedetti accanto a lei, con i pensieri che andavano disperdendosi su tutti i possibili e impossibili risultati della visita del signor Murdstone, fino al pomeriggio inoltrato. Il pranzo era stato indefinitamente differito; ma si era fatto così tardi che la zia aveva ordinato di prepararlo quando lanciò un improvviso allarme di asini, e, con mia profonda costernazione e meraviglia, scorsi la signorina Murdstone che, su una sella da donna, cavalcava deliberatamente sopra il sacro spiazzo erboso e si fermava davanti alla casa guardandosi intorno. «Andatevene, voi!» gridò la zia scuotendo la testa e il pugno dalla finestra. «Non avete niente a che fare qui. Come osate violare la proprietà? Via di qui! Oh! brutta sfacciata!» La zia era così esasperata dalla freddezza con cui la signorina Murdstone si guardava attorno, che la credetti proprio paralizzata e incapace di precipitarsi fuori come era solita. Colsi l'occasione per avvertirla di chi si trattava, e che il signore che veniva dietro la colpevole (perché la salita era molto erta e lui era rimasto distanziato) era il signor Murdstone in persona. «Non m'importa niente di chi siano!» strepitò la zia sempre scuotendo la testa e facendo gesti, che eran tutto fuorché di benvenuto, dal bovindo. «Non voglio che la mia proprietà sia violata. Non lo permetto. Via di là! Janet, volta il somaro. Portalo via!» E, di dietro alla zia, scorsi una sorta di mischia violenta nella quale l'asino resisteva a tutti con le gambe puntate ai quattro venti, mentre Janet tentava di farlo voltare tirandolo per la briglia, il signor Murdstone cercava di proseguire, la signorina Murdstone colpiva Janet con l'ombrellino e parecchi ragazzi, venuti a godersi la battaglia, urlavano a pieni polmoni. Ma la zia, ravvisando improvvisamente fra loro il giovane malfattore che conduceva l'asino e che era uno dei suoi più inveterati trasgressori, sebbene non avesse più di un tredici anni, si precipitò nella scena dell'azione, piombò su di lui, lo catturò, lo trascinò, con la giacchetta rovesciata sulla testa e i calcagni che raspavano il terreno, entro il giardino, e, gridando a Janet di andare a chiamare le guardie e i magistrati perché lo arrestassero, giudicassero e giustiziassero sul posto, lo tenne lì prigioniero. Questa prima parte dell'episodio, tuttavia, non durò a lungo; perché quel mascalzoncello, esperto in una quantità di finte e di astuzie di cui mia zia non aveva la minima idea, scappò presto via urlando come un ossesso, lasciando certe profonde orme delle sue scarpe chiodate nelle aiuole fiorite e portandosi via trionfalmente il suo somaro. La signorina Murdstone, durante l'ultima parte della contestazione, era smontata e adesso stava aspettando col fratello, ai piedi della scalinata, che la zia avesse agio di riceverli. Mia zia, un po' arruffata dal combattimento, passò davanti a loro con grande dignità per rientrare in casa e ignorò la loro presenza finché furono annunciati da Janet. «Devo andarmene, zia?» chiesi tremando. «Nossignore,» mi rispose. «No certo!» e così dicendo mi spinse in un angolo presso di lei e mi ci rinchiuse con una sedia, come se fosse una prigione o il divisorio di un tribunale. In questa posizione rimasi durante l'intera intervista e di lì vidi il signore e la signorina Murdstone entrare nella stanza. «Oh!» disse la zia. «Poco fa ignoravo a chi avessi l'onore di fare obiezione. Ma non permetto ad alcuno di cavalcare su quel praticello, e non faccio eccezioni. Nessuno deve farlo.» «È una regola piuttosto imbarazzante per gli estranei,» disse la signorina Murdstone. «Ma è così,» rispose la zia. Il signor Murdstone sembrava temere un rinnovarsi delle ostilità e, interponendosi, cominciò: «Signorina Trotwood!» «Domando scusa,» lo interruppe mia zia volgendogli uno sguardo acuto. «Voi siete quel signor Murdstone che ha sposato la vedova del mio defunto nipote, David Copperfield della Cornacchia di Blunderstone? Perché poi La cornacchia, io non lo so!» «Lo sono,» rispose il signor Murdstone. «Vorrete scusarmi, signore,» replicò la zia, «se vi dico che, a mio parere, sarebbe stato molto meglio, e avrebbe avuto risultati molto più felici, se aveste lasciato in pace quella povera bambina.» «Concordo tanto più con quanto la signorina Trotwood ha notato,» osservò risentita la signorina Murdstone, «in quanto ritengo che la nostra compianta Clara sia stata, sotto ogni rispetto, niente più che una bambina.» «È un conforto per me e per voi, signora,» disse mia zia, «che siamo in là negli anni e che non corriamo il pericolo di essere rese infelici dalle nostre personali attrattive, pensare che nessuno può dire lo stesso di noi.» «Senza dubbio!» rispose la signorina Murdstone, sebbene, mi parve, con un consenso non molto pronto né garbato. «E certo sarebbe stata una cosa molto migliore e più felice per mio fratello, se non avesse mai contratto questo matrimonio. Sono sempre stata di questa opinione.» «Ne sono sicura,» disse la zia; poi, suonando il campanello: «Janet, portate i miei omaggi al signor Dick e pregatelo di scendere.» Finché questi non arrivò, la zia rimase seduta dritta e rigida guardando accigliata la parete. Quando apparve, compì la cerimonia delle presentazioni. «Il signor Dick. Un vecchio e intimo amico, del cui giudizio,» disse enfaticamente mia zia a mo' di ammonimento per il signor Dick, che si stava mordicchiando l'indice e aveva un'aria piuttosto svanita, «faccio gran conto.» A questo accenno il signor Dick si tolse il dito di bocca e rimase in mezzo al gruppo con un'espressione grave e attenta sul volto. Mia zia inclinò allora la testa verso il signor Murdstone, che proseguì: «Signorina Trotwood, nel ricevere la vostra lettera, ho considerato un atto di maggior giustizia verso me stesso, e forse di maggior rispetto verso di voi...» «Grazie,» disse mia zia sempre volgendogli il suo sguardo penetrante, «ma non badate a me.» «Rispondere di persona, per quanto scomodo fosse il viaggio,» continuò il signor Murdstone, «piuttosto che per lettera. Questo sciagurato ragazzo che è fuggito dai suoi amici e dal suo lavoro...» «E il cui aspetto,» lo interruppe la sorella dirigendo l'attenzione generale verso di me, nel mio indefinibile costume, «è assolutamente scandaloso e vergognoso!» «Jane Murdstone,» disse suo fratello, «abbi la bontà di non interrompermi. Questo sciagurato ragazzo, signorina Trotwood, è stato occasione di molti crucci e angustie domestiche, sia quando la mia defunta e cara moglie era in vita, sia in seguito. Ha uno spirito chiuso e ribelle; un carattere violento; un'indole difficile e intrattabile. Mia sorella e io abbiamo cercato di correggere i suoi difetti, ma invano. E ho giudicato - entrambi noi abbiamo giudicato, posso dirlo, perché mia sorella ha tutta la mia fiducia - giusto che ascoltaste dalle nostre labbra questa grave e spassionata assicurazione.» «Non v'è alcun bisogno che confermi qualche cosa affermata da mio fratello,» disse la signorina Murdstone, «ma vi prego di notare che, fra tutti i ragazzi del mondo, io sono convinta che questo è il peggiore.» «Un po' forte!» disse seccamente mia zia. «Ma non certo troppo forte di fronte ai fatti,» ribatté la signorina Murdstone. «Ah!» disse mia zia. «Ebbene, signore?» «Io ho opinioni personali,» riprese il signor Murdstone, il cui volto si oscurava sempre più quanto più lui e la zia si guardavano, cosa che facevano molto intensamente, «sul miglior modo di educarlo; sono fondate in parte sulla conoscenza che ho di lui e in parte su quella dei miei mezzi e delle mie risorse. Di esse sono responsabile di fronte a me stesso, in base ad esse agisco e di esse non dico altro. Basti il fatto che io colloco questo ragazzo in un'azienda rispettabile sotto la sorveglianza di un mio amico; la cosa non gli piace; lui scappa e va per le campagne come un qualsiasi vagabondo; e arriva qui cencioso per raccomandarsi a voi, signorina Trotwood. Desidero mettervi dinanzi, in piena coscienza, le esatte conseguenze - per quanto almeno possano essere a mia conoscenza - dell'averlo voi favorito nel passo che ha fatto.» «Ma per quel che riguarda anzitutto questa azienda rispettabile,» lo interruppe la zia. «Se fosse stato vostro figlio, lo avreste impiegato lì egualmente, suppongo?» «Se fosse stato il figlio di mio fratello,» intervenne la signorina Murdstone, «sono convinta che il suo carattere sarebbe stato totalmente diverso.» «E se quella povera bambina, sua madre, fosse stata in vita, il ragazzo sarebbe stato mandato egualmente in quella rispettabile azienda, non è vero?» incalzò la zia. «Credo,» rispose il signor Murdstone chinando la testa, «che Clara non si sarebbe opposta a niente di ciò che io e mia sorella Jane Murdstone avessimo deciso che fosse per il meglio.» La signorina Murdstone lo confermò con un udibile mugolìo. «Hum!» esclamò la zia. «Disgraziata bambina!» Il signor Dick, che per tutto il tempo aveva fatto risuonare le monete che aveva in tasca, lo fece adesso in modo così sonoro che mia zia credette necessario richiamarlo all'ordine con uno sguardo prima di chiedere: «La rendita annuale di quella povera figliuola è cessata con lei?» «È cessata con lei,» rispose il signor Murdstone. «E non c'era alcuna disposizione, riguardo al ragazzo, per la piccola proprietà - la casa e il giardino - quella cosiddetta Cornacchia senza cornacchie?» «È stata lasciata a lei, incondizionatamente, dal suo primo marito,» cominciò il signor Murdstone, ma la zia lo interruppe con la più impaziente irascibilità. «Buon Dio, signor mio, non c'è alcun bisogno di dirlo. Lasciata a lei incondizionatamente! Mi par di vederlo David Copperfield che cerca di prevedere una condizione di qualsiasi sorta, anche se l'avesse avuta lì sotto il naso. Naturalmente le fu lasciata senza alcuna riserva. Ma quando contrasse il secondo matrimonio - quando insomma fece quel disastroso passo di sposarvi, per esser chiari,» ribatté la zia, «nessuno, in quel tempo, si curò di dire una parola per il ragazzo?» «La mia defunta moglie amava il suo secondo marito, signora,» rispose il signor Murdstone, «e aveva implicitamente fiducia in lui.» «La vostra defunta moglie era la più idealista, la più infelice, la più disgraziata delle bambine,» ribatté mia zia scuotendo la testa verso di lui. «Ecco quello che era. E adesso, che cosa avete ancora da dire?» «Soltanto questo, signorina Trotwood,» rispose lui. «Io sono qui per riprendere David: per riprenderlo incondizionatamente, per disporre di lui come credo meglio e per comportarmi con lui come considero giusto. Non sono qui per far promesse o dar garanzie a chiunque. Forse, signorina Trotwood, avete qualche idea di sostenerlo nella sua fuga e nelle lamentele che vi ha fatto. I vostri modi, che devo dire non sembrano diretti a favorire intese, mi inducono a crederlo possibile. Ora devo avvertirvi che, se lo sostenete una volta, lo sostenete definitivamente e per sempre; se vi mettete fra lui e me adesso, vi resterete per sempre, signorina Trotwood. Non intendo scherzare né lasciare che si scherzi con me su questo argomento. Sono qui, per la prima e l'ultima volta, disposto a portarlo via. È pronto a venire? Se non lo è - e voi mi dite che non lo è, mi è indifferente sapere sotto qual pretesto - la mia porta è chiusa per lui da ora in avanti, e la vostra, lo considero sicuro, gli è aperta.» Questa allocuzione, la zia l'aveva ascoltata con la massima attenzione, sedendo tutta dritta, con le mani riunite su di un ginocchio e guardando trucemente colui che parlava. Quando lui ebbe finito, ella volse gli occhi così da dominare la signorina Murdstone, senza tuttavia modificare la propria attitudine, e disse: «Bene, signora, e voi avete qualche cosa da notare?» «In verità, signorina Trotwood,» rispose la signorina Murdstone, «tutto quello che potevo dire è stato detto così bene da mio fratello, e tutto ciò che so rispondente alla realtà dei fatti è stato così chiaramente esposto da lui, che non ho nulla da aggiungere se non ringraziarvi per la vostra cortesia. Per la vostra indubbiamente estrema cortesia,» aggiunse la signorina Murdstone con una ironia che non impressionò mia zia più di quanto turbasse il cannone presso il quale avevo dormito a Chatam. «E che cosa dice il ragazzo?» chiese la zia. «Sei disposto ad andare, David?» Risposi di no e la scongiurai di non farmi andare. Dissi che né il signore né la signorina Murdstone mi avevano mai voluto bene né erano mai stati buoni con me. Che per causa mia avevano reso infelice la mamma la quale mi aveva sempre teneramente amato, e che lo sapevo bene e che anche Peggotty lo sapeva. Aggiunsi di essere stato più infelice di quanto alcuno potesse credere solo sapendo che ero un bambino. E pregai e supplicai la zia - non ricordo ora con quali parole ma so che allora mi commossero profondamente - di aiutarmi e proteggermi per amore di mio padre. «Signor Dick,» disse la zia, «che cosa devo fare di questo ragazzo?» Il signor Dick meditò, esitò, s'illuminò e rispose: «Fargli prendere subito le misure per un nuovo corredo.» «Signor Dick,» esclamò la zia con aria trionfante, «datemi la mano perché il vostro buon senso è inestimabile.» E, datagli una stretta vigorosa e cordiale, mi trasse a sé e disse al signor Murdstone: «Potete andare quando volete; affronterò la mia prova con il ragazzo. Se è tutto quello che voi dite, farò per lui per lo meno quello che avete fatto voi. Ma non ne credo nemmeno una parola.» «Signorina Trotwood,» rispose il signor Murdstone stringendosi nelle spalle mentre si alzava, «se foste un uomo...» «Bah! Tutte sciocchezze!» lo interruppe la zia. «Non parlatemi.» «Che squisita cortesia!» esclamò la signorina Murdstone alzandosi. «Proprio obbligante.» «Credete che non sappia,» continuò mia zia senza badare affatto alla sorella e continuando a rivolgersi al fratello e a scuotere la testa verso di lui in modo quanto mai espressivo, «che genere di vita dovete aver fatto fare a quella povera, infelice e sconsigliata bambina? Credete che non sappia quale sciagurato giorno è stato, per quella dolce creatura, il giorno in cui per la prima volta voi capitaste sulla sua strada... tutto moine e occhiate languide, potrei garantirlo, come se foste incapace di dir ‹passa via› a un'oca!» «Non ho mai udito niente di così elegante!» commentò la signorina Murdstone. «Credete che non possa capirvi esattamente come se vi avessi visto,» proseguì la zia, «ora che vi vedo e vi ascolto... cosa che, per parlar chiaro, è tutto per me fuor che un piacere? Oh sì, santo cielo! chi più morbido e liscio del signor Murdstone, da principio! La povera innocente accecata non aveva mai visto un uomo simile. Era impastato di dolcezza. La venerava. Aveva una vera passione per suo figlio... una tenera passione. Sarebbe stato per lui un secondo padre, e sarebbero tutti vissuti insieme in un giardino di rose, vero? Uh! Toglietevi dai piedi, andiamo,» disse la zia. «Non ho mai ascoltato un tipo simile in vita mia!» esclamò la signorina Murdstone. «E quando avete avuto in vostro potere quella povera sciocchina,» riprese la zia, «- Dio mi perdoni se la chiamo così ora che è andata là dove voi non andrete tanto presto - poiché non avevate fatto abbastanza male a lei e ai suoi, dovevate cominciare a educarla, non è vero? cominciare a soggiogarla come un povero uccellino in gabbia, e a logorare la sua vita di delusioni insegnandole a cantare le vostre note!» «Questa è pazzia o ebbrezza,» disse la signorina Murdstone esasperata per non esser capace di rivolgere verso di sé l'impeto di mia zia; «e sospetto che si tratti di ebbrezza.» La signorina Betsey, senza badare minimamente all'interruzione, continuò a indirizzarsi al signor Murdstone come se l'altra non esistesse. «Signor Murdstone,» disse agitando il dito verso di lui, «voi siete stato il tiranno di una bambina ingenua e le avete spezzato il cuore. Era una bambina piena di affetto - lo so; me ne ero accorta già anni prima che voi la conosceste - e le avete inferto in quanto vi era di più nobile nella sua debolezza le ferite di cui è morta. Ecco la verità che può confortarvi, vi piaccia o no. E voi e i vostri complici potete trarne il meglio che vi riuscirà.» «Permettetemi di chiedervi, signorina Trotwood,» intervenne ancora la signorina Murdstone, «chi vi siete compiaciuta di chiamare, con parole sulla cui scelta non ho esperienza, i complici di mio fratello.» Sempre sorda alla sua voce e completamente impassibile, la signorina Betsey proseguì: «Era abbastanza chiaro, come vi ho detto, già da anni prima che la conosceste - e perché mai, nei misteriosi piani della Provvidenza, l'abbiate conosciuta è cosa che va oltre la comprensione umana - era abbastanza chiaro che quella povera e dolce creatura avrebbe finito col risposarsi prima o poi; ma speravo che le cose non si sarebbero volte in modo così sciagurato. Era il tempo, signor Murdstone, in cui ella diede alla luce questo ragazzo,» continuò la zia; «questo povero figliuolo di cui vi siete valso tante volte per tormentarla in seguito e che è per voi un così sgradevole ricordo da rendervene odiosa la vista. Sì, sì, sono inutili questi sobbalzi!» insisté la zia. «So che è vero anche senza di questo.» Lui era rimasto fermo presso la porta per tutto questo tempo, osservandola con un sorriso sul volto, sebbene le sue nere sopracciglia fossero profondamente contratte. Notai adesso che, per quanto il sorriso persistesse, il colore era improvvisamente scomparso dal suo volto ed egli sembrava respirare come se avesse fatto una lunga corsa. «Buon giorno, signore,» concluse mia zia, «e addio. Buon giorno anche a voi, signora,» aggiunse volgendosi di scatto alla sorella. «Fate che vi veda a cavallo di un somaro ancora una volta sul mio prato, e come è vero che avete una testa sulle spalle, vi strappo il cappellino e ci salto sopra.» Ci vorrebbe un pittore, e un pittore non comune, per effigiare il volto di mia zia mentre dava sfogo a questo sentimento inatteso, e quello della signorina Murdstone quando lo udì. Ma il tono del suo parlare, non meno del contenuto, era così fiero, che la signorina Murdstone, senza fiatare, infilò prudentemente il braccio sotto quello di suo fratello, e uscì altera dalla villa; mia zia rimase alla finestra guardandoli, pronta, non ne ho dubbio, a mettere in atto la sua minaccia qualora fosse apparso qualche asino. Comunque, non essendo stato fatto alcun tentativo di sfida, il suo volto si rilassò a poco a poco, e divenne così simpatico che io ne fui incoraggiato a darle un bacio e ringraziarla, cosa che feci di tutto cuore e gettandole entrambe le braccia al collo. Poi porsi la mano al signor Dick, che me la strinse una quantità di volte e salutò questa felice conclusione di tutta la vicenda con ripetuti scoppi di risa. «Vi considererete tutore, con me, di questo ragazzo, signor Dick,» disse mia zia. «Sarò felice,» rispose il signor Dick, «di essere il tutore del figlio di David.» «Benissimo,» disse la zia, «questo è sistemato. Pensavo, sapete, signor Dick, che potrei chiamarlo Trotwood.» «Certo, certo. Chiamatelo Trotwood, sicuro,» rispose il signor Dick. «Trotwood figlio di David.» «Trotwood Copperfield, voglio dire,» ribatté la zia. «Sì, certo. Sì. Trotwood Copperfield,» si corresse il signor Dick un po' mortificato. Mia zia si infervorò tanto su questa idea, che alcuni abiti già fatti, acquistati per me quel pomeriggio stesso, vennero marcati «Trotwood Copperfield» di sua propria mano e con inchiostro indelebile prima che li indossassi; e fu stabilito che tutti gli altri abiti ordinati per me (era stato ordinato quel pomeriggio un intero corredo) sarebbero stati marcati nello stesso modo. Così cominciai la mia nuova vita, con un nuovo nome e tutto nuovo intorno a me. Ora che i dubbi e le incertezze erano finiti, per alcuni giorni mi parve di vivere in un sogno. Non mi venne mai in mente di avere una singolare coppia di tutori in mia zia e nel signor Dick. Non pensai mai, distintamente, a qualsiasi cosa che mi riguardasse. Le due cose più chiare che avevo in testa erano che l'antica vita di Blunderstone era divenuta qualche cosa di remoto, sembrava giacere nella nebbia di una incommensurabile lontananza; e che una cortina era caduta per sempre sulla mia esistenza da Murdstone e Grinby. Da allora nessuno ha mai rialzato quella cortina. L'ho sollevata io per un momento, in questo racconto, con mano riluttante, e l'ho lasciata ricadere con gioia. Il ricordo di quella vita è così onusto per me di pena, di sofferenza mentale e di disperazione, che non ho mai avuto nemmeno il coraggio di considerare quanto a lungo fossi stato costretto a condurla. Non so se sia durata un anno, o più, o meno. So solo che è stata e che ha cessato di essere; questo ho scritto e qui l'abbandono. XV • COMINCIO DI NUOVO Il signor Dick e io divenimmo presto i migliori amici, e molto spesso, quando era finita la sua giornata di lavoro, uscivamo insieme per far volare il grande aquilone. Ogni giorno della sua vita sedeva a lungo davanti al Memoriale, che non faceva mai il minimo progresso, per quanto vi lavorasse sodo, perché il re Carlo I, prima o poi, ci capitava dentro, e allora tutto veniva messo da parte e si cominciava un altro Memoriale. La pazienza e la fiducia con cui sopportava queste continue delusioni, la sua rassegnata consapevolezza che in re Carlo I c'era qualche cosa che non andava, i deboli sforzi che faceva per tenerlo fuori e l'ineluttabilità con cui quello ci tornava e mandava a rotoli tutto il Memoriale, mi facevano una profonda impressione. Che cosa il signor Dick supponesse che sarebbe sorto dal suo Memoriale, se lo avesse finito; dove credesse che sarebbe andato, o a che cosa pensasse che sarebbe servito, immagino che non lo sapesse lui più di qualsiasi altro. Ma non era affatto necessario che si crucciasse con queste domande, perché, se vi era qualche cosa di certo sotto il sole, era la certezza che il Memoriale non sarebbe mai finito. Era uno spettacolo commovente, pensavo, vederlo col suo aquilone che si levava a grande altezza nell'aria. Quello che mi aveva detto nella sua stanza circa la sua fede nel diffondere le dichiarazioni incollatevi sopra, che altro non erano se non vecchi fogli di Memoriali abortiti, poteva essere stata, a volte, una sua fantasia; ma non quando era fuori a guardare nel cielo il suo aquilone, che gli tirava la mano con piccoli strappi. Mai come allora appariva sereno. Seduto accanto a lui, verso sera, su di un verde pendìo, e osservandolo intento all'aquilone, alto nell'aria tranquilla, solevo fantasticare che quel giuoco sollevasse la sua mente dalla confusione in cui era immersa e la portasse (secondo il mio pensiero infantile) nel cielo. E via via che avvolgeva lo spago e l'aquilone veniva giù, sempre più basso, uscendo dalla chiara luce, finché ondeggiava a terra e vi rimaneva come cosa morta, egli sembrava svegliarsi a poco a poco da un sogno; e ricordo di averlo visto raccoglierlo e volgere intorno uno sguardo perduto, come se fossero precipitati insieme, così che ne sentivo una profonda pietà. Mentre avanzavo nell'amicizia e nell'intimità col signor Dick, non restavo addietro nel favore della sua fedele amica, mia zia. Ella mi si affezionò tanto che, nel giro di poche settimane, abbreviò il mio nome adottivo di Trotwood in Trot; e addirittura mi incoraggiò a sperare che, se continuavo come avevo cominciato, avrei potuto salire, nel suo affetto, allo stesso livello di mia sorella Betsey Trotwood. «Trot,» mi disse una sera, quando, come al solito, fu portata la tavola reale per lei e il signor Dick, «non dobbiamo dimenticare la tua educazione.» Era questo l'unico motivo di ansietà rimastomi, e fui felice che lei vi si riferisse. «Ti piacerebbe andare in collegio a Canterbury» mi chiese la zia. Risposi che mi sarebbe piaciuto moltissimo, visto che le sarei rimasto così vicino. «Bene,» disse, «ti piacerebbe andarci domani?» Già abituato alla consueta rapidità delle decisioni della zia, non mi meravigliai dell'improvvisa proposta e risposi: «Sì». «Bene,» ripeté la zia. «Janet, noleggia il cavallino grigio e il calesse per domattina alle dieci, e fa stasera stessa la valigia per il signorino Trotwood.» Fui molto sollevato da questi ordini, ma il cuore mi rimproverò il mio egoismo quando ne scorsi gli effetti sul signor Dick, il quale fu così abbattuto dalla prospettiva della nostra separazione e giuocò così male in conseguenza, che mia zia, dopo avergli dato sulle nocche parecchi colpetti ammonitori col bossolo dei dadi, chiuse il tavoliere e si rifiutò di continuare a giocare con lui. Ma, udendo dalla zia che, ogni tanto, sarei tornato il sabato e che egli avrebbe potuto venire ogni tanto a trovarmi il mercoledì, si rianimò; e promise di fare un altro aquilone per queste occasioni, di dimensioni molto superiori a quelle dell'attuale. Il mattino era di nuovo abbattuto, e avrebbe voluto riprendersi dandomi tutto il denaro che possedeva, compreso l'oro e l'argento, se mia zia non fosse intervenuta limitando il dono a cinque scellini che, in seguito alle sue calorose richieste, furono portati a dieci. Ci separammo al cancello del giardino nel modo più affettuoso, e il signor Dick non rientrò in casa finché il calesse guidato dalla zia non fu scomparso dalla sua vista. La zia, che non si preoccupava minimamente dell'opinione pubblica, guidò in modo magistrale il cavallino grigio per le vie di Dover; seduta dritta e impettita come il cocchiere di una berlina, teneva lo sguardo fisso su di lui dovunque trottasse e si piccava di non lasciarlo andare a suo talento per nessuna ragione. Quando però giungemmo sulla strada di campagna gli concesse un po' più di libertà; e abbassando gli occhi verso di me, che ero al suo fianco, in una vallata di cuscini, mi domandò se ero contento. «Proprio molto contento, zia; grazie,» risposi. Ne fu soddisfattissima, e, avendo entrambe le mani occupate, mi diede un colpettino in testa con la frusta. «È un grande collegio, zia?» chiesi. «Be', non lo so,» mi rispose. «Prima di tutto andiamo dal signor Wickfield.» «E lui dirige un collegio?» chiesi ancora. «No, Trot,» disse la zia. «Ha uno studio.» Non chiesi altre informazioni sul signor Wickfield, visto che la zia non me ne dava, e parlammo di altre cose finché non giungemmo a Canterbury, dove, essendo giorno di mercato, la zia ebbe una magnifica occasione per far volteggiare il cavallino grigio fra carri, ceste, verdure e bancarelle. Le giravolte e le virate al capello che facevamo, ci tiravano addosso una fioritura di espressioni non sempre complimentose da parte della gente che ci era attorno; ma la zia guidava con perfetta indifferenza, e direi che avrebbe tirato avanti per la sua strada con la stessa freddezza attraverso un paese nemico. Alla fine ci fermammo davanti a un vecchio edificio che dominava la via; una casa con finestre a inferriata, larghe e basse, molto sporgenti, e travi con teste intagliate agli estremi, pure sporgenti dal cornicione, tanto che fantasticai che la casa intera si sporgesse in avanti per vedere quello che succedeva sullo stretto lastricato sottostante. La facciata era pulita e senza macchie. L'antiquato battente di ottone sulla bassa porta ad arco decorata con ghirlande di frutti e fiori intagliati, brillava come una stella; i due gradini di marmo che scendevano dalla porta erano bianchi come se fossero coperti da un nitido lino; e tutti gli angoli e gli spigoli, e gli intagli e le modanature, e i bizzarri pannelli di vetro, e le finestrelle ancor più bizzarre, per quanto vecchi come le colline, erano immacolati come la più pura neve che su quelle colline fosse mai caduta. Quando il calesse si fu fermato davanti alla porta e mentre i miei occhi erano intenti a contemplare la casa, scorsi un volto cadaverico apparire a una finestrella del terreno (in una torretta rotonda che formava un angolo della casa) e subito scomparire. La bassa porta a volta allora si aprì e quel volto si sporse. Era cadaverico come quando era apparso alla finestra, sebbene nella sua tinta ci fosse quella sfumatura di rosso che si può osservare talora nella pelle di coloro che hanno i capelli rossi. Apparteneva infatti a un tipo dai capelli fulvi - un giovane di quindici anni, come so adesso, ma che sembrava molto più anziano - tagliati corti come la più corta stoppia, il quale aveva appena accennate le sopracciglia ed era del tutto privo di ciglia, con occhi di un rosso bruno così nudi e indifesi che ricordo mi domandai come facesse a dormire. Aveva larghe spalle e ossa massicce; era vestito dignitosamente di nero con una bianca cravatta a fiocco, abbottonato fino alla gola; e aveva una lunga e scarna mano scheletrica che attrasse particolarmente la mia attenzione, perché si fermò davanti al cavallino grattandosi con essa il mento mentre alzava lo sguardo su di noi che eravamo nel calesse. «Il signor Wickfield è in casa, Uriah Heep?» chiese la zia. «Il signor Wickfield è in casa, signora,» rispose Uriah Heep, «se volete compiacervi di entrare,» e puntò la lunga mano verso l'interno. Scendemmo; e, lasciatolo a badare al cavallino, entrammo in un lungo e basso salotto che dava sulla strada e dalla cui finestra, nell'entrare, potei cogliere una fugace visione di Uriah Heep che soffiava nelle narici del cavallino e immediatamente le copriva con la mano come se gli facesse qualche sortilegio. Di fronte all'alto e vecchio camino vi erano due ritratti: l'uno di un signore coi capelli grigi (sebbene niente affatto vecchio) e sopracciglia nere che guardava certe carte legate da un nastro rosso; l'altro di una signora dall'espressione dolce e tranquilla, che guardava me. Credo che mi stessi voltando per cercare il ritratto di Uriah, quando si apri una porta all'altro estremo della stanza ed entrò un signore alla cui vista mi volsi ancora verso il ritratto menzionato per primo per assicurarmi che non fosse uscito dalla sua cornice. Ma era fermo lì, e, mentre il signore veniva avanti nella luce, mi accorsi che era di alcuni anni più vecchio di quando si era fatto fare il ritratto. «Signorina Betsey Trotwood,» disse il signore, «entrate, vi prego. Ero occupato per un momento, ma scuserete il mio da fare. Conoscete il mio motivo. Ne ho uno solo nella vita.» La signorina Betsey lo ringraziò ed entrammo nella sua stanza, che era ammobiliata come un ufficio, con libri, carte, scatole di metallo e così via. Dava su di un giardino e mostrava una cassaforte di ferro nel muro, così immediatamente sopra la mensola del caminetto che, nel sedermi, mi domandai come facevano gli spazzacamini a girarle attorno quando pulivano il camino. «Bene, signorina Trotwood,» disse il signor Wickfield, perché seppi subito che era lui, che faceva l'avvocato e amministrava i beni di un ricco signore della contea; «qual vento vi mena? Non un cattivo vento, spero.» «No,» rispose mia zia, «non vengo per questioni legali.» «Molto bene, signora,» disse il signor Wickfield. «È meglio che veniate per qualsiasi altra cosa.» Adesso i suoi capelli erano tutti bianchi, sebbene le sopracciglia fossero ancora nere. Aveva un volto molto simpatico e, mi parve, bello. V'era nella sua carnagione una certa vivacità di colori che da molto tempo, secondo gli insegnamenti di Peggotty, ero abituato a collegare con il vino di Porto; mi parve che quella vivacità fosse anche nella sua voce, e attribuii alla stessa causa la sua crescente corpulenza. Era vestito molto decorosamente in giacca turchina, panciotto a righe e pantaloni di nanchino; e la sua fine camicia a gale increspate e la cravatta di cambrì apparivano insolitamente morbide e bianche, riportando la mia errante fantasia (ricordo) alle piume sul petto di un cigno. «Questo è mio nipote,» disse la zia. «Non sapevo che ne aveste uno, signorina Trotwood,» rispose il signor Wickfield. «Il mio pronipote, per dir meglio,» corresse la zia. «Non sapevo che aveste un pronipote, ve ne do la mia parola,» disse il signor Wickfield. «L'ho adottato,» spiegò la zia ondeggiando la mano nell'aria come a significare che il fatto che lo sapesse o no poco le importava, «e l'ho condotto qui per metterlo in un collegio dove possa essere istruito alla perfezione e ben trattato. Adesso ditemi dove è questo collegio, come è e ogni altra notizia in proposito.» «Prima che vi possa dare un consiglio appropriato,» rispose il signor Wickfield, «conoscete la domanda consueta. Che motivo avete in tutto questo?» «Il diavolo vi porti!» esclamò la zia. «Andate sempre a pescar motivi che avete sotto gli occhi! Che diamine! Perché sia felice e serva a qualche cosa.» «Deve essere un motivo complesso, credo,» disse il signor Wickfield scuotendo la testa e sorridendo incredulo. «Complesso un accidente,» ribatté la zia. «Vi vantate di avere un motivo puro e semplice in tutto quello che fate. Spero che non pretenderete di essere l'unico al mondo ad agire per semplice onestà.» «Sì, ma io ho un solo motivo nella vita, signorina Trotwood,» le rispose sorridendo. «Gli altri ne hanno a dozzine, a ventine, a centinaia. Io ne ho uno solo: qui è la differenza. Comunque, questo è fuori questione. Il miglior collegio? Quale che sia il motivo, voi volete il migliore?» La zia assentì. «Nel migliore che abbiamo,» disse il signor Wickfield riflettendo, «in questo momento vostro nipote non potrebbe entrare come convittore.» «Ma suppongo che potrebbe andare a pensione in qualche altra parte,» suggerì la zia. Il signor Wickfield pensava che fosse possibile. Dopo un po' di discussione, propose di condurre la zia al collegio perché potesse vederlo e giudicarlo da sola; e anche di condurla, per la stessa ragione, in due o tre case dove avrei potuto essere preso a pensione. Mia zia accolse la proposta e stavamo tutti e tre per metterci in cammino insieme, quando egli si fermò dicendo: «Forse questo nostro piccolo amico potrebbe avere qualche motivo per opporsi a una sistemazione. Penso che sarà meglio lasciarlo qui.» La zia sembrava disposta a fare obiezioni su questo punto, ma, per facilitare la cosa, dissi che sarei rimasto volentieri se a loro piaceva così; e me ne tornai nell'ufficio del signor Wickfield, dove mi rimisi a sedere sulla sedia che avevo occupato prima, per aspettare il loro ritorno. Accadde che questa sedia fosse di fronte a uno stretto corridoio che terminava nella stanzetta circolare alla cui finestra avevo visto affacciarsi il pallido volto di Uriah Heep. Uriah, dopo aver portato il cavallino in un vicino stallaggio, era al lavoro alla sua scrivania in questa stanza che aveva in alto un telaio di ottone per appendervi le carte e da cui pendeva lo scritto di cui stava facendo copia. Sebbene il suo viso fosse rivolto verso di me, per qualche tempo credetti che, essendo lo scritto fra di noi, egli non potesse vedermi; ma, guardando più attentamente, mi sentii a disagio nel rendermi conto che, ogni tanto, i suoi occhi inquieti scendevano sotto lo scritto, come due rossi soli, e mi scrutavano di soppiatto per un intero minuto ogni volta, direi, durante il quale la sua penna scorreva, o fingeva di scorrere, agile come sempre. Feci parecchi tentativi per mettermi fuori della loro portata - come salire su di una sedia per guardare una mappa sul lato opposto della stanza o immergermi nelle colonne di un giornale del Kent - ma quegli occhi continuavano ad attrarmi; e ogni volta che volgevo lo sguardo verso quei due rossi soli, ero sicuro di incontrarli, sia che sorgessero sia che tramontassero. Alla fine, con mio gran sollievo, la zia e il signor Wickfield tornarono dopo un'assenza piuttosto lunga. Non avevano avuto tutto quel successo che avrei desiderato, perché, sebbene i vantaggi del collegio fossero innegabili, mia zia non aveva approvato alcuna delle pensioni proposte per me. «È una vera sfortuna,» disse la zia. «Non so proprio che fare, Trot.» «In realtà è una sfortuna,» convenne il signor Wickfield. «Ma vi dirò io quello che dovete fare, signorina Trotwood.» «Che cosa?» chiese la zia. «Lasciate qui vostro nipote per il momento. È un tipetto tranquillo, non mi disturberà affatto. Questa casa è l'ideale per lo studio. È silenziosa come un monastero e quasi altrettanto spaziosa. Lasciatelo qui.» A mia zia, evidentemente, l'offerta piaceva, ma si faceva scrupolo di accettare. E così io. «Su, signorina Trotwood,» disse il signor Wickfield. «È il modo di superare la difficoltà. Si tratta di un accomodamento temporaneo, lo sapete. Se non risulterà soddisfacente o non converrà ai nostri reciproci interessi, lui potrà fare facilmente dietro-front. Frattanto avremo tutto il tempo per trovargli una sistemazione più adatta. La miglior cosa è che, per il momento, lo lasciate qui!» «Vi sono molto obbligata,» rispose mia zia, «e così pure lui, lo vedo; ma...» «Andiamo, so quello che volete dire,» esclamò il signor Wickfield. «Non vi opprimerò imponendovi di accettare dei favori, signorina Trotwood. Se volete, potete pagare la sua retta. Non vi faremo certo delle condizioni esose, ma, se lo desiderate, pagherete.» «Con questa intesa,» disse la zia, «sebbene non diminuisca la reale obbligazione, sarò felice di lasciarvelo.» «Allora andiamo a vedere la mia piccola direttrice di casa,» concluse il signor Wickfield. Salimmo dunque per una magnifica, antica scalinata, con una balaustrata così larga che avremmo potuto compiere la salita su di essa quasi con eguale facilità, ed entrammo in un'antica sala scarsamente illuminata da tre o quattro delle bizzarre finestre che avevo visto dalla strada: nello strombo di ognuna vi erano antichi sedili di quercia che sembravano provenire dagli stessi alberi da cui erano stati tratti il lucido pavimento e le grandi travi del soffitto. Era un locale bene ammobiliato, con un piano e alcuni vivaci arredi decorati di rosso e di verde, e fiori. Sembrava essere tutta angoli e cantucci in ognuno dei quali v'era qualche strano tavolino, o credenza, o libreria o sedile o qualche cosa d'altro che mi faceva pensare non potesse esserci nella sala un cantuccio più simpatico finché non vedevo il successivo che mi appariva eguale se non migliore. E in tutto vi era la stessa aria di intimità e di nettezza che caratterizzava l'esterno della casa. Il signor Wickfield bussò a una porta in un angolo della parete a pannelli, e una ragazzina di circa la mia età uscì svelta e lo baciò. Sul suo volto riconobbi subito la calma e dolce espressione della signora il cui ritratto mi aveva guardato nel salotto a terreno. Sembrava alla mia fantasia che il ritratto fosse cresciuto in forma di donna mentre l'originale era rimasto una bambina. Sebbene il suo volto fosse luminoso e felice, vi era in esso una tranquillità e tutt'intorno a lei uno spirito di pace, di bontà e di pacatezza, che non ho mai dimenticato né mai dimenticherò. Era questa la piccola direttrice della sua casa, sua figlia Agnes, ci disse il signor Wickfield. E quando udii come lo diceva e vidi come le teneva la mano, capii qual era l'unico motivo della sua vita. Portava appeso al fianco un minuscolo cestino con dentro le chiavi; e appariva come la più assennata e prudente direttrice che la vecchia casa potesse avere. Ascoltò con amabile espressione il padre, che le parlava di me, e, quando egli ebbe concluso, propose a mia zia di salir tutti al piano di sopra a vedere la mia stanza. Salimmo insieme, preceduti da lei: era una magnifica vecchia stanza con altri travi di quercia e vetri a losanga; e la larga balaustrata ci guidò ancora fino ad essa. Non riesco a ricordare dove o quando, durante la mia infanzia, avevo visto in una chiesa una finestra a vetri istoriati. E non ne ricordo il soggetto. Ma so che, quando la vidi voltarsi nella grave luce dell'antica scalinata, e attenderci, là in alto, pensai a quella finestra; e da allora associai sempre qualcosa del suo tranquillo fulgore con Agnes Wickfield. La zia era felice, al pari di me, di questa mia sistemazione; e così scendemmo ancora nel salotto, grati e soddisfatti. Poiché ella non volle sentir parlare di trattenersi a pranzo per timore di non riuscire a tornare a casa, col cavallino grigio, prima di buio, e poiché evidentemente il signor Wickfield la conosceva troppo bene per contrastarla su qualsiasi punto, le fu preparata lì un po' di colazione; Agnes tornò dalla sua governante e il signor Wickfield si ritirò nel suo studio. E così fummo lasciati a farci gli ultimi saluti senza la presenza di testimoni. La zia mi disse che il signor Wickfield avrebbe sistemato per me ogni cosa e che non mi sarebbe mancato nulla; mi disse le parole più affettuose e mi diede i suoi consigli migliori. «Trot,» mi disse come conclusione, «fai onore a te stesso, a me, al signor Dick e che il cielo sia con te.» Io ero profondamente commosso: potei solo ringraziarla più e più volte e mandai al signor Dick il mio saluto affettuoso. «Non essere mai meschino in nulla,» disse mia zia, «non essere mai falso, non essere mai crudele. Evita questi tre vizi, Trot, e io potrò sempre sperare in te.» Promisi meglio che potei che non avrei mai deluso la sua bontà né dimenticato il suo ammonimento. «Il cavallino è alla porta,» disse la zia, «e io devo andare! Resta qui.» Con queste parole mi abbracciò in fretta e uscì dalla sala chiudendo la porta dietro di sé. Dapprima fui sbigottito da una partenza così brusca e quasi temetti di averla scontentata; ma quando guardai nella strada e vidi come saliva tristemente nel calesse e tirava via in fretta senza voltarsi a guardare in su, la capii meglio e non le feci questa ingiustizia. Alle cinque, che per il signor Wickfield era l'ora del pranzo, io avevo ripreso animo ed ero pronto per il coltello e la forchetta. Era stato apparecchiato solo per noi due, ma Agnes attendeva in salotto prima di pranzo; scese col padre e gli sedette di fronte a tavola. Dubitavo che egli avrebbe potuto pranzare senza di lei. Dopo pranzo non rimanemmo lì ma salimmo di nuovo nel salotto, in un comodo angolo nel quale Agnes preparò dei bicchieri per suo, padre e una caraffa di vino di Porto. Pensai che egli non avrebbe potuto gustarlo come di consueto, se gli fosse stato servito da altre mani. Rimase lì per due ore sorseggiando il suo vino e servendosene generosamente, mentre Agnes suonava il piano, lavorava e parlava con lui e con me. Per la maggior parte del tempo, egli fu gaio e cordiale con noi; ma ogni tanto il suo sguardo si fermava su di lei ed egli rimaneva assorto e silenzioso. Mi parve che ella fosse sempre pronta ad accorgersene e sempre lo ridestasse con una domanda o una carezza. Allora egli usciva dalla sua meditazione e beveva ancora. Agnes preparò il tè e lo servì; e poi il tempo passò come dopo il pranzo, finché lei andò a letto: suo padre la prese fra le braccia, la baciò e, quando si fu allontanata, ordinò che gli portassero le candele nel suo studio. Allora andai a letto anch'io. Ma, nel corso della sera, mi ero spinto bighellonando fino alla porta e per breve tratto nella via per dare un'altra occhiata alle vecchie case e alla grigia cattedrale, e pensare che, durante il mio viaggio, avevo attraversato quella città antica ed ero passato davanti a quella stessa casa in cui adesso abitavo, senza conoscerla. Nel tornare, vidi Uriah Heep che chiudeva lo studio; e, animato da sentimenti amichevoli verso tutti, entrai per parlargli; nel congedarmi gli porsi la mano. Ma, oh, che viscida mano era la sua! spettrale al toccarla come al vederla! Mi strofinai la mia, dopo, per riscaldarla e per cancellarvi la sensazione della sua. Era una mano così ripugnante che, quando mi ritirai nella mia stanza, persisteva, umida e fredda nel mio ricordo. Nello sporgermi dalla finestra, e vedendo uno dei volti scolpiti sull'estremità delle travi che mi guardava di sghembo, mi parve che fosse Uriah Heep salito fin lassù in qualche modo, e mi affrettai a chiuderlo fuori. XVI • SONO, IN PIU' DI UN SENSO, UN NUOVO RAGAZZO Il mattino, dopo colazione, entrai di nuovo nella vita scolastica. Accompagnato dal signor Wickfield giunsi sulla scena dei miei futuri studi - un severo edificio circondato da un cortile, con una certa aria dotta che sembrava accordarsi benissimo con le cornacchie e i gracchi vagabondi che scendevano dalle torri della cattedrale e passeggiavano sul prato con portamento dottorale - e fui presentato al mio nuovo direttore, il dottor Strong. Il dottor Strong, a mio parere, appariva rugginoso quasi quanto le alte ringhiere di ferro e i cancelli all'esterno dell'edificio; e rigido e pesante quasi quanto le grandi urne di pietra che fiancheggiavano quei cancelli e si ergevano a intervalli regolari sulla sommità del muro di mattoni rossi tutt'intorno al cortile come ideali birilli per il trastullo del Tempo. Era nella sua biblioteca (intendo il dottor Strong), con le vesti non molto ben spazzolate e i capelli non molto ben pettinati; i calzoncini non allacciati al ginocchio; le lunghe ghette nere sbottonate; e le scarpe sbadiglianti come due caverne sul tappeto steso davanti al camino. Nel volgere verso di me gli occhi spenti - che mi ricordarono un vecchio cavallo cieco, da tempo dimenticato, una volta solito a brucar l'erba e inciampare sulle tombe nel cimitero di Blunderstone - mi disse che era lieto di vedermi: e poi mi porse la mano, di cui non seppi che fare visto che di per sé non faceva nulla. Ma, seduta al lavoro non lungi dal dottor Strong, v'era una signora molto bella e molto giovane - che egli chiamava Annie e che immaginai fosse sua figlia - la quale mi tolse di imbarazzo inginocchiandosi per infilare le scarpe allo stesso dottor Strong e abbottonargli le ghette, cosa che fece con grande disinvoltura e sveltezza. Quando ebbe finito e noi eravamo avviati verso l'aula scolastica, fui molto sorpreso nel sentire che il signor Wickfield, augurandole il buon giorno, la chiamava «signora Strong», e mi stavo domandando se potesse essere la moglie di un figlio del dottor Strong o la stessa signora del dottore, quando questi, senza volerlo, mi illuminò. «A proposito, Wickfield,» disse fermandosi in un corridoio con una mano sulla mia spalla, «non avete ancora trovato una sistemazione conveniente per il cugino di mia moglie?» «No,» rispose il signor Wickfield. «No. Non ancora.» «Desidererei che fosse fatto il più presto possibile, Wickfield,» disse il dottor Strong, «perché Jack Maldon è nel bisogno e disoccupato; e a queste due cose spesso ne seguono altre peggiori. Come dice il dottor Watts,» aggiunse guardandomi e facendo oscillare la testa secondo il ritmo della citazione, «‹Satana trova sempre un delitto per le mani che stanno in ozio›.» «Perdinci, dottore,» rispose il signor Wickfield, «se il dottor Watts avesse conosciuto gli uomini, avrebbe potuto scrivere con altrettanta verità ‹Satana trova sempre un delitto per le mani affaccendate›. La gente molto occupata compie interamente la sua parte di male nel mondo, potete esserne sicuro. Che cosa hanno realizzato, in questi ultimi cento o duecento anni, coloro che si son dati da fare per accumulare denaro o potere? Nessun delitto?» «Non mi aspetto che Jack Maldon si dia mai molto da fare per accumulare l'uno o l'altro,» disse il dottor Strong grattandosi il mento con aria pensosa. «Forse no,» rispose il signor Wickfield; «e voi mi riportate all'argomento; scusatemi la digressione. No, non sono ancora riuscito a sistemare il signor Jack Maldon. Credo,» aggiunse, «di capire il vostro desiderio, e questo rende la cosa più difficile.» «Il mio desiderio,» ribatté il dottor Strong, «è di sistemare convenientemente un cugino e vecchio compagno di giuochi di Annie.» «Sì, lo so,» disse il signor Wickfield. «In patria o fuori.» «Certo!» rispose il dottore apparentemente meravigliato che egli accentuasse tanto queste ultime parole. «In patria o fuori.» «È un'espressione vostra, lo sapete,» volle chiarire il signor Wickfield. «O fuori.» «Naturalmente,» rispose il dottore. «Naturalmente. L'uno o l'altro.» «L'uno o l'altro? Non avete preferenze?» chiese il signor Wickfield. «No,» rispose il dottore. «No?» Era stupito. «Assolutamente no.» «Nessun motivo,» insisté il signor Wickfield, «per preferire fuori e non in patria?» «No,» ripeté il dottore. «Devo credervi e quindi vi credo,» disse il signor Wickfield. «Se lo avessi saputo prima, il mio compito sarebbe stato molto semplificato. Ma confesso che avevo avuto un'altra impressione.» Il dottor Strong gli rivolse uno sguardo incerto e interrogativo subito trasformatosi in un sorriso che m'incoraggiò alquanto; perché era pieno di amabilità e di dolcezza, e vi era in esso, e addirittura in tutto il comportamento di lui, quando si fosse spezzato il gelo dottrinale e speculativo che lo avvolgeva, una semplicità che attraeva veramente e induceva a sperare un giovane scolaro come me. Sempre ripetendo «no» e «assolutamente no» e altre affermazioni di egual significato, il dottor Strong ci precedette con un bizzarro passo irregolare; e noi lo seguimmo: il signor Wickfield con aria grave, notai, e scuotendo la testa per conto suo, senza sapere che lo, vedevo. L'aula era una sala piuttosto vasta nel lato più silenzioso dell'edificio, fronteggiata dalla imponente vista di una mezza dozzina di quelle grandi urne e a dominio dello scorcio di un vecchio giardino appartato, proprietà del dottore, dove le pesche maturavano contro le assolate mura meridionali. Vi erano due grandi aloe in mastelli di legno sul prato sotto le finestre, le cui grandi e dure foglie (che sembravano fatte di lamiera dipinta) sono rimaste per me, da allora, per associazione, simbolo di silenzio e di solitudine. Circa venticinque ragazzi erano immersi con grande impegno nei loro libri, quando entrammo, ma si alzarono per augurare il buon giorno al dottore e rimasero in piedi nel vedere il signor Wickfield e me. «Un nuovo ragazzo, signorini,» disse il dottore; «Trotwood Copperfield.» Un certo Adams, che era il capoclasse, uscì allora dal suo posto e mi diede il benvenuto. Aveva l'aria di un giovane ecclesiastico, con la sua cravatta bianca, ma era molto affabile e di buon carattere; mi mostrò il mio posto e mi presentò ai maestri con una signorile disinvoltura che avrebbe dovuto, se altro mai, mettermi a mio agio. Mi sembrava tuttavia che fosse trascorso tanto tempo da quando ero stato insieme a ragazzi come quelli o tra compagni della mia età, tolti Mick Walker e Patata Infarinata, che mi sentii straniato come mai più in vita mia. Ero così consapevole di avere assistito a scene di vita che loro non potevano conoscere, di avere avuto esperienze estranee all'età, all'aspetto e alla condizione che avevo in comune con loro, che quasi mi sembrava un'impostura venire lì come un comune scolaretto. Durante il tempo di Murdstone e Grinby, corto o lungo che possa essere stato, mi ero talmente disabituato ai giuochi e alle gare dei ragazzi che mi rendevo conto di essere goffo e inesperto anche in quello che vi poteva essere di più semplice. Tutto ciò che avevo imparato era così scivolato via da me durante le sordide fatiche che mi avevano impegnato dal mattino alla sera, che adesso, quando venni esaminato su quel che sapevo, mi accorsi di non sapere più nulla e fui messo nella classe più bassa. Ma, turbato com'ero per la mia mancanza di spirito infantile e di istruzione, mi sentivo infinitamente più sconsolato se consideravo che quello che sapevo mi allontanava dai miei compagni assai più di quello che non sapevo. La mia mente correva a quello che essi avrebbero, pensato di me se fossero venuti a conoscere la mia familiarità con la prigione del King's Bench. Avevo forse addosso qualche cosa che avrebbe potuto rivelare, contro la mia volontà, le mie vicende relative alla famiglia Micawber: tutte quelle cose date in pegno, quelle vendite, quelle cene? E se qualcuno di quei ragazzi mi avesse visto passare per Canterbury esausto dal viaggio e cencioso, e mi riconoscesse? Che cosa avrebbero detto, loro che facevano così poco conto del denaro, se avessero saputo come avevo racimolato i miei mezzi pence per comprarmi quotidianamente la salsiccia con la birra o la fetta di sformato? Che effetto avrebbe fatto a loro, che erano così ignari della vita e delle strade di Londra, scoprire quanto ne sapessi (e quanto mi vergognassi di saperne) di alcuni dei più vili aspetti di entrambe? Tutto ciò mi turbinò nella testa a tal punto, quel primo giorno di scuola dal dottor Strong, che diffidai del minimo dei miei sguardi e dei miei gesti; mi rannicchiavo in me ogni volta che venivo avvicinato da uno dei miei nuovi compagni; e corsi via nell'attimo stesso in cui la scuola ebbe termine per paura di tradirmi rispondendo a una qualsiasi attenzione amichevole o a un qualsiasi tentativo di approccio. Ma vi era un tale influsso, nella vecchia casa del signor Wickfield, che, quando bussai a quella porta con i miei nuovi libri di scuola sotto braccio, cominciai a sentire dileguarsi il mio disagio. Nel salire alla mia vecchia stanza, là in alto, la grave ombra della scalinata parve cadere sui miei dubbi e le mie paure e rendere il passato sempre più indistinto. Rimasi seduto lì, studiando risolutamente sui miei libri fino all'ora di pranzo (uscivamo definitivamente da scuola alle tre); e scesi con la speranza di poter divenire ancora un ragazzo passabile. Agnes era nel salotto in attesa del padre, trattenuto da qualcuno nel suo studio. Mi venne incontro col suo simpatico sorriso e mi chiese se mi piaceva la scuola. Le risposi di sperare che mi sarebbe piaciuta molto, ma che, in quei primi tempi, mi sentivo un po' spaesato. «Tu non sei mai andata a scuola,» dissi, «non è vero?» «Oh sì, ogni giorno.» «Ah, ma intendi qui, a casa vostra.» «Papà non potrebbe mandarmi in nessun altro posto,» mi rispose sorridendo e scuotendo la testa. «La sua direttrice di casa deve essere sempre presente, lo sai.» «Sono sicuro che ti vuole molto bene,» dissi. Mi accennò di sì e si avvicinò alla porta a sentire se arrivava per potergli andare incontro sulle scale. Ma, poiché non era lì, tornò indietro. «La mamma è morta poco dopo la mia nascita,» disse col suo fare tranquillo. «Conosco solo il suo ritratto, a terreno. Ho visto che ieri lo guardavi. Avevi capito di chi era?» Risposi di sì, perché le somigliava tanto. «Anche papà lo dice,» commentò Agnes compiaciuta. «Ah! Questo è papà.» Il suo volto chiaro e calmo si illuminò di piacere mentre lei gli correva incontro e quando tornarono con la mano nella mano. Egli mi salutò cordialmente e mi disse che mi sarei certo trovato bene sotto il dottor Strong, che era uno degli uomini più affabili. «Forse c'è qualcuno - non so se vi sia - che abusa della sua bontà,» disse il signor Wickfield. «Non esser mai uno di questi, Trotwood, per nessuna ragione. È l'uomo meno diffidente che esista; e, sia questo una dote o un difetto, merita considerazione in tutti i nostri rapporti col dottore, futili o importanti.» Parlava, mi parve, come se fosse stanco o insoddisfatto di qualche cosa; ma non continuai a rifletterci perché in quel momento fu annunciato il pranzo e noi scendemmo prendendo gli stessi posti della sera prima. Ci eravamo appena seduti quando Uriah Heep sporse la sua rossa testa e la sua mano scarna dalla porta e disse: «C'è qui il signor Maldon che vi chiede il favore di dirvi una parola, signore.» «Ho lasciato appena adesso il signor Maldon,» rispose il suo padrone. «Sì, signore,» replicò Uriah; «ma il signor Maldon è tornato e vi chiede il favore di dirvi una parola.» Mentre teneva aperto il battente con la mano, Uriah guardò me, guardò Agnes, guardò le portate, guardò i piatti, guardò ogni oggetto che era nella stanza, mi parve, e tuttavia sembrò non guardare nulla; per tutto quel tempo fece mostra di tenere i suoi occhi rossi debitamente fissi sul suo padrone. «Vi chiedo scusa. È solo per dirvi, avendoci ripensato,» disse una voce dietro Uriah, mentre la testa di lui veniva spinta da parte e sostituita da quella di chi parlava, «- vogliate scusare questa mia intrusione - che, poiché a quanto pare non ho scelta in questa faccenda, quanto prima potrò partire, meglio sarà. Mia cugina Annie diceva, quando ne parlavamo, che preferiva avere i suoi amici a portata di mano che vederli esiliati, e il vecchio dottore...» «Parlate del dottor Strong?» lo interruppe il signor Wickfield in tono grave. «Il dottor Strong, naturalmente,» rispose l'altro; «io lo chiamo il vecchio dottore; è lo stesso, vi sembra?» «Non mi sembra,» replicò il signor Wickfield. «Be', il dottor Strong,» riprese l'altro, «il dottor Strong credo che fosse dello stesso parere. Ma, poiché a quanto pare dal come avete condotto questa mia faccenda, ha cambiato idea, allora non c'è altro da dire se non che prima me ne vado e meglio è. Se dobbiamo fare un tuffo nell'acqua, non serve a nulla indugiare sulla riva.» «Nel vostro caso l'indugio sarà ridotto al minimo, signor Maldon, potete contarci,» disse il signor Wickfield. «Grazie,» rispose l'altro. «Molto obbligato. Non voglio guardare in bocca al cavallo regalato, non è cortese; altrimenti, oso dire, mia cugina Annie potrebbe facilmente sistemar la cosa a modo suo. Basterebbe, credo, che Annie dicesse al vecchio dottore...» «Intendete dire: basterebbe che la signora Strong dicesse a suo marito... vi seguo?» corresse il signor Wickfield. «Precisamente,» rispose l'altro, «basterebbe che dicesse di voler che questo e questo andassero così e così, e tutto andrebbe così e così come è ovvio.» «E perché come è ovvio, signor Maldon?» chiese il signor Wickfield mangiando con calma. «Diamine, perché Annie è una ragazza giovane e bella, e il vecchio dottore - voglio dire il dottor Strong - non è affatto un ragazzo giovane e bello,» rispose il signor Jack Maldon ridendo. «Senza offesa per nessuno, signor Wickfield. Voglio solo dire che, a mio parere, un certo compenso è giusto e ragionevole in matrimoni di questo genere.» «Compenso per la signora?» chiese gravemente il signor Wickfield. «Per la signora, certo,» confermò Jack Maldon ridendo ancora. Ma notando che il signor Wickfield continuava il suo pranzo nel suo stesso modo tranquillo e imperturbabile e che non c'era speranza, di fargli muovere un muscolo del volto, aggiunse: «Comunque ho detto quello che ero venuto a dire e, scusandomi ancora per l'intrusione, posso ritirarmi. Naturalmente seguirò le vostre istruzioni, considerando la faccenda come cosa da sistemare tra voi e me senza farne parola in casa del dottore.» «Avete pranzato?» chiese il signor Wickfield con un gesto della mano verso il tavolo. «Grazie,» rispose il signor Maldon. «Vado a pranzo da mia cugina Annie. Arrivederci.» Il signor Wickfield, senza alzarsi, lo guardò pensoso mentre se ne andava. Era un giovanotto alquanto superficiale, mi parve, bello di volto, dalla parola facile e la fiduciosa baldanza. E così vidi per la prima volta il signor Jack Maldon, che non mi aspettavo di incontrare così presto quando, il mattino, avevo udito il dottore parlarne. Dopo il pranzo salimmo ancora al primo piano, dove tutto si svolse esattamente come il giorno prima. Agnes mise i bicchieri e la caraffa nello stesso angolo, e il signor Wickfield si sedette a bere e bevve generosamente. Agnes suonò al piano per lui, gli sedette vicino, lavorò e chiacchierò, e giocò qualche partita a domino con me. A suo tempo preparò il tè, e più tardi, quando portai giù i miei libri, li sfogliò e mi fece vedere quel che sapeva di essi (che non era poco sebbene lei così sostenesse), e qual era il miglior modo per studiarli e capirli. La rivedo, col suo contegno modesto, calmo e preciso e odo ancora la sua bella voce pacata, nello scrivere queste righe. L'influsso sempre benefico che ella riuscì a esercitare su di me in seguito, comincia già a scendere nel mio cuore. Amo la piccola Emily e non amo Agnes - no, nulla di questo genere - ma sento che vi è bontà, pace e verità dovunque è Agnes; e che la dolce luce della finestra istoriata nella chiesa, vista tanto tempo fa, cade sempre su di lei e su di me quando le sono vicino, e su tutto ciò che le è attorno. Giunta l'ora in cui ella doveva ritirarsi per il riposo, quando ci ebbe lasciati porsi la mano al signor Wickfield preparandomi a ritirarmi a mia volta. Ma egli mi fermò chiedendomi: «Ti piacerebbe restare con noi, Trotwood, o preferisci andare altrove?» «Restare,» risposi subito. «Ne sei sicuro?» «Se me lo permettete. Se posso.» «Ahimè, temo che sia una malinconica vita quella che conduciamo qui, ragazzo mio,» disse. «Non più malinconica per me che per Agnes, signore. Non è malinconica affatto!» «Per Agnes,» ripeté avvicinandosi lentamente al grande camino e appoggiandovisi. «Per Agnes!» Quella sera aveva bevuto (o così mi parve) fino ad avere gli occhi arrossati. Non che potessi vederli adesso perché erano abbassati e nell'ombra della sua mano; ma li avevo osservati un poco prima. «Mi domando adesso,» mormorò, «se la mia Agnes non sia stanca di me. Quando mai potrei io essere stanco di lei? Ma è diverso, del tutto diverso.» Stava meditando, senza rivolgersi a me; rimasi dunque in silenzio. «Una vecchia casa malinconica,» disse, «e una vita monotona; ma ho bisogno di sentirmela vicina. Devo averla vicina. Se il pensiero che potrei morire e lasciare la mia cara, o che la mia cara potrebbe morire e lasciare me, viene come uno spettro ad angustiare le mie ore felici e può essere solo annegato nel...» Non pronunciò la parola; ma, venuto lentamente al luogo in cui era prima seduto e compiuto meccanicamente il gesto di versare il vino dalla caraffa vuota, tornò a posarla e rifece i suoi passi. «Se è penoso da sopportare quando lei è qui,» disse, «che cosa sarebbe senza di lei? No, no, no, non posso tentarlo.» Tornò ad appoggiarsi al camino, restando così a lungo assorto nei suoi pensieri che io non sapevo decidere se correre il rischio di disturbarlo andandomene o rimanermene tranquillo dove ero finché non fosse uscito dalla fantasticheria. Alla fine si scosse e si guardò attorno finché i suoi occhi incontrarono i miei. «Resta con noi, Trotwood, eh?» disse col suo tono consueto e come se rispondesse a qualche cosa che avessi appena detto. «Ne sono felice. Tu sei per noi una compagnia. È salutare averti qui. Salutare per me, salutare per Agnes e salutare forse per tutti noi.» «Sono sicuro che per me lo è, signore,» dissi. «Sono così contento di trovarmi qui.» «Sei proprio un bravo ragazzo!» esclamò il signor Wickfield. «Finché sarai contento di trovarti qui, potrai restarci.» Dopo di che mi strinse la mano e mi batté sul dorso, e mi disse che la sera, quando avevo qualche cosa da fare dopo che Agnes ci aveva lasciati, o volevo leggere per il mio piacere, ero libero di scendere nella sua stanza, se lui era lì e io desideravo compagnia, e starmene seduto con lui. Lo ringraziai per la sua cortesia; e siccome subito dopo egli scese e io non ero stanco, scesi con lui, con un libro in mano, per valermi per una mezz'ora del suo permesso. Ma, vedendo una luce nello studiolo rotondo, e sentendomi subito attratto verso Uriah Heep, che esercitava su di me una sorta di fascino, preferii entrare là. Trovai Uriah intento a leggere un grande e grosso libro con una così evidente attenzione che il suo magro indice seguiva ogni riga via via che procedeva nella lettura, e lasciava viscide tracce sulle pagine (o almeno lo credetti in piena buonafede) come una lumaca. «Lavorate fino a tardi, stasera, Uriah,» dissi. «Sì, signorino Copperfield,» rispose Uriah. Mentre salivo sullo sgabello di fronte a lui per parlargli più comodamente, notai che non aveva mai sul volto qualche cosa di simile a un sorriso e che, in cambio, poteva solo aprire la bocca e improvvisarsi due dure pieghe sulle gote, una per parte. «Non sto facendo un lavoro di ufficio, signorino Copperfield,» continuò Uriah. «E quale, allora?» chiesi. «Sto approfondendo le mie cognizioni legali, signorino Copperfield,» rispose Uriah. «Studio la Pratica del Tidd. Oh, che scrittore è il signor Tidd, signorino Copperfield!» Il mio sgabello era una tale torre di osservazione che, nel guardarlo rimettersi a leggere dopo questa estatica esclamazione, e seguire le righe con l'indice, notai che le sue narici, sottili e affilate, incise da nette rughe, avevano un singolare e molto sgradevole modo di dilatarsi e, di contrarsi, tanto da sembrar ammiccare invece degli occhi, i quali non ammiccavano mai. «Immagino che siate già un avvocato completo,» dissi dopo averlo guardato per un po' di tempo. «Io, signorino Copperfield?» esclamò Uriah. «Oh, no! Io sono una persona umilissima.» Notai che l'impressione avuta dalle sue mani non era una mia fantasia: perché spesso si fregava le palme l'una contro l'altra come per asciugarsele e scaldarsele, e inoltre non di rado se le asciugava furtivamente col fazzoletto. «So benissimo di essere la più umile delle persone,» continuò Uriah Heep modestamente, «con chiunque mi confronti. Anche mia madre è una persona molto umile. Viviamo in un'umile casa ma abbiamo molto di cui dover essere grati. Umile anche la prima professione di mio padre: era sacrestano.» «E adesso che cosa è?» chiesi. «Adesso partecipa alla gloria dei cieli, signorino Copperfield,» rispose Uriah Heep. «Ma abbiamo molto di cui dover essere grati. Quanto devo essere grato di poter vivere con il signor Wickfield!» Domandai a Uriah se stava col signor Wickfield da molto tempo. «Sono con lui da circa quattro anni, signorino Copperfield,» rispose Uriah chiudendo il libro e segnando con cura il punto in cui aveva lasciato la lettura. «Dall'anno che seguì la morte di mio padre. Quanto devo essere grato di questo! Quanto devo essere grato al signor Wickfield per la bontà con cui mi fa seguire l'apprendistato, che altrimenti non sarebbe alla portata degli umili mezzi miei e di mia madre.» «Allora, quando sarà finito il tempo del vostro apprendistato, sarete un avvocato regolare, suppongo,» dissi io. «Con l'aiuto della Provvidenza, signorino Copperfield,» mi rispose Uriah. «Forse un giorno sarete socio del signor Wickfield nei suoi affari,» dissi per rendermi gradito; «e ci sarà lo studio Wickfield e Heep, o Heep già Wickfield.» «Oh, no, signorino Copperfield,» replicò Uriah scuotendo la testa, «sono troppo umile per questo!» Senza dubbio assomigliava stranamente al volto scolpito sul trave che sporgeva fuori della mia finestra, standosene lì seduto, in tutta la sua umiltà, a guardarmi di sbieco con la bocca aperta e i due solchi nelle gote. «Il signor Wickfield è un uomo eccellente al più alto grado, signorino Copperfield,» continuò Uriah. «Se lo conoscete da tempo, sono sicuro che lo sapete molto meglio di quanto io possa dirvi.» Risposi di non aver dubbi che lo fosse, ma che, personalmente, non lo conoscevo da tempo, sebbene fosse amico di mia zia. «Oh, davvero, signorino Copperfield,» disse Uriah, «vostra zia è un'amabile signora, signorino Copperfield!» Aveva un modo di contorcersi, quando voleva esprimere il suo entusiasmo, veramente sgradevole e tale da distogliere la mia attenzione dal complimento da lui fatto alla mia parente per rivolgerla alle torsioni serpentine della sua gola e del suo corpo. «Un'amabile signora, signorino Copperfield!» insisté Uriah Heep. «Credo che abbia una grande ammirazione per la signorina Agnes, signorino Copperfield.» Dissi: «Sì,» con molta baldanza; ma non che ne sapessi qualcosa, il cielo mi perdoni! «Spero che l'abbiate anche voi, signorino Copperfield,» proseguì Uriah. «Ma sono certo che l'avete.» «Tutti devono averla,» risposi. «Oh, grazie, signorino Copperfield,» disse Uriah, «per questa osservazione! È così giusta! Umile come sono, so che è così giusta! Oh, grazie, signorino Copperfield!» Nell'eccitazione dei suoi sentimenti si contorse tanto da uscire dal suo sgabello e, una volta venutone fuori, cominciò a prepararsi per andare a casa sua. «Mia madre mi aspetterà,» disse guardando il pallido e inespressivo quadrante di un orologio che aveva in tasca, «e sarà in agitazione; perché, sebbene umilissimi, siamo molto attaccati l'uno all'altra. Se vorrete venire a trovarci, un pomeriggio, e prendere una tazza di tè nella nostra povera dimora, mia madre sarà quanto mai orgogliosa della vostra compagnia.» Dissi che sarei stato lieto di venire. «Grazie, signorino Copperfield,» rispose Uriah rimettendo il suo libro sullo scaffale. «Immagino che vi tratterrete qui per qualche tempo, signorino Copperfield.» Dissi che sarei stato tenuto lì, pensavo, per tutto il tempo dei miei studi. «Oh, davvero!» esclamò Uriah. «Penso allora che voi finirete con l'entrare in questo studio, signorino Copperfield.» Protestai che non avevo progetti del genere e che nessuno aveva in mente per me un tale programma; ma Uriah insisteva a rispondere blandamente a ogni mia assicurazione: «Oh, sì, signorino Copperfield, penso proprio che entrerete davvero!» e «Oh, davvero, signorino Copperfield, penso che vi entrerete di certo!» e andò avanti così più volte. Infine, pronto a lasciare l'ufficio, mi chiese se poteva spegnere la candela senza mio disturbo e, avendogli risposto di sì, la spense immediatamente. Dopo avermi stretto la mano - la sua, nel buio, mi fece l'impressione di un pesce - aprì appena il portone, sgattaiolò via e lo richiuse, lasciandomi lì a cercar di ritrovare la strada a tastoni: cosa che mi costò un certo impaccio e una caduta sul suo sgabello. Fu questa la causa immediata, suppongo, del sogno che feci su di lui per quella che mi parve una buona metà della notte; sognai fra l'altro che egli aveva lanciato la casa del signor Peggotty in una spedizione piratesca, con una bandiera nera sull'albero maestro su cui era scritto «Pratica di Tidd», sotto la quale diabolica insegna portava me e la piccola Emily nel Mare delle Antille per annegarci. Mi trovai un po' meglio nel mio disagio quando andai a scuola il giorno dopo, e molto meglio il successivo, e così me ne liberai a poco a poco, tanto che, in meno di una quindicina di giorni, mi trovai del tutto a casa mia e felice tra i miei nuovi compagni. Nei loro giuochi ero piuttosto goffo, e piuttosto tardo nei loro studi. Ma speravo che l'abitudine mi avrebbe migliorato nei primi e l'applicazione nei secondi. Di conseguenza mi dedicai con grande impegno tanto ai giuochi che agli studi, ed ebbi molte lodi. In breve la vita presso Murdstone e Grinby mi divenne così estranea che appena potevo credere, via via che la vita presente si faceva così familiare, di averla condotta per molto tempo. Quello del dottor Strong era un collegio eccellente, diverso da quello del signor Creakle come il bene dal male. Era ordinato con serietà e decoro e secondo un sano sistema: facendo appello, in tutto, all'onore e alla buona fede dei ragazzi e, cosa che operava meraviglie, con la dichiarata intenzione di aver fiducia nel possesso di queste qualità da parte loro, a meno che non se ne dimostrassero indegni. Tutti noi sentivamo di avere una parte nella gestione del collegio e nel sostenere il suo carattere e la sua dignità. Di conseguenza ci affezionavamo a esso molto presto e sinceramente - io, almeno, sono certo di averlo fatto, e per tutto il tempo che rimasi là non conobbi alcun ragazzo che si comportasse altrimenti - e studiavamo di buon volere desiderando fargli onore. Fuori delle ore di studio ci dedicavamo a giuochi generosamente sportivi e godevamo di molta libertà; ma anche in questo, ricordo, avevamo una buona fama in città e raramente, col nostro contegno e i nostri modi, facemmo torto al dottor Strong e al suo collegio. Alcuni degli studenti più grandi erano a pensione in casa del dottor Strong, e da loro venni a sapere, di seconda mano, alcuni particolari della vita del dottore. Ad esempio che aveva sposato neppur da dodici mesi la bella e giovane signora che avevo visto nel suo studio, e l'aveva sposata per amore; perché lei non aveva un soldo e aveva invece un mucchio di parenti poveri (così dicevano i miei compagni) pronti a invader la casa del dottore e cacciarlo via. E così pure che il fare cogitabondo del dottore doveva essere attribuito al suo essere continuamente impegnato nella ricerca di radici greche: cosa che, nella mia innocenza e nella mia ignoranza, interpretai come una specie di manìa botanica da parte del dottore, tanto più che, quando andava a passeggio, guardava sempre per terra, finché capii che si trattava di radici di parole, in vista di un nuovo dizionario che egli aveva in mente. Adams, il nostro capoclasse, molto inclinato alla matematica, aveva fatto il calcolo, mi dissero, del tempo che sarebbe stato necessario a questo dizionario per arrivare al termine secondo i piani del dottore e il suo ritmo di lavoro. A suo parere avrebbe potuto essere finito in mille e seicento quarantanove anni, a partire dall'ultimo compleanno, ossia il sessantaduesimo, del dottore. Ma il dottore, in sé, era l'idolo dell'intero collegio, e avrebbe dovuto essere un collegio assai male assortito se fosse stato altrimenti, perché egli era l'uomo più affabile, dotato di una così semplice buonafede che avrebbe toccato perfino il cuore di pietra delle urne sui muri. Quando passeggiava in su e in giù in quella parte del cortile che si stendeva a fianco dell'edificio, mentre le cornacchie e i gracchi vagabondi gli guardavano dietro drizzando argutamente le teste, quasi sapessero quanto fossero più esperti di lui nelle cose del mondo, se un qualsiasi postulante riusciva ad avvicinarsi alle sue scarpe scricchiolanti tanto da richiamare la sua attenzione su una sola frase di una storia di disgrazie, quel postulante era a posto per due giorni. La cosa era così notoria in tutto il collegio che gli insegnanti e i capiclasse avevano un bel da fare per fermare questi scrocconi alle cantonate, e saltar dalle finestre per scacciarli dal cortile prima che potessero far nota al dottore la loro presenza, cosa che spesso veniva condotta felicemente a termine a pochi passi da lui senza che lui minimamente se ne accorgesse mentre continuava ad andare su e giù. Fuori del suo dominio, e indifeso, era una vera pecora in balìa dei tosatori. Si sarebbe tolte le ghette dalle gambe per darle via. Difatti correva fra di noi una storia (ignoro e ho sempre ignorato su quale base, ma ci ho creduto per tanti anni da non avere il minimo dubbio che sia vera) che in una rigida giornata d'inverno aveva dato effettivamente le sue ghette a una mendicante, la quale suscitò un certo scandalo nel vicinato mettendo in mostra di porta in porta un bel bambino avvolto in quegli indumenti che furono riconosciuti da tutti perché da quelle parti erano noti al pari della cattedrale. La leggenda aggiunge che l'unico a non riconoscerli fu lo stesso dottore, il quale, quando poco dopo furono esposti sulla porta di una botteguccia di abiti usati, piuttosto screditata, dove oggetti simili venivano barattati con del gin, fu veduto più volte maneggiarli con aria di approvazione, quasi ammirasse qualche curiosa novità nel loro modello e le considerasse più perfezionate delle sue. Era bello vedere il dottore con la sua giovane e graziosa moglie. Aveva un modo paterno e benevolo di mostrare tutto il suo affetto per lei, che era in se stesso un'espressione di bontà. Li vedevo spesso passeggiare nel giardino, sotto i peschi, e a volte potevo osservarli più da vicino nello studio o in salotto. Mi sembrava che lei si prendesse molta cura del dottore e gli volesse molto bene, sebbene mai la considerassi vitalmente interessata nel dizionario: il dottore portava sempre in tasca, o nella fodera del cappello, alcuni ingombranti frammenti di quest'opera, e in genere aveva l'aria di spiegarglieli mentre passeggiavano. Vidi molto spesso la signora Strong, sia perché mi aveva preso in simpatia fin dal mattino in cui ero stato presentato al dottore, e in seguito fu sempre molto buona con me e si interessò alle mie vicende; sia perché aveva un grande affetto per Agnes e andava e veniva spesso per la nostra casa. Mi parve che tra lei e il signor Wickfield (di cui ella sembrava aver paura) ci fosse una curiosa tensione che non scomparve mai. Quando veniva da noi la sera, non accettava mai che egli la riaccompagnasse a casa e scappava via invece con me. E a volte, mentre correvamo allegramente attraversando la piazza della cattedrale, sicuri di non trovare alcuno, incontravamo il signor Jack Maldon, che era sempre sorpreso di vederci. La mamma della signora Strong era una signora che mi piaceva moltissimo. Si chiamava signora Markleham; ma i ragazzi solevano chiamarla il Vecchio Soldato per le sue capacità strategiche e per l'abilità con cui manovrava eserciti di parenti contro il dottore. Era una donnetta dagli occhi acuti che, quando era in gran pompa, usava portare un eterno cappellino ornato da alcuni fiori artificiali e da due farfalle finte che si supponeva svolazzassero su quei fiori stessi. Circolava tra noi la leggenda che questo cappello venisse dalla Francia e potesse solo avere avuto origine nella tecnica di questa ingegnosa nazione: ma tutto quello che so di sicuro in proposito è che faceva sempre la sua comparsa di sera, dovunque la signora Markleham comparisse; che nelle riunioni fra amici veniva portato in un cestino indiano; che le farfalle avevano il dono di tremare in continuazione; e che divenivano più belle nei ricevimenti serali, a spese del dottor Strong, come api affaccendate. Potei osservare a tutto mio agio il Vecchio Soldato - nessuna mancanza di riverenza se uso questo nome - una sera che rimase memorabile per me grazie a qualche cosa d'altro, che racconterò. Si teneva, quella sera, una piccola riunione in casa del dottore in occasione della partenza del signor Jack Maldon per l'India, dove andava come cadetto o qualche cosa di simile: il signor Wickfield aveva finalmente sistemato la cosa. Per caso era anche il compleanno del dottore. Avevamo avuto vacanza, il mattino gli avevamo fatto dei regali, gli avevamo fatto un discorso per tramite del capoclasse, e lo avevamo acclamato finché noi eravamo divenuti rauchi e lui aveva pianto. Adesso, di sera, il signor Wickfield, Agnes e io eravamo venuti a prendere il tè con lui, in privato. Il signor Jack Maldon era arrivato prima di noi. La signora Strong, vestita di bianco, con nastri purpurei, suonava il piano quando noi entrammo, ed egli si chinava su di lei per voltarle le pagine. Il rosa e il bianco della carnagione di lei non erano, vivaci e fiorenti come di consueto, mi parve, quando ella si volse verso di noi; ma il suo aspetto era molto grazioso, meravigliosamente grazioso. «Mi son dimenticata, dottore,» disse la mamma della signora Strong quando fummo seduti, «di rallegrarmi con voi per questa giornata, sebbene, nel mio caso, come potete immaginare, si tratti di ben più di semplici rallegramenti. Permettetemi di augurarvi molti di questi felici giorni.» «Grazie, signora,» rispose il dottore. «Molti, molti, molti di questi felici giorni,» insisté il Vecchio Soldato. «Non solo per amor vostro, ma anche per quello di Annie, di John Maldon e di molti altri. Mi sembra ieri, John, che tu eri un bambinetto, alto fino alla spalla del signorino Copperfield, e ti atteggiavi a piccolo innamorato di Annie dietro il cespuglio di uvaspina in fondo al giardino.» «Mamma cara,» disse la signora Strong, «non ricordare questo adesso.» «Non essere sciocca, Annie,» replicò sua madre. «Se devi arrossire di queste cose adesso, che sei una vecchia donna maritata, quando mai potrai ascoltarle senza arrossire?» «Vecchia?» esclamò il signor Jack Maldon. «Annie? Andiamo!» «Sì, John,» ribatté il Soldato. «Virtualmente una vecchia donna maritata. Sebbene non vecchia di anni - perché quando mai, tu o altri, mi avete sentito dire che una ragazza di vent'anni sia vecchia? - tua cugina è la moglie del dottore, e l'ho definita così come tale. È un bene per te, John, che tua cugina sia la moglie del dottore. Tu hai trovato in lui un amico affettuoso e influente, che sarà ancora più affettuoso, mi arrischio a predirlo, se tu lo meriterai. Io non ho falsi orgogli. Non esito ad ammettere francamente che vi sono alcuni membri della nostra famiglia i quali hanno bisogno di amici. Tu stesso eri fra quelli, prima che tua cugina te ne trovasse uno.» Il dottore, nella sua bontà di cuore, agitava la mano come per non dare importanza alla cosa e risparmiare al signor Jack Maldon ulteriori ricordi. Ma la signora Markleham cambiò la sua sedia con una più vicina a lui e, posandogli il ventaglio sulla manica, continuò: «No davvero, mio caro dottore, dovete scusarmi se sembro insistere troppo su questo argomento, perché lo sento proprio nell'intimo. Lo considero un vera e propria monomania: per me è un soggetto importantissimo. Voi siete per noi una benedizione. Siete davvero la nostra provvidenza, lo sapete.» «Sciocchezze, schiocchezze,» disse il dottore. «No, no, scusatemi,» ribatté il Vecchio Soldato. «Ora che non è presente nessun altro se non il nostro caro e fedele amico signor Wickfield, non mi rassegnerò a essere contraddetta. E per prima cosa mi varrò dei privilegi di una suocera, se voi fate così, per sgridarvi. Sono sincera e parlo a cuore aperto. Quel che dico è lo stesso che dissi la prima volta, quando mi colmaste di meraviglia - vi ricordate quanto ero meravigliata? - chiedendomi la mano di Annie. Non che ci fosse qualche cosa di tanto straordinario nel semplice fatto della vostra richiesta - sarebbe ridicolo affermarlo! - ma perché, avendo voi conosciuto il suo povero padre, e avendo visto lei bambina di sei mesi, non vi avevo mai considerato sotto questa luce, né in alcun modo come un uomo che voglia prender moglie... solo questo, lo sapete.» «Sì, sì,» rispose il dottore bonariamente. «Non pensateci.» «Ci penso, invece,» disse il Vecchio Soldato portandosi sulle labbra l'estremità del ventaglio. «Ci penso molto. Ricordo tutto questo perché mi contraddiciate se sbaglio. Bene! Allora parlai ad Annie e le dissi quel che avveniva. Dissi: ‹Mia cara, ecco qui il dottor Strong che ti ha fatto seriamente oggetto di una bella dichiarazione e di una richiesta.› Ho forse fatto la minima pressione? No. Dissi: ‹Adesso, Annie, dimmi subito la verità: è libero il tuo cuore?› ‹Mamma,› mi rispose lei piangendo, ‹sono giovanissima,› - e questo era perfettamente vero - ‹e il cuore non so nemmeno se ce l'ho.› ‹Allora, mia cara,› dissi io, ‹puoi esser sicura che è libero. Comunque sia, amor mio,› dissi io, ‹il dottor Strong è in grande agitazione e deve avere una risposta. Non possiamo tenerlo in questo stato di incertezza.› ‹Mamma,› disse Annie sempre piangendo, ‹sarebbe proprio infelice senza di me? Se lo sarebbe, lo onoro e lo rispetto tanto che penso di poter essere sua moglie.› E così fu sistemato tutto. Allora, e soltanto allora, io dissi ad Annie: ‹Annie, il dottor Strong non sarà soltanto tuo marito, ma rappresenterà il tuo povero padre; rappresenterà il capo della nostra famiglia, rappresenterà la saggezza, il livello sociale e, posso dire, i mezzi della nostra famiglia; sarà insomma una provvidenza per noi.› Usai allora questa parola e la uso ancora oggi. Se ho un merito è la costanza.» Sua figlia era rimasta silenziosa sulla sua sedia durante questo discorso, con gli occhi fissi a terra; suo cugino era in piedi al suo fianco e guardava a terra anche lui. Adesso ella disse molto piano, con voce tremante: «Mamma, spero che avrai finito.» «No, mia cara Annie,» rispose il Vecchio Soldato, «non ho finito affatto. Poiché me lo domandi, amor mio, ti rispondo che non ho finito. Mi lamento che, in verità, tu sia un tantino snaturata verso la tua famiglia, e, poiché non serve a nulla lagnarsene con te, me ne lamento con tuo marito. E ora, caro dottore, guardate che sciocchina di moglie avete.» Mentre il dottore volgeva il volto bonario, col suo sorriso semplice e dolce verso, di lei, sua moglie abbassò ancor più la testa. Mi accorsi che il signor Wickfield la guardava fisso. «Quando mi accadde di dire, l'altro giorno, a questa piccola impertinente,» proseguì sua madre scuotendo giocosamente la testa e il ventaglio verso di lei, «che c'era una circostanza familiare sulla quale avrebbe potuto richiamare la vostra attenzione - e in verità penso che doveva farlo - mi rispose che farlo significava chiedervi un favore; e che, poiché siete tanto generoso e poiché per lei chiedere significa sempre ottenere, non voleva.» «Annie, mia cara,» disse il dottore. «Hai fatto male. Mi hai tolto un piacere.» «Quasi le stesse parole che le ho detto io!» esclamò la madre. «Un'altra volta, ora che so che non vuole parlarvene solo per questa ragione, ho proprio in mente, mio caro dottore, che ve ne parlerò io stessa.» «Ne sarò felice,» rispose il dottore. «Potrò farlo?» «Certamente.» «Bene, allora lo farò!» dichiarò il Vecchio Soldato. «Affare concluso.» E, avendo, immagino, raggiunto lo scopo, batté più volte la mano del dottore col suo ventaglio (che aveva baciato), e tornò trionfante al suo posto di prima. Arrivò qualche altro invitato, tra i quali erano i due insegnanti e Adams, e la conversazione divenne generale; naturalmente volse sul signor Jack Maldon, sul suo viaggio, sul paese in cui stava per andare e sui suoi vari programmi e le sue prospettive. Doveva partire quella notte stessa, dopo cena, in una sedia di posta, per Gravesend, dov'era la nave su cui avrebbe compiuto il viaggio; e sarebbe stato lontano - a meno che non tornasse per una licenza o per motivi di salute - non so quanti anni. Ricordo che fu stabilito per consenso generale che l'India era un paese decisamente calunniato e che non vi era in esso nulla di sgradevole a eccezione di qualche rara tigre e di un po' di calura nelle ore più ardenti della giornata. Da parte mia, consideravo il signor Jack Maldon come un moderno Sindbad e me lo raffiguravo come l'amico del cuore di tutti i ragià dell'oriente, seduto sotto baldacchini e intento a fumare pipe d'oro arrotolate, lunghe un miglio se si fosse potuto distenderle. La signora Strong cantava in modo veramente piacevole: lo sapevo perché l'avevo spesso udita cantare da sola. Ma, sia che si sentisse intimidita nel cantare davanti a un pubblico, sia che quella sera non fosse in voce, certo è che non poté cantare affatto. Una volta tentò un duetto con suo cugino Maldon, ma non poté nemmeno incominciare; e in seguito, quando cercò di cantare da sola, sebbene avesse iniziato con molta dolcezza, la voce le si spense all'improvviso lasciandola piena di confusione con la testa china sui tasti. Il buon dottore disse che era nervosa e, per distrarla, propose un giuoco di carte, cosa di cui si intendeva come dell'arte di suonare il trombone. Ma notai che il Vecchio Soldato lo prese direttamente sotto la sua protezione divenendo la sua compagna, e, come preliminare dell'iniziazione, lo invitò a darle tutto il denaro che aveva in tasca. Facemmo un'allegra partita, resa non meno allegra dagli sbagli che il dottore commetteva in quantità enorme a dispetto della vigilanza delle farfalle e con loro grande irritazione. La signora Strong aveva rinunciato a giocare, scusandosi col dire che non si sentiva bene; e suo cugino Maldon aveva addotto a sua volta il pretesto di avere qualche valigia da fare. Quando ebbe finito, comunque, tornò, ed entrambi sedettero insieme sul sofà, a conversare. Ogni tanto ella andava a guardare le carte del dottore e gli diceva come doveva giocare. Nel chinarsi su di lui era pallidissima e mi parve che il suo dito tremasse quando indicava le carte; ma il dottore era felice delle sue attenzioni, e non si accorse di quel tremito, se pur esisteva. A cena fummo meno allegri. Ognuno sembrava sentire che una partenza come quella era una triste cosa e che diveniva tanto più triste quanto più si avvicinava. Il signor Jack Maldon tentò di essere loquace, ma non si sentiva a suo agio e peggiorò le cose. Le quali non furono migliorate, mi parve, dal Vecchio Soldato, che non faceva che rievocare momenti della gioventù del signor Jack Maldon stesso. Il dottore, comunque, il quale, ne sono sicuro, sentiva di creare la felicità di tutti, era molto compiaciuto e non aveva dubbi che tutti fossimo al colmo dell'allegria. «Mia cara Annie,» disse guardando l'orologio e riempiendosi il bicchiere, «è passata l'ora per tuo cugino Jack, e non dobbiamo trattenerlo perché il tempo e la marea - entrambi presenti in questo caso - non stanno ad aspettare nessuno. Signor Jack Maldon, voi avete dinanzi un lungo viaggio e un paese straniero; ma molti altri li hanno avuti e molti altri ancora li avranno fino al termine dei tempi. I venti che state per affrontare hanno sospinto migliaia e migliaia di uomini verso la fortuna, e ne hanno riportati migliaia e migliaia felicemente in patria.» «È una cosa commovente,» disse la signora Markleham, «comunque la si consideri, è commovente vedere un bel giovane che si è conosciuto fin dall'infanzia, andarsene all'altro capo del mondo, lasciandosi dietro tutto ciò che conosceva e senza conoscere quello che gli è davanti. Un giovane che fa tali sacrifici,» e guardò il dottore, «merita bene di essere continuamente sostenuto e aiutato.» «Il tempo passerà presto per voi, signor Jack Maldon,» continuò il dottore, «e presto per tutti noi. Alcuni di noi, forse, possono difficilmente attendersi, nel naturale corso delle cose, di salutarvi al vostro ritorno. La cosa migliore è di sperarlo, e questo è il mio caso. Non vi annoierò con dei buoni consigli. Avete avuto per molto tempo un buon modello sotto gli occhi in vostra cugina Annie. Imitate le sue virtù quanto più potete.» La signora Markleham si fece vento e scosse la testa. «Addio, signor Jack,» concluse il dottore alzandosi, al che tutti ci alzammo. «Un ottimo viaggio, una prospera fortuna laggiù e un felice ritorno in patria!» Tutti facemmo onore al brindisi e stringemmo la mano al signor Jack Maldon; dopo di che egli prese in fretta congedo dalle signore che erano lì e corse alla porta, dove fu ricevuto, mentre saliva in vettura, da una tremenda salve di evviva sparata dai nostri ragazzi che si erano riuniti apposta sul prato. Corso fra loro per ingrossar le file, ero vicinissimo alla carrozza quando si mosse, ed ebbi la viva impressione di vedere, tra la nebbia di voci e di polvere, il signor Jack Maldon passarmi davanti col viso stravolto e qualche cosa di purpureo fra le mani. Dopo un'altra salve in onore del dottore e un'altra in onore della moglie del dottore, i ragazzi si dispersero e noi rientrammo in casa, dove trovai gli ospiti tutti riuniti intorno al dottore stesso, intenti a discutere come il signor Jack Maldon era partito, e come aveva sopportato la cosa, e quali fossero i suoi sentimenti e tutto il resto. In mezzo a questi discorsi la signora Markleham chiese ad alta voce: «Dov'è Annie?» Non c'era alcuna Annie, e quando la chiamarono nessuna Annie rispose. Ma, usciti tutti in gruppo dalla stanza per vedere che cosa fosse successo, la trovammo distesa sul pavimento del vestibolo. Ci fu dapprima un grande allarme, finché capimmo che era in deliquio e che il deliquio cedeva ai soliti mezzi di cura. Il dottore, che aveva sollevato la testa di lei sulle proprie ginocchia, le scostò allora i ricci con la mano e disse guardandosi attorno: «Povera Annie! È così affezionata e tenera di cuore! È stata la partenza del suo vecchio amico e compagno di giuochi - il suo cugino favorito - a ridurla così. Ah! che pena! Quanto mi dispiace!» Quando riaprì gli occhi vide dove era e che tutti le stavamo attorno, si alzò, sorretta, e frattanto volse il capo per posarlo sulla spalla del dottore... o per nascondervelo, non so bene. Entrammo nel salotto per lasciarla col dottore e con sua madre; ma ella disse, sembra, che si sentiva meglio di quanto non si fosse sentita per tutto quel giorno e che preferiva tornare con noi; così la portarono dentro, pallida e debole, mi parve, e la fecero sedere sul divano. «Annie cara,» disse sua madre aggiustandole il vestito. «Guarda qui! Hai perso un fiocco. Chi è così gentile da cercare un nastro, un nastro color porpora?» Era quello che portava sul petto. Lo cercammo tutti; io stesso, sono sicuro, frugai da ogni parte; ma nessuno riuscì a trovarlo. «Non ricordi dov'eri quando te lo sei visto per l'ultima volta, Annie?» chiese sua madre. Mi meravigliai che avesse potuto apparirmi pallida o altra cosa che non fosse un rosso ardente quando rispose che lo aveva fino a poco prima, così le sembrava, ma che non era il caso di cercarlo. Tuttavia fu cercato ancora, e senza esito. Ella ci pregò di lasciare le indagini; ma fu fatta ancora qualche ricerca saltuaria, finché lei non si fu rimessa del tutto e gli ospiti presero congedo. Tornammo a casa molto lentamente, il signor Wickfield, Agnes e io: Agnes e io ammiravamo il chiaro di luna, e il signor Wickfield non alzava gli occhi da terra. Quando finalmente giungemmo alla nostra porta, Agnes si accorse di avere dimenticato la sua piccola borsetta a rete. Felice di renderle un favore, rifeci la strada per prenderla. Entrai nella sala da pranzo in cui era stata dimenticata: era buia e deserta. Ma, poiché era aperta una porta di comunicazione tra la sala e lo studio del dottore, dove brillava una luce, varcai la soglia per spiegare che cosa cercavo e chiedere una candela. Il dottore era seduto nella sua poltrona accanto al fuoco, e la sua giovane moglie si rannicchiava su di uno sgabello ai suoi piedi. Con un sorriso compiacente, il dottore leggeva ad alta voce la spiegazione o l'esposizione manoscritta di una teoria del suo interminabile dizionario, ed ella alzava lo sguardo verso di lui. Ma con un volto che non le avevo mai visto. Era così bello nella sua forma, di un pallore così cinerino, così irrigidito nell'astrazione, così pieno di uno stravolto, sonnambulico, sognante orrore di non so che cosa. Gli occhi erano spalancati, e i bruni capelli le cadevano in due ricche masse sulle spalle e sul bianco abito in disordine per la mancanza del nastro perduto. Per quanto ricordi nettamente il suo sguardo, non posso dire che cosa esprimesse: non posso dire nemmeno che cosa esprime per me adesso, che riappare ancora dinanzi al mio giudizio più maturo. Pentimento, umiliazione, vergogna, orgoglio, amore e fiducia... vedo tutto questo, e in tutto questo vedo quell'orrore di non so che cosa. Il mio ingresso e le mie parole di spiegazione la riscossero. Anche il dottore ne fu disturbato perché, quando tornai per rimettere a posto la candela che avevo preso dal tavolo, lui stava accarezzandole la testa, al suo modo paterno, e diceva di essere uno spietato moscone a permetterle di indurlo a quella lettura; e che voleva che andasse a letto. Ma ella lo supplicò, in un modo rapido e ansioso, di lasciarla restare... di darle la sicurezza (la udii mormorare qualche parola rotta, in questo senso) di godere, quella sera, tutta la sua fiducia. Si volse ancora verso di lui dopo avermi dato un'occhiata mentre lasciavo la stanza e uscivo, e la vidi sovrapporre le mani sul ginocchio di lui, che riprendeva la lettura, e alzare lo sguardo con lo stesso volto, un poco più calmo. Ne ebbi un'impressione profonda che ricordai in seguito per molto tempo; avrò occasione di riparlarne quando sarà il momento. XVII • QUALCUNO RIAPPARE Non ho avuto occasione di parlare di Peggotty dal giorno della mia fuga; ma, naturalmente, le scrissi una lettera quasi subito dopo aver trovato una casa a Dover, e un'altra, molto più lunga, con tutti i particolari che ho riferito, quando mia zia mi ebbe preso ufficialmente sotto la sua protezione. Le scrissi di nuovo della mia sistemazione presso il dottor Strong, dandole particolari sulla mia felice condizione e le mie prospettive. Non avrei potuto trarre maggior piacere dal denaro che il signor Dick mi aveva dato, di quello che provai nell'inviare a Peggotty, per posta, chiusa in quest'ultima lettera, una mezza ghinea d'oro, in restituzione della somma che mi aveva prestato: in questa lettera, non prima, parlai del giovanotto con l'asino e il carretto. A queste notizie Peggotty rispose con la prontezza, se non con la concisione, di un segretario d'azienda. I suoi estremi poteri di espressione (che, per scritto, non erano certo vasti) si esaurirono nel tentativo di comunicarmi i suoi sentimenti a proposito del mio viaggio. Quattro facciate di frasi incominciate e non finite, piene di incoerenze, di esclamazioni e di macchie furono insufficienti a concederle un sollievo. Ma le macchie erano per me più espressive della miglior prosa, perché mi dimostravano che Peggotty aveva pianto su tutto il foglio, e che cosa potevo desiderare di più? Riuscii a capire, senza molta difficoltà, che non poteva ancora considerare con vero affetto la zia. La notizia era troppo recente dopo una così lunga propensione nel senso opposto. Non si riesce mai a conoscere una persona, scriveva; ma pensare che la signorina Betsey potesse rivelarsi così diversa da come era stata giudicata, era veramente una Morale! Fu questa la parola da lei usata. Evidentemente aveva ancora paura della signorina Betsey, perché le inviava molto timidamente i suoi riconoscenti omaggi; e con eguale evidenza aveva paura anche di me, considerando la possibilità che scappassi via un'altra volta quanto prima: almeno se posso giudicare dai suoi ripetuti accenni al fatto che il prezzo della diligenza per Yarmouth avrei sempre potuto averlo da lei solo che lo richiedessi. Mi diede una notizia che mi commosse profondamente, e cioè che tutto il mobilio della nostra vecchia casa era stato venduto, che il signore e la signorina Murdstone se n'erano andati e che la casa era stata chiusa per essere affittata o venduta. Dio sa quanto poco ci avessi abitato durante la loro permanenza, ma mi era penoso pensare a quel caro vecchio luogo ormai completamente abbandonato, alle erbacce che sarebbero cresciute in giardino, alle foglie morte che si sarebbero accumulate sui sentieri in umidi mucchi. Immaginavo come i venti invernali avrebbero mugghiato intorno ad essa, come la fredda pioggia avrebbe battuto contro i vetri delle finestre, come la luna avrebbe creato fantasmi sulle pareti delle stanze vuote a sorvegliare la loro solitudine per tutta la notte. Tornai a pensare alla tomba nel cimitero, sotto l'albero: e mi parve che anche la casa fosse morta, adesso, e che tutto ciò che si ricollegava a mio padre e a mia madre fosse svanito. Nella lettera di Peggotty non c'erano altre nuove. Il signor Barkis, mi diceva, era un eccellente marito, sebbene sempre un po' taccagno; ma tutti avevamo i nostri difetti e lei ne aveva un mucchio (sebbene non sappia proprio quali fossero); e lui mi mandava i suoi omaggi, e la mia piccola stanza da letto era sempre pronta per me. Il signor Peggotty stava bene, Ham stava bene, la signora Gummidge era un po' malazzata, e la piccola Emily non voleva mandarmi il suo amore, ma diceva che poteva mandarmelo Peggotty, se voleva. Riferii debitamente a mia zia tutte queste notizie tenendo per me solo l'accenno alla piccola Emily, verso la quale sentivo istintivamente che lei non avrebbe avuto una benevola inclinazione. Quando ero ancor nuovo nel collegio del dottor Strong, la zia fece parecchie incursioni a Canterbury per vedermi e sempre a ore insolite: col proposito, credo, di cogliermi di sorpresa. Ma, trovandomi proficuamente occupato e generalmente apprezzato, e sentendo da ogni parte che facevo rapidi progressi negli studi, diradò presto le sue visite. La vedevo di sabato, ogni tre o quattro settimane, quando andavo a Dover per una riunione in famiglia; e vedevo il signor Dick ogni due mercoledì, quando arrivava in diligenza nel pomeriggio e si tratteneva fino al mattino seguente. In queste occasioni il signor Dick non viaggiava mai senza uno scrittoio portatile di cuoio contenente tutti gli articoli di cancelleria necessari e il Memoriale, riguardo al quale si rendeva conto che ormai il tempo cominciava a stringere, e che davvero bisognava condurlo al termine. Il signor Dick aveva un gran debole per il panpepato. Per rendere più gradevoli le sue visite, la zia mi aveva incaricato di aprirgli un credito presso una pasticceria, limitato però dall'accordo che non avrebbe potuto fare acquisti di valore superiore a uno scellino nel corso di ogni giorno. Questo, e la necessaria consegna a mia zia di tutti i conticini della locanda in cui dormiva, prima di pagarli, mi fecero sospettare che egli avesse solo il diritto di far risuonare le sue monete, ma non quello di spenderle. In seguito a ulteriori indagini venni a sapere che era proprio così, o che per lo meno vi era, fra lui e mia zia, un patto secondo il quale egli avrebbe dovuto renderle conto di tutte le sue spese. Poiché non aveva la minima intenzione di ingannarla e sempre desiderava farle piacere, si guardava bene dall'abbandonarsi al dispendio. Su questo punto, come, del resto, su tutti gli altri punti possibili, il signor Dick era convinto che mia zia fosse la più saggia e la più meravigliosa delle donne, come mi ripeteva con infinita segretezza e sempre a bassa voce. «Trotwood,» mi disse con aria di mistero il signor Dick, un mercoledì, dopo avermi fatto questa confidenza; «chi è l'uomo che si nasconde presso la nostra casa e la spaventa?» «Spaventa mia zia, signore?» Il signor Dick assentì. «Credevo che niente potesse spaventarla,» aggiunse, «perché è...» e qui la sua voce si fece un sussurro, «non andate a ripeterlo, la più saggia e la più meravigliosa delle donne.» Detto questo, si trasse indietro per contemplare l'effetto che la sua descrizione aveva fatto su di me. «La prima volta che quel tale comparve,» continuò il signor Dick, «fu... guardiamo un po'... l'esecuzione di Carlo I avvenne nel mille e seicento quarantanove. Mi pare che abbiate detto mille e seicento quarantanove.» «Sì, signore.» «Non capisco come possa essere,» disse il signor Dick molto imbarazzato e scuotendo la testa, «Non credo di essere così vecchio.» «Fu in quell'anno che apparve quell'uomo, signore?» domandai. «Diamine,» esclamò il signor Dick «non vedo come possa essere avvenuto in quell'anno, Trotwood. Avete trovato questa data nella storia?» «Sì, signore.» «Immagino che la storia non menta mai, non è vero?» chiese il signor Dick con un lampo di speranza. «Oh, no certo, signore!» risposi con grande energia. Ero ingenuo e giovane, e ne ero convinto. «Non riesco a capire,» disse il signor Dick scuotendo la testa. «C'è in qualche parte qualche cosa che non torna. Comunque, quell'uomo apparve la prima volta subito dopo quello sbaglio che fecero di mettermi in testa alcuni crucci che erano nella testa di Carlo I. Passeggiavo con la signorina Trotwood dopo il tè, proprio all'imbrunire, e lui era lì, vicino alla nostra casa.» «Stava passeggiando?» domandai. «Stava passeggiando?» ripeté il signor Dick. «Guardiamo, devo riordinarmi un po' le idee. N... no, no; non stava passeggiando.» Gli chiesi, come il modo più semplice per saperlo, che cosa stesse facendo. «Be', non era affatto là,» disse il signor Dick, «finché arrivò dietro di lei e le mormorò qualche cosa. Allora lei si volse e venne meno, e io rimasi fermo e lo guardai, e lui andò via; ma la cosa più straordinaria è che da allora deve essere rimasto sempre nascosto (nella terra o in qualche parte)!» «È rimasto nascosto da allora?» chiesi. «Non vi è dubbio,» rispose il signor Dick, assentendo gravemente. «Non è mai venuto fuori fino a ieri sera! Ieri sera stavamo passeggiando, e lui arrivò ancora dietro di lei, e lei ancora lo riconobbe.» «E spaventò nuovamente la zia?» «Era tutta un fremito,» disse il signor Dick imitando questa reazione e battendo i denti. «Appoggiata allo steccato. Piangeva. Ma, Trotwood, venite qua,» e mi trasse a lui per poter parlare più piano; «perché, ragazzo mio, gli diede del denaro alla luce della luna?» «Forse era un mendicante.» Il signor Dick scosse la testa come respingendo assolutamente questa ipotesi; e, dopo aver ripetuto una gran quantità di volte, con grande convinzione: «un mendicante no, un mendicante no, un mendicante no, signore!» continuò a raccontare che più tardi, a notte inoltrata, aveva visto dalla finestra mia zia dare del denaro a questa persona attraverso la cancellata del giardino al chiaro di luna, e quello era sgattaiolato via - molto probabilmente, credeva, ancora sotto terra - e non era stato più visto, mentre mia zia tornava in fretta e furtivamente in casa, e, ancora il mattino, era in uno stato molto diverso dal solito, cosa che tormentava la mente del signor Dick. All'inizio di questo racconto non mi passò nemmeno per la testa che lo sconosciuto potesse essere altra cosa che un'illusione del signor Dick, uno della famiglia del disgraziato sovrano che gli aveva dato tante noie; ma dopo averci meditato un poco, cominciai a domandarmi se non fosse stato fatto due volte un tentativo, o la minaccia di un tentativo, per strappare il povero signor Dick dalla protezione di mia zia, e se la zia, di cui ben conoscevo la forza dell'affetto che gli portava, potesse essere stata indotta a pagare una somma per la sua pace e la sua tranquillità. Poiché mi sentivo già molto legato al signor Dick e molto sollecito del suo benessere, i miei timori favorivano questa supposizione; e per molto tempo difficilmente arrivò uno dei suoi mercoledì senza che io fossi in apprensione di non vederlo, come al solito, nella diligenza. Tuttavia egli fu sempre lì, con la sua testa grigia, ridente e felice; e non ebbe più da raccontarmi altre notizie sull'uomo che atterriva la zia. Questi mercoledì erano i giorni più felici della vita del signor Dick; ed eran lungi dall'essere i meno felici della mia. Presto divenne noto a ogni ragazzo del collegio; e sebbene non prendesse mai parte ad alcun giuoco, tranne il lancio dell'aquilone, si interessava profondamente alle nostre gare come nessun altro di noi. Quante volte l'ho visto tutto intento a una partita a palline o a trottola, osservare con un'espressione di inesprimibile interesse e trattenere il fiato nei momenti critici! Quante volte, a «cani e lepre», l'ho visto sull'alto di una collinetta incitare all'azione tutto il campo e sventolare il cappello al di sopra della sua grigia testa, dimentico della testa di Re Carlo Martire e di tutto ciò che la riguardava! Quante volte mi sono accorto che le ore estive passavano per lui come minuti di felicità in un campo di cricket! Quanti giorni d'inverno l'ho visto col naso livido, drizzarsi nella neve e nel vento d'oriente per guardare i ragazzi che facevano gli scivoloni e battere per l'entusiasmo i guanti di lana! Era il favorito di tutti, e la sua ingegnosità nelle piccole cose era strabiliante. Poteva tagliare le arance in forme bizzarre di cui nessuno di noi aveva idea. Poteva fare una barchetta con qualunque cosa, da uno spiedo in su. Poteva trasformare ossi di pecora in pezzi da scacchi; foggiare cocchi romani con figure di vecchie carte da giuoco; fare ruote a raggi con rocchetti da cotone e gabbie da uccelli con il vecchio fil di ferro. Ma forse più di tutto eccelleva in oggetti di spago e paglia; tutti eravamo convinti che servendosi di questo materiale sapesse fare tutto ciò che si può fare con le mani. La fama del signor Dick non rimase a lungo confinata fra noi. Dopo pochi mercoledì il dottor Strong stesso mi fece alcune domande su di lui e io gli raccontai tutto ciò che mi aveva detto la zia; il dottore ne fu così interessato che chiese di essergli presentato in occasione della sua prossima visita. Celebrai io stesso questa cerimonia, e, avendolo il dottore pregato, ogni volta che non mi trovasse all'ufficio delle diligenze, di venire senz'altro al collegio e riposarsi finché avessimo finito i nostri compiti del mattino, divenne presto un'abitudine per il signor Dick, arrivare al collegio come cosa ovvia, e, se noi eravamo un po' in ritardo, come spesso accadeva il mercoledì, passeggiare per il cortile aspettandomi. Qui fece conoscenza con la bella e giovane moglie del dottore (più pallida di un tempo, per tutto questo periodo; più raramente vista da me e, credo, da qualsiasi altro; non più tanto gaia, ma non meno bella), e così, a poco a poco, divenne sempre più familiare, finché, da ultimo, entrava addirittura ad aspettarmi nel collegio. Si metteva sempre a sedere in un angolo particolare, su di un particolare sgabello che, dal suo nome, era chiamato «Dick»; lì se ne stava con la grigia testa piegata in avanti, ascoltando attentamente tutto ciò che avveniva, con una profonda venerazione per quella cultura che non era mai stato capace di far sua. Il signor Dick estendeva questa venerazione al dottore, che considerava il più sottile e completo filosofo di ogni epoca. Passò molto tempo prima che il signor Dick osasse rivolgergli la parola altrimenti che a testa nuda; e anche quando lui e il dottore ebbero stretto una vera amicizia e presero a passeggiare insieme per ore in quel lato del cortile che era conosciuto tra noi come la Passeggiata del Dottore, il signor Dick si toglieva ogni tanto il cappello a dimostrare il suo rispetto per la saggezza e la sapienza. Come avvenne che il dottore cominciasse a leggergli frammenti del famoso dizionario durante queste passeggiate, non l'ho mai saputo; forse, in un primo tempo, ebbe l'impressione che fosse come leggerseli da solo. Comunque anche questo divenne abitudine; e il signor Dick, ascoltando con un volto raggiante di orgoglio e di piacere, nell'intimo del suo cuore era convinto che il dizionario fosse il libro più divertente dell'universo. Quando ripenso a loro, che andavano su e giù davanti alle finestre del collegio - il dottore intento a leggere col suo sorriso compiacente, sventolando a tratti il manoscritto nell'aria o facendo gravi cenni col capo; e il signor Dick ad ascoltare, incatenato dall'interesse, con il suo povero spirito vagante Dio sa dove, sulle ali di ardue parole - ci ripenso come a una delle cose più belle che, nella loro serenità, abbia mai visto. Mi sembra che avrebbero potuto passeggiare su e giù per l'eternità rendendo così migliore il mondo... come se le mille cose per cui fa tanto fracasso non fossero nemmeno la metà buone per esso o per me. Agnes si annoverò presto fra gli amici del signor Dick, il quale, venendo spesso a casa nostra, fece conoscenza con Uriah. L'amicizia fra lui e me aumentava continuamente e si manteneva su questa strana base: che il signor Dick, mentre mi sorvegliava ufficialmente come mio tutore, mi consultava sempre in ogni sua incertezza e seguiva regolarmente il mio consiglio: non solo con un profondo rispetto per la mia sagacia nativa, ma considerando che dovevo averne ereditato una buona dose da mia zia. Un giovedì mattina, mentre stavo accompagnando il signor Dick dall'albergo all'ufficio delle diligenze prima di andare a scuola (perché avevamo un'ora di studio prima di colazione), incontrai per via Uriah, il quale mi ricordò la promessa che gli avevo fatto di andare a prendere il tè con lui e con sua madre: e aggiunse con uno dei suoi contorcimenti: «Ma non mi aspettavo che la manteneste, signorino Copperfield, siamo troppo umili.» In realtà non ero ancora riuscito a decidere se Uriah mi piaceva o se lo detestavo; ed ero anche adesso molto dubbioso in proposito mentre lo guardavo in faccia lì nella via. Ma mi parve un'offesa essere considerato superbo e risposi che aspettavo solo di essere invitato. «Oh, se è tutto qui, signorino Copperfield,» disse Uriah, «e se davvero non è la nostra umiltà a fare ostacolo, volete venire stasera? Ma se fosse per la nostra umiltà, signorino Copperfield, spero che non vi tratterrete dal dirlo francamente, perché ci rendiamo perfettamente conto della nostra condizione.» Dissi che ne avrei parlato al signor Wickfield e che, se mi dava la sua approvazione, cosa su cui non avevo dubbi, sarei venuto con piacere. Così quella sera, alle sei, poiché era una delle sere in cui l'ufficio chiudeva prima, annunciai a Uriah di essere pronto. «Mia madre sarà davvero orgogliosa,» disse mentre ci avviavamo insieme. «O almeno sarebbe orgogliosa se non fosse peccato, signorino Copperfield.» «Tuttavia, stamane, non vi siete peritato di supporre che io fossi orgoglioso,» risposi. «Oh, mio Dio, no, signorino Copperfield,» replicò Uriah. «Oh, credetemi, no! Un'idea simile non mi è mai venuta in testa! Non lo avrei considerato assolutamente orgoglio, da parte vostra, se ci aveste giudicati troppo umili per voi. Perché noi siamo veramente umilissimi.» «Ultimamente vi siete applicato molto agli studi di legge?» chiesi per cambiare argomento. «Oh, signorino Copperfield,» disse con aria di volontaria mortificazione, «le mie letture non si possono chiamare studi. A volte, la sera, ho passato una o due ore col signor Tidd.» «Dev'essere piuttosto difficile, immagino,» dissi. «A volte è difficile per me,» rispose Uriah. «Ma non so come possa essere per un lettore dotato.» Dopo essersi battuto sul mento un motivetto, mentre camminava, con le prime due dita della sua scheletrica destra, aggiunse: «Vi sono espressioni, capite, signorino Copperfield - parole e termini latini - nel signor Tidd, che risultano troppo ardue per un lettore delle mie umili capacità.» «Vi piacerebbe imparare il latino?» dissi con vivacità. «Ve lo insegnerò con piacere via via che lo imparo.» «Oh, grazie, signorino Copperfield,» rispose scuotendo la testa. «È veramente gentile da parte vostra farmi questa offerta, ma sono troppo umile per accettarla.» «Che sciocchezze, Uriah!» «Oh, davvero dovete scusarmi, signorino Copperfield! Vi sono molto obbligato, e ne sarei lietissimo, ve lo assicuro; ma sono troppo umile. C'è abbastanza gente che mi cammina sul capo, nella mia bassa condizione, senza che offenda i loro sentimenti facendomi una cultura. La cultura non è per me. Una persona come me è meglio che non abbia aspirazioni. Se deve farsi avanti nella vita, deve farlo umilmente, signorino Copperfield.» Mai si poteva vedere la sua bocca così larga e i solchi sulle gote così profondi come quando dava sfogo a questi sentimenti, sempre scuotendo il capo e contorcendosi di modestia. «Credo che abbiate torto, Uriah,» ribattei. «Oso dire che vi son parecchie cose che potrei insegnarvi, se vi piacesse impararle.» «Oh, non ne dubito, signorino Copperfield,» rispose; «non ne dubito minimamente. Ma, poiché voi stesso non siete umile, forse non potete giudicare con esattezza per quelli che lo sono. Io non voglio provocare con la cultura coloro che sono migliori di me, grazie egualmente. Sono troppo umile. E questa è la mia umile dimora, signorino Copperfield!» Entrammo in una stanza bassa, all'antica, che dava direttamente sulla strada, e vi trovammo la signora Heep, che era il ritratto di Uriah, solo più bassa. Mi ricevette con la massima umiltà e si scusò di dare un bacio a suo figlio, osservando che, pur modesti come erano, avevano i loro affetti naturali, cosa che sperava non avrebbe offeso nessuno. Era una stanza molto decente, metà salotto e metà cucina, ma senza alcuna intimità. Il servizio da tè era pronto sul tavolo e il bricco bolliva sul focolare. V'era un mobile a cassetti che terminava a scrittoio, sul quale Uriah poteva leggere e scrivere la sera; v'era la borsa turchina di Uriah, abbandonata e straripante di carte; v'era il piccolo esercito dei libri di Uriah, comandati dal signor Tidd; v'era una credenza ad angolo, e v'erano i mobili consueti. Non ricordo che ogni singolo oggetto avesse un aspetto squallido, consunto o indigente, ma ricordo che tutto l'insieme lo aveva. Faceva forse parte dell'umiltà della signora Heep portare ancora il lutto. Nonostante il tempo trascorso dalla morte del signor Heep, ella era ancora in gramaglie. Penso che ci fosse un certo compromesso nella cuffia; ma per il resto era tutta in nero, come nei primi tempi del suo cordoglio. «Questo è certo un giorno da ricordarsi, mio caro Uriah,» disse la signora Heep servendo il tè, «il giorno in cui il signorino, Copperfield ci ha fatto visita.» «Gliel'ho detto che avresti pensato così, mamma,» rispose Uriah. «Se avessi potuto desiderare che tuo padre rimanesse fra noi per qualche ragione,» continuò la signora Heep, «sarebbe stato perché, questo pomeriggio, potesse avere la sua compagnia.» Mi sentii imbarazzato da tanti complimenti; mi rendevo conto di essere trattato come un ospite di riguardo, e pensai che la signora Heep fosse una donna piacevole. «Il mio Uriah,» disse la signora Heep, «ha aspettato per molto tempo questo giorno, signore. Temeva che la nostra umiltà fosse di ostacolo, e io con lui. Umili siamo, umili siamo stati e umili saremo sempre,» concluse la signora Heep. «Sono certo che non avete ragione di essere tali, signora,» osservai, «a meno che non lo vogliate.» «Grazie, signore,» rispose la signora Heep. «Conosciamo la nostra condizione e ce ne contentiamo con riconoscenza.» Notai che la signora Heep a poco a poco mi si faceva sempre più vicina, e che Uriah, a poco a poco mi si metteva di fronte, e che entrambi rispettosamente mi invitavano a scegliere quanto c'era di meglio in tavola. Non era una scelta molto abbondante, questo è certo; ma io presi il buon volere per realtà, e trovai che erano molto premurosi. Poi cominciarono a parlare di zii, e io parlai della mia; e poi di padri e madri, e io parlai dei miei; e poi la signora Heep prese a parlare di padrigni, e allora presi a parlare del mio: ma mi fermai perché la zia mi aveva avvertito di non far parole su questo soggetto. Un tenero turaccioletto, comunque, non avrebbe avuto maggiori possibilità contro un paio di cavatappi, né un dente di latte contro un paio di dentisti, o un leggero volano contro due racchette, di quante ne ebbi io contro Uriah e la signora Heep. Fecero di me esattamente quello che vollero, e mi cavarono fuori cose che non avevo alcun desiderio di dire, con una sicurezza che arrossisco a ricordare: tanto più che, nella mia giovanile franchezza, provai un certo orgoglio nell'essere così confidenziale e mi sentii un vero protettore per i miei due rispettosi ospiti. Erano molto affezionati l'uno all'altra, questo è certo. Sono sicuro che questo fece effetto su di me come un'espressione di natura; ma l'abilità con cui l'uno portava fine in fondo tutto ciò a cui l'altro dava l'avvio era una espressione d'arte contro la quale ero ancor meno difeso. Quando non ci fu da tirarmi fuori più nulla che mi riguardasse (perché sulla mia vita da Murdstone e Grinby e sul mio viaggio rimasi muto) cominciarono col signor WickfieId e Agnes. Uriah lanciava la palla alla signora Heep, la signora Heep l'afferrava e la rilanciava a Uriah, Uriah la tratteneva un po' e poi la restituiva alla signora Heep, e così andavano avanti a passarsela finché non riuscii più a capire chi l'avesse in mano e fui completamente frastornato. La palla continuava a trasformarsi. Ora era il signor Wickfield, ora Agnes, ora l'eccellenza del signor WickfieId, ora la mia ammirazione per Agnes; ora l'estensione degli affari e delle risorse del signor Wickfield, ora la nostra vita domestica dopo pranzo; ora il vino che il signor Wickfield beveva, le ragioni per cui lo beveva e la deprecazione che ne bevesse tanto; ora una cosa, ora l'altra e poi tutte le cose in una volta. E sempre, senza aver l'impressione di parlar troppo né di fare altro che incoraggiarli un tantino ogni tanto per timore che si sentissero sopraffatti dalla loro umiltà o dall'onore della mia compagnia, mi trovai continuamente a lasciarmi sfuggire qualche cosa che non avevo alcuna ragione per lasciarmi sfuggire e a vederne gli effetti negli ammiccamenti delle incise narici di Uriah. Cominciavo a sentirmi un po' a disagio e a desiderare di poter prendere congedo, quando qualcuno, nella strada, passò davanti alla porta - che era aperta per dare aria alla stanza troppo calda, data la giornata insolitamente afosa in quella stagione - tornò indietro, guardò dentro ed entrò esclamando a gran voce: «Copperfield! Possibile?» Era il signor Micawber! Il signor Micawber con il suo occhialetto, il suo bastoncino, il suo alto colletto, la sua aria signorile, il suo strascichio di condiscendenza nella voce: al completo. «Mio caro Copperfield,» disse il signor Micawber tendendomi la mano, «questo è proprio un incontro fatto apposta per imprimere nella mente il senso della instabilità e dell'incertezza di tutte le umane... insomma, è un incontro quanto mai straordinario. Mentre vado a passeggio per via, riflettendo sulla probabilità che salti fuori qualche cosa (e attualmente ne sono piuttosto fiducioso) ecco che vedo saltar fuori un giovane ma valente amico, collegato al più avventuroso periodo della mia vita; oso dire alla svolta decisiva della mia esistenza. Copperfield, mio caro, come state?» Non posso dire - realmente non posso dire - che fossi contento di vedere lì il signor Micawber; ma fui tuttavia contento di vederlo e gli strinsi la mano cordialmente, informandomi della salute della signora Micawber. «Grazie,» disse il signor Micawber facendo ondeggiare la mano nell'aria come un tempo e aggiustandosi il mento nel colletto. «Si sta discretamente rimettendo. I gemelli non prendono più il loro alimento dalle fonti della natura... insomma,» disse il signor Micawber in uno dei suoi sfoghi confidenziali, «sono svezzati; e la signora Micawber è attualmente la mia compagna di viaggio. Sarà felice, Copperfield, di rinnovare la sua conoscenza con uno che si è dimostrato sotto ogni rispetto degno ministro del sacro altare dell'amicizia.» Dissi che sarei stato ben lieto di vederla. «Siete molto buono,» dichiarò il signor Micawber. Poi sorrise, si aggiustò ancora il mento e si guardò intorno. «Ho ritrovato il mio amico Copperfield,» disse il signor Micawber con garbo raffinato e senza rivolgersi particolarmente ad alcuno, «non in solitudine ma in atto di partecipare a un sociale convito con una signora vedova e con chi apparentemente è la sua progenie... insomma,» concluse il signor Micawber con un altro dei suoi sfoghi confidenziali, «suo figlio. Considererei un onore essere presentato.» Date le circostanze, non potevo fare a meno di presentare il signor Micawber a Uriah Heep e a sua madre; cosa che di conseguenza feci. Mentre essi si umiliavano davanti a lui, il signor Micawber prese una sedia e fece ondeggiare la mano nell'aria nel modo più aristocratico. «Ogni amico del mio amico Copperfield,» disse il signor Micawber, «ha personali diritti alla mia amicizia.» «Noi siamo troppo umili, signore,» rispose la signora Heep, «mio figlio e io, per essere amici del signorino Copperfield. Egli è stato così buono da venire a prendere questo tè con noi, e noi siamo riconoscenti a lui per la sua compagnia, e anche a voi, signore, per quello che avete detto.» «Signora,» replicò il signor Micawber con un inchino, «siete molto obbligante. E voi, Copperfield, che cosa fate? Sempre nel commercio dei vini?» Ero quanto mai ansioso di portar via il signor Micawber; risposi, col cappello in mano e, non ne dubito, il volto infiammato, di essere un discepolo del dottor Strong. «Un discepolo?» esclamò il signor Micawber inarcando le sopracciglia. «Sono estremamente felice di udirlo. Sebbene una mente come quella del mio amico Copperfield,» e si rivolse a Uriah e alla signora Heep, «non richieda quella cultura che, senza la sua conoscenza di uomini e di cose, richiederebbe, tuttavia è un ricco terreno fertile di vegetazione latente... insomma,» concluse il signor Micawber sorridendo, in un'altra effusione confidenziale, «è un intelletto capace d'impadronirsi dei classici fino in fondo.» Uriah, con le sue lunghe mani che s'intrecciavano lentamente fra loro, fece uno spettrale contorcimento dalla vita in su per esprimere il suo completo accordo in questo giudizio. «Vogliamo andare a vedere la signora Micawber, signore?» chiesi io per portar via il signor Micawber. «Se desiderate farle questo favore, Copperfield,» rispose il signor Micawber alzandosi. «Non ho alcuno scrupolo di dire, in presenza di questi nostri amici, che sono un uomo che, per diversi anni, ha combattuto contro la stretta di difficoltà pecuniarie.» Sapevo che avrebbe certamente detto qualche cosa del genere; aveva sempre menato vanto delle sue difficoltà. «A volte mi sono levato al disopra di queste difficoltà. A volte esse mi hanno... insomma mi hanno buttato a terra. Vi sono stati momenti in cui ho organizzato contro di esse tutta una serie di barriere; e ve ne sono stati altri in cui esse sono state troppo numerose per me, e io ho ceduto, dicendo alla signora Micawber con le parole di Catone: ‹Platone, tu ragioni bene. Adesso tutto è finito. Non posso più combattere.› Ma in nessun momento della mia vita,» continuò il signor Micawber, «ho goduto una soddisfazione più alta che nel versare le mie pene (se posso chiamare così le mie difficoltà provenienti soprattutto da ordini di pignoramento e cambiali a due e quattro mesi) nel seno del mio amico Copperfield.» Il signor Micawber concluse questo bell'omaggio dicendo: «Signor Heep! Buona sera. Signora Heep! Servo vostro,» e andandosene poi via insieme a me con il suo fare più distinto, facendo un gran fracasso sul pavimento con le sue scarpe e mugolando un'arietta. Era una piccola locanda, quella in cui alloggiava il signor Micawber. Egli vi occupava una stanzetta attigua alla sala comune e fortemente impregnata da un aroma di fumo di tabacco. Credo che fosse sopra la cucina perché un caldo odore di grasso sembrava salire dalle fessure del pavimento e vi era sulle pareti una flaccida traspirazione. Mi accorsi che era vicina al banco per il forte sentore dei liquori e il tintinnìo dei bicchieri. Lì, sdraiata su di un piccolo divano, sotto il dipinto di un cavallo da corsa, con la testa presso il fuoco e i piedi contro il vasetto della senape sul tavolino di servizio dell'altro capo della stanza, stava la signora Micawber, alla quale il signor Micawber, entrando per primo, disse: «Mia cara, permettimi di presentarti un allievo del dottor Strong.» Notai, di sfuggita, che sebbene il signor Micawber avesse come sempre le idee molto confuse sulla mia età e condizione, ricordava tuttavia come segno di distinzione, che ero allievo del dottor Strong. La signora Micawber fu stupita ma felicissima di vedermi. Anch'io ero felicissimo di vederla, e, dopo un affettuoso saluto da entrambe le parti, mi sedetti sul divanetto al suo fianco. «Mia cara,» disse il signor Micawber, «se vuoi spiegare a Copperfield quale sia la nostra presente situazione, che non dubito sarà lieto di conoscere, io andrò frattanto a dare un'occhiata al giornale per vedere se tra gli avvisi non salta fuori qualche cosa.» «Credevo che foste a Plymouth, signora,» dissi alla signora Micawber mentre egli usciva. «Caro signorino, Copperfield,» rispose, «siamo andati infatti a PIymouth.» «Per essere sul posto,» accennai. «Proprio così,» rispose la signora Micawber. «Per essere sul posto. Ma la verità è che il talento non è ricercato nella Dogana. L'influenza locale della mia famiglia fu del tutto incapace a ottenere un impiego in quel settore per un uomo delle capacità del signor Micawber. Preferivano non avere un uomo di quelle capacità. Avrebbe solo mostrato le deficienze degli altri. A parte questo,» continuò la signora Micawber, «non voglio nascondervi, mio caro signorino Copperfield, che quando quel ramo della mia famiglia che si è stabilito a Plymouth, si accorse che il signor Micawber era accompagnato da me, dal piccolo Wilkins, da sua sorella e dai due gemelli, non lo ricevettero con quel calore che egli poteva aspettarsi dopo essere uscito così di recente dalla prigionia. Il fatto è,» disse la signora Micawber abbassando la voce, «e la cosa resti fra noi, che ci ricevettero freddamente.» «Oh, mio Dio!» esclamai. «Sì,» confermò la signora Micawber. «È veramente penoso contemplare il genere umano sotto questo aspetto, signorino Copperfield, ma ci ricevettero molto freddamente. Su questo non ci sono dubbi. E infatti, il ramo della mia famiglia che si è stabilito a Plymouth venne a contrasto personale col signor Micawber prima che fosse passata una settimana dal nostro arrivo.» Dissi, e lo pensavo, che avrebbero dovuto vergognarsi di se stessi. «Tuttavia fu così,» continuò la signora Micawber. «In queste circostanze, che cosa poteva fare un uomo dello spirito del signor Micawber? Non rimaneva ovviamente che una cosa. Farsi prestare da quel ramo della mia famiglia il denaro per tornare a Londra e tornarvi a ogni costo.» «E allora siete tornati tutti, signora?» chiesi. «Tornammo tutti,» rispose la signora Micawber. «Da allora ho consultato altri rami della mia famiglia sull'indirizzo che il signor Micawber può prendere nel modo più conveniente... poiché tengo per certo che egli deve prendere un indirizzo, signorino Copperfield,» disse la signora Micawber in tono di discussione. «È chiaro che una famiglia di sei persone senza contare la domestica, non può vivere d'aria.» «Certo, signora,» dissi io. «L'opinione di questi altri rami della mia famiglia,» proseguì la signora Micawber, «è che il signor Micawber dovrebbe subito rivolgere il suo interesse ai carboni.» «A che cosa, signora?» «Ai carboni,» ripeté la signora Micawber. «Al commercio dei carboni. Il signor Micawber, dopo aver fatto inchieste, fu indotto a pensare che avrebbero potuto esserci delle possibilità, per un uomo del suo talento, nel commercio dei carboni del Medway. Allora, come disse molto giustamente il signor Micawber, il primo passo da fare era evidentemente di venire a vedere il Medway. Noi siamo dunque venuti e lo abbiamo visto. Dico ‹noi›, signorino Copperfield, perché mai,» disse con emozione la signora Micawber, «mai abbandonerò il signor Micawber.» Mormorai la mia ammirazione e il mio consenso. «Siamo venuti,» ripeté la signora Micawber, «e abbiamo visto il Medway. La mia opinione relativa al commercio del carbone su questo fiume è che può richiedere probabilmente del talento, ma che di sicuro richiede un capitale. Talento il signor Micawber ne ha, ma capitali no. Abbiamo visto, credo, la maggior parte del Medway, e questa è la mia conclusione personale. Trovandoci così vicini a questa città, il signor Micawber fu di opinione che sarebbe stato assurdo non venire a vedere la cattedrale. Anzitutto considerando che è così degna di essere vista e che noi non l'avevamo vista mai; secondariamente pensando alla grande probabilità che, in una città con cattedrale, saltasse fuori qualche cosa. Siamo stati qui tre giorni,» disse la signora Micawber. «Finora non è saltato fuori niente; e non vi potrà sorprendere, mio caro signorino Copperfield, quanto potrebbe sorprendere un estraneo, sapere che attualmente attendiamo una rimessa da Londra per potere far fronte agli obblighi pecuniari che abbiamo verso questo albergo. Finché questa rimessa non arriva,» concluse la signora Micawber con molta emozione, «io sono tagliata fuori della mia casa (alludo al nostro alloggio in Pentonville), da mio figlio, da mia figlia e dai miei due gemelli.» Sentii la massima solidarietà per il signore e la signora Micawber in questa loro drammatica distretta, e lo dissi al signor Micawber che tornava in quel momento, aggiungendo che avrei voluto solo avere il denaro sufficiente per prestar loro la somma di cui avevano bisogno. La risposta del signor Micawber mi rivelò tutto lo sgominio della sua mente. «Copperfield,» mi disse stringendomi la mano, «voi siete un vero amico; ma quando il peggio vien dietro al peggio, nessun uomo è privo di un amico quando possieda il necessario per farsi la barba.» A questo pauroso accenno, la signora Micawber gettò le braccia al collo del signor Micawber e lo scongiurò di calmarsi. Lui pianse; ma si riprese quasi immediatamente, tanto da suonare il campanello e ordinare al cameriere uno sformato caldo di rognone e un piatto di gamberetti per la colazione del giorno dopo. Quando mi congedai da loro, entrambi insistettero tanto perché venissi a desinare prima della loro partenza, che non potei rifiutarmi. Ma poiché sapevo di non poter venire l'indomani, avendo molto da studiare nel pomeriggio, il signor Micawber combinò che sarebbe venuto in mattinata al collegio del dottor Strong (avendo il presentimento che la rimessa sarebbe arrivata con quella posta) per propormi il giorno dopo, se mi andava meglio. Di conseguenza fui chiamato fuori dall'aula il mattino seguente e trovai il signor Micawber nel parlatorio; era venuto a dirmi che il desinare sarebbe avvenuto secondo l'accordo. Quando gli chiesi se la rimessa era arrivata, mi strinse la mano e se ne andò. Quella stessa sera, mentre guardavo dalla finestra, fui sorpreso, e mi sentii non poco a disagio, nel veder passare il signor Micawber e Uriah che andavano a braccetto: Uriah umilmente compreso dell'onore che gli veniva fatto, e il signor Micawber blandamente compiaciuto nell'estendere su Uriah il suo patronato. Ma fui ancora più sorpreso l'indomani, quando mi recai all'alberghetto all'ora fissata per il pranzo, ossia alle quattro, nel sapere dal signor Micawber che era andato con Uriah a prendere il ponce dalla signora Heep. «E vi dirò una cosa, mio caro Copperfield,» dichiarò il signor Micawber, «il vostro amico Heep è un giovane che potrebbe essere procuratore generale. Se avessi conosciuto questo giovanotto nel momento in cui le mie difficoltà erano giunte a una crisi, tutto quello che posso dire è che i miei creditori sarebbero stati sistemati in modo molto più conveniente per me di quanto non furono.» Non riuscii a capire come questo sarebbe potuto avvenire, dato che il signor Micawber non aveva pagato loro assolutamente niente; ma non volli far domande. Né volli dirgli che speravo non avesse fatto confidenze a Uriah, né chiedergli se avevano parlato molto di me. Temevo di offendere i sentimenti del signor Micawber, o comunque quelli della signora, che era molto sensibile. Ma ne fui tuttavia molto dispiaciuto e spesso, in seguito, ci ripensai. Facemmo un bel pranzetto. Un raffinato piatto di pesce; lombata di vitello arrosto; salsiccia fritta; una pernice e sformato. V'era del vino e v'era della birra forte; e dopo desinare la signora Micawber ci preparò con le sue mani un bacile di ponce. Il signor Micawber fu insolitamente conviviale. Non lo vidi mai così di buon umore. Si fece, con il ponce, una faccia talmente lucida che sembrava fosse stata tutta verniciata. Divenne gaiamente sentimentale nei riguardi della città e brindò al suo successo osservando che la signora Micawber e lui vi avevano fatto un soggiorno quanto mai comodo e tranquillo e che non avrebbero mai dimenticato le piacevoli ore trascorse a Canterbury. Poi brindò a me; e tutti e tre, lui, la signora Micawber e io, passammo tutti gli episodi della nostra passata conoscenza in attenta rassegna, nel corso della quale tornammo a vendere tutti i beni che avevamo venduto. Poi toccò a me brindare alla signora Micawber: o, per lo meno, dissi modestamente: «Se me lo permettete, signora Micawber, avrò adesso il piacere di bere alla vostra salute, signora.» Al che il signor Micawber, pronunciò un elogio del carattere della signora Micawber e disse che ella era sempre stata la sua guida, il suo filosofo e il suo amico, e che mi raccomandava, quando fosse venuto per me il tempo di sposarmi, di scegliere una donna simile a lei se pure un'altra donna simile a lei poteva trovarsi. Via via che il ponce spariva, il signor Micawber diveniva sempre più amichevole e conviviale. Anche gli spiriti della signora Micawber cominciarono a elevarsi, e cantammo «Vecchio tempo passato». Quando giungemmo a «Qua la man, dolce fratello», ci prendemmo tutti per mano intorno al tavolo; e quando dichiarammo che avremmo «preso un buon Willie Waught» senza aver la minima idea di quel che significasse; ci sentimmo veramente commossi. In una parola, non ho mai visto alcuno così interamente gioviale come fu il signor Micawber fino all'ultimo momento di quella serata, quando presi cordialmente congedo da lui e dalla sua gentile consorte. Di conseguenza, il mattino dopo alle sette, non ero affatto preparato a ricevere la seguente comunicazione, datata dalle nove e mezzo della sera prima: un quarto d'ora dopo che lo avevo lasciato. Mio caro giovane amico, Il dado è lanciato... tutto è finito. Nascondendo le devastazioni dell'ansia sotto un'atroce maschera di allegria, non vi ho informato, stasera, che non vi è alcuna speranza nella rimessa! In queste circostanze, umilianti da sopportare, umilianti da contemplare ed egualmente umilianti da riferire, ho saldato il debito pecuniario contratto in questo albergo con una cambiale pagabile quindici giorni dopo la data, alla mia residenza di Pentonville, Londra. Quando scadrà, non le verrà fatto onore. Il risultato è la rovina. Il fulmine è imminente e l'albero deve cadere. Possa lo sciagurato che adesso si rivolge a voi, mio caro Copperfield, essere per voi un faro durante tutta la vita. Egli scrive con questa intenzione e con questa speranza. Se potesse considerarsi utile a tanto, un raggio di luce sarebbe forse capace di penetrare nella tetra prigione dell'esistenza che gli resta... sebbene la sua longevità sia al presente (per dir poco) estremamente problematica. Questa è l'ultima comunicazione, mio caro Copperfield, che mai più riceverete da parte dell'indigente e reietto Wilkins Micawber. Fui così colpito dal contenuto di questa lettera straziante che corsi immediatamente verso l'alberghetto con l'intenzione di raggiungerlo andando in collegio e tentar di calmare il signor Micawber con una parola di conforto. Ma, a mezza strada, incontrai la diligenza di Londra con il signore e la signora Micawber accomodati nella parte posteriore. Il signor Micawber, vero ritratto di una tranquilla gioia, sorrideva ascoltando la conversazione della signora Micawber e mangiava noci che traeva da un sacchetto di carta mentre una bottiglia gli sporgeva dalla tasca sul petto. Poiché non mi videro, pensai meglio, tutto considerato, di non vederli. E così, liberato da un gran peso, voltai in una via laterale che era la più breve per raggiungere il collegio, e, nell'insieme, mi sentii lieto che se ne fossero andati, per quanto continuassi a voler loro, nondimeno, molto bene. XVIII • UNO SGUARDO RETROSPETTIVO I miei giorni di scuola! Il silenzioso scivolare della mia esistenza - il progredire non visto e non percepito della mia vita - dall'infanzia alla gioventù! Lasciatemi pensare, mentre guardo indietro verso quell'acqua corrente, ora non più che un arido canale coperto di foglie, se, lungo il suo corso, è rimasto qualche segno per poter ricordare come scorreva. Un attimo, e mi trovo al mio posto nella cattedrale, dove andavamo tutti insieme, ogni domenica mattina, dopo esserci riuniti per questo nel collegio. L'odore terroso, l'aria senza sole, la sensazione che il mondo fosse chiuso fuori, l'echeggiare dell'organo lungo gli archi delle gallerie bianche e nere e le navate, sono ali che mi riportano indietro e mi tengono sospeso su quei giorni in un sogno tra il sonno e la veglia. Non sono più l'ultimo della scuola. In pochi mesi sono venuto avanti di parecchie teste. Ma il primo mi sembra una creatura possente, lontana e appartata, la cui vertiginosa altezza è irraggiungibile. Agnes dice «No,» ma io dico «Sì,» e le dichiaro che non immagina nemmeno quali provviste di sapienza siano sotto il dominio di quell'essere meraviglioso al cui posto ella pensa che io, perfino io, debole aspirante, possa arrivare un giorno. Non è mio amico privato e pubblico protettore, come era Steerforth, ma nutro per lui un reverenziale rispetto. Soprattutto mi domando che cosa diventerà quando lascerà il collegio del dottor Strong e che cosa farà il genere umano per tenergli testa. Ma che cosa è questo che si avventa su di me? È la signorina Shepherd, il mio amore. La signorina Shepherd è pensionante nell'istituto delle signorine Nettingall. Io adoro la signorina Shepherd. È una ragazzina in giacchetta attillata, con la faccia rotonda e biondi capelli ricciuti. Anche le giovinette delle signorine Nettingall vengono alla cattedrale. Io non riesco a guardare il mio libro perché devo guardare la signorina Shepherd. Quando i coristi cantano, odo la signorina Shepherd. Nelle formule del servizio divino inserisco mentalmente il nome della signorina Shepherd: la metto tra la Famiglia Reale. A casa, nella mia stanza, sono talora spinto a gridare: «Oh, signorina Shepherd!» in uno slancio d'amore. Per qualche tempo sono in dubbio sui sentimenti della signorina Shepherd, ma infine, sotto la protezione del fato, ci incontriamo alla scuola di danza. Ho per compagna la signorina Shepherd. Tocco il guanto della signorina Shepherd e sento un brivido entrarmi nella manica destra della giacchetta e uscirmi dalla punta dei capelli. Non dico niente alla signorina Shepherd ma ci intendiamo a vicenda. La signorina Shepherd e io viviamo solo per sentirci uniti. Perché, mi domando, offro segretamente dodici noci del Brasile alla signorina Shepherd come regalo? Non sono simbolo di affetto, sono difficili da racchiudere in un pacchetto di forma regolare, son dure da rompere, anche nell'angolo delle porte, e, una volta spezzato il guscio, sono oleose; tuttavia sento che sono adatte per la signorina Shepherd. Prodigo anche alla signorina Shepherd morbidi biscotti con semi aromatici; e arance senza numero. Una volta bacio la signorina Shepherd nel guardaroba. Estasi! Qual è il mio strazio e il mio sdegno, il giorno dopo, quando sento correr la voce che le signorine Nettingall hanno messo alla signorina Shepherd un congegno ortopedico per volgerle in dentro le dita dei piedi! Poiché la signorina Shepherd è l'unico tema, l'unica visione che dominano la mia vita, come mai arrivo a romperla con lei? Non riesco a concepirlo. E tuttavia una freddezza si forma tra la signorina Shepherd e me. Mi giungono alle orecchie sussurri che la signorina Shepherd ha detto che non le piace sentirsi così fissata da me e ha confessato una preferenza per il signorino Jones: per Jones! un ragazzo di nessun merito! L'abisso fra me e la signorina Shepherd si allarga. Infine, un giorno incontro tutto l'istituto delle signorine Nettingall a passeggio. La signorina Shepherd mi fa una smorfia e passa via ridendo con la sua compagna. Tutto è finito. La devozione di un'intera vita - sembra una vita, ed è lo stesso - è giunta al termine; la signorina Shepherd esce dal servizio mattutino e la Reale Famiglia non sa più nulla di lei. Faccio ancora progressi a scuola e nessuno turba la mia pace. Non rivolgo più gentilezze alle damigelle delle signorine Nettingall, e non andrei matto per nessuna di loro anche se fossero il doppio e venti volte più belle. Giudico noiosa la scuola di danza e mi domando perché le ragazze non possano ballar fra loro e lasciarci tranquilli. Sto diventando importante per i miei versi latini e trascuro i lacci delle mie scarpe. Il dottor Strong parla di me in pubblico come di un giovane studioso promettente. Il signor Dick non sta in sé dalla gioia e mia zia mi fa arrivare una ghinea col primo corriere. L'ombra di un giovane macellaio sorge come l'apparizione di una testa armata nel Macbeth. Chi è questo giovane macellaio? È il terrore della gioventù di Canterbury. C'è una vaga credenza che il grasso di rognone con cui si unge i capelli gli conferisca una forza innaturale, e che sarebbe un duro avversario anche per un adulto. È un giovane macellaio dalla faccia larga, il collo da toro, gote ruvide e rosse, mente maligna e lingua ingiuriosa. Il principale uso che fa di questa lingua è di denigrare i giovani del dottor Strong. Dice pubblicamente che, se hanno bisogno di qualche cosa, possono andare a chiederla a lui. E nomina alcuni di loro (me compreso) che sarebbe capace di mettere a posto con una mano e l'altra legata dietro di sé. Aspetta al varco i più piccoli per colpirli sulla testa indifesa e mi sfida apertamente per via. Per queste ragioni più che sufficienti decido di vedermela col macellaio. In una sera d'estate, in una verde valletta, all'angolo di un muro. Col macellaio ci siamo dati appuntamento. Io sono scortato da uno scelto corpo dei nostri ragazzi; il macellaio da due altri macellai, un giovane oste e uno spazzacamino. Vengono compiuti i preliminari e il macellaio e io siamo a faccia a faccia. In un attimo il macellaio accende diecimila candele sul mio, sopracciglio sinistro. Un attimo dopo io non so più dove è il muro dove sono io e dov'è qualsiasi altro. Capisco a mala pena chi sono io e chi è il macellaio, tanto siamo di continuo aggrovigliati nella zuffa malmenandoci a tutto spiano sull'erba calpestata. A volte vedo il macellaio, sanguinante ma tranquillo; a volte non vedo niente e mi trovo seduto, col cuore in gola, sulle ginocchia del mio secondo; a volte do addosso come un pazzo al macellaio e mi lacero le nocche contro il suo volto senza, a quanto sembra, scomporlo minimamente. Alla fine mi sveglio, con una strana sensazione nella testa, come da un suono vertiginoso, e vedo il macellaio andarsene fra i rallegramenti degli altri due macellai, dello spazzacamino e dell'oste, e infilandosi la giacca mentre cammina; dal che arguisco, e con ragione, che la vittoria è stata sua. Vengo portato a casa in uno stato pietoso; mi mettono delle bistecche sugli occhi, mi strofinano con aceto e acquavite, e mi scoppia fuori dal labbro superiore un gran gonfiore che cresce a dismisura. Per tre o quattro giorni rimango a casa, molto malandato, con una visiera verde sugli occhi; e mi sentirei molto depresso, sennonché Agnes è per me una vera sorella, si conduole con me, legge per me, mi rende il passar del tempo lieve e felice. Agnes ha la mia completa confidenza, sempre; le racconto del macellaio e delle ingiustizie che ha accumulato su di me; giudica che non potevo fare a meno di azzuffarmi con lui e tuttavia rabbrividisce e trema se pensa che mi sono azzuffato. Il tempo è scivolato via inavvertito, perché Adams non è più il capoclasse nei giorni che adesso sopravvengono, e non lo è da un pezzo. Adams ha lasciato il collegio da tanto tempo che, quando torna per far visita al dottore, non sono molti quelli che, oltre me, lo riconoscono. Adams sta per essere chiamato quasi direttamente in tribunale, sarà avvocato e porterà la parrucca. Sono sorpreso di trovare in lui un uomo molto più modesto che non pensassi e meno imponente nell'apparenza. Finora non ha nemmeno fatto vacillare il mondo, visto che (per quanto mi risulti) il mondo tira avanti suppergiù come se lui non vi avesse mai fatto il suo ingresso. Un vuoto nel quale gli eroi della poesia e della storia marciano in fieri schieramenti che sembrano non aver fine... e che cosa viene dopo? Adesso sono io il capoclasse! Guardo dall'alto la schiera dei ragazzi sotto di me, con un condiscendente interesse per quelli di loro che mi riportano a mente il ragazzo che ero io stesso quando capitai lì la prima volta. Quel tipetto non sembra far più parte di me; lo ricordo come qualche cosa lasciata indietro sulla via della vita - qualche cosa a cui sono passato accanto più che non sia realmente stato - e quasi penso a lui come a un estraneo. E la bambinetta che vidi il primo giorno dal signor Wickfield, dov'è? Anche lei scomparsa. In sua vece si muove per la casa il duplicato vivente del ritratto, non più una somiglianza infantile; e Agnes - la mia dolce sorella, come la chiamo nei miei pensieri, la mia consigliera e amica, il vero angelo custode di tutti coloro che vivono sotto il suo calmo, buono e generoso influsso - è ormai una donna. Quali altri cambiamenti sono avvenuti in me oltre quelli della statura, dell'aspetto e delle nozioni che ho raccolto in tutto questo tempo? Porto un orologio d'oro con la catena, un anello al mignolo e un abito con le falde; e uso una gran quantità di grasso d'orso: cosa che, unita all'anello, è un brutto indizio. Sono ancora innamorato? Sì. Adoro la maggiore delle signorine Larkins. La maggiore delle signorine Larkins non è una fanciullina. È una grande, bruna, bella figura di donna dagli occhi neri. La maggiore delle signorine Larkins non è una gallinella, perché non lo è nemmeno la minore, e la maggiore deve avere tre o quattro anni di più. Forse la maggiore delle signorine Larkins è sulla trentina. La mia passione per lei supera ogni limite. La maggiore delle signorine Larkins conosce gli ufficiali. È una cosa terribile a sopportarsi. Li vedo parlare con lei per strada. Li vedo attraversare la via per andarle incontro quando il suo cappellino (ha un gusto straordinario in fatto di cappellini) si vede venir giù lungo il marciapiede insieme a quello di sua sorella. Lei ride e parla, e sembra provarci gusto. Io spendo una gran parte del mio tempo libero passeggiando in su e in giù per incontrarla. Se posso farle un inchino una volta al giorno (la conosco tanto da poterle fare un inchino, conoscendo il signor Larkins) tocco il cielo con un dito. Di tanto in tanto vengo degnato di un inchino. Le furiose angosce che soffro la sera del Ballo delle Corse, dove so che la maggiore delle signorine Larkins danzerà con l'inclita guarnigione, dovrebbero avere un qualche compenso se vi è una giustizia al mondo. La passione mi toglie l'appetito e mi costringe a portare in continuità le più nuove cravatte di seta. Non ho altro sollievo che quello di indossare le vesti migliori e di aver le scarpe lucide come specchi. Allora mi sembra di essere più degno della maggiore delle signorine Larkins. Tutto ciò che le appartiene o rimane collegato a lei è per me prezioso. Il signor Larkins (un vecchio signore arcigno col doppio mento e un occhio immobile sotto la fronte) è per me colmo di interesse. Quando non riesco a incontrare sua figlia, vado dove ho qualche probabilità di incontrare lui. Dire: «Come state, signor Larkins? Le signorine e l'intera famiglia stanno bene?» mi sembra così pregno di significati che arrossisco. Penso continuamente alla mia età. Che importanza ha ripetermi che ho diciassette anni e che un diciassettenne è troppo giovane per la maggiore delle signorine Larkins? Senza contare che ne avrò ventuno in men che non si dica. A sera vado regolarmente a passeggio attorno alla casa del signor Larkins, sebbene mi si spezzi il cuore nel vedervi entrare degli ufficiali e nel sentirli parlare e muoversi nel salotto, dove la maggiore delle signorine Larkins suona l'arpa. Qualche volta, stordito e spasimante, continuo addirittura ad aggirarmi intorno alla casa quando tutta la famiglia è andata a letto, domandandomi qual è la camera della maggiore delle signorine Larkins (e lanciando tenere occhiate, come penso adesso, a quella del signor Larkins): col solo desiderio che scoppi un incendio, che la folla vi si raduni attorno sgomenta, che io, precipitandomi attraverso di essa con una scala, possa appoggiarla contro la finestra di lei, portare in salvo la bella tra le mie braccia, tornare a prendere qualche cosa che lei ha dimenticato e perire tra le fiamme. Perché in genere il mio amore è disinteressato e io penso che mi basterebbe fare una bella figura dinanzi alla signorina Larkins e spirare. In genere, ma non sempre. A volte più luminose visioni mi appaiono. Quando mi abbiglio (un'occupazione di due ore) per un gran ballo dato dai Larkins (e annunciato tre settimane prima) concedo alla mia fantasia piacevoli immagini. Mi raffiguro nel momento in cui raccolgo tutto il mio coraggio per fare una dichiarazione alla signorina Larkins. Mi raffiguro la signorina Larkins che mi affonda la testa nella spalla dicendo: «Oh, signor Copperfield, posso credere ai miei orecchi?» Mi raffiguro il signor Larkins che, il mattino dopo, viene da me per dirmi: «Caro Copperfield, mia figlia mi ha confidato tutto. La gioventù non è un ostacolo. Ecco qui ventimila sterline. Siate felici!» Mi raffiguro mia zia che si intenerisce e ci benedice; e il signor Dick e il dottor Strong che presenziano al nostro matrimonio. Sono un tipo sensato, credo - voglio dire che lo credo guardandomi indietro - e anche modesto, ne sono sicuro; ma tuttavia così vanno le cose. Mi reco in quella casa incantata, piena di luci, di voci, di musica, di fiori, di ufficiali (mi dispiace riconoscerlo), e dove è la maggiore delle signorine Larkins, smagliante di bellezza. È vestita di azzurro, con fiori azzurri fra i capelli - non-ti-scordar-di-me - ma lei non ha alcun bisogno di portare dei non-ti-scordar-di-me. È la prima, vera riunione di adulti a cui sia mai stato invitato e mi sento un po' a disagio; perché mi sembra di non aver nulla in comune con alcuno e che nessuno abbia qualche cosa da dirmi, eccetto il signor Larkins, il quale si informa dei miei compagni di scuola, cosa di cui potrebbe benissimo fare a meno, visto che non sono andato là per sentirmi offeso. Ma, dopo essere rimasto per qualche tempo sulla soglia rallegrandomi la vista con la divinità del mio cuore, eccola che viene verso di me - lei, la maggiore delle signorine Larkins! - e mi domanda affabilmente se ballo. Balbetto inchinandomi: «Con voi, signorina Larkins.» «E con nessun'altra?» chiede lei. «Non avrei alcun piacere nel ballare con altre.» La signorina Larkins ride e arrossisce (o per lo meno penso che arrossisca), e dice: «Fra due balli, ne sarò lieta.» Viene il mio turno. «Credo che sia un valzer,» osserva con aria dubbiosa la signorina Larkins, quando mi presento. «Conoscete il valzer? Altrimenti il capitano Bailey...» Ma io conosco il valzer (e anche benino, per l'appunto), e mi porto via la signorina Larkins. La porto fieramente via dal fianco del capitano Bailey. Non ho dubbi che lui sia alla disperazione, ma per me, lui, è meno di niente. Anch'io sono stato alla disperazione. Ballo il valzer con la maggiore delle signorine Larkins! Non so dove, fra chi né per quanto tempo. So solo che nuoto nello spazio con un angelo azzurro, in uno stato di beato delirio, finché mi trovo solo con lei in un salottino, seduti su di un divano. Lei ammira un fiore (camelia japonica rossa, prezzo: mezza corona) al mio occhiello. Gliela offro e dico: «Ve ne chiedo un prezzo inestimabile, signorina Larkins.» «Davvero? Quanto?» ribatte lei. «Uno dei vostri fiori, perché possa custodirlo come un avaro custodisce il suo oro.» «Siete un ragazzo ardito,» dice la signorina Larkins. «Eccolo.» Me lo porge, per nulla dispiaciuta; io lo porto alle labbra e poi lo nascondo in seno. La signorina Larkins, ridendo, mi infila la mano sotto il braccio dicendo: «E ora riconducetemi dal capitano Bailey.» Sono ancora perduto nel ricordo di questo delizioso colloquio e del valzer quando ella torna a me al braccio di un semplice signore di mezza età che per tutta la sera non ha fatto altro che giocare al Whist, e dice: «Oh! ecco qui il mio ardito amico! Il signor Chestle desidera conoscervi, signor Copperfield.» Capisco subito che è un amico di famiglia e ne sono molto lusingato. «Ammiro il vostro gusto, signore,» dice il signor Chestle. «Vi fa onore. Suppongo che non vi interessiate molto di luppoli, ma io ne sono un coltivatore su scala piuttosto vasta; e se mai vi capitasse di venire dalle nostre parti - nei dintorni di Ashford - e di fare una corsa fino alla nostra casa, saremo lieti se vorrete fermarvi quanto vorrete.» Ringrazio caldamente il signor Chestle e gli stringo la mano. Mi sembra di vivere in un dolce sogno. Ballo ancora un valzer con la maggiore delle signorine Larkins. Lei dice che ballo bene! Torno a casa in uno stato di ineffabile gaudio e, nella mia immaginazione, continuo a ballare il valzer per tutta la notte con un braccio attorno all'azzurra vita della mia dea. Nei giorni che seguono sono rapito in estatiche riflessioni; ma non la vedo più per via, né quando faccio la visita di ringraziamento. Mi consolo in qualche modo di questa delusione con il sacro pegno, il fiore appassito. «Trotwood,» mi dice un giorno Agnes, dopo pranzo. «Chi pensi che si sposi, domani? È qualcuno che ammiri molto.» «Non tu, Agnes, suppongo.» «No, non io.» E alza il volto ridente dalla musica che sta copiando. «Lo senti, papà? La maggiore delle signorine Larkins.» Riesco appena a chiedere: «Col... col capitano Bailey?» «No, con nessun capitano. Col signor Chestle, un coltivatore di luppolo.» Cado in una terribile prostrazione per un paio di settimane. Mi tolgo l'anello, indosso i miei abiti peggiori, non uso più grasso di orso e levo frequenti lamenti sul fiore appassito della scomparsa signorina Larkins. Finché, stanco di questo genere di vita e avendo ricevuto frattanto una nuova provocazione dal macellaio, sbatto via il fiore, mi azzuffo col macellaio e lo sconfiggo gloriosamente. Questo, con la riassunzione dell'anello e del grasso d'orso in modo moderato, sono gli unici segni che posso discernere, adesso, nella continuazione dei miei diciassette anni. XIX • MI GUARDO ATTORNO E FACCIO UNA SCOPERTA Sono in dubbio se mi sentissi lieto o spiacente quando il mio periodo scolastico volse alla fine e venne per me il tempo di lasciare il dottor Strong. Ero stato molto felice nel suo collegio, mi ero molto affezionato al dottore ed ero un personaggio eminente e distinto in quel piccolo mondo. Per queste ragioni ero spiacente di andarmene; ma per altre ragioni, piuttosto inconsistenti, ne ero lieto. Nebbiose idee di essere un giovane che dispone di sé e dell'importanza che può avere un giovane in queste condizioni, delle meravigliose cose che possono essere viste o compiute da un così splendido animale e dei meravigliosi effetti che egli non può mancar di produrre sulla società, mi attraevano fuori da quei confini. Così potenti furono queste considerazioni da visionario sulla mia mente ancora infantile, che, giudicando con la mia attuale mentalità, credo di aver lasciato la scuola senza un naturale rimpianto. Il distacco non ha lasciato su di me l'impressione che hanno lasciato altri distacchi. Cerco invano di ricordare come lo sentii e in quali circostanze avvenne: certo non è importante nella mia memoria. Suppongo che le prospettive che mi si aprivano dinanzi mi abbiano confuso la mente. So che le mie esperienze giovanili contarono allora poco o niente; e che la vita mi appariva più che altro come una grande fiaba che proprio in quel momento mi accingevo a leggere. La zia e io avevamo più volte e seriamente discusso sull'occupazione a cui mi sarei dedicato. Per un anno o più avevo cercato di dare una risposta soddisfacente alla sua insistente domanda: «Che cosa ti piacerebbe fare?» Ma, che sapessi, non avevo inclinazioni per nulla in particolare. Se avessi potuto conoscere, per ispirazione, la scienza della navigazione, assumere il comando di una rapida spedizione e fare il giro del mondo in un trionfale viaggio di scoperta, credo che avrei potuto considerarmi perfettamente soddisfatto. Ma, in mancanza di un aiuto così miracoloso, desideravo solo applicarmi a qualche cosa che non gravasse troppo sulla borsa della zia, e fare in essa il mio dovere, quale che fosse. Il signor Dick aveva regolarmente assistito ai nostri consigli con un atteggiamento saggio e meditativo. Non aveva mai enunciato opinioni tranne una volta; e in quell'occasione (non so che cosa glielo avesse fatto venire in testa) propose improvvisamente che avrei dovuto fare il «calderaio». Mia zia accolse con così poca grazia questo suggerimento, che mai più egli ne arrischiò un secondo; e da allora in poi si limitò a osservarla attentamente in attesa delle sue proposte, e a far risuonare le sue monete. «Mio caro Trot, ti dirò una cosa,» dichiarò mia zia un mattino del periodo natalizio, quando lasciai la scuola: «visto che questo punto cruciale non è stato ancora risolto, e che dobbiamo evitare di prendere una decisione sbagliata, se possiamo farne a meno, penso che la cosa migliore sia concederci un po' di respiro. Nel frattempo tu dovrai tentare di considerare il problema da un nuovo punto di vista, che non sia quello di uno studente.» «Lo farò, zia.» «Mi è venuto in mente,» proseguì la zia, «che un piccolo cambiamento, e un'occhiata rivolta alla vita fuori di qui, possono essere utili per aiutarti a conoscere meglio le tue idee e formulare un giudizio più posato. Immagina, per esempio, di tornare nelle tue vecchie parti e di fare una visita a quella... quella donna impossibile che ha il più barbaro dei nomi,» concluse la zia grattandosi il naso, perché non poté mai perdonare del tutto a Peggotty di essere così chiamata. «Zia, di tutte le cose al mondo è quella che mi piacerebbe di più!» «Bene,» disse mia zia, «è una fortuna perché piace anche a me. Ma è naturale e logico che ti piaccia. E io sono intimamente convinta che tutto quello che farai, Trot, sarà sempre naturale e logico.» «Lo spero, zia.» «Tua sorella Betsey Trotwood,» continuò la zia, «sarebbe stata la più naturale e logica ragazza del mondo. E tu sarai degno di lei, non è vero?» «Io spero di essere degno di te, zia. Questo mi basterà.» «È una grazia che quella povera cara bambina di tua madre non sia più al mondo,» disse la zia guardandomi con approvazione, «altrimenti, adesso, sarebbe così orgogliosa del suo ragazzo che la sua fragile testolina le darebbe completamente di volta, se pur gliene fosse rimasta tanta da dar di volta.» (Mia zia scusava sempre ogni sua debolezza a mio riguardo trasferendola così sulla mia povera madre.) «Il ciel mi benedica, Trotwood, come me la ricordi!» «In modo gradito, spero,» dissi. «È lei tale e quale, Dick,» affermò la zia con enfasi, «tale e quale com'era quel pomeriggio prima che cominciasse ad aver le doglie... Dio mi protegga, le somiglia come è vero che mi guarda con quegli occhi!» «Proprio davvero?» disse il signor Dick. «E somiglia anche a David,» aggiunse risoluta mia zia. «È somigliantissimo a David!» confermò il signor Dick. «Ma quello che voglio che tu sia, Trot,» concluse la zia, «- non intendo fisicamente ma moralmente, perché fisicamente stai benissimo - è che tu sia un ragazzo sicuro. Un bel ragazzo sicuro che sa quello che vuole. Pieno di risoluzione,» continuò la zia scuotendo la cuffia verso di me e stringendo il pugno, «di decisione, di carattere, Trot: quella forza di carattere che non può essere influenzata, se non per buone ragioni, da nessuno e da niente. Questo voglio che tu sia. Questo è quello che tuo padre e tua madre avrebbero dovuto essere, lo sa il cielo, e se ne sarebbero trovati meglio.» Dichiarai che speravo di essere quale mi aveva descritto. «Perché tu possa cominciare, in piccolo, ad avere fiducia in te e ad agire di tua iniziativa,» disse la zia, «ti farò viaggiare da solo. Dapprima avevo pensato di farti accompagnare dal signor Dick; ma, riflettendoci, lo tratterrò perché si prenda cura di me.» Il signor Dick apparve per un attimo un po' deluso; ma poi l'onore e la dignità di prendersi cura della donna più meravigliosa del mondo, riportarono la luce sul suo volto. «Inoltre,» aggiunse la zia, «c'è il memoriale...» «Oh, certo,» esclamò in fretta il signor Dick, «intendo finirlo immediatamente, caro Trotwood... in realtà deve essere finito immediatamente! Dopo di che verrà inoltrato, lo sapete... e allora...» concluse il signor Dick dopo essersi arrestato e aver fatto una lunga pausa, «succederà un bel pasticcio.» In esecuzione del generoso programma della zia, poco tempo dopo fui fornito di una bella sommetta e di una valigia, e affettuosamente congedato per la mia spedizione. Al momento della partenza, mia zia mi diede qualche buon consiglio e una gran quantità di baci; e mi disse che, poiché la sua intenzione era che mi guardassi intorno e meditassi un poco, mi raccomandava di fermarmi alcuni giorni a Londra, se lo desideravo, o durante il mio viaggio di andata nel Suffolk, o in quello di ritorno. In una parola, ero libero di fare quello che volevo per tre settimane o un mese: e nessun'altra limitazione era imposta alla mia libertà tranne il suddetto compito di guardarmi attorno e meditare e l'impegno di scrivere tre volte la settimana un fedele rapporto sulle mie vicende. Per prima cosa mi recai a Canterbury per prender congedo da Agnes e dal signor Wickfield (non avevo ancora lasciato la mia vecchia stanza nella sua casa) e anche dal buon dottore. Agnes fu molto lieta di vedermi e mi disse che la casa non era più la stessa da quando me n'ero andato. «Quando sono lontano di qui, nemmeno io, ne sono sicuro, sono più lo stesso,» le dissi. «Senza di te, mi sembra che mi manchi il braccio destro. Ma è dir poco, perché nel mio braccio destro non vi è né testa né cuore. Tutti quelli che ti conoscono si consigliano con te e trovano in te una guida, Agnes.» «Credo che tutti quelli che mi conoscono mi vizino,» rispose lei sorridendo. «No. Il fatto è che tu sei diversa da tutti. Sei così buona, così dolce, hai un carattere così gentile, e la ragione è sempre dalla tua parte.» «Mi parli,» disse Agnes dando in un piacevole riso mentre continuava il suo lavoro, «come se fossi la ex signorina Larkins.» «Andiamo! Non è bello abusare delle mie confidenze,» risposi arrossendo al ricordo della mia azzurra dominatrice. «Ma mi confiderò in te egualmente, Agnes. Non sarò mai troppo vecchio per farlo. Ogni volta che cadrò nel dubbio o nell'amore, sempre te lo dirò, se me lo permetterai... anche se dovessi innamorarmi sul serio.» «Diamine, ti sei sempre innamorato sul serio!» esclamò Agnes ridendo ancora. «Oh, come un ragazzo o come uno studente,» risposi ridendo a mia volta e non senza un po' di vergogna. «Adesso i tempi sono mutati, e immagino che, un giorno o l'altro, mi troverò a fare terribilmente sul serio. Quel che mi meraviglia è che, frattanto, non ti sia trovata a fare sul serio tu stessa, Agnes.» Agnes rise ancora e scosse la testa. «Oh, lo so che non è così!» dissi, «perché se le fosse me lo avresti detto. O almeno,» poiché vidi un leggero rossore sulle sue gote, «avresti lasciato che me ne accorgessi da solo. Ma non c'è nessuno che conosca, il quale sia degno di amare te, Agnes. Deve presentarsi qualcuno di un più nobile carattere e più meritevole in tutto di chiunque altro abbia mai visto qui, prima che io dia il mio consenso. In futuro terrò d'occhio tutti gli ammiratori, e ti assicuro che pretenderò molto dal vincitore.» Eravamo andati avanti fin qui in un confidenziale frammischiarsi di serietà e di scherzo che ci era diventato naturale da tempo per i nostri rapporti familiari iniziati fin dall'infanzia. Ma improvvisamente Agnes, levando gli occhi nei miei e parlando con altro tono, disse: «Trotwood, c'è una cosa che voglio chiederti e che forse non avrò l'occasione di chiederti per lungo tempo... qualche cosa che, credo, non chiederei a nessun altro. Hai osservato qualche mutamento graduale nel papà?» Lo avevo osservato e spesso mi ero chiesto se lo aveva osservato anche lei. E adesso dovetti rivelarlo nell'espressione del mio volto, perché i suoi occhi si abbassarono in un attimo e io vi scorsi le lacrime. «Dimmi che cos'è,» mormorò piano. «Credo... devo parlar chiaro, Agnes, visto che gli voglio tanto bene?» «Sì.» «Credo che non gli faccia bene quell'abitudine che è sempre aumentata da quando sono arrivato qui. Spesso è molto nervoso... o è una mia illusione?» «Non è un'illusione,» rispose Agnes scuotendo la testa. «Gli tremano le mani, non parla in modo chiaro e ha gli occhi stravolti. Ho notato che in questi momenti, quando è meno in sé, è regolarmente ricercato per qualche pratica.» «Da Uriah,» disse Agnes. «Sì; e la sensazione di non esserne all'altezza, o di non averla ben capita, o di aver mostrato suo malgrado la condizione in cui era, sembra metterlo così a disagio che il giorno dopo fa peggio, e il seguente ancora peggio, e così si esaurisce e diviene intrattabile. Non ti allarmare per quello che dico, Agnes, ma in questo stato l'ho visto, non più tardi dell'altra sera, abbandonare il capo sulla scrivania e piangere come un bambino.» La sua mano passò leggera sulle mie labbra mentre stavo ancora parlando, e un attimo dopo ella era andata incontro al padre sulla porta della stanza e gli si aggrappava alla spalla. L'espressione del suo volto, mentre entrambi si rivolgevano verso di me, mi parve quanto mai commovente. Vi era una così profonda tenerezza per lui, nei suoi begli occhi, e una gratitudine per il suo amore e le sue cure; e vi era una così fervida preghiera, rivolta a me, perché lo considerassi con affettuosa indulgenza anche nei miei più riposti pensieri senza lasciare adito a giudizi severi contro di lui; così orgogliosa ella era di lui e a lui così devota, e tuttavia così compassionevole e dolente a un tempo, e così fiduciosa in me perché lo fossi a mia volta, che nulla avrebbe potuto dire di più espressivo per me o tale da commuovermi più a fondo. Dovevamo prendere il tè dal dottore. Vi andammo all'ora solita, e attorno al caminetto dello studio trovammo il dottore, la sua giovane moglie e la madre di lei. Il dottore, che dava molta importanza alla mia partenza, come se andassi in Cina, mi ricevette come un ospite di riguardo; e volle che si mettesse sul fuoco un nuovo ceppo per vedere il volto del suo antico allievo arrossarsi alla fiamma. «Non vedrò ancora molte facce nuove al posto di quella di Trotwood, caro Wickfield,» disse il dottore scaldandosi le mani; «sto diventando pigro e ho bisogno di riposo. Entro sei mesi lascerò tutti i miei ragazzi e farò una vita più tranquilla.» «Non fate che ripeterlo da dieci anni, dottore,» rispose il signor Wickfield. «Ma adesso intendo farlo,» replicò il dottore. «Mi succederà il mio primo insegnante - parlo sul serio, questa volta - così dovrete presto stendere i nostri contratti e legarci solidamente ad essi come un paio di furfanti.» «E stare attento,» disse il signor Wickfield, «a non farvi metter di mezzo, eh? Come vi accadrebbe certamente in un qualsiasi contratto redatto da voi stesso. Bene! Son pronto. Nel mio mestiere vi sono compiti peggiori di questo.» «Allora non avrò da pensare ad altro che al mio dizionario,» disse il dottore sorridendo; «e quest'altro contratto... Annie.» Mentre il signor Wickfield le gettava un'occhiata, ella, seduta al tavolo presso Agnes, mi sembrò sfuggire quello sguardo con una esitazione e una timidità così inconsuete che l'attenzione di lui le si fissò addosso come se gli fosse venuta un'idea. «Mi accorgo che è arrivato un corriere dall'India,» disse dopo un breve silenzio. «A proposito! Sono arrivate anche lettere dal signor Jack Maldon!» esclamò il dottore. «Davvero!» «Povero caro Jack!» disse la signora Markleham scuotendo la testa. «Con quel clima feroce!... Mi hanno detto che è come vivere su di un mucchio di sabbia sotto una lente ustoria! Lui sembrava robusto, ma non lo era. Mio caro dottore, si è avventurato così arditamente facendo affidamento sul suo spirito, non sulla sua costituzione. Annie, mia cara, sono sicura che tu ricordi perfettamente come tuo cugino non sia mai stato forte - nulla di ciò che può esser chiamato robusto, mi intendi -» disse con enfasi la signora Markleham volgendo in giro uno sguardo generico su tutti noi, «fin dal tempo in cui mia figlia e lui erano bambini insieme e se ne andavano attorno sotto braccio per tutto il giorno.» Annie, così interpellata, non rispose. «Devo dedurre da tutto questo che il signor Maldon è malato, signora?» chiese il signor Wickfield. «Malato?» ribatté il Vecchio Soldato. «Mio caro signore, è tutto quello che si può essere.» «Eccetto che sano?» disse il signor Wickfield. «Eccetto che sano, sicuro!» confermò il Vecchio Soldato. «Si è preso terribili colpi di sole, questo è certo, e febbri della giungla, e febbri malariche, e ogni sorta di cose elencabili. E quanto al fegato,» aggiunse il Vecchio Soldato con rassegnazione, «quello, naturalmente, è partito fin dal suo primo arrivo laggiù!» «Dice tutto questo?» chiese il signor Wickfield. «Se lo dice? Mio caro signore,» ribatté la signora Markleham scuotendo la testa e il ventaglio, «conoscete poco il mio povero Jack Maldon, se fate questa domanda. Se lo dice? No certo. Potreste farlo trascinare da quattro cavalli selvaggi prima di farglielo dire.» «Mamma!» esclamò la signora Strong. «Annie, cara,» ribatté sua madre, «una volta per tutte, devo davvero pregarti di non interrompermi se non per confermare quello che dico. Tu sai quanto me che tuo cugino Maldon si farebbe trascinare da tutti i cavalli selvaggi del mondo - perché dovrei limitarmi a quattro? Non voglio affatto limitarmi a quattro - da otto, da sedici, da trentadue, piuttosto di dire una sola parola intesa a contrastare i piani del dottore.» «I piani di Wickfield,» disse il dottore carezzandosi il volto e guardando il suo consigliere con aria contrita. «O meglio i piani che abbiamo fatto in comune per lui. Io stesso ho detto in patria o fuori.» «E io dissi,» aggiunse gravemente il signor Wickfield, «fuori. Per mezzo mio è stato mandato all'estero. La responsabilità è mia.» «Oh! Responsabilità!» disse il Vecchio Soldato. «Tutto è stato fatto per il meglio, mio caro signor Wickfield; tutto è stato fatto con le migliori e più affettuose intenzioni, lo sappiamo. Ma se quel caro ragazzo non può vivere laggiù, non può viverci. E se non può viverci ci morirà prima di mettersi contro i piani del dottore. Lo conosco,» dichiarò il Vecchio Soldato sventagliandosi con una sorta di calma e profetica ambascia, «e so che ci morirà piuttosto che contrastare i piani del dottore.» «Bene, bene, signora,» disse il dottore allegramente, «non sono legato fanaticamente ai miei progetti e posso mutarli io stesso. Posso sostituirli con altri. Se il signor Jack Maldon torna in patria per motivi di salute, non dovremo permettergli di ripartire e dobbiamo cercare di trovargli una sistemazione conveniente in questo paese.» La signora Markleham fu così sopraffatta da queste generose parole - che, non c'è bisogno di dirlo, non si aspettava minimamente né aveva fatto nulla per provocare - da poter dire solo che il dottore si comportava da par suo, e ripetere più volte la cerimonia di baciare le stecche del suo ventaglio e battergliele poi leggermente sulla mano. Dopo di che rimproverò affettuosamente sua figlia Annie per non essere più espansiva dinanzi a tanta bontà riversata, per amor suo, sul suo antico compagno di giuochi; e ci intrattenne su vari particolari relativi ad altri meritevoli membri della sua famiglia che sarebbe stato bene rimettere sulle loro meritevoli gambe. Per tutto questo tempo, sua figlia Annie non disse una sola parola né alzò gli occhi. Per tutto questo tempo il signor Wickfield tenne lo sguardo fisso su di lei, che sedeva al fianco di Agnes. Mi parve che non sospettasse di essere osservato da alcuno, ma fosse così intento a lei e ai suoi pensieri che si riferivano a lei, da rimanere completamente assorto. Adesso chiese che cosa il signor Jack Maldon avesse effettivamente scritto su di sé, e a chi lo aveva scritto. «Ecco qui,» disse la signora Markleham prendendo una lettera dalla mensola del camino sopra la testa del dottore, «il caro ragazzo dice al dottore stesso - dov'è? Oh! - ‹Sono spiacente di informarvi che la mia salute è seriamente scossa e che temo di poter essere ridotto alla necessità di tornare in patria per qualche tempo, come sola speranza di riprendermi.› Questo è molto chiaro, povero ragazzo! La sua sola speranza di rimettersi! Ma la lettera di Annie è ancora più esplicita. Annie, fammi vedere ancora quella lettera.» «Non adesso, mamma,» implorò lei a bassa voce. «Mia cara, su certe cose sei assolutamente la più ridicola creatura esistente,» le rispose sua madre, «e forse la più snaturata di fronte ai diritti della tua famiglia. Credo che non avremmo saputo niente di quella lettera se non te l'avessi chiesta io stessa. Amor mio, la chiami confidenza verso il dottor Strong, questa? Mi meraviglio. Dovresti essere più saggia.» La lettera fu mostrata con riluttanza; e, mentre la porgevo alla vecchia signora, mi accorsi che la mano restia da cui l'avevo presa, tremava. «E ora vediamo,» disse la signora MarkIeham avvicinandosi l'occhialetto, «dov'è il punto. ‹Il ricordo dei vecchi tempi, carissima Annie› e via di seguito; non è qui. ‹Il simpatico vecchio dottore...› di chi parla? Povera me, Annie, che scrittura illeggibile ha tuo cugino, e che sciocca sono! ‹Dottore,› naturalmente. Ah! Certo che è simpatico!» E qui si interruppe per baciare ancora il suo ventaglio e agitarlo verso il dottore che ci contemplava con placida soddisfazione. «Ecco, ho trovato. ‹Non sarai forse sorpresa, Annie,› - no certo, sapendo che non è mai stato molto forte; che cosa dicevo un momento fa? - ‹nell'udire che ne ho sopportate tante, in questo lontano paese, da decidermi a lasciarlo, succeda quel che può succedere; se posso, in licenza per motivi di salute; se non posso ottenerlo, per congedo definitivo. Quello che ho sofferto e che continuo a soffrire qui è insopportabile.› E se non fosse per la premura della migliore delle creature,» concluse la signora Markleham, telegrafando al dottore come prima e ripiegando la lettera, «sarebbe insopportabile per me pensarci.» Il signor Wickfield non disse una sola parola, sebbene la vecchia signora lo guardasse come per chiedergli un commento a queste notizie; se ne stette seduto in un severo silenzio, con gli occhi fissi a terra. Rimase così per lungo tempo dopo che l'argomento era stato abbandonato ed eravamo passati ad altri soggetti; alzando raramente lo sguardo se non per posarlo un momento, con le ciglia pensosamente aggrottate, sul dottore, o su sua moglie o su entrambi. Il dottore era un appassionato di musica. Agnes cantò con molta dolcezza ed espressione, e così pure la signora Strong. Cantarono insieme, eseguirono dei duetti, ci fu un vero piccolo concerto. Ma io notai due cose: anzitutto che, sebbene Annie avesse ripreso subito il suo contegno tornando padrona di sé, c'era un vuoto fra lei e il signor Wickfield, che li separava totalmente l'uno dall'altra; in secondo luogo che il signor Wickfield non sembrava contento dell'intimità fra lei e Agnes e la considerava con disagio. E devo confessare che adesso il ricordo di ciò che avevo visto la sera in cui il signor Maldon era partito mi tornò in mente per la prima volta con un significato che allora non aveva avuto, e mi turbò. L'innocente bellezza del suo volto non era più innocente, per me, come un tempo; diffidavo della grazia e del fascino naturale dei suoi modi; e quando guardavo Agnes al suo fianco e pensavo quanto buona e schietta fosse Agnes, mi veniva il sospetto che la loro amicizia non fosse bene assortita. Ella, comunque, ne era così felice e così felice ne era la sua amica che fecero passar via la serata come se si fosse trattato di una sola ora. Si concluse con un incidente che ricordo bene. Le due giovani stavano salutandosi e Agnes era sul punto di abbracciarla e baciarla quando il signor Wickfield si fece avanti fra di loro, come per caso, e portò via decisamente Agnes. Allora vidi, come se tutto il tempo intercorso fosse stato cancellato e io fossi ancora fermo sulla porta la notte della partenza, l'espressione di quella notte stessa sul volto della signora Strong di fronte a quello di lui. Non posso dire quale impressione mi fece, né come mi parve impossibile, quando vi ripensai in seguito, separare l'immagine di lei da quell'espressione e ricordare di nuovo il suo volto nella sua grazia innocente. Tornato a casa, ne fui ossessionato. Mi sembrava di aver lasciato il tetto del dottore sotto l'oppressione di una tetra nube. La reverenza che avevo per la sua grigia testa si univa alla commiserazione per la fiducia che riponeva in coloro che lo tradivano e al risentimento contro coloro che gli facevano offesa. L'ombra minacciosa di un grande dolore, di una grande disgrazia dalle forme ancora indistinte, cadeva come una macchia sul luogo tranquillo in cui avevo studiato e giocato da ragazzo e gli faceva una crudele ingiustizia. Non avevo più alcun piacere nel pensare ai vecchi e solenni aloe dalle larghe foglie, che rimanevano chiusi in se stessi per centinaia di anni, e al prato liscio e rasato, e alle urne di pietra, e alla passeggiata del dottore, e al suono familiare della campana della cattedrale librato sul tutto. Era come se il tranquillo santuario della mia fanciullezza fosse stato messo a sacco sotto i miei occhi e la sua pace e il suo onore dispersi al vento. Ma il mattino portò con sé la mia partenza dalla vecchia casa, che Agnes aveva colmato del suo influsso; e questo bastò a occuparmi la mente. Certo sarei tornato presto; avrei potuto dormire ancora, forse spesso, nella mia antica camera; ma i giorni in cui abitavo lì erano finiti, i vecchi tempi erano passati. Nell'impaccare i libri e gli abiti che erano rimasti, per spedirli a Dover, mi sentivo il cuore più pesante di quanto volessi mostrare a Uriah Heep, il quale si dava tanto da fare per aiutarmi da farmi pensare, poco caritatevolmente, che fosse felice della mia partenza. Mi separai da Agnes e da suo padre con una certa ostentazione di indifferenza molto adulta, e presi posto sulla cassetta della diligenza di Londra. Mi sentivo così sereno e indulgente, nell'attraversare la città, che mi venne la mezza idea di fare un cenno di saluto al mio vecchio nemico, il macellaio, e di gettargli cinque scellini perché se li bevesse. Ma, lì nella bottega, intento a raschiare l'enorme ceppo, aveva l'aria di un così incallito macellaio, e inoltre il suo aspetto era così poco abbellito dalla perdita di un incisivo che gli avevo fatto saltare, che mi parve meglio non fare approcci. Il principale scopo che avevo in mente, ricordo, quando fummo decisamente in viaggio, era quello di apparire il più adulto possibile al cocchiere e di assumere un aspetto quanto mai serioso. Quest'ultimo punto riuscii ad attuarlo con grande disagio personale; ma mi ci ostinai perché mi sembrava una cosa molto da uomo fatto. «Fate l'intero percorso, signore?» mi chiese il cocchiere. «Sì, William,» risposi con condiscendenza (lo conoscevo); «vado a Londra. In seguito passerò nel Suffolk.» «Per la caccia, signore?» disse il cocchiere. Sapeva quanto me che, in quella stagione, c'era la stessa probabilità che andassi là a pescar balene; ma mi sentii egualmente lusingato. «Non so,» dissi fingendo di essere indeciso, «se sparerò un paio di colpi.» «Dicono che gli uccelli son diventati diffidenti,» osservò William. «L'ho sentito anch'io,» risposi. «Il Suffolk è la vostra contea, signore?» chiese William. «Sì,» risposi con una certa importanza. «Il Suffolk è la mia contea.» «Ho sentito dire che da quelle parti gli gnocchi sono squisiti,» disse William. Personalmente non ne sapevo nulla, ma mi parve necessario sostenere le istituzioni della mia contea e mostrarmi familiare con esse; così scossi la testa come per dire: «Potete esserne sicuro.» «E i Punches!» disse William. «Quelli sì che son cavalli da tiro! Un Punch del Suffolk, quando è buono, vale tant'oro quanto pesa. Avete mai allevato dei Punches del Suffolk, signore?» «N... no,» dissi, «non esattamente.» «C'è qui dietro di me un signore, lo darei per certo,» disse William, «che li ha allevati su vasta scala.» Il signore di cui parlava era un tipo dal mento in fuori e affetto da uno strabismo poco promettente, che portava un alto cappello bianco dalla tesa stretta e piatta e i cui calzoni attillati sembravano abbottonati lungo tutto l'esterno della gamba dalle scarpe al fianco. Puntava il mento sopra la spalla del cocchiere, così vicino a me che il suo respiro mi solleticava la nuca; e, quando mi volsi a guardarlo, stava adocchiando i cavalli di testa con l'occhio non strabico come chi sa perfettamente il fatto suo. «Non è vero?» chiese William. «Non è vero che cosa?» rispose il signore alle sue spalle. «Che allevate su grande scala Punches del Suffolk.» «Direi di sì,» disse il signore. «Non ci sono cavalli che non abbia allevato, e nemmeno cani. Cavalli e cani per alcuni sono un capriccio. Per me significano mangiare e bere... alloggio, moglie e figli... leggere, scrivere e far di conto... il tabacco da fiuto, quello da fumo e il sonno.» «Non è tipo da vedere seduto dietro la cassetta di una diligenza, però,» mi disse William all'orecchio maneggiando le redini. Interpretai questa osservazione come espressione del desiderio che quello prendesse il mio posto, e così, arrossendo, mi offrii di cederglielo. «Be', se per voi è lo stesso, signore,» disse William, «penso che sarebbe più corretto.» Ho sempre considerato questo episodio come la mia prima sconfitta nella vita. Nel fissare il posto alla biglietteria mi ero fatto scrivere «Posto a cassetta» sulla lista, e avevo dato mezza corona all'impiegato. Mi ero messo un cappotto e uno scialle speciali appunto per fare onore a quella posizione di eminenza; e mi ero dato un bel po' di arie, convinto di fare onore alla diligenza. Ed ecco che, proprio alla prima tappa, venivo soppiantato da uno scalzacane strabico, che non aveva altro merito se non quello di puzzar di stalla, capace di scavalcarmi piuttosto come una mosca che come un essere umano, mentre i cavalli andavano al piccolo galoppo. La sfiducia in me stesso, che spesso mi aggredì nella vita in occasioni di poco conto, quando sarebbe stato meglio se non ci fosse stata, non fu certo arrestata sul nascere da questo piccolo incidente sulla diligenza di Canterbury. Invano cercai di rifugiarmi nel parlar grave. Per tutto il resto del viaggio parlai dal profondo dello stomaco, ma mi sentivo completamente a terra e paurosamente giovane. Era una cosa singolare e interessante, tuttavia, star seduto lassù, dietro quattro cavalli: bene educato, ben vestito e con un bel po' di denaro in tasca; e cercare con lo sguardo i luoghi in cui avevo dormito durante il mio primo estenuante viaggio. Trovavo vasto materiale per i miei pensieri in tutti i punti più importanti della strada. Quando guardavo i vagabondi che sorpassavamo e vedevo quei ben noti tipi di facce volti in su, mi sembrava che la nera mano del calderaio mi afferrasse ancora per il petto della camicia. Quando passammo con grande strepito per le strette vie di Chatham e, di sfuggita, potei dare uno sguardo al sentiero in cui viveva il vecchio mostro a cui avevo venduto la mia giacca, allungai incuriosito il collo per vedere il luogo in cui ero rimasto seduto, al sole e all'ombra, in attesa del mio denaro. Quando infine fummo a una sola tappa da Londra e passammo proprio davanti al Collegio Salem, dove il signor Creakle aveva picchiato a destra e a manca con mano pesante, avrei dato quello che avevo perché mi fosse legalmente concesso di scendere, dargli un carico di legnate e mettere in libertà tutti i ragazzi come tanti passeri in gabbia. Arrivammo al Croce d'Oro, in Charing Cross, che allora era un edificio ammuffito sepolto fra altre case. Un cameriere mi condusse nella sala del caffè; e una cameriera mi fece strada nella mia stanzetta, che aveva l'odore di una vettura da nolo, ed era chiusa come una tomba di famiglia. Continuavo a essere penosamente consapevole della mia giovinezza, perché nessuno mostrava un gran rispetto per me: la cameriera appariva del tutto indifferente alle mie opinioni su qualsiasi soggetto, e il cameriere mi trattava familiarmente dando consigli alla mia inesperienza. «Bene,» disse il cameriere in tono molto confidenziale, «che cosa vi piacerebbe per desinare? I giovani, in genere, amano il pollame: prendete un pollastro.» Gli risposi, più maestosamente che potei, che non sentivo alcuna disposizione per un pollastro. «No?» disse il cameriere. «I giovani, in genere, sono stufi di bue e di montone: prendete una cotoletta di vitello.» Accettai la proposta riconoscendomi incapace di suggerire qualche cosa d'altro. «Vi interessano le patate?» chiese il cameriere con un sorriso insinuante e piegando la testa da un lato. «I giovani, in genere, fanno indigestioni di patate.» Gli ordinai, con la mia voce più profonda, di farmi avere una cotoletta di vitello, delle patate e tutto il necessario, e di chiedere al banco se vi erano lettere per il signor Trotwood Copperfield: sapevo benissimo che non ve n'erano e non potevano esservene, ma mi sembrava molto adulto aver l'apparenza di attenderne. Tornò subito dicendo che non ve n'erano e cominciò a stendere la tovaglia per il mio desinare in uno scomparto presso il fuoco. Mentre era così occupato, mi domandò che cosa avrei voluto bere; e alla mia risposta: «Mezza pinta di Xeres,» temo che la considerasse una buona occasione per trarre questa quantità di vino da tutti i fondi rimasti in alcuni boccaletti. Sono di questa opinione perché, mentre leggevo il giornale, lo osservai dietro un basso divisorio di legno, che costituiva il suo appartamento privato, tutto intento a versare da una quantità di quei recipienti in uno solo, come un chimico o un farmacista che prepari una ricetta. Inoltre, quando arrivò il vino, lo trovai scipito, e v'erano certo in esso più briciole inglesi di quante ci se ne potesse attendere in un vino straniero appena genuino; ma fui tanto timido da berlo senza dir nulla. Trovandomi così in una piacevole condizione di spirito (dal che deduco che l'avvelenamento non è sempre sgradevole in alcuni stadi del suo processo), decisi di andare a teatro. Scelsi il Covent Garden; e lì, dal fondo di un palco di centro, vidi il Giulio Cesare e la nuova pantomima. Il trovarmi davanti tutti quei nobili romani vivi, che entravano e uscivano per il mio diletto, invece di essere quei severi maestri che erano stati per me a scuola, mi diede una sensazione quanto mai nuova e piacevole. Ma il frammischiarsi di realtà e di mistero nell'intero spettacolo, l'influenza che fecero su di me la poesia, le luci, la musica, il pubblico, i rapidi e stupendi mutamenti degli scenari luminosi e scintillanti, mi abbagliarono in tal modo e mi aprirono così sconfinate regioni di diletto, che, quando uscii nella strada piovosa, a mezzanotte, mi parve di scendere dalle nubi, dove per secoli avessi condotto una romantica esistenza, in un mondo fangoso e miserabile di urla, di schizzi d'acqua, di file di lampioni, di ombrelli contrastanti, di carrozze da nolo in gara, di strepitanti zoccoli da pioggia. Ero uscito da un'altra porta e mi fermai un momento nella via come se realmente fossi uno straniero sulla terra; ma le spinte e gli urtoni che ricevetti senza riguardi mi fecero tornare presto in me stesso e mi misero sulla strada del ritorno all'albergo, verso il quale mi avviai rievocando per tutta la via la visione gloriosa, e dove, dopo un poco di Porto e delle ostriche, mi sedetti continuando la rievocazione fin dopo l'una, con gli occhi fissi sul fuoco della sala del caffè. Ero così preso dai ricordi dello spettacolo e del passato - perché in certo modo lo spettacolo era come una splendente trasparenza attraverso la quale vedevo muoversi la mia più remota esistenza - che non so bene in quale momento la figura di un bel giovane, vestito con una negligenza disinvolta e piena di gusto, che ho ragioni per ricordare molto bene, divenne per mé una presenza reale. Ma ricordo di essermi reso conto che era lì senza aver notato il suo ingresso, e di essere rimasto seduto, meditando, davanti al fuoco. Infine mi alzai per andare a letto, con molto sollievo del cameriere insonnolito che aveva il nervoso nelle gambe e andava intrecciandole, battendole, atteggiandole in ogni sorta di contorsioni nel suo piccolo ufficio. Nell'avvicinarmi alla porta, passai davanti alla persona che era entrata e la vidi chiaramente. Mi voltai di scatto, tornai indietro e guardai ancora. Lui non mi ravvisò, ma io lo riconobbi in un attimo. In un'altra occasione mi sarebbe forse mancata la confidenza e la decisione di rivolgergli la parola, avrei rimandato la cosa al giorno dopo e forse lo avrei perso. Ma, nelle mie condizioni di spirito, ancora esaltato dallo spettacolo, la sua protezione di un tempo mi apparve così meritevole della mia gratitudine, e il mio antico affetto per lui mi traboccò dal petto così vivo e spontaneo che corsi subito a lui col cuore che mi batteva e dissi: «Steerforth! Non volete parlarmi?» Mi guardò - proprio come soleva guardare certe volte - ma non vidi sul suo volto alcun segno di riconoscimento. «Temo che non vi ricordiate di me,» dissi. «Mio Dio!» esclamò improvvisamente. «È il piccolo Copperfield!» Lo afferrai per entrambe le mani e non riuscivo a lasciargliele. Se non fosse stato per la vergogna e il timore di fargli cosa sgradita, lo avrei abbracciato piangendo. «Mai, mai, mai sono stato così felice! Mio caro Steerforth, non mi sembra vero di vedervi.» «E anch'io vi rivedo con gioia!» mi disse stringendomi cordialmente le mani. «Andiamo, Copperfield, vecchio mio; non lasciatevi sopraffare.» E tuttavia era contento, mi parve, nel vedere quanto fossi lieto di quell'incontro. Mi asciugai le lacrime che, con tutta la mia decisione, non ero riuscito a trattenere, ci risi sopra goffamente, e insieme ci sedemmo l'uno accanto all'altro. «E allora, come vi capita di trovarvi qui?» chiese Steerforth battendomi su una spalla. «Sono arrivato oggi con la diligenza di Canterbury. Sono stato adottato da una zia da quelle parti e ho appena finito i miei studi laggiù. E voi, Steerforth, come mai siete qui?» «Be' sono quello che chiamano un oxoniano,» mi rispose; «vale a dire uno che, periodicamente, si trova annoiato a morte là a Oxford... e adesso sto andando da mia madre. Siete un tipo maledettamente simpatico, Copperfield. Proprio come un tempo, ora che vi guardo! Non siete minimamente cambiato!» «Io vi ho riconosciuto subito,» dissi; «ma di voi è più facile ricordarsi.» Rise passandosi la mano tra i folti riccioli e disse gaiamente: «Sì, faccio un viaggio di dovere. Mia madre abita un po' fuori di città; e poiché le strade sono in una condizione bestiale e la nostra casa è sufficientemente noiosa, sono rimasto qui stanotte invece di proseguire. Non sono in città nemmeno da sei ore, e le ho trascorse sonnecchiando e brontolando a teatro.» «Anch'io sono stato a teatro,» dissi. «Al Covent Garden. Che delizioso e magnifico spettacolo, Steerforth!» Steerforth rise di cuore. «Mio caro piccolo David,» esclamò battendomi ancora sulla spalla, «siete proprio una pratolina. La pratolina di campo, all'alba, non è più fresca di voi. Sono stato anch'io al Covent Garden: niente di più miserabile. Ehi, voi!» Questo era rivolto al cameriere che, da lontano, aveva seguito molto attentamente il nostro riconoscimento e adesso venne avanti con aria deferente. «Dove avete messo il mio amico, il signor Copperfield?» chiese Steerforth. «Come, signore?» «Dove dorme? Qual è il suo numero? Sapete bene quello che intendo,» disse Steerforth. «Be', signore,» rispose il cameriere con un tono di scusa. «Il signor Copperfield attualmente è al quarantaquattro, signore.» «E come diavolo vi è venuto in mente,» ribatté Steerforth, «di mettere il signor Copperfield in uno stambugio sopra una stalla?» «Ecco, vedete, signore, non sapevamo,» continuò il cameriere sempre scusandosi, «che il signor Copperfield avesse particolari esigenze. Possiamo dare al signor Copperfield il settantadue, signore, se preferisce. Accanto a voi, signore.» «Certo, che lo preferisce,» disse Steerforth. «Su, svelto.» Il cameriere si ritirò immediatamente per fare il cambiamento. Steerforth, molto divertito che mi avessero dato il quarantaquattro, rise ancora, mi batté ancora sulla spalla e mi invitò a colazione con lui il mattino dopo alle dieci: un invito che fui orgoglioso e felice di accettare. E poiché era molto tardi, prendemmo le candele e salimmo al piano di sopra, dove ci separammo con amichevole cordialità davanti alla sua porta e dove trovai la mia nuova camera molto migliore di quella di prima, per nulla ammuffita e con un enorme letto a quattro colonne che era una vera piazza d'armi. Lì, tra mucchi di cuscini sufficienti per sei persone, mi addormentai subito in uno stato di beatitudine, e sognai dell'antica Roma, di Steerforth, dell'amicizia, finché le prime diligenze del mattino, rombando entro l'arcata sottostante, mi fecero sognare di tuoni e di dèi. XX • LA CASA DI STEERFORTH Quando la cameriera bussò alla mia porta alle otto e mi avvertì che l'acqua per radermi era pronta lì fuori, sentii duramente l'umiliazione di non averne bisogno e arrossii sotto le coltri. L'idea che anche lei ridesse nel dirmelo mi turbò la mente per tutto il tempo che impiegai a vestirmi, e mi diede, ne ero consapevole, un'aria furtiva e colpevole quando le passai davanti sulla scala scendendo per la colazione. In realtà mi rendevo così penosamente conto di essere più giovane di quanto desiderassi, che per qualche tempo non potei risolvermi in alcun modo ad affrontarla nelle ignobili circostanze del caso; e, sentendola spazzare laggiù, rimasi a spiare dalla finestra Re Carlo a cavallo, circondato da un brulichìo di carrozze da nolo con un'aria che era tutto fuorché regale avvolto com'era da una pioggerella fitta e da una nebbia bruno-scura; finché il cameriere mi avvertì che il signore mi stava aspettando. Steerforth non mi aspettava nella sala del caffè, ma in un tranquillo salotto privato, con tende rosse e tappeti turchi, dove ardeva un fuoco brillante e una squisita colazione calda era preparata su di un tavolino coperto da una linda tovaglia. Una gaia miniatura della stanza, del fuoco, della colazione, di Steerforth e di tutto, brillava nel piccolo specchio rotondo appeso sopra la credenza. Dapprima mi sentii alquanto intimidito, perché Steerforth era così padrone di sé, così elegante, così superiore a me sotto tutti gli aspetti (compresa l'età); ma la sua disinvolta protezione mise presto a posto tutto, e io mi trovai come a casa mia. Non mi saziavo di ammirare il cambiamento che egli aveva portato al Croce d'Oro, né di confrontare lo stato di triste abbandono in cui ero il giorno prima con gli agi e i piaceri di quella mattina. Quanto alla familiarità del cameriere, era scomparsa come se non fosse mai esistita. Ci serviva, per così dire, vestito di sacco e coperto di ceneri. «E adesso, Copperfield,» disse Steerforth quando fummo soli, «vorrei sapere che cosa fate, dove siete diretto e tutto ciò che vi riguarda. Vi considero come se foste una mia proprietà.» Ardente di gioia nel vedere che aveva ancora per me lo stesso interesse, gli raccontai come mia zia mi avesse proposto la piccola spedizione che stavo per affrontare e a che cosa tendeva. «Poiché non avete fretta,» disse Steerforth, «venite con me a casa mia, a Highgate, e restateci un paio di giorni. Vi troverete bene con mia madre - è un tantino vanitosa e monotona se parla di me, ma potrete perdonarglielo - e lei si troverà bene con voi.» «Vorrei esser sicuro di questo come voi siete così buono da crederlo,» risposi sorridendo. «Oh!» esclamò Steerforth, «tutti quelli che mi vogliono bene hanno su di lei dei diritti che vengono senz'altro riconosciuti.» «Allora penso che sarò un favorito,» dissi io. «Benissimo,» concluse Steerforth. «Venite e fatene la prova. Adesso andremo per un'ora o due a visitare i luoghi più importanti - è interessante poterli mostrare a un inesperto come voi, Copperfield - e poi partiremo per Highgate in diligenza.» Potevo appena capacitarmi che non si trattasse di un sogno e che presto non mi sarei svegliato al numero quarantaquattro per ritrovarmi ancora nel solitario scomparto della sala del caffè con il cameriere confidenziale. Dopo che ebbi scritto alla zia per dirle del fortunato incontro con il mio vecchio e ammirato compagno di scuola, e di avere accettato il suo invito, uscimmo in vettura da nolo e andammo a contemplare una veduta panoramica e alcuni altri luoghi notevoli, e visitammo il Museo, dove non potei fare a meno di osservare quante cose sapeva Steerforth su di un'infinita varietà di soggetti e quanto poco conto facesse delle sue cognizioni. «Prenderete una laurea importante all'università, Steerforth,» dissi, «se non l'avete già fatto; e avranno buone ragioni per essere fieri di voi.» «Prendere una laurea io?» esclamò Steerforth. «No certo, mia cara Pratolina... vi dispiace se vi chiamo Pratolina?» «Niente affatto,» risposi. «Proprio un bravo ragazzo! Mia cara Pratolina,» continuò Steerforth ridendo, «non ho il minimo desiderio né la minima intenzione di distinguermi in questo modo. Ho già fatto abbastanza per i miei propositi, e trovo di essere una compagnia già abbastanza noiosa per me stesso così come sono.» «Ma la fama...» cominciai. «Oh, romantica Pratolina!» esclamò Steerforth ridendo ancor più di cuore. «Perché dovrei darmi pena affinché un branco di teste di legno mi guardi a bocca aperta levando le braccia? Lo facciano per qualche altro. Avrà tutta la fama che vuole e buon pro' gli faccia.» Ero mortificato di quell'errore e fui lieto di cambiare argomento. Per fortuna non era difficile farlo, perché Steerforth poteva sempre passare da un soggetto a un altro con una noncuranza e una levità sue proprie. La nostra visita alla città fu seguita dalla colazione, e la breve giornata invernale fluì via così in fretta che era ormai buio quando la diligenza si fermò con noi davanti a un'antica casa di mattoni a Highgate, sulla sommità del colle. Un'anziana signora, sebbene non molto avanzata negli anni, con un portamento altero e un bel volto era sulla porta quando noi scendemmo; e, salutando Steerforth come «Il mio carissimo James,» lo strinse fra le braccia. A questa signora egli mi presentò come a sua madre, ed ella mi diede un solenne benvenuto. Era una casa signorile di vecchio stile, molto tranquilla e ordinata. Dalle finestre della mia stanza vedevo tutta Londra distesa nella lontananza come un vasto vapore, con alcune luci che occhieggiavano qua e là attraverso di esso. Ebbi appena il tempo, nel vestirmi, di dare uno sguardo ai solidi mobili, ai ricami incorniciati (lavoro, supposi, della madre di Steerforth quando era ragazza), e ad alcuni ritratti a pastello di dame con i capelli incipriati e il busto alto, che apparivano e scomparivano sulle pareti al guizzare crepitante del fuoco appena acceso, quando fui chiamato per il pranzo. Nella sala da pranzo c'era una seconda signora, bassa ed esile di figura, bruna, e non molto piacente, ma con qualche apparenza di bellezza, che attrasse la mia attenzione: forse perché non mi aspettavo di vederla, forse perché mi trovai seduto davanti a lei, forse perché c'era realmente in lei qualche cosa di notevole. Aveva i capelli neri e neri occhi vivaci, era sottile e mostrava una cicatrice sul labbro. Era una vecchia cicatrice - dovrei piuttosto chiamarla una sutura perché non era scolorita e si era richiusa da anni - che le aveva un tempo tagliato la bocca scendendo verso il mento, ma adesso, attraverso la tavola, era appena visibile eccetto in alto, sul labbro superiore, di cui aveva alterato la forma. Conclusi fra me che doveva avere una trentina d'anni e che desiderava sposarsi. Era un po' sciupata, come una casa che sia rimasta per molto tempo da affittare; e tuttavia mostrava, come ho detto, un'apparenza di bellezza. La sua magrezza sembrava la conseguenza di un qualche fuoco divoratore che era in lei e che trovava sfogo nei suoi occhi spettrali. Mi fu presentata come signorina Dartle e tanto Steerforth che sua madre la chiamavano Rosa. Seppi che viveva lì e che da molto tempo faceva compagnia alla signora Steerforth. Ebbi l'impressione che non dicesse mai direttamente quello che voleva dire, ma che vi alludesse e che, in tal modo, vi si dilungasse molto più del necessario. Ad esempio, quando la signora Steerforth disse, più per scherzo che sul serio, di temere che suo figlio, all'università, conducesse solo una vita dissipata, la signorina Dartle intervenne così: «Oh, davvero? Voi sapete quanto sia ignorante e che faccio domande solo per essere informata, ma non avviene sempre così? Credevo che un tal genere di vita fosse generalmente presupposto... eh?» «È un'educazione che serve di base a una professione molto impegnativa, se intendete questo, Rosa,» rispose la signora Steerforth con una certa freddezza. «Oh! Sì! Questo è verissimo,» ribatté la signorina Dartle. «Ma non è così, però?... Vi prego di correggermi se sbaglio... Non è così, vero?» «Vero che cosa?» chiese la signora Steerforth. «Oh! Voi volete dire che non è così!» rispose la signorina Dartle. «Bene, sono proprio felice di saperlo! Adesso so quello che devo fare! Sono questi i vantaggi del far domande. Non permetterò più che la gente parli davanti a me di sperperi, di dissipazione e così via a proposito di questa vita, mai più.» «E farete bene,» disse la signora Steerforth. «Il tutore di mio figlio è una persona coscienziosa; e se non avessi un'implicita fiducia in mio figlio, avrei fiducia in lui.» «L'avreste?» riprese la signorina Dartle. «Oh! È coscienzioso, dite? Proprio coscienzioso?» «Certo, ne sono convinta,» disse la signora Steerforth. «Questo è molto bello!» esclamò la signorina Dartle. «Che sollievo! Proprio coscienzioso? Allora non è... ma naturalmente non può esserlo, se è veramente coscienzioso, Bene, da questo momento sarò perfettamente tranquilla su di lui. Non potete immaginare come l'idea che è veramente coscienzioso lo elevi nel mio giudizio!» In questo stesso modo la signorina Dartle insinuava tutte le sue opinioni e le sue obiezioni a tutto ciò che veniva detto e a cui lei si, opponesse: a volte, non potei nascondermelo, con grande efficacia, anche se contraddiceva lo stesso Steerforth. Ne avemmo un esempio prima che il pranzo fosse finito. Poiché la signora Steerforth mi parlava della mia intenzione di andare nel Suffolk, io mi arrischiai a dire quanto sarei stato lieto se Steerforth mi avesse solo accompagnato là; e, spiegandogli che andavo a vedere la mia vecchia governante e la famiglia del signor Peggotty, gli ricordai il pescatore che aveva visto in collegio. «Oh, quel simpatico tipo!» disse Steerforth. «Aveva con sé un figlio, mi pare.» «No, era suo nipote,» risposi; «un nipote, tuttavia, da lui adottato come figlio. Ha anche una graziosissima nipotina che ha adottato come figlia. Insomma, la sua casa - o meglio la sua barca, perché abita in una barca tirata in secco - è piena di gente che dipende dalla sua generosità e dalla sua bontà. Vi piacerebbe conoscere quella famiglia.» «Mi piacerebbe?» disse Steerforth. «Ebbene, penso di sì. Vedrò cosa si può fare. Meriterebbe la pena di un viaggio, (senza contare il piacere di venire con voi, Pratolina) vedere quel tipo di gente tutta insieme ed essere uno di loro.» Mi balzò il cuore a quella nuova speranza di felicità. Ma, riferendosi al tono con cui lui aveva detto «quel tipo di gente», la signorina Dartle, i cui occhi ardenti non ci avevano lasciati un istante, intervenne ancora. «Oh, davvero? Dite, dite. Lo sono proprio?» chiese. «Sono che cosa? E chi dovrebbe esserlo?» domandò Steerforth. «Quel tipo di gente... Sono proprio degli animali e degli zotici, degli esseri di un altro ordine? Vorrei tanto saperlo.» «Be', c'è una notevole differenza fra loro e noi,» disse Steerforth con indifferenza. «Non ci si può aspettare che abbiano la nostra stessa sensibilità. La loro delicatezza non può essere colpita o ferita molto facilmente. Sono meravigliosamente virtuosi, direi... alcuni, almeno, lo sostengono, e non voglio davvero contraddirli... ma non hanno una natura molto raffinata, e possono ringraziare il cielo che, al pari della loro rozza e dura pelle, non venga facilmente offesa.» «Davvero!» esclamò la signorina Dartle. «Bene, non so proprio che cosa avrebbe potuto farmi più piacere che sentir questo. È così consolante! È una tal gioia sapere che, quando soffrono, non lo sentono! A volte mi sono trovata molto a disagio nel pensare a quel tipo di gente; ma adesso bandirò decisamente ogni idea in proposito. Vivi e impara. Avevo i miei dubbi, lo confesso, ma ora tutto è chiaro. Non lo sapevo e adesso lo so, ecco i vantaggi del domandare... non è vero?» Credevo che Steerforth avesse detto per giuoco quello che aveva detto, o per aizzare la signorina Dartle; e mi aspettavo che me lo dichiarasse quando ella se ne fu andata e noi rimanemmo soli, seduti davanti al fuoco. Ma egli si limitò a domandarmi che cosa pensassi di lei. «È molto intelligente, no?» dissi. «Intelligente! Mette tutto sotto la mola,» mi rispose Steerforth, «e lo affila come ha affilato il suo volto e il suo aspetto in tutti questi anni. Si è consumata a forza di affilarsi. In lei non vi è che il taglio.» «Che razza di cicatrice ha sul labbro!» dissi. Steerforth chinò il volto e tacque per un momento. «Be', la verità è,» rispose, «che gliel'ho fatta io.» «Per disgrazia?» «No. Ero un bambino, lei mi fece arrabbiare e io le tirai un martello. Devo essere stato un angeluccio molto promettente.» Fui dolentissimo di aver toccato un argomento così penoso, ma ormai era fatta. «Da allora, come vedete, ne porta il segno,» continuò Steerforth; «e lo porterà fino alla tomba se mai riposerà in una tomba... sebbene non riesca a pensare che troverà mai riposo in qualche parte. Era la figlia senza madre di una specie di cugino di mio padre. Lui morì, e mia madre, che allora era già vedova, la portò qui perché le facesse compagnia. Ha un paio di migliaia di sterline di suo, e risparmia ogni anno gli interessi per aggiungerli al capitale. Eccovi la storia della signorina Rosa Dartle.» «E certo vi vuol bene come a un fratello,» dissi. «Hum!» rispose Steerforth guardando il fuoco. «Certi fratelli non sono molto amati; e certi amori... ma servitevi Copperfield! Berremo alle pratoline di campo in vostro onore, e ai gigli della vallata, che non lavorano né tessono, in onor mio... tanto maggior vergogna per me!» Un cupo sorriso che aveva offuscato i suoi lineamenti si dileguò mentre egli diceva allegramente così, e Steerforth tornò a essere quello che era, franco e suadente. Non potei trattenermi dal guardare la cicatrice con penoso interesse quando ci ritrovammo per il tè. Presto mi accorsi che era la parte più sensibile del volto di lei e che, quando ella impallidiva, quel segno si alterava per primo e diveniva una striscia scura e plumbea, estesa per tutta la sua lunghezza, come una traccia di inchiostro simpatico avvicinato al fuoco. Vi fu un piccolo contrasto fra lei e Steerforth circa un lancio di dadi a tavola reale, in cui, per un momento, ella mi parve travolta dall'ira; e allora vidi quel segno saltar fuori come l'antica scritta sulla parete. Non fu meraviglia per me accorgermi che la signora Steerforth era tutta dedita a suo figlio. Non sembrava capace di pensare o parlare di altro. Mi mostrò un suo ritratto da bambino, in un medaglione che conteneva un ricciolo dei suoi capelli di allora; mi mostrò il suo ritratto di com'era quando lo avevo conosciuto; e portava sul petto il suo ritratto attuale. Conservava in uno stipetto presso la sua poltrona accanto al fuoco, tutte le lettere che egli le aveva scritto, e me ne avrebbe lette alcune, che io avrei ascoltato con molto piacere, se egli non si fosse opposto persuadendola affettuosamente a lasciar andare. «Mio figlio mi dice che vi siete conosciuti dal signor Creakle,» mi disse la signora Steerforth parlando con me a un tavolo mentre essi giocavano a tavola reale a un altro. «In realtà ricordo che, a quel tempo, mi parlava di un allievo più giovane di lui che gli era piaciuto, ma, come potete immaginare, non mi era rimasto nella memoria il vostro nome.» «Vi assicuro, signora, che in quei giorni fu molto generoso e nobile con me,» dissi, «e io avevo proprio bisogno di un tale amico. Senza di lui sarei rimasto annientato.» «Lui è sempre generoso e nobile,» dichiarò con orgoglio la signora Steerforth. Dio sa se non sottoscrissi queste parole di tutto cuore. Ella lo comprese, perché l'imponenza dei suoi modi già si mitigava verso di me, eccetto quando parlava in lode di lui, perché allora aveva sempre un'aria altera. «In linea generale non era un collegio adatto per mio figlio,» mi disse; «al contrario; ma in quel tempo vi erano particolari circostanze che bisognava considerare, più importanti della scelta stessa. L'elevatezza dei sentimenti di mio figlio faceva desiderare che fosse affidato a qualcuno capace di sentire la sua superiorità e pronto a inchinarsi dinanzi a essa: e là trovammo la persona adatta.» Lo sapevo, conoscendo il tipo. E tuttavia non lo disprezzai di più per questo, trovai anzi in lui una qualità che in certo modo lo redimeva, se gli si poteva concedere qualche merito per non avere resistito a un essere irresistibile come Steerforth. «Laggiù, le grandi qualità di mio figlio si sentirono stimolate da un sentimento di volontaria emulazione e di consapevole orgoglio,» continuò a dire l'appassionata signora. «Si sarebbe ribellato a ogni costrizione; ma si trovò a essere il monarca del luogo e decise alteramente di essere degno della sua posizione. È tipico di lui.» Confermai con tutto il cuore e tutta l'anima che era tipico di lui. «Così mio figlio scelse, di sua volontà e senza alcun obbligo, la strada sulla quale può sempre, a suo piacere, superare ogni competitore,» proseguì lei. «Mio figlio mi dice, signor Copperfield, che gli eravate molto devoto e che, quando lo avete incontrato ieri, vi siete fatto riconoscere con lacrime di gioia. Dovrei fingere, se pretendessi di essere sorpresa dal fatto che mio figlio ispiri tali emozioni; ma non posso rimanere indifferente verso chi sia così sensibile al suo merito, e sono felicissima di vedervi qui: vi assicuro che egli prova per voi un'insolita amicizia e che potete fare affidamento sulla sua protezione.» La signorina Dartle giocava a tavola reale con l'impegno con cui faceva tutto. Se l'avessi vista per la prima volta al tavoliere, avrei pensato che la sua figura si fosse assottigliata e gli occhi ingranditi solo per quel giuoco e nient'altro. Ma mi sbaglierei di molto se credessi che perse una sola parola di questo colloquio o mi abbandonò con gli occhi un istante mentre ascoltavo con gran diletto e, onorato dalla confidenza della signora Steerforth, mi sentivo più adulto che non mi fossi sentito da quando avevo lasciato Canterbury. La sera era ormai finita e aveva fatto la sua comparsa un vassoio con caraffe e bicchieri, quando Steerforth, presso il fuoco, mi promise che avrebbe pensato seriamente a venire in campagna con me. Non c'era furia, disse: avevamo tempo una settimana; e sua madre lo confermò con ospitale cortesia. Parlando con me, gli capitò più volte di chiamarmi Pratolina, cosa che fece nuovamente intervenire la signorina Dartle. «Ma realmente, signor Copperfield,» chiese, «è un soprannome, questo? E perché ve lo dà? È forse... eh?... perché vi considera giovane e innocente? Io sono così sciocca in queste cose.» Arrossii rispondendo che credevo fosse così. «Oh!» esclamò la signorina Dartle. «Sono proprio felice di saperlo. Domando per essere informata, e sono felice di saperlo. Vi considera giovane e innocente; e così siete suo amico. Bene, questo è proprio bello!» Andò a letto subito dopo e anche la signora Steerforth si ritirò. Steerforth e io, dopo avere indugiato una mezz'ora accanto al fuoco parlando di Traddles e di tutti gli altri del vecchio Collegio Salem, salimmo insieme al piano di sopra. La stanza di Steerforth era attigua alla mia, ed entrai per vederla. Era un modello di comodità, piena di poltrone, di cuscini e di posapiedi ricamati dalle mani di sua madre: non mancava nulla che potesse servire a renderla completa. E da ultimo il bel volto di lei contemplava il suo diletto da un ritratto appeso alla parete, come se ella avesse caro che la sua immagine vegliasse sul sonno del figlio. Trovai nella mia stanza un fuoco ancora vivace e le tende tirate davanti alle finestre e attorno al letto, che le davano un aspetto molto confortevole. Mi sedetti in una gran poltrona presso il fuoco per meditare sulla mia felicità; e già da qualche tempo mi ero goduto la contemplazione della fiamma, quando scorsi un ritratto della signorina Dartle che mi volgeva uno sguardo ardente di sopra la mensola del caminetto. Era di una somiglianza impressionante e, fatalmente, aveva un non meno impressionante sguardo. Il pittore aveva trascurato la cicatrice, ma io la misi al suo posto; ed eccola lì, che compariva e scompariva, ora limitata al labbro superiore, come l'avevo vista a pranzo, ora evidente per tutta l'estensione della ferita inflitta dal martello, come l'avevo vista nei suoi momenti di eccitazione. Mi domandai irritato perché non avevano messo quel ritratto in qualche altra parte invece di collocarmelo davanti. Per liberarmi di lei, mi spogliai in fretta, spensi la candela e andai a letto. Ma, nell'addormentarmi, non potei dimenticare che lei era ancora lì, a guardarmi: «È proprio così? Io desidero sapere»; e, quando mi svegliai a notte alta, mi accorsi che, in sogno, non avevo fatto che chiedere inquieto a ogni sorta di gente se era proprio così o no... senza sapere a che cosa mi riferissi. XXI • LA PICCOLA EMILY Vi era un domestico, in quella casa, un uomo che, come seppi, era di solito con Steerforth ed era entrato al suo servizio all'Università, il quale, nell'apparenza, era un modello di rispettabilità. Credo che non sia mai esistito un uomo della sua condizione con un aspetto più rispettabile. Era taciturno, col passo leggero, dai modi quanto mai tranquilli, deferente, scrupoloso, sempre sottomano quando era cercato e sempre lontano quando non si aveva bisogno di lui; ma ciò che soprattutto lo rendeva degno di considerazione era la sua rispettabilità. Il suo volto non era mobile; aveva il collo piuttosto rigido, la testa piuttosto stretta e liscia con capelli corti che gli aderivano alle tempie, un parlare sommesso con una particolare abitudine di sibilare la lettera S così nettamente che sembrava usarla più spesso degli altri mortali; ma ogni peculiarità che aveva, egli la rendeva rispettabile. Se il suo naso fosse stato capovolto, avrebbe reso rispettabile anche quello, si circondava di un'atmosfera di rispettabilità e vi camminava sicuro frammezzo. Sarebbe stato quasi impossibile sospettarlo di qualche cosa di male tanto era completamente rispettabile. Nessuno poteva pensare a mettergli addosso una livrea, tanto elevata era la sua rispettabilità. Imporgli un compito mortificante sarebbe stato infliggere un insulto gratuito ai sentimenti de! più rispettabile degli uomini. E mi accorsi che le domestiche di casa ne erano così consapevoli per intuito, che si sobbarcavano regolarmente loro stesse di queste fatiche, in genere mentre lui leggeva il giornale accanto al fuoco della dispensa. Non avevo mai visto un uomo così controllato. Ma anche in questo, come in tutto, non faceva che apparire ancor più rispettabile. Perfino il fatto che nessuno conosceva il suo nome di battesimo sembrava far parte della sua rispettabilità. Nulla si poteva obiettare riguardo al suo cognome, Littimer, sotto il quale era conosciuto. Un, Peter avrebbe potuto essere impiccato, o un Toni deportato; ma Littimer era perfettamente rispettabile. Suppongo che questo dipendesse dalla veneranda natura della rispettabilità in astratto, ma mi sentivo particolarmente giovane in presenza di quest'uomo. Quanti anni avesse lui, non riuscivo a indovinarlo, e anche questo tornava a suo credito nello stesso senso: perché nella calma olimpica della rispettabilità poteva avere cinquant'anni come trenta. Littimer fu nella mia stanza, il mattino, prima che mi fossi alzato per portarmi la mortificante acqua per la barba e rassettarmi gli abiti. Quando tirai le cortine e guardai fuori del letto, lo vidi, in un diffuso clima di rispettabilità, insensibile al vento orientale del gennaio, senza nemmeno emettere il fiato opaco nell'aria fredda, intento a disporre le mie scarpe a destra e a sinistra, come nella prima figura di danza e a soffiar via i granelli di polvere dalla mia giacca mentre la metteva giù come un neonato. Gli diedi il buon giorno e gli chiesi che ora era. Egli trasse di tasca il più rispettabile orologio da caccia che avessi mai visto e, fermando col pollice il coperchio a molla, perché non si aprisse del tutto, guardò il quadrante come se stesse consultando un'ostrica profetica, lo richiuse e disse che, col mio permesso, erano le otto e mezzo. «Il signor Steerforth sarà lieto di sapere come avete riposato, signore.» «Grazie,» dissi, «benissimo. E il signor Steerforth, sta bene?» «Grazie, signore; il signor Steerforth sta abbastanza bene.» Un'altra delle sue caratteristiche: nessun uso di superlativi. Sempre una calma e fredda via di mezzo. «Vi è qualche altra cosa che possa aver l'onore di fare per voi, signore? La campana di avviso suonerà alle nove; la famiglia fa colazione alle nove e mezzo.» «Niente altro, grazie.» «Grazie a voi, signore, prego»; e con queste parole, e con un piccolo inchino della testa nel passare accanto al letto, quasi scusandosi per avermi corretto, se ne andò, chiudendo la porta con la stessa delicatezza che se fossi caduto in quel momento in un dolce sonno dal quale dipendesse la mia vita. Ogni mattina tenemmo esattamente questa conversazione: non una parola di più né una di meno; e tuttavia, invariabilmente, per quanto potessi essermi elevato al di sopra di me stesso la sera precedente, o avvicinato a un'età più matura grazie alla compagnia di Steerforth, o alla confidenza della signora Steerforth, o alla conversazione della signorina Dartle, in presenza di quest'uomo rispettabilissimo io, come cantano i nostri poeti minori, «tornavo un fanciullo». Ci trovò dei cavalli; e Steerforth, che conosceva tutto, mi diede lezioni di equitazione. Ci procurò dei fioretti, e Steerforth mi diede lezioni di scherma; dei guanti, e io cominciai, sotto lo stesso maestro, a imparare il pugilato. Non mi dava alcun turbamento il fatto che Steerforth mi trovasse un novellino in questi esercizi, ma mi era insopportabile l'idea di mostrare la mia scarsa abilità davanti al rispettabile Littimer. Non avevo ragione di credere che Littimer conoscesse, lui stesso, queste arti; non mi lasciò mai supporre qualche cosa del genere nemmeno con la vibrazione di urla delle sue rispettabili ciglia; tuttavia, ogni volta che era presente ai nostri esercizi, io mi sentivo il più immaturo e inesperto dei mortali. Mi soffermo particolarmente su quest'uomo perché mi fece una particolare impressione in quel tempo e a causa di quello che avvenne in seguito. La settimana passò nel modo più piacevole. Passò rapida, come si può immaginare, per una persona in estasi come io ero; e tuttavia mi offrì tante occasioni per conoscere meglio Steerforth e ammirarlo ancor più sotto infiniti rispetti, che, al suo termine, mi sembrava di essere rimasto con lui per un tempo molto più lungo. Un suo certo modo elegante di trattarmi come se fossi un giocattolo era per me più gradito di qualsiasi altro comportamento che avesse adottato. Mi ricordava i nostri antichi rapporti, mi sembrava il loro naturale proseguimento, mi mostrava che non era cambiato, mi liberava da ogni disagio che avrei potuto sentire nel confrontare i miei meriti con i suoi e nel misurare i miei diritti alla sua amicizia su di un piano di eguaglianza; soprattutto era un comportamento familiare, spontaneo, affettuoso che egli non aveva con alcun altro. Come, in collegio, mi aveva trattato diversamente dagli altri ragazzi, mi avrebbe trattato nella vita, pensavo con gioia, in modo diverso dagli altri suoi amici. Ero sicuro di trovarmi più di ogni altro vicino al suo cuore, e il mio cuore ardeva di devozione per lui. Decise di venire con me in campagna, e giunse il giorno della nostra partenza. Dapprima era stato in dubbio se portare o no Littimer con sé, ma decise di lasciarlo a casa. La rispettabile creatura, contenta del suo destino quale che fosse, sistemò le nostre valige sul carrozzino che doveva portarci a Londra come se avessero dovuto sfidare l'urto dei secoli, e ricevette con perfetta tranquillità la mancia che gli offrii con tutta modestia. Dicemmo addio alla signora Steerforth e alla signorina Dartle con molti ringraziamenti da parte mia e molta affabilità da parte della devota madre. L'ultima cosa che vidi fu l'occhio sereno di Littimer, colmo, mi parve, della silenziosa convinzione che io fossi davvero molto giovane. Quello che sentii nel ritornare così felicemente ai vecchi luoghi familiari, non tenterò di descriverlo. Viaggiammo con la diligenza postale. Mi stava tanto a cuore, ricordo, l'onore di Yarmouth, che, quando Steerforth disse, mentre attraversavamo le strade strette e buie verso la locanda, che, per quanto vedeva, era un buon buco bizzarro e fuori mano, ne fui molto compiaciuto. Andammo a letto appena arrivati (notai un paio di scarpe e di ghette sporche che ricollegai al mio vecchio amico il Delfino, nel passare davanti a quella porta) e facemmo colazione il mattino sul tardi. Steerforth, che era in gran forma, era andato gironzolando per la spiaggia prima che mi alzassi, e aveva fatto conoscenza, mi disse, con metà dei pescatori del luogo. Inoltre aveva visto in distanza quella che era sicuro fosse la casa del signor Peggotty, col fumo che usciva dal camino; e gli era venuta una gran tentazione, mi confidò, di entrarvi e giurare di essere me stesso cresciuto in modo da non riconoscersi. «Quando pensate di presentarmi là, Pratolina?» chiese. «Sono a vostra disposizione. Fate voi i programmi.» «Be', pensavo che stasera sarebbe stato il momento opportuno, Steerforth, quando sono tutti seduti intorno al fuoco. È un luogo così curioso e vorrei che lo vedeste nella sua intimità.» «D'accordo!» rispose Steerforth. «Vada per stasera.» «Non darò loro alcuna notizia della nostra presenza, sapete?» dissi felice. «Dobbiamo coglierli di sorpresa.» «Naturalmente!» disse Steerforth. «Se non li cogliamo di sorpresa non c'è divertimento. Dobbiamo conoscere gli indigeni nelle loro condizioni primordiali.» «Sebbene siano quel tipo di gente che avete detto,» ribattei. «Ahah! Come? Vi ricordate le mie schermaglie con Rosa?» esclamò con un guizzo negli occhi. «Al diavolo quella ragazza, mi fa quasi paura. Per me è come un folletto. Ma non pensiamo a lei. Adesso che cosa avete intenzione di fare? Penso che vorrete far visita alla vostra governante.» «Be', sì,» dissi. «Devo veder Peggotty prima di tutti.» «Bene,» rispose Steerforth guardando l'orologio. «Potrei lasciarvi e venirvi a chiamare fra un paio d'ore. Vi basta?» Risposi ridendo che avrei potuto sbrigarmela entro quel tempo, ma che doveva venire anche lui perché si sarebbe accorto che la sua fama lo aveva preceduto e che era diventato un grande personaggio quasi come me. «Verrò dovunque vi piaccia,» disse Steerforth, «e farò tutto quello che volete. Ditemi dove devo andare e fra due ore mi presenterò in qualsiasi aspetto vi sarà gradito, sentimentale o comico.» Gli diedi istruzioni particolareggiate per trovare la casa del signor Barkis, corriere per Blunderstone e altri luoghi; e, fatto questo accordo, me ne uscii da solo. V'era un'aria vibrata e tonificante; il terreno era asciutto, il mare increspato e limpido; il sole diffondeva luce in abbondanza, se non molto calore; e tutto era fresco e vivace. Io stesso ero così fresco e vivace, per il piacere di essere lì, che avrei fermato la gente per la strada e stretto la mano a tutti. Le strade, naturalmente, mi apparivano strette. Credo che avvenga sempre così quando torniamo nelle vie che abbiamo visto solo da bambini. Ma non avevo dimenticato nulla di esse, né vi trovai nulla di mutato finché giunsi al negozio del signor Omer. Adesso al posto di OMER era scritto OMER E JORAM; ma l'iscrizione TESSUTI, SARTORIA, MERCERIA, ARREDI FUNEBRI ECC. era rimasta come allora. I miei passi parvero tendere così naturalmente alla porta del negozio, dopo che ebbi letto queste parole dall'altra parte della strada, che attraversai e guardai dentro. In fondo al locale v'era una graziosa donna che faceva ballonzolare un piccolo fra le sue braccia mentre un altro marmocchio le si aggrappava al grembiule. Non ebbi difficoltà a ravvisare in loro Minnie e i suoi bambini. La porta a vetri del salotto era chiusa; ma nel laboratorio al di là del cortile potei udire debolmente il vecchio ritmo del martello, come se non si fosse mai fermato. «Il signor Omer è in casa?» dissi entrando. «Se vi è, sarei lieto di vederlo un momento.» «Oh sì, signore, è in casa,» rispose Minnie; «con questo tempo, la sua asma non gli permette di uscire. Joe, chiama il nonno!» Il marmocchietto che le tirava il grembiule diede uno strillo così gagliardo che si vergognò lui stesso di tanto strepito e nascose il volto nella gonna di lei con sua grande ammirazione. Udii avvicinarsi un greve incalzare di sbuffi e di ansiti, e presto il signor Omer, più affannato di un tempo, ma non molto più vecchio, mi fu davanti. «Servo vostro, signore,» disse il signor Omer. «Che cosa posso fare per voi?» «Potete stringermi la mano, signor Omer, se volete,» risposi tendendogli la mia. «Siete stato molto buono con me, un tempo, e temo di non avervi dimostrato allora la mia riconoscenza.» «Non mi avete mostrato... ?» replicò il vecchio. «Sono lieto di udirlo, ma non ricordo quando. Siete sicuro che fossi io?» «Sicurissimo.» «Penso che la mia memoria si sia accorciata come il mio fiato,» disse il signor Omer guardandomi e scuotendo la testa; «perché non mi ricordo proprio di voi.» «Non vi ricordate di essermi venuto a prendere alla diligenza e di avermi fatto fare colazione qui, e che poi andammo in calesse insieme a Blunderstone: voi, io, la signora Joram e anche il signor Joram... che allora non era suo marito?» «Diamine, Dio mi benedica!» esclamò il signor Omer dopo avere avuto un accesso di tosse per la sorpresa, «Non ditemelo! Minnie, cara, ricordi? Sicuro, santo cielo; la defunta era una signora, mi sembra.» «Mia madre,» risposi. «Cer... ta... mente,» continuò il signor Omer toccandomi il panciotto con l'indice, «e vi era anche un piccolino! Erano due defunti. Il piccolo fu composto con l'altra salma. E fu a Blunderstone, naturalmente. Santo cielo! E come siete stato per tutto questo tempo?» Benissimo, lo ringraziai, come speravo fosse stato di lui. «Oh, non ho da lamentarmi, sapete,» disse il signor Omer. «Mi accorgo che mi sta accorciando il fiato, ma quello, quando la gente invecchia, è difficile che si allunghi. Lo prendo come viene e mi arrangio. È il miglior modo, no?» Il signor Omer tossì ancora a causa di una risata, e fu aiutato a riprendersi dalla figlia, che adesso ci era vicina facendo ballonzolare sul banco il figlio più piccolo. «Santo cielo!» tornò a esclamare il signor Omer. «Sicuro, due capi! E proprio durante quella gita, se volete credermi, fu fissato il giorno del matrimonio di Minnie e Joram. ‹Stabilitelo, signore,› dice Joram. ‹Sì, papà, fissalo,› dice Minnie! E adesso è entrato nell'azienda. E guardate qui! Il più piccolo!» Minnie rise e si lisciò i capelli raccolti sulle tempie, mentre suo padre metteva una delle sue grasse dita nella mano del piccino che lei faceva ballare sul banco. «Due capi, naturalmente!» ripeté il signor Omer assentendo con la testa al ricordo. «Pro...prio così! E in questo stesso momento Joram ne sta preparando una grigia con chiodi d'argento che non arriva nemmeno a questa misura» - la misura del piccolo che ballava sul banco - «ci mancano due buoni pollici. Prendete qualche cosa?» Lo ringraziai declinando l'offerta. «Guardiamo un po',» disse il signor Omer. «La moglie del corriere Barkis... la sorella del barcaiolo Peggotty... aveva qualche cosa a che fare con la vostra famiglia? Era là a servizio, sicuro.» La mia risposta affermativa gli diede una grande soddisfazione. «Credo che il mio fiato tornerà ad allungarsi, visto che la mia memoria si allunga tanto,» disse il signor Omer. «Bene, signore, abbiamo qui una sua giovane parente, impiegata da noi, che ha un gusto eccezionale in fatto di abbigliamento... vi assicuro che non credo che ci sia in tutta l'Inghilterra una duchessa capace di competere con lei.» «La piccola Emily?» chiesi involontariamente. «Emily si chiama,» rispose il signor Omer, «ed è anche piccola. Ma se volete credermi, ha un tal visetto che metà delle donne di questa città sono furiose contro di lei.» «Che sciocchezze, papà 1» esclamò Minnie. «Cara,» disse il signor Omer, «non pretendo che lo sia anche tu.» Poi, ammiccandomi, «ma dico che metà delle donne di Yarmouth - ah! e di cinque miglia intorno - sono furiose contro quella ragazza.» «Allora avrebbe dovuto stare più al suo posto, papà,» disse Minnie, «e non dare alle donne motivi per parlare di lei; allora non avrebbero potuto farlo.» «Non avrebbero potuto farlo!» ribatté il signor Omer. «Non avrebbero potuto farlo! È così che conosci la vita? Che cosa c'è che una donna non possa fare e non faccia... specialmente nei riguardi della bellezza di un'altra donna?» Credetti realmente che ormai fosse finita per il signor Omer quando ebbe pronunciato questa pungente facezia. Ebbe un tale accesso di tosse e il suo respiro eluse con tanta ostinazione ogni suo tentativo per dominarlo, che proprio mi aspettavo di vedere la sua testa sprofondare dietro il banco e i suoi calzoncini neri con gli scoloriti ciuffetti di nastri alle ginocchia venir su sussultando in una estrema e inutile lotta. Alla fine, comunque, si riprese per quanto continuasse ad ansare faticosamente, ed era così esausto che dovette sedersi sullo sgabello della scrivania. «Vedete,» disse asciugandosi la fronte e respirando a fatica, «quella ragazza non si è fatta molte compagne, qui, e non si è legata in particolare né a semplici conoscenze né ad amici, per non parlare di innamorati. Di conseguenza si è diffusa la maligna diceria che Emily miri a diventare una signora. A mio parere questa voce è cominciata a circolare soprattutto perché, a scuola, era solita dire che, se fosse stata una signora, le sarebbe piaciuto fare questo e quello per suo zio - capite? - e comprargli un mucchio di belle cose.» «Vi assicuro, signor Omer, che lo ha detto anche a me,» mi affrettai a rispondergli, «quando eravamo bambini.» Il signor Omer assentì col capo e si strofinò il mento. «Proprio così. E poi, vedete, con quasi nulla riusciva a vestirsi meglio di quanto facesse la maggior parte delle altre con tutte le loro possibilità, e questo rese la situazione ancora più ingrata. Inoltre era quello che si può chiamare una ragazza capricciosa - o addirittura quello che chiamerei una ragazza capricciosa anch'io,» disse il signor Omer; «non sapeva mai quello che voleva, era un po' viziata, e dapprima non sapeva controllarsi bene. Non si è potuto mai dire nulla più di questo, su di lei, non è vero, Minnie?» «No, papà,» rispose la signora Joram. «Credo che questo sia il peggio che si possa dire.» «Così, quando trovò un'occupazione,» continuò il signor Omer, «come compagnia di una vecchia signora bisbetica, non andarono molto d'accordo e lei non ci si fermò. Infine venne qui come apprendista per tre anni. Ne sono quasi passati due, ed è stata una brava ragazza come sempre. Ne vale sei! Minnie, non è vero che ne vale sei?» «Sì, papà,» rispose Minnie. «Non si dirà mai che non riconosca i suoi meriti.» «Benissimo,» disse il signor Omer. «È giusto. E così, mio giovane signore,» aggiunse dopo essersi grattato ancora il mento per qualche istante, «non dovete credere che abbia la lingua lunga quanto corto il fiato, e penso che sia tutto qui.» Poiché, parlando di Emily, avevano abbassato la voce, non dubitai che fosse vicina. E, avendo chiesto se era così, il signor Omer assentì e accennò alla porta del salotto. Alla mia immediata domanda se potevo dare un'occhiata mi fu risposto con un franco permesso; e, guardando attraverso il vetro, la vidi seduta al suo lavoro. La vidi, bellissima creaturina, con i suoi limpidi occhi azzurri che avevano guardato nel mio cuore di fanciullo, ridenti nel volgersi a un altro bambino di Minnie, che le giocava accanto. V'era abbastanza ostinatezza nel suo volto luminoso da giustificare quello che avevo udito; vi si nascondeva molto del suo antico, capriccioso riserbo; ma non c'era nulla, nel suo bell'aspetto, ne sono sicuro, che non alludesse alla bontà e alla felicità e non promettesse un'esistenza buona e felice. Il ritmo al di là del cortile, che sembrava non essersi mai fermato - ahimè! era il ritmo che non si ferma mai - aveva continuato a battere pacatamente per tutto quel tempo. «Vorreste entrare,» chiese il signor Omer, «e parlarle? Entrate pure e parlate, signore! Consideratevi come a casa vostra!» In quel momento ero troppo intimidito per farlo: temevo di confonderla e temevo non meno di confondermi io stesso. Ma mi informai dell'ora in cui lasciava il lavoro, la sera, per farla coincidere con quella della nostra visita; e, congedatomi dal signor Omer, dalla sua graziosa figlia e dai bambini, me ne andai dalla mia cara vecchia Peggotty. Eccola lì, nella cucina rivestita di piastrelle, intenta a cuocere il pranzo! Quando battei alla porta, mi venne ad aprire e mi chiese che cosa desideravo. La guardai sorridendo, ma non ebbi un sorriso in risposta. Non avevo mai smesso di scriverle, ma dovevano essere passati sette anni dal nostro ultimo incontro. «È in casa il signor Barkis, signora?» dissi cercando di parlare bruscamente. «È in casa,» mi rispose Peggotty, «ma è a letto con i reumatismi.» «Non va più a Blunderstone adesso?» domandai. «Quando sta bene ci va,» rispose. «E voi non ci andate mai, signora Barkis?» Mi guardò più attentamente, e io notai un rapido movimento delle sue mani per unirsi. «Perché vorrei fare una domanda circa una casa di laggiù, una casa che chiamano - com'è? - la Cornacchia,» dissi. Fece un passo indietro e tese le mani in un modo indeciso e spaventato, come per mandarmi via. «Peggotty!» le gridai. Lei gridò: «Mio caro ragazzo!» e scoppiammo entrambi in lacrime stringendoci fra le braccia. A quali stravaganze si abbandonasse, a quali risa e a quali pianti, quale orgoglio mostrasse, quale gioia, quale dolore che colei di cui avrei potuto essere l'orgoglio e la gioia non potesse più stringermi in un abbraccio appassionato, non ho il cuore di dirlo. Non mi turbò alcuna apprensione che rispondere ai suoi sentimenti fosse cosa infantile. Oserei dire che in tutta la mia vita non ho mai riso né pianto - nemmeno con lei - più liberamente di quanto feci quel mattino. «Barkis sarà così felice,» disse Peggotty asciugandosi gli occhi col grembiule, «che gli farà meglio di tutte le pinte di lenimento che prende. Posso andare a dirgli che sei qui? Vuoi salire su a vederlo, mio caro?» Certo che volevo. Ma Peggotty non poteva uscire dalla stanza così facilmente come credeva perché ogni volta che giungeva alla porta e si voltava verso di me, tornava indietro per ridere o piangere ancora sulla mia spalla. Alla fine, per facilitare la cosa, salii su con lei; e, dopo aver atteso fuori un minuto, mentre ella diceva una parola di preparazione al signor Barkis, mi presentai al malato. Mi accolse col più vivo entusiasmo. Era troppo preso dai reumatismi per stringergli la mano, ma mi pregò di stringergli la nappa del suo berretto da notte, cosa che feci molto cordialmente. Quando mi fui seduto al fianco del letto, mi disse che gli faceva un gran bene aver l'impressione di scarrozzarmi ancora sulla strada di Blunderstone. Disteso sul letto, con la faccia in su, e tutto coperto, con quella sola eccezione, così da sembrare niente altro che una faccia - come un convenzionale cherubino - appariva la più strana cosa che avessi mai visto. «Che nome era quello che scrissi sul carro, signore?» chiese Barkis con un lieto sorriso reumatizzato. «Ah, signor Barkis, abbiamo fatto serie discussioni in proposito, non è vero?» «Sono stato pronto per parecchio tempo, eh?» disse ancora il signor Barkis. «Per parecchio tempo,» confermai io. «E non me ne rammarico,» concluse il signor Barkis. «Ricordate quello che mi avete detto un tempo circa le sue capacità di fare torte di mele di ogni genere e di badare a tutto in cucina?» «Certo che lo ricordo,» risposi. «Ed era vero,» disse il signor Barkis, «come è vera una rapa. Era vero,» continuò scuotendo il berretto da notte che era il suo unico mezzo per sfogare la sua enfasi, «come sono vere le tasse. E non c'è niente di più vero di quelle.» Il signor Barkis volse lo sguardo verso di me come per chiedere il mio assenso a questo risultato delle sue riflessioni di malato; e glielo diedi. «Non c'è niente di più vero di quelle,» ripeté il signor Barkis; «un pover'uomo come me si trova in testa queste cose, quando è sdraiato in un letto. E io sono proprio un pover'uomo, signore.» «Me ne dispiace, signor Barkis.» «Un uomo poverissimo, sono,» insisté il signor Barkis. E qui la sua destra venne lentamente e debolmente fuori dalle coperte e, con una presa incerta e indecisa, afferrò un bastone legato lento al fianco del letto. Dopo aver frugato qua e là con quello strumento, mentre il suo volto assumeva tutta una gamma di espressioni piene di apprensione, il signor Barkis riuscì a colpire con esso uno stipo la cui estremità mi era rimasta visibile per tutto quel tempo. E allora la faccia gli tornò tranquilla. «Abiti vecchi,» disse il signor Barkis. «Oh!» dissi io. «Vorrei che fossero quattrini, signore,» disse il signor Barkis. «Lo vorrei proprio anch'io,» risposi. «Ma non lo sono,» affermò il signor Barkis spalancando gli occhi per quanto poteva. Me ne dichiarai perfettamente convinto, e il signor Barkis, volgendo alla moglie uno sguardo addolcito, disse: «È la più utile e la migliore delle donne. C. P. Barkis. Ogni lode che si può fare a C. P. Barkis, lei la merita, e anche più! Cara, oggi preparerai un pranzo per l'ospite; qualche cosa di buono da mangiare e da bere, vero?» Volevo protestare contro questa non necessaria dimostrazione in mio onore, ma vidi che Peggotty, dall'altra parte del letto, era estremamente ansiosa che non lo facessi. Così rimasi zitto. «Ho qualche monetuccia, qui in qualche parte, cara,» disse il signor Barkis, «ma sono un po' stanco. Se tu e il signor David volete lasciarmi fare un sonnellino, quando mi sveglierò vedrò di trovarla.» Lasciammo la stanza per appagare la sua richiesta. Appena usciti dalla porta, Peggotty mi informò che il signor Barkis, essendo divenuto «un po' più trattenuto» del solito, ricorreva sempre a questo stratagemma prima di tirar fuori una sola moneta dal suo mucchio; e che sopportava indicibili strazi per sgattaiolare dal letto da solo e prenderla dalla cassa malaugurata. In realtà, poco dopo, lo udimmo emettere soffocati lamenti della più lugubre specie, perché questo procedimento da gazza gli metteva al tormento tutte le giunture; ma, sebbene gli occhi di Peggotty fossero pieni di compassione per lui, ella disse che questo generoso impulso gli avrebbe fatto bene, ed era meglio non impedirglielo. Così continuò a gemere finché non fu rientrato nel letto, soffrendo, non ne dubito, un vero martirio. Allora ci chiamò fingendo di essersi appena svegliato da un sonno ristoratore e tirando fuori una ghinea di sotto il cuscino. La soddisfazione tratta da questo felice inganno e dall'aver custodito l'impenetrabile segreto della sua cassa, sembravano essere per lui il sufficiente compenso di ogni tortura. Preparai Peggotty all'arrivo di Steerforth e non andò molto che giunse. Sono convinto che ella non faceva alcuna differenza tra il fatto che egli fosse stato un suo personale benefattore o un affettuoso amico mio, e che in ogni caso lo avrebbe accolto con la massima gratitudine e devozione. Ma il suo buon umore disinvolto e vivace, i suoi modi gioviali, il suo bell'aspetto, il suo dono naturale di adattarsi a tutto ciò che volesse e di cogliere direttamente, quando lo desiderava, il principale centro di interesse nel cuore di chiunque, la legarono totalmente a lui in cinque minuti. I suoi modi verso di me, da soli, l'avrebbero cattivata. Ma, grazie alla combinazione di tutti questi motivi, credo sinceramente che ella avesse una sorta di adorazione per lui prima ch'egli lasciasse la casa quella sera. Rimase a pranzo con me: se dicessi «volentieri», non esprimerei nemmeno a metà con quanta prontezza e allegria. Entrò nella stanza del signor Barkis come l'aria e la luce, illuminando e rinfrescando tutto come un'aura risanatrice. In quello che faceva non v'era alcuna imponenza, alcuno sforzo, alcuna consapevolezza; ma in tutto metteva una indescrivibile levità, un'apparente impossibilità di fare diversamente o di far meglio, che era così aggraziata, così naturale e gradevole, da sentirmene sopraffatto ancor adesso nel ricordo. Ce la passammo allegramente nel salottino, dove il Libro dei Martiri, non sfogliato dai miei vecchi tempi, fu aperto sulla scrivania come allora e io ne scorsi le terrificanti illustrazioni ricordando le antiche sensazioni che avevano risvegliato in me, ma senza provarle. Quando Peggotty parlò di quella che chiamava la mia stanza, e di come fosse pronta ad accogliermi per la notte, e della sua speranza che la occupassi, prima ancora che potessi dare uno sguardo esitante a Steerforth, egli aveva afferrato tutto. «Naturalmente,» disse. «Voi dormirete qui per tutto il vostro soggiorno e io dormirò in albergo.» «Ma portarvi così lontano e poi lasciarvi,» risposi, «mi sembra cattiva compagnia, Steerforth.» «In nome del cielo,» disse, «qual è il vostro naturale alloggio? E di fronte a questo che significa dir ‹sembra›?» Tutto fu subito sistemato. Mantenne fino all'ultimo le sue piacevoli qualità, finché uscimmo, alle otto, per recarci alla barca del signor Peggotty. Invero quelle qualità vennero sempre più brillantemente esibite via via che le ore passavano; perché pensai allora, e non ne dubito adesso, che la consapevolezza di avere avuto successo nella sua decisione di riuscire piacente, gli ispirava una nuova finezza di percezione e gliela rendeva, acuta qual era, ancora più facile. Se qualcuno mi avesse detto, allora, che tutto ciò era solo un brillante giuoco recitato per l'eccitazione del momento, per soddisfare il suo spirito esuberante, in uno spensierato amore di superiorità, in una pura prodiga e noncurante ricerca di impadronirsi di quello che per lui non aveva valore e sarebbe stato gettato via un attimo dopo, se qualcuno, dico, mi avesse detto quella sera una tale menzogna, mi domando in qual modo il mio sdegno si sarebbe sfogato ascoltandola! Probabilmente solo con un aumento, se fosse stato possibile, dei romantici sentimenti di fedeltà e di amicizia con i quali camminavo adesso al suo fianco sulle cupe sabbie invernali alla volta della vecchia barca, mentre il vento sibilava attorno a noi ancor più lugubre di quanto avesse sibilato gemendo la sera in cui avevo varcato per la prima volta la soglia del signor Peggotty. «È un luogo piuttosto selvaggio, Steerforth, non è vero?» «Abbastanza tetro nell'oscurità,» disse: «e il mare mugghia come se avesse fame di noi. La barca è la dove vedo una luce?» «Sì, è quella,» risposi. «È la stessa che ho visto stamane,» disse. «Penso di averla trovata direttamente per istinto.» Non dicemmo altro mentre ci avvicinavamo alla luce, e, presso la porta, trattenemmo il passo. Misi la mano sul saliscendi e, sussurrando a Steerforth di starmi vicino, entrai. Già dall'esterno si era udito un mormorio di voci e, al momento del nostro ingresso, risuonò un applauso: quest'ultimo rumore, con mia sorpresa, proveniva dalla generalmente sconsolata signora Gummidge. Ma la signora Gummidge non era là l'unica persona insolitamente eccitata. Il signor Peggotty, con il volto illuminato da una straordinaria soddisfazione, e ridendo con tutte le sue forze, spalancava le sue forti braccia come per invitare la piccola Emily a precipitarvisi; Ham, con in faccia un misto di ammirazione, esultanza e goffa timidezza che gli stava assai bene, teneva per mano la piccola Emily come se stesse presentandola al signor Peggotty; quanto alla piccola Emily, ritrosa e soffusa di rossore, ma felice della felicità del signor Peggotty, come dichiaravano i suoi occhi gioiosi, fu arrestata dal nostro ingresso (perché ci vide per prima) nell'atto di saltare via da Ham per annidarsi nell'abbraccio del signor Peggotty. Al primo sguardo che demmo a loro tutti e nel momento stesso in cui passammo dalla buia e fredda notte nella stanza calda e luminosa, essi erano atteggiati in questo modo: la signora Gummidge, nel fondo, batteva le mani come ammattita. Il quadretto fu così subitamente dissolto dal nostro arrivo, che si poteva dubitare fosse mai esistito. Io mi trovavo nel mezzo della famiglia attonita, a faccia a faccia con il signor Peggotty, e gli tendevo la mano quando Ham gridò: «Il signorino Davy! È il signorino Davy!» Un attimo dopo tutti ci stringevamo le mani l'un l'altro, e ci informavamo della nostra salute, e ci dicevamo a vicenda quanto fossimo felici dell'incontro, parlando tutti in una volta. Il signor Peggotty era così orgoglioso ed estasiato di vederci che non sapeva che dire né che fare, ma continuava a stringer la mano a me, e poi a Steerforth, e poi ancora a me, e poi si arruffava gli ispidi capelli sulla testa, e rideva con una tal gioia trionfante che era un piacere vederlo. «Perdinci, che due signori - signori adulti - venissero sotto il mio tetto proprio stasera fra tutte le sere della mia vita,» disse il signor Peggotty, «è una cosa che non mi è mai accaduta, ne sono assolutamente sicuro! Emily, cara, vieni qui! Vieni qui, folletto mio! Questi è l'amico del signorino Davy, cara! È il signore di cui hai sentito parlare, Emily! È venuto a trovarti col signorino Davy, nella più bella sera che ci sia mai stata o ci sarà nella vita di tuo zio; sia benedetto tutto questo e accidenti al resto!» Dopo aver dato fuori questo discorso tutto d'un fiato e con straordinaria vivacità e contentezza, il signor Peggotty, in estasi, mise le sue grosse mani sulle gote della nipote e, baciatala una dozzina di volte, se la strinse con una dolce e affettuosa fierezza sul largo petto e l'accarezzò come se la sua mano fosse stata quella di una dama. Poi la lasciò andare; e, mentre lei correva a rifugiarsi nella stanzetta in cui ero solito dormire un tempo, ci guardò tutti, accaldato e senza fiato per l'eccezionale soddisfazione. «Se voi due signori... signori adulti, adesso, e che signori..» cominciò il signor Peggotty. «Proprio così, proprio così,» gridò Ham. «Ben detto! Proprio così. Signorino Davy... signori adulti... proprio così!» «Se voi due signori, signori adulti,» riprese il signor Peggotty, «non saprete scusarmi di essere in questo stato quando avrete capito di che si tratta, vi chiederò perdono. Emily, cara!... Sa che sto per dirlo,» e qui la sua contentezza esplose ancora, «ed è scappata via. Volete essere così buona da badarle un minuto, mamma?» La signora Gummidge accennò di sì e scomparve. «Se questa non è,» riprese il signor Peggotty sedendosi fra noi accanto al fuoco, «la più bella sera della mia vita, voglio essere un gambero, e un gambero bollito per di più: meglio di così non posso dire. Questa piccola Emily, signore,» abbassò la voce rivolgendosi a Steerforth, «quella che avete visto arrossire qui proprio adesso...» Steerforth si limitò ad assentire; ma con una così compiaciuta espressione di interesse e di partecipazione ai sentimenti del signor Peggotty, che quest'ultimo gli rispose come se avesse parlato. «Sicuro,» disse il signor Peggotty. «Proprio quella, lei in persona. Grazie, signore.» Ham mi fece cenni di testa parecchie volte, come se avesse voluto dire la stessa cosa. «Questa nostra piccola Emily,» continuò il signor Peggotty, «è stata nella nostra casa, immagino (io sono un ignorante, ma questa è la mia opinione) quello che solo una creaturina dagli occhi luminosi può essere in una casa. Non è mia figlia; figli non ne ho mai avuti; ma non potrei amarla di più. Voi mi capite! Non potrei proprio!» «Vi capisco benissimo,» disse Steerforth. «Lo so che mi capite, signore,» rispose il signor Peggotty, «e grazie ancora. Il signorino Davy può ricordare come era; voi potete giudicare da solo come è; ma nessuno di voi può conoscere appieno quello che è stata e che è per il mio cuore. Io sono rozzo, signore,» continuò il signor Peggotty, «rozzo come un riccio di mare; ma credo che nessuno, eccetto forse una donna, può capire quello che è per me la piccola Emily. E, a dirla fra noi,» concluse abbassando ancor più la voce, «questa donna non si chiama certo signora Gummidge, sebbene lei abbia un mucchio di buone qualità.» Il signor Peggotty si arruffò ancora i capelli con entrambe le mani, come un ulteriore preparativo a quello che stava per dire, e proseguì con le mani sulle ginocchia. «C'era una certa persona che aveva conosciuto la nostra Emily fin dal tempo in cui suo padre annegò; che l'aveva vista sempre, da piccolina, da ragazzetta e da donna. Non è certo un gran personaggio, a vederlo,» disse il signor Peggotty, «un tipo come me... ruvido... con un mucchio di vento di mare addosso... e molto sale... ma, nell'insieme, un ragazzo onesto, con il cuore al punto giusto.» Mi parve di non aver mai visto sul volto di Ham un sorriso più largo di quello che ci rivolgeva adesso. «Che cosa va a fare questo benedetto cappellone incatramato,» esclamò il signor Peggotty con il volto radiante di gioia, «se non di perdere il cuore per la nostra piccola Emily? La segue dappertutto, diventa una specie di suo servitore, perde l'appetito e alla fine mi fa capire cosa c'è che non va. Ora, vedete, io stesso desideravo che la nostra piccola Emily si avviasse al matrimonio. Desideravo di vederla, per ogni evento, legalmente legata a un uomo onesto che avesse il diritto di difenderla. Io non so se mi resta molto da vivere o se morirò da un momento all'altro, ma so che se, una di queste notti, dovessi essere rovesciato da un colpo di vento nella rada di Yarmouth e dovessi vedere per l'ultima volta le luci della città sopra le ondate che mi vengono addosso, andrei a fondo più tranquillo pensando: ‹C'è qui a terra per la mia Emily, Dio la benedica, un uomo schietto come il ferro e, finché vive lui, alla mia Emily non capiterà alcun male.›» Il signor Peggotty, con profonda semplicità, agitò nell'aria la destra come per salutare per l'ultima volta le luci della città, e poi, scambiando un cenno con Ham, di cui aveva colto lo sguardo, continuò: «Be', io gli consiglio di parlare a Emily. È grande abbastanza, ma è più timido di un bambino, e non osa farlo. Così parlo io. ‹Come? Lui! dice Emily. ‹Lui, che ho conosciuto così da vicino per tanti anni e a cui voglio tanto bene. Oh, zio! Non potrò mai andare con lui. È un così bravo ragazzo!› Io le do un bacio e non le dico altro che: ‹Mia cara, tu hai il diritto di dir le cose come sono, devi scegliere da te, sei libera come un uccellino.› Poi vo da lui e dico: ‹Desideravo che fosse così ma non può essere. Voi, però, potete restare come eravate e quel che ti dico è: rimani con lei quello che eri, da uomo.› Lui mi dice, stringendomi la mano: ‹Farò così,› dice. E lo fece, da uomo onorato, per altri due anni, e a casa nostra tutto fu come prima.» Il volto del signor Peggotty, che aveva variato la sua espressione nei vari passaggi del racconto, riprese adesso a manifestare la gioia trionfante di prima, mentre lui posava una mano sul mio ginocchio e una su quello di Steerforth (dopo essersele inumidite entrambe per dar più forza al suo gesto) e divise fra noi il seguente discorso: «Tutto a un tratto, una sera - come potrebbe essere stasera - la piccola Emily torna dal suo lavoro, e lui con lei! Direte che questo non significa gran che. No, perché lui si prende cura di lei come un fratello, quando fa buio, e anche prima che faccia buio, in ogni momento. Ma questo cappellone incatramato le tiene stretta la mano e mi grida felice: ‹Guarda qui! Ecco la mia mogliettina!› E lei dice, metà ardita e metà timida, metà ridendo e metà piangendo: ‹Sì, zio! Se volete.› Se voglio?» esclamò il signor Peggotty dondolando il capo in estasi a quell'idea; «Signore Iddio! come se non avessi mai voluto altro! ‹Se volete, adesso sono più sicura, ci ho pensato meglio, e sarò per lui la miglior mogliettina che potrò, perché è un caro e buon ragazzo!› Allora la signora Gummidge si mette a batter le mani come a teatro e voi entrate. Ecco! la tragedia è finita!» concluse il signor Peggotty, «Voi entrate: è avvenuto in questo momento stesso; ed ecco qui l'uomo che la sposerà, appena lei avrà finito il suo apprendistato.» Ham barcollò, per quanto poté, sotto il colpo che il signor Peggotty gli diede nella sua gioia senza limiti come segno di confidenza e di amicizia; ma, sentendosi in dovere di dirci qualche cosa, con molti balbettii e grande difficoltà, disse: «Lei non era più alta di voi, signorino Davy... quando veniste qui la prima volta... e io pensavo a quello che sarebbe diventata. L'ho vista crescere... signori... come un fiore. Io darei la mia vita per lei... signorino Davy... Oh! gliela darei felice e contento! Lei per me è più... signori... che... Lei per me è tutto quello che posso desiderare, e più di quello che io mai... di quello che io mai possa dire. Io... l'amo veramente. Non c'è signore in tutta questa terra... e nemmeno che navighi sul mare... che possa amare la sua dama più di quanto io ami lei, anche se c'è molta gente comune... che saprebbe dir meglio... quello che prova.» Trovai commovente vedere un giovanottone gagliardo quale era adesso Ham, tremare sotto la violenza di ciò che sentiva per la graziosa creaturina che gli aveva conquistato il cuore. Trovavo che la semplice fiducia riposta in noi dal signor Peggotty e da lui era, di per se stessa, commovente. Mi sentivo profondamente scosso dalla vicenda. Quanto la mia emozione fosse influenzata dai ricordi della mia infanzia, non so. Non so se fossi venuto lì con qualche vagabonda fantasia di essere ancora innamorato della piccola Emily. So solo che tutto questo mi colmava di piacere; ma, dapprima, di un piacere ineffabilmente sensibile che ben poco avrebbe potuto mutare in pena. Di conseguenza; se fosse dipeso da me toccare con qualche perizia la corda in loro dominante, avrei fatto una figura molto misera. Ma dipese da Steerforth; ed egli lo fece con tale accortezza che, in pochi minuti, tutti noi ci sentivamo a nostro agio e felici quanto è possibile esserlo. «Signor Peggotty,» disse, «siete veramente un brav'uomo e meritate di essere sempre felice come lo siete stasera. Qua la mano! Ham, vi auguro ogni bene, ragazzo mio. Qua la mano anche voi! Pratolina, attizzate il fuoco e fatelo brillare! E, signor Peggotty, a meno che non riusciate a indurre la vostra gentile nipote a tornare (per la quale lascio libero questo posto nell'angolo), io me ne andrò. Un qualsiasi vuoto davanti al vostro focolare in una sera come questa - e un tal vuoto meno di ogni altro - non vorrei lasciarlo nemmeno per tutte le ricchezze delle India.» Così il signor Peggotty entrò nella mia vecchia stanza per prendere la piccola Emily. Dapprima ella non voleva venire, e allora entrò anche Ham. Poco dopo la portarono davanti al camino, molto confusa e intimidita; ma presto divenne più sicura nel sentire con quanta gentilezza e rispetto Steerforth le parlava; con quanta abilità evitava tutto ciò che potesse metterla in imbarazzo; come discuteva col signor Peggotty di barche, di navi, di maree e di pesca; come si rivolgeva a me per ricordare quella volta in cui aveva conosciuto il signor Peggotty al Collegio Salem; come apprezzava la barca e tutto ciò che conteneva; come tirava avanti disinvolto e lieve finché, a poco a poco, non ci portò tutti in un circolo magico nel quale chiacchieravamo all'unisono senza riserva. Emily, per vero, parlò poco per tutta la sera; ma guardava e ascoltava, animata in volto, ed era incantevole. Steerforth raccontò la storia di un terribile naufragio (che nacque dai suoi discorsi con il signor Peggotty), come se avesse dinanzi la scena in ogni particolare... e gli occhi della piccola Emily rimasero fissi su di lui per tutto il tempo, quasi che anche lei la vedesse. Come per sollevarci da questo, ci narrò poi una sua comica avventura non meno gaiamente che se la vicenda fosse stata nuova per lui come per noi... e la piccola Emily rise finché la barca riecheggiò quei suoni melodiosi, e tutti ridemmo (compreso Steerforth) in una irresistibile simpatia con ciò che era così piacevole e lieve. Indusse il signor Peggotty a cantare, o meglio a ruggire, «Quando i venti di tempesta soffiano, soffiano, soffiano»; e lui stesso cantò una canzone marinara in modo così dolce e patetico da farmi quasi fantasticare che il vento reale, scivolando lamentoso intorno alla casa e mormorando basso nel nostro intatto silenzio, fosse lì ad ascoltare. Quanto alla signora Gummidge, egli rianimò quella vittima dello sconforto con un successo mai ottenuto da alcun altro (così mi disse il signor Peggotty) dal tempo della morte del suo vecchio. Le lasciò così scarse possibilità di sentirsi infelice, che il giorno dopo lei stessa disse di credere di essere stata stregata. Non si prese però il monopolio dell'attenzione generale né della conversazione. Quando la piccola Emily si fece coraggio e mi parlò (sempre timidamente) dall'altra parte del camino, delle nostre antiche passeggiate lungo la baia per raccogliere sassolini e conchiglie, e quando le chiesi se ricordava quanto le fossi allora devoto, e quando entrambi ridemmo arrossendo nel rivolgere questi sguardi ai cari vecchi tempi che adesso apparivano così irreali, egli rimase silenzioso e attento a osservarci meditando. Ella sedeva, questa volta, e vi rimase per tutta la sera, sulla vecchia cassapanca nel vecchio cantuccio accanto al fuoco, con Ham accanto, nel punto in cui solevo sedermi io. Non riuscii a capire se fosse per il suo piccolo puntiglio di tormentare, o per un riserbo di fanciulla in nostra presenza, che rimase tutta addossata al muro, lontana da lui; ma notai che lo fece per tutta la sera. A quanto ricordo, era quasi mezzanotte quando prendemmo congedo. Avevamo cenato con qualche biscotto e del pesce secco, e Steerforth si era tratto di tasca una fiaschetta di gin olandese, che noi uomini (posso dire noi uomini, adesso, senza arrossire) avevamo vuotato. Ce ne andammo allegramente, e, mentre loro tutti erano aggruppati intorno alla porta per farci luce sulla strada quanto più potevano, vidi i dolci occhi azzurri della piccola Emily spiarci di dietro la spalla di Ham, e udii la sua voce raccomandarci di stare attenti a dove mettevamo il piede. «Un piccola bellezza molto attraente!» disse Steerforth prendendomi il braccio. «Be', è uno strano posto, loro sono strana gente ed è veramente una sensazione nuova incontrarli.» «E come siamo stati fortunati, per di più,» risposi, «nel trovarci a esser testimoni della loro felicità per il matrimonio progettato! Non ho mai visto della gente così felice. Che piacere vederli e partecipare alla loro onesta gioia, come abbiamo fatto.» «È un tipo un po' tonto per la ragazza, no?» disse Steerforth. Era stato così cordiale con lui e con loro tutti, che mi sentii colpito da questa risposta fredda e inattesa. Ma, volgendomi rapido verso di lui e vedendo un riso nei suoi occhi, dissi, molto sollevato: «Ah, Steerforth! Avete un bello scherzare sulla povera gente! Potete far schermaglie con la signorina Dartle o cercare di nascondermi le vostre simpatie burlandovene, ma io vi conosco. Quando vedo come li comprendete a fondo, quando vedo come potete squisitamente entrare nella felicità di un semplice pescatore come questo o assecondare l'affetto della mia vecchia governante, ho la certezza che non vi è gioia né dolore né emozione in questi umili, che possa restarvi indifferente. E io vi ammiro e vi amo per questo, Steerforth, cento volte di più.» Si fermò e, guardandomi in volto, disse: «Pratolina, credo che parliate sul serio e siate buono. Vorrei che lo fossimo tutti!» Un attimo dopo cantava allegramente la canzone del signor Peggotty mentre camminavamo di buon passo verso Yarmouth. XXII • VECCHIE SCENE E NUOVI PERSONAGGI Steerforth e io rimanemmo più di quindici giorni in quella parte del paese. Non ho bisogno di dire che stavamo molto insieme; ma ogni tanto ci separavamo per varie ore di seguito. Lui era un buon marinaio e io mediocrissimo; e quando lui andava sul mare col signor Peggotty, suo divertimento preferito, io in genere restavo a terra. Il fatto di essere alloggiato nella stanza di Peggotty mi poneva delle restrizioni che egli non aveva: perché, sapendo con quanta assiduità ella badasse al signor Barkis per tutto il giorno, cercavo di non far tardi la sera; mentre Steerforth, stando all'albergo, non doveva seguire altro che il proprio estro. Così avvenne che udii parlare di piccoli trattenimenti da lui dati ai pescatori nell'osteria frequentata dal signor Peggotty, «Il Buon Volere», dopo che io ero andato a letto, e di sue escursioni in barca che, vestito da pescatore, faceva durare per intere notti di luna, tornando con l'alta marea del mattino. Frattanto mi ero però reso conto che la sua natura inquieta e il suo spirito avventuroso si compiacevano di trovare uno sfogo nelle rudi fatiche e nelle intemperie come in qualsiasi altra eccitazione che si presentasse nuova per lui; così che nessuna di queste sue iniziative mi sorprese. Un altro motivo delle nostre saltuarie separazioni era il fatto che io avevo un naturale interesse nell'andare a Blunderstone e rivedere le vecchie scene familiari della mia infanzia, mentre Steerforth, ovviamente, dopo esserci stato una volta, poco si curò di tornarci. Di conseguenza, nei tre o quattro giorni che posso ricordare direttamente, dopo la colazione del mattino prendemmo ognuno la nostra via per ritrovarci solo sul tardi a pranzo. Non ho idea di come occupasse il suo tempo nell'intervallo, se non che sapevo vagamente che era molto popolare nel luogo e che aveva cento modi di divertirsi attivamente là dove un altro non ne avrebbe trovato uno solo. Da parte mia, la mia occupazione nei miei solitari pellegrinaggi consisteva nel ricordare ogni iarda della vecchia strada mentre la percorrevo e di frequentare i vecchi luoghi di cui mai mi stancavo. Mi aggiravo per essi come aveva fatto tante volte la mia memoria, e mi indugiavo là come vi si erano indugiati i miei giovanili pensieri quando ne ero stato lontano. La tomba sotto l'albero, dove giacevano entrambi i miei genitori - che, quando racchiudeva solo mio padre, avevo contemplato con così singolari sentimenti di compassione, e presso la quale avevo sostato pieno di desolazione quando era stata aperta per accogliere la mia bella mamma e il suo piccolo - la tomba che la fedele cura di Peggotty aveva sempre tenuto linda e trasformata in giardino, mi richiamava a passeggiarvi vicino per ore. Era un po' fuori del sentiero del cimitero, in un angolo tranquillo, non tanto appartata che non potessi leggere i nomi scolpiti sulla pietra mentre me ne andavo su e giù, sussultando al suono della campana della chiesa che batteva l'ora, perché mi sembrava una voce dell'aldilà. In quei momenti le mie riflessioni erano sempre associate a quello che sarei stato nella vita e alle cose importanti che vi avrei fatto. I miei passi non echeggiavano su alcun altro ritmo e vi rimanevano fedeli come se fossi tornato alla mia casa per costruire i miei castelli in aria al fianco di una madre ancor viva. Erano avvenuti grandi cambiamenti nella mia vecchia casa. I nidi a brandelli, abbandonati da tanto tempo dalle cornacchie, erano scomparsi, e gli alberi, sfoltiti e mozzi, non avevano più le forme che ricordavo. Il giardino si era inselvatichito e metà delle finestre della casa erano chiuse. Vi abitavano solo un povero infermo di mente e coloro che si occupavano di lui. Era sempre seduto alla mia finestrella, contemplando il cimitero; e io mi domandavo se i suoi vagabondi pensieri non seguissero a volte le fantasie che avevano occupata la mia mente nelle rosee mattine in cui spiavo fuori da quella stessa finestrella, in camicia da notte, e osservavo il gregge che brucava tranquillo nella luce del sole nascente. I nostri vecchi vicini, il signore e la signora Grayper, erano andati nel sud-America, e la pioggia si era aperta una via attraverso il tetto della loro casa vuota macchiando le mura esterne. Il signor Chillip si era risposato, con una moglie alta, ossuta, dal naso enorme; e avevano un bambinello avvizzito, con una gran testa che non riusciva a tenersi dritta e due occhi stanchi e sbarrati con i quali sembrava continuamente domandarsi perché mai fosse venuto al mondo. Con un singolare miscuglio di tristezza e di piacere io solevo indugiare sul luogo della mia nascita finché il rosso sole invernale mi avvertiva che era l'ora del ritorno. Ma, quando mi ero lasciato quella casa alle spalle, e specialmente quando Steerforth e io eravamo allegramente seduti a pranzo presso il fuoco ardente, era delizioso pensare di essere stato laggiù. E così pure, sebbene in modo più dolce, quando a sera tornavo alla mia linda stanzetta; e, sfogliando le pagine del libro dei coccodrilli (sempre lì, sopra un tavolino), ricordavo col cuore riconoscente quanto fossi fortunato di avere un amico come Steerforth, un'amica come Peggotty e un tal sostituto di ciò che avevo perso come la mia eccellente e generosa zia. La via più breve per Yarmouth, quando tornavo da queste lunghe escursioni, era un traghetto. Mi sbarcava sulla pianura fra la città e il mare, che potevo attraversare risparmiando il lungo giro della strada maestra. Poiché la casa del signor Peggotty era in questa piana, a nemmeno cento iarde dal mio sentiero, sempre la guardavo passando, Di solito Steerforth era lì ad aspettarmi e insieme ci avviavamo nell'aria, fredda e la nebbia sempre più densa verso le tremolanti luci della Città. Una buia sera, che feci più tardi del consueto - perché quel giorno avevo fatto la mia visita di addio a Blunderstone, vicini come ormai eravamo al ritorno - lo trovai, solo, nella casa del signor Peggotty, seduto pensosamente davanti al fuoco. Era così intento alle sue meditazioni che non si accorse affatto del mio arrivo. Ciò, in realtà, avrebbe potuto avvenire facilmente anche se fosse stato meno assorto, perché i passi cadevano senza rumore sul terreno sabbioso fuori casa; ma nemmeno il mio ingresso lo scosse. Ero vicino a lui e lo guardavo, e tuttavia, con la fronte aggrottata, egli rimaneva perduto nei suoi pensieri. Quando gli misi una mano sulla spalla, trasalì tanto da far trasalire anche me. «Mi venite addosso,» disse quasi iroso, «come un fantasma vendicatore.» «Dovevo annunciarvi la mia presenza in qualche modo,» risposi. «Vi ho forse fatto cadere dalle stelle?» «No,» disse, «no.» «Da qualche altra parte, allora,» continuai sedendomi accanto a lui. «Guardavo le figure nel fuoco,» rispose. «Ma così le distruggete per me,» dissi vedendolo attizzare bruscamente la fiamma con un legno ardente e trarne un nugolo di rosse scintille che salirono rapide su per il caminetto e si sparsero sibilando nell'aria. «Non le avreste vedute,» rispose. «Detesto quest'ora ibrida, che non è giorno né notte. Come avete fatto tardi! Dove siete stato?» «Sono andato a dar l'addio alla mia passeggiata consueta,» dissi. «E io sono rimasto seduto qui,» ribatté Steerforth guardandosi attorno, «a pensare che tutta quella gente che abbiamo trovato così felice la sera del nostro arrivo, potrebbe - a giudicare dall'aria squallida che ha adesso il luogo - essere dispersa, o morta, o travolta da non so quale sciagura. David, sa Dio come vorrei avere avuto un padre giudizioso in questi ultimi vent'anni!» «Mio caro Steerforth, che succede?» «Vorrei con tutta l'anima essere stato meglio guidato!» esclamò. «Vorrei con tutta l'anima sapermi guidare meglio!» V'era una così appassionata tristezza, nel suo tono, che ne rimasi sbigottito. Appariva diverso da sé più di quanto avessi mai creduto possibile. «Sarebbe meglio essere questo povero Peggotty, o quello zotico di suo nipote,» disse alzandosi e appoggiandosi corrucciato al caminetto, col volto verso il fuoco, «che essere quel che sono, cento volte più ricco e cento volte più colto, e tormentarmi come mi sono tormentato in questa barca del diavolo nell'ultima mezz'ora!» Rimasi così perplesso da questo mutamento avvenuto in lui, che dapprima non potei fare altro che osservarlo in silenzio mentre stava lì con la testa appoggiata sulla mano guardando cupamente il fuoco. Infine lo pregai, con tutto l'ardore che sentivo, di dirmi che cosa era venuto a contrariarlo in modo così insolito, e di lasciarmi almeno essere solidale con lui se non potevo sperare di dargli consiglio. Prima che avessi finito cominciò a ridere, con uno sforzo irritato, dapprima, ma poi con rinnovata gaiezza. «Zitto, non è nulla, Pratolina! nulla!» rispose. «Vi dissi nell'albergo di Londra che a volte sono una pesante compagnia per me stesso. In questo momento sono stato per me un incubo... devo anzi avere avuto un incubo, credo. In questi strani momenti di depressione mi tornano a mente fiabe infantili divenute irriconoscibili. Credo che stavo dandomi al diavolo col racconto del bambino cattivo che ‹disubbidiva sempre› e fu mangiato dai leoni: un modo particolarmente imponente di darsi ai cani, suppongo. Quelle che le vecchiette chiamano le ombre mi hanno strisciato addosso dalla testa ai piedi. Ho avuto paura di me stesso.» Non potete aver paura di altro, credo,» dissi. «Forse no, e tuttavia ho forse abbastanza da temere,» rispose. «Be', è passata! Non mi lascerò sfiancare ancora, David; ma vi dico ancora una volta, mio buon amico, che sarebbe stato bene per me (e anche per altri) se avessi avuto un padre risoluto e giudizioso!» Il suo volto era sempre pieno di espressione, ma non lo vidi mai esprimere una così cupa serietà come quando disse queste parole con lo sguardo chino sul fuoco. «Non parliamone più!» concluse, e fece il gesto di lanciare con la mano qualche cosa di leggero nell'aria. «‹Orsù, è passato e sono ancora un uomo.› come Macbeth. E adesso andiamo a pranzo! Almeno se (al pari di Macbeth) non ho interrotto il banchetto con un ammiratissimo disordine, mia cara Pratolina.» «Ma mi domando dove sono tutti gli altri!» dissi. «Dio solo lo sa,» rispose Steerforth. «Dopo essermi spinto fino al traghetto per cercarvi, sono venuto qui e ho trovato il luogo deserto. Questo mi ha portato a pensare e mi avete trovato che pensavo.» L'arrivo della signora Gummidge con un paniere spiegò come mai la casa era vuota. Era uscita in fretta per comprar qualche cosa di cui aveva bisogno prima che il signor Peggotty tornasse con la marea, e frattanto aveva lasciato la porta aperta temendo che Ham e la piccola Emily, per i quali era quella una sera di ritorno anticipato, giungessero a casa mentre lei era fuori. Steerforth, dopo aver sollevato alquanto il morale della signora Gummidge con un allegro saluto e un giocoso abbraccio, mi prese per la spalla e mi portò via in fretta. Aveva sollevato anche il suo proprio morale non meno di quello della signora Gummidge, perché aveva ripreso il solito tono e, mentre camminavamo, tenne una conversazione quanto mai vivace. «Così,» disse allegramente, «domattina lasciamo questa vita da bucanieri, no?» «Così abbiamo deciso,» risposi. «Come sapete, i nostri posti sulla diligenza sono già fissati.» «Sì, non c'è niente da fare, immagino,» disse Steerforth. «Ho quasi dimenticato che ci sia altro da fare al mondo se non andare ballonzolando su questo mare. Vorrei che fosse così.» «Finché dura il fascino della novità,» dissi ridendo. «Probabilmente,» rispose; «sebbene vi sia in questa osservazione un significato piuttosto sarcastico per l'amabile innocenza del mio giovane amico. Bene! Direi che sono un tipo capriccioso, David. So di esserlo; ma, finché il ferro è caldo, posso batterlo con vigore. Credo che potrei già superare un esame ragionevolmente severo di pilota su questa baia.» «Il signor Peggotty dice che siete un portento,» confermai. «Un fenomeno nautico, eh?» disse Steerforth ridendo. «Dice proprio così, e sapete che è sincero; come sapete con quanto ardore vi mettete in ogni impresa e con quanta facilità la superate. E quel che più mi stupisce in voi, Steerforth, è che vi contentiate di fare un uso così capriccioso delle vostre possibilità.» «Contentarmi?» rispose allegramente. «Io non mi accontento mai, se non della vostra freschezza, gentile Pratolina. Quanto al capriccio, non ho mai imparato l'arte di legarmi a una di quelle ruote su cui gli Issioni dei nostri giorni vanno continuamente roteando. Ho mancato di raggiungerla in qualche modo, per un cattivo tirocinio, e ora poco me ne importa. Sapete che ho comprato qui un battello?» «Che uomo straordinario siete, Steerforth!» esclamai fermandomi, perché non ne avevo mai avuto notizia. «E può darsi che non vi curiate di tornare mai più in questo paese!» «Non lo so,» rispose. «Il luogo mi piace. Comunque,» e mi costrinse a rimettermi celermente in cammino, «ho comprato un battello che era in vendita - una goletta, dice il signor Peggotty; e lo è difatti - e, in mia assenza, la governerà il signor Peggotty stesso.» «Ora vi ho capito, Steerforth,» dissi esultando. «Dite di averla comprata per voi, ma in realtà lo avete fatto perché lui ne avesse il vantaggio. Avrei dovuto capirlo subito, conoscendovi. Mio caro Steerforth, come potervi esprimere quel che penso della vostra generosità?» «Zitto!» rispose arrossendo. «Meno parlate e meglio è.» «Non lo sapevo, forse?» esclamai. «Non avevo forse detto che non vi è gioia, né pena, né emozione di questi cuori onesti che vi sia indifferente?» «Sì, sì,» rispose, «mi avete detto tutto questo. Ora lasciate andare, abbiamo parlato abbastanza!» Temendo di offenderlo se insistevo su di un argomento di cui lui faceva così poco conto, mi limitai a continuarlo fra me e me mentre proseguivamo a passo ancora più svelto. «Deve essere nuovamente attrezzata,» disse Steerforth, «e lascerò qui Littimer perché se ne occupi e mi faccia sapere quando il lavoro sarà finito. Vi ho detto che Littimer è qui?» «No.» «Sicuro. È arrivato stamane con una lettera di mia madre.» Mentre i nostri sguardi si incontravano, notai che era pallido fino alle labbra, sebbene mi fissasse con molta sicurezza. Temetti che qualche contrasto fra lui e sua madre lo avesse portato a quello stato d'animo in cui l'avevo trovato davanti al focolare solitario. Vi feci accenno. «Oh no!» rispose scuotendo la testa con un breve riso. «Niente di simile! Sì, è arrivato questo mio servitore.» «Sempre lo stesso?» chiesi. «Sempre lo stesso,» rispose Steerforth. «Tranquillo e distaccato come il Polo Nord. Penserà a far dare un nuovo nome al battello. Adesso si chiama ‹Procellaria›. Che importano le procellarie al signor Peggotty? Lo farò ribattezzare.» «Con qual nome?» chiesi. «La ‹Piccola Emily›.» Poiché continuava a fissarmi, pensai che volesse ricordarmi che non gradiva lodi per questo suo atto delicato. Non potei fare a meno di mostrare in volto quanto lo apprezzassi, ma non dissi nulla, ed egli, quasi sollevato, riprese il suo consueto sorriso. «Ma guardate là,» disse accennando davanti a noi. «Ecco che arriva la piccola Emily in persona! E il giovanotto con lei, eh? Per l'anima mia, è un vero cavaliere. Non la lascia mai!» Ham, in quel tempo, era un costruttore di battelli, avendo perfezionato una naturale disposizione per questo artigianato fino a divenire un lavoratore esperto. Indossava l'abito da fatica e appariva alquanto rozzo, ma anche virile e protettore adattissimo per la fiorente creaturina che aveva a fianco. In realtà v'erano sul suo volto una franchezza, un'onestà e una non celata espressione di orgoglio e di amore per lei che mi apparivano come le migliori forme di bellezza. Mentre essi si avvicinavano, pensai che erano bene assortiti anche sotto questo aspetto. Nel momento in cui ci fermammo per parlar loro, ella trasse timidamente il suo braccio da quello di lui, e arrossì nel tendere la mano a Steerforth e a me. Quando proseguirono, dopo avere scambiato con noi poche parole, ella non volle rimettere quella mano dove era prima, ma, sempre con un'apparenza timida e controllata, camminò da sola. Trovai tutto questo molto grazioso e attraente, e anche Steerforth parve giudicarlo così mentre li guardavamo dileguarsi nella fioca luce di una luna crescente. D'improvviso ci passò davanti - evidentemente seguendoli - una giovane di cui non avevamo notato l'avvicinarsi, ma di cui potei osservare il volto mentre passava, con l'impressione di riconoscerla vagamente. Indossava un abito leggero; aveva un'aria fiera e stravolta, un aspetto provocante e misero a un tempo; ma, in quel momento, sembrava aver gettato tutto ciò al vento che sibilava e non pensare ad altro che a seguirli. Mentre la buia piana distante, assorbendo le loro due figure, rimaneva l'unica cosa visibile tra noi e il mare, la sua figura disparve egualmente, tuttavia non più vicina a loro che non fosse prima. «È un'ombra nera che segue la ragazza,» disse Steerforth senza muoversi; «che cosa significa?» Parlava con una voce bassa che mi suonò quasi nuova all'orecchio. «Penso che voglia chieder loro l'elemosina,» dissi. «Una mendicante non sarebbe una novità,» mormorò Steerforth; «ma è strano che una mendicante abbia assunto quell'aspetto proprio stasera.» «Perché?» chiesi. «Per nessun'altra ragione, in verità, se non perché, quando è passata,» disse lui dopo una pausa, «stavo pensando a qualche cosa di simile. Mi domando di dove diavolo sia sbucata!» «Dall'ombra di questo muro, credo,» dissi mentre uscivamo su una strada in cui faceva capo un muro. «Se n'è andata!» mi rispose guardandosi dietro la spalla. «E tutto il male se ne vada con lei. A pranzo, adesso!» Ma continuò a guardarsi dietro la spalla verso la linea dell'orizzonte marino che scintillava in distanza; e lo fece più volte. E più volte insisté, con frasi rotte, a farsi domande su quel fatto durante il breve cammino che ancora restava; parve solo dimenticarlo quando la luce del fuoco e delle candele brillò su di noi, seduti a tavola, caldi e lieti. Littimer era lì e mi fece l'impressione di sempre. Quando gli dissi di sperare che la signora Steerforth e la signorina Dartle stessero bene, mi rispose rispettosamente (e naturalmente con rispettabilità) che stavano abbastanza bene, mi ringraziò e mi portò i loro saluti. Questo fu tutto, e tuttavia parve dirmi nel modo più esplicito: «Siete molto giovane, signore; siete eccessivamente giovane.» Avevamo quasi finito il pranzo quando, facendo un passo o due verso la tavola dall'angolo da cui teneva gli occhi fissi su di noi, o piuttosto su di me, come era la mia sensazione, disse al suo padrone: «Vi chiedo scusa, signore. La signorina Mowcher è in paese.» «Chi?» esclamò Steerforth quanto mai stupito. «La signorina Mowcher, signore.» «Diavolo! Come mai è da queste parti?» chiese Steerforth. «Pare che sia nata in questa regione, signore. Mi ha detto che ogni anno fa qui una delle sue visite professionali, signore. L'ho incontrata per strada questo pomeriggio, e mi ha chiesto se poteva avere l'onore di essere ricevuta dopo pranzo, signore.» «Conoscete la gigantessa di cui parliamo, Pratolina?» mi chiese Steerforth. Fui costretto a confessare - vergognandomi di essere in questo stato di inferiorità anche davanti a Littimer - che la signorina Mowcher e io eravamo assolutamente estranei l'uno all'altra. «Allora la conoscerete,» disse Steerforth, «perché è una delle sette meraviglie del mondo. Quando arriverà la signorina Mowcher, conducetela qui.» Sentivo una certa curiosità e una certa eccitazione riguardo a questa damigella, specialmente perché Steerforth scoppiò in una risata quando allusi a lei e si rifiutò risolutamente di rispondere a ogni domanda che gli facessi in proposito. Rimasi dunque in uno stato di considerevole attesa per una mezz'ora dopo che fu tolta la tovaglia; ed eravamo seduti davanti al fuoco con la nostra caraffa di vino, quando la porta si aprì e Littimer, con la sua consueta e imperturbabile serenità, annunciò: «La signorina Mowcher.» Guardai il vano della porta e non vidi niente. Stavo ancora guardando in quella direzione, convinto che la signorina Mowcher tardasse ad apparire, quando, con mia infinita meraviglia, vidi venire arrancando di dietro un sofà che era tra me e la porta una grassa nana di circa quaranta o quarantacinque anni, con una testa e un volto enormi, due occhi grigi furbeschi e braccia così corte che, per riuscire a mettersi maliziosamente l'indice sul naso camuso mentre ammiccava a Steerforth, fu costretta ad andare incontro al dito a mezza strada spingendo il naso verso di esso. Il suo mento, che era quello che si dice un doppio mento, era così grasso da inghiottire interamente i nastri del suo cappello, fiocco e tutto. Collo non ne aveva, vita non ne aveva, gambe non ne aveva, almeno che meritassero di parlarne; perché, sebbene fosse di dimensioni più che regolari fin dove avrebbe dovuto trovarsi la vita, se ne avesse avuta una, e sebbene terminasse, al pari degli esseri umani in genere, con un paio di piedi, era così corta che stava accanto a una comune sedia come se fosse un tavolo, posando la sua borsa sul sedile. Questa signora, vestita in un certo stile improvvisato e libero, che avvicinava il naso e l'indice con la difficoltà che ho detto, costretta a tenere il capo piegato da una parte, e che, con uno dei suoi maliziosi occhi socchiuso aveva un'espressione quanto mai penetrante, dopo avere guardato, con molta simpatia, Steerforth per qualche istante, ruppe in un torrente di parole. «Come! Fiore mio!» cominciò piacevolmente scuotendo il testone verso di lui. «Siete capitato qui, siete! Oh, ragazzaccio, che vergogna, che cosa fate così lontano da casa? Qualche birbanteria, lo giurerei. Oh, voi siete un furbacchione, Steerforth, ecco quello che siete, e anch'io, no? Ah, ah, ah! Questa volta avreste scommesso cento sterline contro cinque che non mi avreste trovata qui, non è vero? Dio vi benedica, ragazzo mio, io sono dappertutto. Sono qui, sono là, sono da ogni parte, come la mezza corona del prestigiatore nel fazzoletto della signora. A proposito di fazzoletti - e a proposito di signore - quali consolazioni date alla vostra benedetta madre, caro il mio ragazzo, dietro una delle mie spalle, e non vi dico quale!» La signorina Mowcher si slacciò il cappello a questo punto del suo discorso, si tirò indietro i nastri e si sedette ansante su di un posapiedi davanti al fuoco, facendosi una specie di pergola con la tavola, che le protendeva sulla testa il suo tetto di mogano. «Oh stelle mie, o comunque si chiamino!» proseguì battendosi una mano su ciascuno dei suoi piccoli ginocchi e guardandomi con aria accorta. «Sono di costituzione troppo piena, questo è il fatto, Steerforth. Dopo una rampa di scale duro fatica a tirare il respiro come se fosse un secchio d'acqua. Se mi vedeste guardando da una finestra dei piani alti mi giudichereste una bella donna, non è vero?» «Vi giudicherei tale dovunque vi vedessi,» rispose Steerforth. «Filate via, scioccone!» gridò quel minuscolo essere sferzandolo col fazzoletto con cui si asciugava il volto, «e non siate così impudente! Ma vi do la mia parola d'onore che la settimana scorsa ero da Lady Mithers - quella è una donna! Che portamento! - e Mithers in persona entrò nella stanza in cui la stavo aspettando - quello è un uomo! Che portamento! E anche la sua parrucca, perché sono dieci anni che l'ha in testa - e tirava avanti a far complimenti in modo tale che cominciai a pensare di esser costretta a suonare il campanello. Ah! ah! ah! È un rudere simpatico, ma manca di principii.» «Che cosa facevate per Lady Mithers?» domandò Steerforth. «Questi sono pettegolezzi, ragazzo benedetto,» ribatté lei battendosi ancora il naso, raggrinzando la faccia e ammiccando con gli occhi come un folletto di intelligenza sovrannaturale. «Lasciate andare! Vorreste sapere se arrestavo la caduta dei suoi capelli, o se li tingevo, o se ritoccavo il suo colorito, o correggevo le sue sopracciglia, no? E lo saprete, caro... quando ve lo dirò. Sapete come si chiamava il mio bisnonno?» «No,» disse Steerforth. «Si chiamava Vaiazonzo, mio dolce tesoro,» rispose la signorina Mowcher, «e discendeva da una lunga linea di Vaiazonzo da cui ho ereditato tutte le terre di Perdigiorno.» Non avevo mai visto niente che si avvicinasse all'ammiccare della signorina Mowcher eccettuato il suo stesso dominio di sé. Inoltre aveva uno stranissimo modo, quando ascoltava quello che le si diceva o attendeva una risposta a quello che aveva detto lei, di fermarsi con la testa inclinata da una parte e un occhio in su, come una gazza. Ero tutto pieno di stupore e me ne stavo seduto a fissarla, del tutto dimentico, temo, delle regole della buona creanza. Frattanto si era tirata accanto la sedia ed era tutta affaccendata a cavar fuori dalla sua borsa (immergendovi ogni volta il corto braccio fino alla spalla) una quantità di bottigliette, spugne, pettini, spazzole, lembi di flanella, piccoli ferri da arricciare e altri strumenti che andava ammucchiando sul sedile. Bruscamente interruppe queste operazioni e, con mia grande confusione, chiese a Steerforth: «Chi è il vostro amico?» «Il signor Copperfield,» disse Steerforth, «il quale desidera conoscervi.» «Bene, allora mi conoscerà! Mi sembrava che ne avesse l'aria!» rispose la signorina Mowcher, e venne ondeggiando verso di me, con la borsa in mano e ridendo per tutta la strada. «Un volto di pesca!» Si levò sulla punta dei piedi per pizzicarmi la guancia mentre io stavo seduto. «Molto attraente! Vado matta per le pesche. Felice di fare la vostra conoscenza, signor Copperfield.» Risposi che mi congratulavo con me stesso per avere avuto l'onore di fare la sua e che la felicità era reciproca. «Oh, bontà celeste, come siamo educati!» esclamò la signorina Mowcher facendo un ridicolo tentativo di coprirsi il faccione con il suo pezzettino di mano. «Che mondo di sciocchezze e di frottole è questo, però, non è vero?» Queste parole erano rivolte confidenzialmente a entrambi noi, mentre il pezzettino di mano si allontanava dalla faccia e sprofondava, con tutto il braccio, nella borsa. «Che volete dire, signorina Mowcher?» chiese Steerforth. «Ah! ah! ah! Che bella manica di impostori siete, non è vero, mio dolce fanciullo?» rispose quel frammento di donna palpando nella borsa con la testa da un lato e un occhio in aria. «Guardate qui!» e tirò fuori qualcosa. «Ritagli delle unghie del Principe di Russia. Io lo chiamo il Principe Alfabeto Sottosopra, perché il suo nome contiene tutte le lettere dell'alfabeto messe alla rinfusa.» «Il Principe di Russia è un vostro cliente?» chiese Steerforth. «Potete crederlo, gioia mia,» rispose la signorina Mowcher. «Gli tengo le unghie in ordine. Due volte la settimana! Mani e piedi.» «Spero che paghi bene,» disse Steerforth. «Paga come parla, mio caro fanciullo: nel naso,» rispose la signorina Mowcher. «Non è di quelli che se la cavano di stretta misura, il Principe. Lo capireste se vedeste i suoi baffi. Rossi per natura e neri per arte.» «Per arte vostra, naturalmente,» disse Steerforth. La signorina Mowcher ammiccò assentendo. «Costretto a mandarmi a chiamare. Non poteva farne a meno. Il clima minacciava la sua tintura; in Russia andava benissimo, ma qui non funzionava. Da quando siete nato non avete mai visto un principe rugginoso come lui. Un vero ferro vecchio.» «Per questo lo avete chiamato impostore un momento fa?» chiese Steerforth. «Oh, siete un bravo ragazzo, voi, non è così?» rispose la signorina Mowcher scuotendo violentemente la testa. «Ho detto che siete una manica di impostori in generale e ho mostrato i ritagli delle unghie del Principe per darne la prova. Le unghie del Principe mi rendono, nelle famiglie private un po' in su, più di tutti i miei talenti presi insieme. Le porto sempre con me. Sono la miglior presentazione. Se la signorina Mowcher taglia le unghie al Principe, deve conoscere il suo mestiere. Le do alle damigelle. Credo che le mettano negli album. Ah! ah! ah! Per la mia vita, ‹l'intero sistema sociale› (come lo chiamano nei discorsi in Parlamento) è un sistema di unghie di Principe!» affermò quella minima fra le donne tentando di incrociar le braccia e accennando col suo testone. Steerforth rise di cuore, e risi anch'io. La signorina Mowcher continuò frattanto a scuoter la testa (che era molto inclinata da un lato) e a guardare in aria con un occhio e ad ammiccare con l'altro. «Bene, bene!» disse picchiandosi le piccole ginocchia e alzandosi, «questo non è lavoro. Su, Steerforth, lasciatemi esaminare la regione polare e finiamola.» Scelse allora due o tre dei suoi piccoli strumenti e una bottiglietta, e chiese (con mio stupore) se la tavola reggeva. Alla risposta affermativa di Steerforth, spinse una sedia contro di essa e, chiesto l'aiuto della mia mano, vi montò sopra, molto agilmente, come su di un palcoscenico. «Se qualcuno di voi mi vede le caviglie,» disse quando fu lassù al sicuro, «me lo faccia sapere, e io correrò a casa per ammazzarmi.» «Io no,» disse Steerforth. «Io no,» dissi io. «Benissimo, allora,» esclamò la signorina Mowcher, «consento a vivere. Adesso, coccolo, coccolo, coccolo, venite dalla vostra signora e lasciatevi trucidare.» Era un invito a Steerforth perché si affidasse alle sue mani; ed egli, obbedendo, si sedette col dorso rivolto alla tavola e il volto ridente verso di me, e sottopose la testa alla sua ispezione, evidentemente col solo fine di divertirci. Il vedere la signorina Mowcher dritta sopra di lui, intenta a scrutare l'abbondante profusione dei suoi bruni capelli attraverso una imponente lente d'ingrandimento che si era tolta di tasca, era il più sorprendente degli spettacoli. «Siete un bel tipo!» disse la signorina Mowcher dopo un breve esame. «Se non ci fossi io, in un anno avreste il cocuzzolo pelato come quello di un frate. Solo mezzo minuto, mio giovane amico, e vi faremo una lustratina che vi manterrà i riccioli per altri dieci anni!» Così dicendo versò parte del contenuto della bottiglietta su di un lembo di flanella, e, dopo aver impartito alcune virtù di quel preparato a una delle sue spazzoline, cominciò a strofinare e a strigliare con entrambe il sommo della testa di Steerforth nel modo più zelante che avessi mai visto, senza smettere un attimo di parlare. «C'è Charley Pyegrave, il figlio del duca,» disse. «Conoscete Charley?» E si sporse per guardarlo in faccia. «Un poco,» rispose Steerforth. «Che uomo è quello lì! E quelli sono favoriti! Quanto alle gambe di Charley, se fossero solo un paio (e non lo sono) sfiderebbero ogni competizione. Lo credereste che ha tentato di fare senza di me, e per di più essendo nella Guardia Reale?» «Che pazzo,» disse Steerforth. «Sembra proprio. Comunque, pazzo o sano, ha tentato. Giudicate voi stesso quello che fa: entra in una profumeria e chiede una bottiglia di Acqua di Madagascar.» «Charley?» chiese Steerforth. «Proprio Charley. Ma quelli, Acqua di Madagascar non ne hanno.» «Che cos'è? Qualcosa da bere?» chiese ancora Steerforth. «Da bere?» ribatté la signorina Mowcher fermandosi per dargli un colpetto sulla guancia. «Per curarsi i baffi, lo sapete. C'era una donna, in quel negozio... una vecchia... un vero grifone... che non aveva mai sentito quel nome. ‹Scusate, signore,› dice il grifone a Charley, ‹non è... per caso... non è un rossetto?› ‹Un rossetto?› dice Charley al grifone. ‹Che diavolo di cose impronunciabili da una persona educata credete che voglia fare con un rossetto?› ‹Non volevo offendervi, signore,› dice il grifone; ‹ce lo chiedono con tanti nomi che credevo che fosse quello.› E questa, ragazzo mio,» proseguì la signorina Mowcher continuando a strofinare con immutato zelo, «è un'altra prova della ricreante impostura di cui parlavo. Anch'io faccio qualche cosa di questo genere... forse molto... forse poco... la parola cambia sempre in modo accorto, mio caro ragazzo... tiriamo via.» «Di che genere parlate? Quello del rossetto?» chiese Steerforth. «Mettete insieme questo e quello, piccolo mio,» rispose la signorina Mowcher toccandosi il naso, «lavorateli secondo le regole del segreto di fabbrica, e il prodotto vi darà i risultati che desiderate. Ho detto che anch'io faccio qualche cosa di questo genere. Una ricca vedova lo chiama unguento per le labbra. Un'altra lo chiama guanti. Un'altra lo chiama bordo dello scialletto. Un'altra lo chiama ventaglio. Io lo chiamo in tutti i modi con cui lo chiamano loro. Io lo provvedo, ma sappiamo far così bene il trucco reciprocamente e darcela a bere con una tale faccia tosta, che sarebbero pronte a metterselo piuttosto davanti a un intero salotto che davanti a me. E quando vado da loro, mi dicono a volte - con quello in faccia, alto un dito e inequivocabile - ‹Che aspetto ho, Mowcher? Sono pallida?› Ah! ah! ah! ah! Non è ricreante, questo, mio giovane amico?» In vita mia non ho mai visto nulla di simile alla signorina Mowcher in piedi sulla tavola da pranzo, intensamente divertita da queste ricreanti osservazioni, tutta affaccendata a strofinare la testa di Steerforth e ad ammiccare verso di me. «Ah!» esclamò. «Cose del genere non sono molto richieste da queste parti. E questo mi fa pensare a un'altra cosa! Non ho visto una sola donna graziosa da quando son qui, caro Jemmy.» «No?» disse Steerforth. «Nemmeno l'ombra,» rispose la signorina Mowcher. «Penso che potremmo fargliene vedere una in carne e ossa,» disse Steerforth volgendo lo sguardo verso di me. «Eh, Pratolina?» «Sì, davvero,» risposi. «Ahah?» esclamò quell'essere minuto fissandomi accortamente in faccia e poi volgendosi a spiare Steerforth. «Uhm?» La prima esclamazione suonava come una domanda posta a entrambi, la seconda come una domanda rivolta solo a Steerforth. Parve però non trovare risposta a nessuna delle due, e continuò a strofinare con la testa da un lato e un occhio in su, come se cercasse una risposta nell'aria, fiduciosa di vederla apparire da un momento all'altro. «Una vostra sorella, signor Copperfield?» gridò dopo una pausa, sempre restando in attesa. «Sì, sì?» «No,» disse Steerforth prima che potessi rispondere. «Niente di simile. Al contrario, il signor Copperfield aveva un tempo - o mi sbaglio di molto - una grande ammirazione per lei.» «Come? E adesso non l'ha più?» rispose la signorina Mowcher. «È così volubile? Oh, che vergogna! Succhiò ogni fiore e cambiò di ora in ora finché Polly contraccambiò la sua passione?... Si chiama Polly?» La rapidità da elfo con cui mi aggredì facendomi questa domanda e scandagliandomi con uno sguardo indagatore, mi sconcertarono un momento. «No, signorina Mowcher,» risposi. «Il suo nome è Emily.» «Ahah?» esclamò lei esattamente come prima. «Hum? che chiacchierona sono! Signor Copperfield, sono volubile?» Il suo tono e il suo sguardo implicavano qualche cosa che non mi piaceva affatto mettere in rapporto con l'argomento. Così risposi con una gravità che nessuno di noi aveva assunto fin allora: «È virtuosa quanto bella. Si è promessa in moglie al più degno e meritevole degli uomini della sua condizione. Io la stimo per la sua saggezza così come l'ammiro per la sua bellezza.» «Ben detto!» gridò Steerforth. «Udite, udite, udite! Adesso spegnerò la curiosità di questa piccola Fatima, mia cara Pratolina, non lasciandole niente da congetturare. Attualmente, signorina Mowcher, ella è apprendista, o impiegata, o quello che può essere, da Omer e Joram, Mercerie, Mode e così via, in questa città. Attenzione: Omer e Joram. Il fidanzamento di cui il mio amico ha parlato è avvenuto con un suo cugino; nome di battesimo, Ham; cognome, Peggotty; professione, costruttore di barche; pure di questa città. Vive con un parente; nome di battesimo, sconosciuto; cognome, Peggotty; professione, uomo di mare; anche lui di questa città. È la più graziosa e attraente fatina che esista. Io la ammiro - al pari del mio amico - infinitamente. Se non sembrasse che io voglia denigrare il suo promesso, cosa che al mio amico so che dispiacerebbe, aggiungerei che a me pare che si stia buttando via, che sono sicuro potrebbe trovare di meglio, e che giuro che è nata per essere una dama.» La signorina Mowcher ascoltò queste parole, che furono dette molto lentamente e ben scandite, con la testa da un lato e l'occhio in aria come se stesse ancora aspettando una risposta. Quando lui tacque, riprese in un attimo il suo fare vivace e continuò a chiacchierare con sorprendente volubilità. «Oh! È tutto qui, vero?» esclamò spuntandogli i favoriti con un paio di forbicine che non restavano mai ferme e scintillavano intorno alla sua testa in tutte le direzioni. «Benissimo, proprio benissimo. Una lunga storia davvero. Dovrebbe finire: ‹e così vissero sempre felici e contenti,› non è vero? Com'è quel giuoco di pegni? Amo il mio amore con le E perché è eccitante; lo odio con le E perché mi si è estraniato; l'ho portato all'insegna dell'eccellenza e gli ho preparato un'evasione, il suo nome è Emily e vive nell'Est. Ah! ah! ah! Signor Copperfield, non sono volubile?» Si limitò a guardarmi con stravagante malizia, non attese risposta e continuò senza tirare il fiato: «Ecco qua! Se c'è stato mai uno scapestrato messo in ordine e ritoccato alla perfezione, quello siete voi, Steerforth. E se c'è al mondo una capoccia che io riesca a capire, quella è la vostra. Mi sentite, tesoro, quando dico questo? La capisco perfettamente,» e si chinò in giù per spiarlo in volto. «Adesso, Jemmy, potete squagliarvela (come diciamo a Corte) e se il signor Copperfield vuole prendere il vostro posto, mi occuperò di lui.» «Che ne dite, Pratolina?» mi chiese Steerforth ridendo e lasciando la sedia. «Volete essere messo in ordine?» «Grazie, signorina Mowcher, ma stasera direi di no.» «Non vi rifiutate,» replicò la donnetta guardandomi con un'aria da intenditrice; «vogliamo accentuare un tantino le sopracciglia?» «Grazie,» ripetei, «un'altra volta.» «Vogliamo portarle mezzo quarto di pollice verso le tempie?» insisté la signorina Mowcher. «Possiamo farlo in quindici giorni. «No, grazie. Ora no.» «Andiamo, solo un tocco,» insisté ancora. «No? Allora mettiamo le basi per un paio di favoriti. Venite!» Non potei impedirmi di arrossire declinando l'offerta, perché adesso sentivo che stavamo toccando il mio punto debole. Ma la signorina Mowcher, rendendosi conto che in quel momento non ero disposto ad alcuna decorazione che rientrasse nel raggio della sua arte e che, per ora, ero a prova contro gli adescamenti della boccettina che teneva davanti a un occhio per dare forza alla sua persuasione, disse che avremmo cominciato le operazioni un altro giorno, più presto, e chiese l'aiuto della mia mano per scendere dalla sua elevata posizione. Così assistita, saltò giù con molta agilità e cominciò a legarsi nel cappello il doppio mento. «La tariffa,» disse Steerforth, «è di...» «Cinque scellini,» rispose la signorina Mowcher, «maledettamente a buon mercato, galletti miei. Non sono volubile, signor Copperfield?» Risposi educatamente: «Niente affatto.» Ma pensai che lo era alquanto, quando la vidi gettare in aria le sue due mezze corone come un folletto divenuto venditore ambulante, afferrarle a volo, ficcarsele in tasca e batterci sopra un gran colpo. «Questa è la cassa!» spiegò la signorina Mowcher di nuovo dritta presso la sedia e rimettendo nella borsa la varia collezione di oggettini che ne aveva cavato fuori. «Ho ripreso tutte le mie trappole? Sembra di sì. Non mi piacerebbe fare come quello spilungone di Ned Beadwood quando lo portarono in chiesa ‹per sposarlo con qualcuno›, come disse lui, e lasciò fuori la sposa. Ah! ah! ah! Un maledetto furfante, quel Ned, ma buffo! E adesso so che vi spezzerò il cuore, ma sono costretta a lasciarvi. Fate appello a tutte le vostre forze e cercate di sopportarlo. Arrivederci, signor Copperfield! Prendetevi cura di voi, Jockey di Norfolk! Quante chiacchiere ho fatto! Tutta colpa vostra, bricconi. Ma vi perdono! Bob swore! come disse quell'inglese che voleva dire buona sera nei primi tempi che imparava il francese e lo trovava così simile all'inglese. Bob swore, anatrelle mie.» Con la borsa appesa al braccio e sempre chiacchierando mentre se ne andava, raggiunse ondeggiando la porta e si fermò lì per chiederci se doveva lasciarci un suo ricciolo. «Non sono volubile?» aggiunse come commento alla sua offerta, e, con un dito sul naso, scomparve. Steerforth rise a tal punto che mi fu impossibile trattenermi dal ridere anch'io, sebbene non fossi sicuro che lo avrei fatto senza il suo incitamento. Quando smettemmo di ridere, e fu dopo qualche tempo, egli mi disse che la signorina Mowcher aveva una vasta rete di conoscenze e si rendeva utile a una quantità di gente in una quantità di modi. Alcuni, diceva, scherzavano con lei solo per la sua eccentricità; ma lei era sagace e astuta quanto altri mai, e la sapeva lunga quanto aveva corte le braccia. Mi confermò che quanto ella aveva detto circa il suo essere qui, là e dappertutto, era vero: perché faceva piccole escursioni nelle provincie e sembrava pescar clienti in ogni luogo e conoscere tutti. Gli domandai quale fosse il suo vero carattere: se totalmente malizioso o se le sue simpatie si volgessero in genere verso il lato giusto delle cose; ma, non riuscendo ad attrarre la sua attenzione su queste questioni, dopo due o tre tentativi rinunciai o dimenticai di insistere. Mi diede invece, molto rapidamente, una quantità di notizie sulla sua abilità e i suoi profitti, e sulla sua capacità di applicare scientificamente le coppette, se mai avessi avuto bisogno di ricorrere ai suoi servigi in questo campo. Per tutta la serata, ella fu il principale argomento della nostra conversazione: e, quando ci separammo per la notte, Steerforth mi gridò, di sopra la ringhiera: «Bob swore!» mentre scendevo le scale. Fui meravigliato, quando giunsi alla casa del signor Barkis, di trovare Ham che passeggiava su e giù davanti a essa, e ancor più meravigliato nell'apprendere da lui che la piccola Emily era dentro. Naturalmente gli chiesi perché non vi fosse anche lui, invece di passeggiar per la strada da solo. «Be', vedete, signorino Davy,» mi rispose esitando, «Emily sta parlando con qualcuno, lì dentro.» «Direi,» notai sorridendo, «che è una ragione di più perché entriate anche voi, Ham.» «Be', signorino Davy, in generale dovrebbe essere così,» rispose lui; «ma vedete, signorino Davy,» e abbassò la voce parlando molto gravemente, «si tratta di una ragazza, signore... una ragazza che Emily ha conosciuto un tempo e con cui non dovrebbe avere più relazioni.» Nell'udire queste parole, cominciò a farmisi luce sulla figura che avevo visto seguirli poche ore prima. «È un povero verme, signorino Davy,» disse Ham, «calpestato da tutta la città su e giù per le vie. Nelle sepolture del cimitero non ce n'è nemmeno uno da cui la gente si ritragga con maggior ribrezzo.» «È quella che ho visto stasera, Ham, sulla spiaggia, dopo avervi incontrato?» «Quella che ci veniva dietro?» chiese Ham. «Sì, è quella, signorino Davy. Non che l'abbia riconosciuta allora, quando era là, signore, ma più tardi, quando è scivolata sotto la finestrella di Emily, appena l'ha vista illuminarsi, e ha sussurrato: ‹Emily, Emily, per amor di Cristo, abbi per me un cuore di donna. Un tempo ero come te!› Erano parole molto gravi, signorino Davy, per chi le ascoltava.» «Lo erano davvero, Ham. Ed Emily che ha fatto?» «Emily ha detto: ‹Sei tu, Martha. Oh, Martha, puoi essere tu?› Perché avevano lavorato insieme, per parecchio tempo, dal signor Omer.» «Ora me la ricordo!» esclamai, perché mi era tornata a mente una delle due ragazze che avevo visto quando ero andato là per la prima volta. «La ricordo benissimo.» «Martha Endell,» disse Ham. «Ha due o tre anni più di Emily, ma sono state a scuola insieme.» «Non conoscevo il suo nome,» dissi. «Non volevo interrompervi.» «Per quel che riguarda il fatto, signorino Davy,» continuò Ham, «tutto è detto in queste parole: ‹Emily, Emily, per amor di Cristo, abbi per me un cuore di donna. Un tempo ero come te!› Voleva parlare a Emily, ma Emily non poteva parlarle lì, perché suo zio era in casa, e lui non voleva... No, signorino Davy,» si affrettò ad aggiungere Ham, «non poteva, così buono, così affettuoso com'è, vederle insieme, a fianco a fianco, nemmeno per tutti i tesori che sono andati a fondo nel mare.» Mi resi conto di quanto fosse vero. Lo capii in quell'istante stesso come lo capiva Ham. «Così Emily scrive col lapis su di un pezzo di carta,» continuò, «e glielo dà dalla finestra perché lo porti qui. ‹Fallo vedere,› dice, ‹a mia zia, la signora Barkis, e lei ti farà sedere al suo focolare per amor mio, finché lo zio sarà uscito e io potrò venire.› Poco dopo mi racconta quello che ho raccontato a voi, signorino Davy, e mi chiede di condurla qui. Che dovevo fare? Non dovrebbe avere rapporti con una persona simile, ma non potevo rifiutarmi, vedendola con le lacrime sulle gote.» Infilò una mano nel petto della sua rozza giacca e ne trasse con gran cura un grazioso borsellino. «E se anche avessi potuto rifiutarmi vedendole le lacrime in volto,» continuò Ham aggiustandosi teneramente il borsellino sul ruvido palmo della mano, «come avrei potuto farlo quando mi diede questo da portare per lei... sapendo perché lo portava? Un gingillo come questo!» esclamò Ham guardandolo pensosamente, «con così poco denaro dentro, mia piccola cara Emily!» Quando lo ebbe nuovamente riposto, gli strinsi calorosamente la mano, perché quel gesto mi aveva persuaso più di qualsiasi discorso, e passeggiammo su e giù in silenzio per un paio di minuti. Poi la porta si aprì e apparve Peggotty, che fece cenno a Ham di entrare. Io avrei voluto tenermi in disparte, ma lei venne da me pregandomi di entrare a mia volta. Avrei tuttavia voluto evitare la stanza in cui erano tutti, se non fosse stata la linda cucina a piastrelle che ho ricordato più di una volta. Poiché la porta si apriva immediatamente su di essa, mi trovai in mezzo a loro prima ancora di aver pensato dove andare. La ragazza - la stessa che avevo visto sulla pianura sabbiosa - era presso il fuoco. Stava seduta a terra con la testa e un braccio appoggiati a una sedia. Dal suo atteggiamento, immaginai che Emily si fosse appena alzata da quella sedia e che forse la testa abbandonata le avesse posato in grembo. Vedevo molto poco del volto di lei, su cui le cadevano sciolti e scarmigliati i capelli, come se li avesse messi in disordine con le sue stessi mani; ma mi accorsi che era giovane e aveva un bell'aspetto. Peggotty aveva pianto. E così pure la piccola Emily. Non una parola fu detta quando entrammo, e l'orologio della Selva Nera sulla credenza sembrava battere più forte del solito in quel silenzio. Emily parlò per prima. «Martha,» disse a Ham, «vuole andare a Londra.» «Perché a Londra?» chiese Ham. Era fermo fra di loro guardando la ragazza prostrata con un misto, che ho sempre ricordato nettamente, di compassione per lei e di gelosia per quella qualsiasi intimità che aveva con colei che egli amava tanto. Parlavano come se la ragazza fosse malata, in un tono basso e soffocato che si poteva udire distintamente benché fosse poco più di un sussurro. «Meglio là che qua,» disse forte una terza voce, quella di Martha, sebbene ella non facesse alcun movimento. «Là nessuno mi conosce, qui mi conoscono tutti.» «E che cosa farà, laggiù?» chiese Ham. Lei alzò la testa e si volse cupamente a guardarlo per un momento; poi la lasciò ricadere e si piegò la destra attorno al collo come può torcersi una donna che ha la febbre o che trasale dolorosamente per uno sparo. «Cercherà di far bene,» disse la piccola Emily. «Voi non sapete quello che ci ha detto. Lo sa... lo sanno... zia?» Peggotty scosse la testa, commossa. «Cercherò,» disse Martha, «se mi aiuterete a partire. Non potrò mai far peggio di quello che ho fatto qui. Posso far meglio. Oh!» ed ebbe un pauroso sussulto, «tiratemi via da queste strade dove tutti mi conoscono a cominciare dai bambini!» Mentre Emily tendeva la mano a Ham, lo vidi porvi un sacchetto di tela. Lei lo prese come credendo che fosse il borsellino, e fece uno o due passi; ma, accorgendosi dell'errore, tornò indietro fin dove egli si era ritirato, presso di me, e glielo mostrò. «È tutta roba tua, Emily,» lo udii dire. «Non ho nulla al mondo che non sia tuo, cara. Non mi dà alcun piacere, se non è per te!» Nuove lacrime apparvero negli occhi di lei, ma ella si volse per tornare da Martha. Che cosa le diede, non so. La vidi fermarsi su di lei e metterle in seno del denaro. Le sussurrò qualche cosa come chiedendo se bastava. «È più che abbastanza,» disse l'altra, e, afferratale la mano, la baciò. Poi Martha si alzò, si raccolse attorno lo scialle, vi nascose dentro il viso e, piangendo forte, si avvicinò lentamente alla porta. Si fermò un attimo prima di uscire, come se avesse voluto dire qualche cosa o voltarsi; ma dalle sue labbra non uscì una parola. Soffocando nello scialle lo stesso lamento basso, cupo e disperato, scomparve. Quando la porta si richiuse, la piccola Emily rivolse a noi tre un rapido sguardo, poi si nascose il volto fra le mani e scoppiò in singhiozzi. «Non far così, Emily!» disse Ham battendole piano sulla spalla. «No, mia cara! Non devi piangere così, amore!» «Oh, Ham!» esclamò lei sempre piangendo pietosamente. «Io non sono la brava ragazza che dovrei essere! So che a volte non ho in cuore la gratitudine che dovrei avere!» «Sì, sì, che l'hai, ne sono sicuro,» disse Ham. «No! no! no!» gridò singhiozzando e scuotendo la testa la piccola Emily. «Non sono la brava ragazza che dovrei essere. Nemmeno un poco! nemmeno un poco!» E continuava a piangere come se il suo cuore stesse per spezzarsi. «Metto troppo alla prova il tuo amore, lo so!» singhiozzò. «Spesso sono per te un tormento e mi mostro incostante, mentre dovrei fare tutto il contrario. Tu non sei mai così con me. Perché faccio questo, mentre dovrei pensare solo a esserti grata e a renderti felice?» «Tu mi fai sempre felice cara!» rispose Ham. «Sono felice al solo vederti. Sono felice per tutto il giorno pensando a te.» «Ah! questo non basta!» esclamò lei. «È perché tu sei buono, non perché lo sia io! Oh, mio caro, sarebbe stato meglio per te se ti fossi innamorato di un'altra... di un'altra più costante e molto più degna di me, che ti fosse legata in tutto, e non leggera e volubile come sono io.» «Povero cuoricino mio,» disse Ham a bassa voce. «Martha l'ha proprio sconvolta.» «Ti prego, zia» singhiozzò Emily, «vieni qui e lascia che posi la testa su di te. Oh, sono molto infelice, stanotte, zia! Oh, non sono la brava ragazza che dovrei essere. Non lo sono, lo so.» Peggotty era corsa alla sedia davanti al fuoco. Emily, gettandole le braccia al collo, si inginocchiò presso di lei alzando con ardore lo sguardo verso il suo volto. «Oh, ti prego, zia, cerca di aiutarmi! Ham, caro, cerca di aiutarmi! Signor David, per amore dei vecchi tempi, vi prego, cercate di aiutarmi! Voglio essere una ragazza migliore di quello che sono. Voglio sentirmi mille volte più riconoscente di quanto mi sento. Voglio sentire più a fondo quale benedizione sia essere la moglie di un uomo buono e condurre una vita tranquilla. Ohimè, ohimè! Oh il mio cuore, il mio cuore!» Nascose il volto nel seno della mia vecchia governante e, smettendo queste invocazioni che, nella sua angoscia e nella sua pena, erano in parte di donna e in parte di bambina come tutto il suo contegno (più naturale, in questo, e più conforme alla sua bellezza, mi parve, di quanto potesse essere un qualsiasi altro contegno) pianse silenziosamente, mentre la mia vecchia governante cercava di placarla come una bambina. A poco a poco si calmò, e allora la blandimmo ora incoraggiandola con le parole, ora scherzando un poco con lei, finché cominciò a rialzare la testa e a parlarci. Così andammo avanti fino a quando riuscì a sorridere e poi a ridere e infine a sedersi, un po' vergognosa, mentre Peggotty le ravviava i riccioli scomposti, le asciugava gli occhi e la rimetteva in ordine, affinché, tornata a casa, lo zio non si domandasse perché mai la sua prediletta avesse pianto. Quella notte le vidi fare quello che non le avevo mai visto fare prima. La vidi baciare innocentemente sulla guancia il marito da lei scelto, e stringersi forte alla sua franca figura come se fosse il suo miglior sostegno. Quando se ne andarono insieme, nella pallida luce lunare, e io li guardai allontanarsi confrontando mentalmente la loro partenza con quella di Martha, vidi che gli si aggrappava al braccio con le mani sempre tenendosi stretta a lui. XXIII • SOSTENGO IL SIGNOR DICK E SCELGO UNA PROFESSIONE Quando mi svegliai il mattino dopo, pensai molto alla piccola Emily e alla sua emozione della sera, dopo che Martha ci aveva lasciati. Avevo l'impressione di esser venuto a conoscere quelle debolezze e tenerezze domestiche grazie a una sacra confidenza, e che avrei fatto male a rivelarle, anche allo stesso Steerforth. Non provavo per alcuno sentimenti più dolci che per la graziosa creatura che era stata mia compagna di giuochi e che sono stato sempre convinto, e lo sarò fino ai miei ultimi giorni, di avere allora devotamente amato. Riferire ad alcuno, perfino a Steerforth, quello che lei era stata incapace di reprimere quando il suo cuore mi si era aperto accidentalmente, sentivo che sarebbe stato un atto grossolano, indegno di me, indegno della luce della nostra pura infanzia che sempre vedevo circondare la sua testa. Decisi dunque di tener tutto nel mio cuore, e questo diede alla sua immagine una nuova grazia. Mentre eravamo a colazione mi fu portata una lettera di mia zia. Poiché conteneva argomenti sui quali pensavo che Steerforth avrebbe potuto consigliarmi al pari di ogni altro e al cui proposito sapevo che mi sarebbe piaciuto consultarlo, pensai di farne argomento delle nostre conversazioni durante il viaggio di ritorno. Per il momento avevamo abbastanza da fare nel congedarci da tutti i nostri amici. Il signor Barkis era ben lungi dall'essere l'ultimo di essi nel rammaricarsi della nostra partenza; e credo che avrebbe perfino riaperto il suo stipo e sacrificato un'altra ghinea se con questo avesse potuto trattenerci per altre quarantotto ore a Yarmouth. Peggotty e tutta la sua famiglia erano quanto mai spiacenti di vederci andar via. L'intera ditta Omer e Joram usci sulla strada per dirci addio; e, quando le nostre valige furono issate sulla diligenza, v'erano intorno a noi tanti volonterosi uomini di mare al servizio di Steerforth che, se anche avessimo avuto il bagaglio di un reggimento, non ci sarebbero mancate le braccia per metterlo a posto. In una parola, partimmo fra il rimpianto e l'ammirazione di tutti gli interessati e ci lasciammo alle spalle una quantità di gente molto addolorata. «Vi tratterrete qui a lungo, Littimer?» gli chiesi mentre egli attendeva che la diligenza partisse. «No, signore,» mi rispose; «probabilmente non molto a lungo, signore.» «Non può dirlo, in questo momento,» osservò Steerforth con noncuranza. «Sa quello che deve fare e lo farà.» «Ne sono sicuro,» dissi io. Littimer si toccò il cappello come ringraziamento per la mia buona opinione, e io mi sentii un bambino di otto anni. Se lo toccò un'altra volta per augurarci buon viaggio; e lo lasciammo fermo lì sul selciato, mistero non meno rispettabile di quello di una piramide egiziana. Per un po' di tempo non conversammo: Steerforth era insolitamente silenzioso e io ero tutto impegnato a domandarmi, mentalmente, quando avrei riveduto quegli antichi luoghi e quali cambiamenti sarebbero potuti avvenire nel frattempo per me o per essi. Infine Steerforth, tornando improvvisamente gaio e comunicativo, così come poteva divenire in ogni momento tutto ciò che gli piacesse, mi tirò per il braccio. «Fuori la voce, David. Cos'è quella lettera di cui mi avete parlato a colazione?» «Oh!» dissi togliendomela di tasca. «È di mia zia.» «E che cosa dice di importante?» «Be', caro Steerforth,» risposi, «mi ricorda che ho intrapreso questa spedizione per guardarmi intorno e pensare un po' ai fatti miei.» «Cosa che naturalmente avete fatto.» «Per il vero non posso affermare di averlo fatto particolarmente. Se devo dirvi la verità, temo di essermene dimenticato.» «Bene! Guardatevi attorno adesso e riparate alla vostra negligenza,» disse Steerforth. «Guardate a destra e vedrete una regione piatta che assomiglia maledettamente a una palude; guardate a sinistra e vedrete la stessa cosa. Guardate davanti e non troverete alcuna differenza; guardatevi indietro e sarà sempre lo stesso.» Risi e risposi che non vedevo alcuna professione conveniente in tutto il panorama, cosa che forse doveva essere attribuita alla sua piattezza. «Che dice in proposito vostra zia?» chiese Steerforth dando un'occhiata alla lettera che avevo in mano. «Vi suggerisce qualche cosa?» «Be', sì,» risposi. «Mi domanda se credo che mi piacerebbe essere procuratore ecclesiastico. Che ne pensate?» «Non saprei,» rispose Steerforth freddamente. «Immagino che potete far questo come qualsiasi altra cosa.» Non potei trattenermi dal ridere ancora di fronte a questa sua assoluta indifferenza per ogni mestiere e professione; e glielo dissi. «Che cosa è un procuratore ecclesiastico, Steerforth?» chiesi. «Be', è una specie di procuratore legale monacato,» rispose Steerforth. «In certe sbiadite corti dei Doctors' Commons - un ozioso e vecchio cantuccio presso il Cimitero di San Paolo - è quello che i procuratori legali sono nei tribunali di legge e giustizia. È un funzionario la cui esistenza, nel naturale corso delle cose, avrebbe dovuto essere soppressa circa duecento anni fa. Posso spiegarmi meglio parlandovi dei Doctors' Commons. Si tratta di un posticino fuori mano dove amministrano la cosiddetta legge ecclesiastica e fanno trucchi di ogni sorta con vecchi e disusati mostricciattoli di atti parlamentari che tre quarti della gente ignora e il quarto rimanente immagina che siano stati dissepolti allo stato fossile al tempo degli Edoardi. È un posto che ha un antico monopolio nelle cause relative a testamenti, matrimoni e liti a proposito di navi e battelli.» «Che assurdità,» esclamai. «Non vorrete dire che c'è qualche affinità tra gli affari nautici e gli affari ecclesiastici!» «No davvero, mio caro ragazzo,» rispose; «ma voglio dire che questi affari vengono trattati e decisi dalle stesse persone negli stessi Doctors' Commons. Andate là un giorno e li trovate che almanaccano su metà dei termini nautici del Dizionario del Young, a proposito della «Nancy» che ha investito la «Sarah Jane», o del signor Peggotty e dei barcaioli di Yarmouth che, durante un colpo di vento, hanno portato ancora e cavo al «Nelson» della linea delle Indie, in pericolo; ci andate un altro giorno e li trovate sprofondati nelle testimonianze pro e contro relative a un ecclesiastico che ha combinato qualche malefatta; e troverete il giudice del caso navale diventato avvocato nel caso dell'ecclesiastico o viceversa. Sono come attori: oggi uno è un giudice, domani non lo è più; oggi è una cosa, domani un'altra, dopodomani un'altra ancora, cambiando continuamente; ma si tratta sempre di una piacevole e proficua commediola privata, recitata davanti a un pubblico quanto mai scelto. «Ma gli avvocati e i procuratori non sono la stessa cosa?» chiesi un po' perplesso. «Non è così?» «No,» rispose Steerforth, «gli avvocati sono degli esperti di diritto civile - persone che hanno conseguito una laurea in un'università - che è la principale ragione per cui ne so qualche cosetta. I procuratori ecclesiastici danno lavoro agli avvocati. Entrambi percepiscono onorari lautissimi e costituiscono una piccola e tranquilla congrega molto potente. Nell'insieme vi raccomanderei di considerare favorevolmente i Doctors' Commons, David. Laggiù si pavoneggiano della loro aristocrazia, ecco quello che posso dirvi se vi è di qualche soddisfazione.» Tenni nel debito conto la levità con cui Steerforth trattava questo argomento, e, considerandolo in rapporto con l'austera aria di gravità e di antichità che associavo all'«ozioso e vecchio cantuccio presso il Cimitero di San Paolo» non mi sentii affatto contrario al suggerimento della zia: suggerimento che ella lasciava alla mia libera decisione, senza farsi scrupolo di dirmi che le era venuto in mente durante l'ultima visita da lei fatta al proprio procuratore ecclesiastico nei Doctors' Commons per regolare il suo testamento a mio favore. «Questo, in ogni caso, è un lodevole procedimento da parte di vostra zia,» disse Steerforth quando lo misi al corrente della cosa; «e tale da meritare ogni incoraggiamento. Pratolina, il mio parere è che dobbiate considerare favorevolmente i Doctors' Commons.» Mi decisi senz'altro a farlo. Poi dissi a Steerforth che mia zia mi aspettava in città (come diceva la lettera), e che aveva preso alloggio per una settimana in una specie di albergo privato ai Lincoln's Inn Fields, dove vi era una scala di pietra e un'opportuna uscita sul tetto: poiché mia zia era fermamente convinta che ogni casa di Londra dovesse incendiarsi ogni notte. Finimmo piacevolmente il resto del viaggio, tornando ogni tanto ai Doctors' Commons e anticipando il giorno lontano in cui sarei divenuto là procuratore ecclesiastico, condizione dipinta da Steerforth con una varietà di luci umoristiche e bizzarre che ci mettevano entrambi in allegria. Arrivati al termine, lui andò a casa sua impegnandosi a farmi visita due giorni dopo; e io andai in vettura ai Lincoln's Inn Fields, dove trovai la zia che aspettava la cena. Se avessi compiuto il giro del mondo, non avremmo potuto ritrovarci con maggior piacere. La zia pianse decisamente abbracciandomi; e, fingendo di ridere, disse che, se la mia povera mamma fosse stata viva, quella sciocchina avrebbe senza dubbio versato lacrime. «E così avete lasciato solo il signor Dick, zia?» dissi. «Me ne dispiace. Ah, Janet, come state?» Mentre Janet mi faceva la riverenza augurandosi che stessi bene, notai che il volto di mia zia si allungava alquanto. «Dispiace anche a me,» disse, strofinandosi il naso. «Da quando son qui, Trot, non ho avuto pace.» E, prima che domandassi perché, me lo disse. «Sono sicura,» disse la zia posando la mano sul tavolo con malinconica fermezza, «che il carattere di Dick non è tale da tener lontani gli asini. Non ho dubbi che gli manca la decisione nei propositi. Avrei dovuto lasciare invece Janet a casa, e allora mi sarei forse sentita più tranquilla. Se mai un asino è passato sul mio prato,» continuò la zia con enfasi, «dev'essere stato questo pomeriggio alle quattro. Ho sentito un brivido freddo attraversarmi dalla testa ai piedi, e ho capito che era un asino.» Cercai di confortarla su questo, ma ella respinse ogni consolazione. «Era un asino,» ripeté la zia; «ed era quello con la coda mozza che montava la sorella Murdering quando venne a casa mia.» Da allora, era stato questo l'unico nome usato da mia zia per la signorina Murdstone. «Se c'è a Dover un somaro la cui temerarietà sia grave a sopportare per me più di quella di ogni altro,» disse la zia battendo il pugno sulla tavola, «è quell'animale lì.» Janet si arrischiò a suggerire che forse la zia si angustiava inutilmente e che, a suo parere, l'asino in questione era occupato in quel momento a trasportar sabbia e ghiaia e non poteva servire a propositi di violazioni di domicilio. Ma la zia non volle sentirne parlare. La cena ci fu servita con ordine e calda, sebbene le stanze della zia fossero molto in alto - non so se per avere più scale di pietra per lo stesso prezzo o per essere più vicina all'uscita sul tetto - e consisteva in un pollo arrosto, una bistecca e della verdura, tutte cose a cui resi piena giustizia e tutte eccellenti. Ma la zia aveva le sue idee circa le provvigioni londinesi e mangiò pochissimo. «Mi immagino che questo sciagurato pollo sia nato e cresciuto in una cantina,» disse, «e non abbia mai preso aria se non in un posteggio di vetture da nolo. Spero che la bistecca sia di bue, ma non lo credo. A mio parere in questo posto non c'è nulla di genuino eccetto il sudiciume.» «Non credete che il pollo possa esser venuto dalla campagna, zia?» accennai. «No certo,» rispose. «Un commerciante di Londra non proverebbe alcun piacere nel vendere qualche cosa che è quello che pretende di essere.» Non mi arrischiai a contraddire questa opinione, ma feci un'ottima cena, cosa che le diede una grande soddisfazione. Quando la tavola fu sparecchiata, Janet l'aiutò a riordinarsi i capelli, a mettersi la cuffia da notte, che era di una forma più elegante del solito («in caso di incendio», diceva la zia), e a rialzarle la veste sopra le ginocchia, che erano i suoi consueti preparativi per riscaldarsi prima di andare a letto. Io le preparai allora, secondo certe regole stabilite dalle quali non era ammessa alcuna deviazione, per quanto minima, un bicchiere di vin caldo annacquato e una fetta di pane tostato tagliato in sottili strisce. Con questi rifornimenti fummo lasciati soli a finir la serata, la zia seduta davanti a me e intenta a bere il suo primo vino inzuppandovi a una a una le strisce di pane prima di mangiarle, e guardandomi con aria benigna di fra gli orli della cuffia. «Bene, Trot,» incominciò, «che ne pensi del programma di fare il procuratore ecclesiastico? O non ti sei ancora deciso a pensarci?» «Ci ho pensato molto, mia cara zia, e ne ho discusso parecchio con Steerforth. In realtà mi piace moltissimo, mi piace e fin troppo.» «Andiamo!» disse la zia. «Questo mi conforta.» «Ho solo una difficoltà, zia.» «Dimmela subito, Trot,» rispose. «Ebbene, devo chiederti, zia, visto che, a quanto ho capito, si tratta di una professione chiusa, se l'intraprenderla non sarà troppo costoso.» «Costerà,» rispose la zia, «per sistemarti definitivamente, giusto mille sterline.» «Allora, mia cara zia,» dissi accostando la sedia, «mi sento un po' indeciso su questo. È una grossa somma. Voi avete speso molto per la mia educazione e siete sempre stata generosa con me in tutto, quanto è possibile esserlo. Siete stata la generosità in persona. Vi sono certo altre vie per le quali potrei cominciar la vita quasi senza spese, e cominciarla con buone speranze di farmi avanti a forza di decisione e di impegno. Siete sicura che non sarebbe meglio tentare in questo senso? Siete certa di poter fare a meno di tanto denaro e che sia giusto spenderlo così? Vi chiedo solo, a voi che siete la mia seconda madre, di pensarci. Ne siete sicura?» Mia zia finì di mangiare la fetta di crostino che aveva cominciato, guardandomi frattanto fisso in volto; e poi, mettendo il bicchiere sulla mensola del camino e, riunendo le mani sulla veste rimboccata, rispose come segue: «Trot, bambino mio, se ho uno scopo nella vita è quello di provvedere a far di te un uomo buono, sensato e felice. Mi dedico a questo... e così pure Dick. Vorrei che certa gente che so io ascoltasse quello che dice Dick a questo proposito. Ha una sagacità meravigliosa. Ma nessuno, se non io, conosce le risorse dell'intelletto di quell'uomo!» Si fermò un momento per prendere la mia mano fra le sue e proseguì: «È inutile, Trot, ricordare il passato, a meno che non possa influire in qualche modo sul presente. Forse avrei potuto essere una migliore amica per il tuo povero padre. Forse avrei potuto essere una migliore amica per quella povera bambina di tua madre anche dopo la delusione datami da tua sorella Betsey Trotwood. Quando arrivasti da me, piccolo bambino fuggiasco, polveroso e scalcagnato, forse ho pensato a questo. Da allora fino a oggi, Trot, mi hai sempre fatto onore, sei stato il mio orgoglio e la mia gioia. Nessuno può vantar diritti sulle mie sostanze; almeno...» qui, con mia sorpresa, esitò e parve confusa, «no, nessun'altro può vantar diritti sulle mie sostanze... e tu sei il mio figlio adottivo. Cerca solo di essere un ragazzo affettuoso nella mia vecchiaia e di sopportare i miei estri e i miei capricci, e farai per una vecchia, il cui fiore degli anni non è stato felice e sereno come avrebbe potuto essere, più di quanto questa vecchia abbia mai fatto per te.» Era la prima volta che udivo mia zia accennare alla sua storia passata. E nel suo tranquillo modo di farlo, lasciandola poi cadere, v'era una magnanimità che l'avrebbe esaltata nel mio rispetto e nel mio affetto, se mai fosse stato possibile. «Adesso, Trot, tutto è stato combinato e inteso fra noi,» concluse la zia, «e non c'è bisogno di parlarne più. Dammi un bacio, e domattina, dopo colazione, andremo ai Commons.» Chiacchierammo a lungo, davanti al fuoco, prima di andare a letto. Io dormii in una stanza sullo stesso piano in cui era la zia, e fui un po' disturbato, nel corso della notte, dal suo picchiare alla mia porta ogni volta che era messa in agitazione dal lontano rumore delle vetture e dei carri del mercato, per chiedermi «se avevo sentito il carro dei pompieri». Ma verso il mattino prese sonno e mi permise di fare altrettanto. Poco prima di mezzogiorno uscimmo per recarci all'ufficio dei signori Spenlow e Jorkins, ai Doctors' Commons. La zia, che aveva un'altra opinione generale riguardo a Londra, secondo la quale ogni uomo che vedeva era un tagliaborse, mi diede da tenere per lei il suo borsellino, contenente dieci ghinee e dell'argento. Ci fermammo al negozio di giocattoli in Fleet Street per vedere i giganti di San Dunstan battere sulle campane - avevamo calcolato la nostra gita in modo da coglierli in quell'atto, alle dodici precise - e poi proseguimmo verso la Collina di Ludgate e il Cimitero di San Paolo. Stavamo attraversando per raggiungere il primo di questi luoghi quando mi accorsi che la zia accelerava il passo di gran furia e sembrava atterrita. In egual tempo notai un uomo di brutto aspetto e mal vestito che si era fermato a guardarci poco prima e ci seguiva adesso così da vicino da strusciarsi contro di lei. «Trot! Caro Trot!» esclamò la zia con un sussurro pieno di spavento, stringendomi il braccio. «Non so che fare.» «Non allarmatevi,» dissi. «Non c'è niente di cui aver paura. Entrate in un negozio e vi libererò subito di questo tipo.» «No, no, ragazzo!» mi rispose. «Non parlargli per nessuna cosa al mondo. Te ne prego, te lo ordino!» «Buon Dio, zia!» dissi. «È solo un vagabondo.» «Tu non sai chi è!» ribatté la zia. «Tu non sai chi è! Non sai quello che dici.» Frattanto ci eravamo fermati in un portone vuoto, e anche lui si era fermato. «Non guardarlo,» disse la zia mentre io voltavo la testa sdegnato, «cercami piuttosto una vettura, caro, e aspettami al Cimitero di San Paolo.» «Aspettarvi?» replicai. «Sì,» insisté. «Devo andare sola. Devo andare con lui.» «Con lui, zia? Con quell'uomo?» «Sono perfettamente in me,» rispose, «e ti dico che devo. Cercami una vettura.» Per quanto potessi essere sbigottito, mi rendevo conto di non avere il diritto di rifiutare obbedienza a un comando così perentorio. Mi allontanai in fretta di pochi passi e chiamai una vettura da nolo che passava vuota. Quasi ancor prima che potessi abbassare il predellino, la zia vi balzò dentro, non so come, e l'uomo la seguì. Agitò la mano per dirmi di andare, così decisamente che, pur confuso com'ero, mi voltai immediatamente. Nel farlo la udii ordinare al cocchiere: «Andate dove volete! Tirate dritto!» e poco dopo la vettura mi oltrepassò diretta verso la Collina. Quello che mi aveva detto il signor Dick, e che io avevo considerato sua illusione, mi tornò adesso alla memoria. Non avevo dubbi che quell'uomo fosse lo stesso che egli aveva menzionato in modo così misterioso, sebbene fossi assolutamente incapace di immaginare di quale natura potesse essere il dominio che egli aveva sulla zia. Dopo mezz'ora che prendevo il freddo nel cimitero, vidi tornare la vettura. Il vetturino fermò presso di me; la zia vi era seduta sola. Non si era ancora abbastanza ripresa dalla sua agitazione per sentirsi pronta alla visita che dovevamo fare. Mi pregò di salire e di dire al cocchiere di andare lentamente su e giù per un poco. Non disse altro se non: «Mio caro ragazzo, non chiedermi mai chi era e non parlarmi più di lui,» finché non ebbe perfettamente riacquistato il suo controllo; allora mi disse di essere tornata del tutto in sé e che potevamo proseguire. Quando mi diede il borsellino per pagare il conducente, mi accorsi che le ghinee non c'erano più e restava solo l'argento spicciolo. Si entrava ai Doctors Commons per una piccola e bassa arcata. Prima che avessimo fatto molti passi nella via dietro di essa, il rumore della città parve dissolversi come per magìa in una soffocata lontananza. Pochi cortili oscuri e stretti passaggi ci portarono agli uffici, illuminati da un lucernario, di Spenlow e Jorkins; nel vestibolo di quel tempio, accessibile ai pellegrini senza la cerimonia di bussare, tre o quattro scrivani erano occupati a far copie. Uno di loro, un ometto asciutto seduto da parte, con una rigida parrucca bruna che sembrava fatta di panpepato, si alzò per ricevere mia zia e ci condusse nella stanza del signor Spenlow. «Il signor Spenlow è in tribunale, signora,» disse l'ometto asciutto; «è un giorno degli Archi; ma è qui vicino e manderò subito a chiamarlo.» Rimasti così a guardarci intorno mentre andavano a cercare il signor Spenlow, mi valsi dell'opportunità. Il mobilio della stanza era di vecchio stile e polveroso; e il panno di lana verde sul piano dello scrittoio aveva perduto tutto il suo colore e appariva avvizzito e pallido come un vecchio mendicante. C'era là sopra una gran quantità di fasci di carte, alcuni contraddistinti come Allegati, altri (con mia sorpresa) come Libelli, e altri ancora come appartenenti al Tribunale Concistoriale, o al Tribunale degli Archi, o al Tribunale Prerogativo, o al Tribunale dell'Ammiragliato, o al Tribunale dei Delegati, dandomi occasione di domandarmi molto seriamente quanti tribunali potessero essere nell'insieme e quanto tempo sarebbe stato necessario per conoscerli tutti. Vi erano parecchi enormi Libri di Testimonianze rese sotto giuramento, manoscritti e solidamente rilegati, raccolti insieme in pile massicce, una pila per ogni causa, come se ogni causa fosse una storia in dieci o venti volumi. Tutto ciò appariva alquanto dispendioso, pensai, e mi diede una piacevole idea degli affari di un procuratore ecclesiastico. Gettavo lo sguardo con crescente compiacimento sopra questi e altri simili oggetti, quando dei passi affrettati si udirono nella stanza attigua, e il signor Spenlow in toga nera orlata di pelliccia bianca, arrivò di furia togliendosi il cappello nell'entrare. Era un ometto dai capelli chiari, le scarpe inappuntabili e i più rigidi fra le cravatte bianche e i colletti di camicia. Era tutto abbottonato con la più scrupolosa esattezza, e doveva essersi dato una gran pena per i suoi favoriti, che erano accuratamente arricciati. La catena d'oro del suo orologio era così massiccia da farmi passare per la testa la fantasia che, per cavarselo di tasca, disponesse di un muscoloso braccio d'oro, come quelli che servono di insegna alle botteghe dei battiloro. Era fatto su con tanta cura e così rigido che poteva piegarsi a fatica ed era costretto, quando guardava le carte sullo scrittoio dopo essersi seduto, a muovere tutto il corpo fin dal fondo della schiena, come una marionetta. Ero già stato presentato dalla zia e accolto con molta cortesia. Ora mi disse: «E così, signor Copperfield, pensate di entrare nella nostra professione? Accennai per caso alla signorina Trotwood, quando ebbi il piacere di parlarle l'altro giorno,» - e qui un'altra inclinazione di tutto il corpo, sempre da marionetta - «che avevamo un posto vacante. La signorina Trotwood fu così buona da farmi sapere di avere un nipote a cui teneva molto e per il quale cercava una professione distinta. Questo nipote, suppongo, ho adesso il piacere di...» Ancora un inchino da marionetta. Mi inchinai a mia volta con riconoscenza, e dissi che mia zia mi aveva già accennato a questa possibilità e che pensavo mi sarebbe piaciuta moltissimo. Che vi ero fortemente propenso e avevo accettato subito la proposta. Che non potevo impegnarmi in modo assoluto a seguire quella professione finché non ne avessi saputo un po' di più. Che, sebbene fosse poco più che una formalità, presumevo che avrei avuto l'opportunità di sperimentare se fosse di mio gusto prima di legarmi a essa irrevocabilmente. «Oh, certo! certo!» disse il signor Spenlow. «Nella nostra casa proponiamo sempre un mese... un mese di prova. Personalmente sarei lieto di proporre due mesi... e anche tre... un periodo indefinito, insomma... Ma ho un socio. Il signor Jorkins.» «E il premio, signore,» risposi, «è di mille sterline?» «Il premio, compreso il bollo, è di mille sterline,» confermò il signor Spenlow. «Come ho detto alla signorina Trotwood, non sono indotto da considerazioni mercenarie; credo che pochi uomini lo siano meno di me; ma il signor Jorkins ha le sue opinioni a riguardo, e io devo rispettare le opinioni del signor Jorkins. Il signor Jorkins, in una parola, pensa che mille sterline siano perfin poche.» «Immagino, signore,» dissi, sempre per il desiderio di risparmiare la zia, «che non sia usanza, qui, qualora un apprendista si rivelasse particolarmente utile e divenisse perfettamente padrone della sua professione» - non potei fare a meno di arrossire, tanto queste parole sembravano l'elogio di me stesso - «immagino che non sia usanza, negli ultimi anni del suo apprendistato, concedergli qualche...» Il signor Spenlow, con grande sforzo, riuscì a tirar fuori la testa dalla sua cravatta, tanto da scuoterla e rispose, anticipando la parola «onorario»: «No. Non dirò in quale considerazione potrei prendere io stesso questo punto, signor Copperfield, se fossi libero. Ma il signor Jorkins è irremovibile.» Ero decisamente costernato all'idea di questo terribile Jorkins. Ma scoprii in seguito che era un uomo mite, di temperamento un po' tardo, il cui compito nell'associazione era di tenersi in secondo piano ed esser continuamente messo avanti, solo nel nome, come il più duro e spietato degli uomini. Se uno scrivano chiedeva un aumento di salario, il signor Jorkins non voleva sentirne parlare. Se un cliente tardava a saldare la parcella, il signor Jorkins pretendeva assolutamente che fosse pagata; e per quanto penose potessero essere queste cose (e lo erano sempre) per i sentimenti del signor Spenlow, il signor Jorkins doveva spuntarla. Il cuore e la mano del buon angelo Spenlow sarebbero sempre rimasti aperti se non fosse stato per l'inflessibile demonio Jorkins. Avanzando negli anni, credo di avere conosciuto qualche altra casa che faceva affari sulle basi di Spenlow e Jorkins. Fu stabilito che avrei iniziato il mio mese di prova appena avessi voluto e che mia zia non aveva bisogno né di restare in città né di tornarvi alla scadenza perché le clausole dell'accordo, di cui sarei stato il soggetto, potevano facilmente esserle inviate a casa per la firma. A questo punto il signor Spenlow mi propose di portarmi qua e là per il tribunale e mostrarmi che sorta di luogo fosse. Poiché ero molto desideroso di saperlo, uscimmo con questo scopo lasciandoci dietro la zia, che non voleva avventurarsi, disse, in un luogo simile, e che, credo, considerava tutti i tribunali come una sorta di polveriere capaci di scoppiare da un momento all'altro. Il signor Spenlow mi condusse per un cortile lastricato, cinto da severe case di mattoni, che, dai nomi dei Dottori scritti sulle porte, arguii fossero le dimore ufficiali dei dotti avvocati di cui Steerforth mi aveva parlato; e poi, sulla sinistra, in una grande sala cupa, a mio giudizio non dissimile da una cappella. La parte superiore di questa stanza era divisa dal resto da una ringhiera; e là, sui due lati di una piattaforma elevata a forma di ferro di cavallo, seduti su comode e antiquate poltrone da sala da pranzo, v'erano parecchi signori in toghe rosse e parrucche grige, che capii dovevano essere i Dottori suddetti. Ammiccante al di sopra di una piccola scrivania simile a un pulpito, nella curva del ferro di cavallo, c'era un vecchio signore che, se lo avessi visto in una uccelliera, avrei certo preso per un gufo, ma che seppi poi essere il giudice presidente. Nello spazio entro il ferro di cavallo, più in basso, ossia quasi al livello del pavimento, v'erano parecchi altri signori, del rango del signor Spenlow, e, al pari di lui, in toghe nere orlate di pelliccia bianca, seduti a una lunga tavola verde. Le loro cravatte erano in genere rigide, mi parve, e i loro sguardi alteri; ma, per quest'ultimo riguardo, capii subito di aver fatto loro ingiustizia, perché, quando due o tre di loro dovettero alzarsi per rispondere a una domanda del dignitario presidente, non vidi altro che una pecorile sottomissione. Il pubblico, rappresentato da un ragazzo con una gran sciarpa di lana e da un tale, sussiegoso quanto male in arnese, che mangiava in segreto delle briciole togliendosele dalle tasche del cappotto, si scaldava a una stufa nel centro del tribunale. La languida pace del luogo era incrinata solo dallo scoppiettio di quel fuoco e dalla voce di uno dei Dottori che stava lentamente vagabondando attraverso un'intera biblioteca di testimonianze fermandosi di tanto in tanto a ristorarsi, durante il viaggio, in piccole osterie di commenti lungo la strada. In tutta la mia vita non mi è assolutamente mai capitato di trovarmi in una riunione di famiglia così intima, sonnacchiosa, antiquata e dimenticata dal tempo; e mi resi conto che sarebbe stato davvero un dolce sonnifero appartenervi sotto qualsiasi aspetto, eccetto forse quello di parte in causa. Soddisfattissimo della sognante natura di questo ritiro, dissi al signor Spenlow di aver già visto abbastanza per il momento, e tornammo dalla zia, insieme alla quale lasciai poco dopo i Commons sentendomi molto giovane quando, nell'uscire da Spenlow e Jorkins, vidi gli scrivani farsi cenni l'un l'altro con le penne, indicandomi. Arrivammo ai Lincoln's Inn Fields senza altre avventure, eccetto l'incontro con uno sciagurato asino al carretto di un venditore ambulante, che suggerì alla zia penosi ricordi. Quando fummo al sicuro nell'albergo, tenemmo un'altra lunga conversazione sui miei progetti, e, poiché, sapevo che ella era ansiosa di tornare a casa e che, fra gli incendi, il vitto e i tagliaborse, non avrebbe potuto stare in pace, a Londra, neanche per mezz'ora, la sollecitai a non darsi altri disturbi per me e di lasciarmi il compito di badare a me stesso. «Non sono rimasta qui, fa domani una settimana, senza considerare anche questo, mio caro,» rispose. «C'è da affittare un appartamentino ammobiliato all'Adelphi, caro Trot, che dovrebbe andarti a meraviglia.» E dopo questo breve preambolo, tirò fuori di tasca un annuncio ritagliato con cura da un giornale, nel quale si avvertiva che in Buckingham Street, all'Adelphi, c'era un appartamento ammobiliato con vista sul fiume, quanto mai attraente e raccolto, distinta residenza per un giovane signore, un membro del Collegio degli Avvocati o altro, occupabile subito. Condizioni moderate e affitto anche limitato a un solo mese, se richiesto. «Diamine, questo è proprio quello che ci vuole, zia!» dissi, esaltato dalla possibile dignità di vivere in un appartamento. «Allora vieni,» rispose la zia riprendendo immediatamente il cappello che si era tolto un minuto prima. «Andremo subito a vederlo.» Uscimmo. L'annuncio invitava a rivolgersi a una signora Crupp, che abitava nello stabile, e non tirammo il campanello del cortile, che pensavamo comunicasse con la signora Crupp. Solo dopo avere suonato tre o quattro volte riuscimmo a indurre la signora Crupp a occuparsi di noi, ma alla fine venne fuori, una massiccia signora con una sottoveste di flanella a volanti sotto un abito di nanchino. «Volete farci vedere questo vostro appartamento, signora?» chiese la zia. «Per questo signore?» disse la signora Crupp cercandosi la chiave in tasca. «Sì, per mio nipote,» rispose la zia. «Per lui è proprio adatto,» disse la signora Crupp. E così salimmo le scale. L'appartamento era in cima alla casa - cosa molto importante per mia zia, trovandosi presso l'uscita di sicurezza - e consisteva in un ingresso semicieco in cui si vedeva poco, in una piccola dispensa cieca, in cui non si vedeva affatto, in un salotto e in una stanza da letto. Il mobilio era piuttosto stinto, ma ottimo per me, e innegabilmente il fiume scorreva sotto le finestre. Poiché il luogo mi piaceva, la zia e la signora Crupp si ritirarono nella dispensa per discutere le condizioni, mentre io me ne stavo sul divano del salotto osando appena considerare possibile di esser destinato a vivere in una così nobile residenza. Dopo un a corpo a corpo che durò alquanto tornarono, e, con gran gioia, vidi dal volto della signora Crupp e da quello della zia, che l'affare era fatto. «Il mobilio è quello che aveva l'ultimo occupante?» chiese la zia. «Sì, signora, è lo stesso,» rispose la signora Crupp. «Che è successo di lui?» chiese ancora la zia. La signora Crupp fu presa da un penoso accesso di tosse in mezzo al quale articolò con molta difficoltà: «Si è ammalato qui, signora, e - hem, hem, hem, povera me! - è morto!» «Come? E di che cosa è morto?» si informò la zia. «Be', signora, è morto a forza di bere,» disse confidenzialmente la signora Crupp. «E di fumo.» «Fumo? Non vorrete dire il fumo dei caminetti?» chiese la zia. «No, signora,» rispose la signora Crupp. «Sigari e pipa.» «Questa, a ogni buon conto, non è una malattia che si attacchi, Trot,» commentò la zia volgendosi a me. «No davvero,» dissi. In breve, la zia, vedendo quanto fossi entusiasta del locale, lo affittò per un mese con la possibilità di rimanervi per dodici mesi alla scadenza. La signora Crupp doveva badare alla biancheria e alla cucina; per tutte le altre necessità era già stato provveduto; e la signora Crupp dichiarò esplicitamente che mi avrebbe sempre amato come un figlio. Io avrei fatto il mio ingresso il dopodomani, e la signora Crupp disse che ringraziava il cielo di avere adesso qualcuno di cui occuparsi! Durante il ritorno, la zia mi confidò di aver piena fiducia che la vita che stavo per affrontare mi avrebbe reso deciso e sicuro di me, che era quanto ancora mi mancava. Lo ripeté più volte il giorno dopo, nelle soste dei nostri preparativi per trasferire dalla casa del signor Wickfield le mie vesti e i miei libri. Relativamente a questo e alla mia recente vacanza scrissi una lunga lettera ad Agnes, di cui si occupò mia zia, che doveva partire il giorno dopo. Per non dilungarmi su questi particolari, devo aggiungere solo che ella mi rifornì abbondantemente di tutto ciò che potesse essermi necessario durante il mese di prova; che Steerforth, con grande disappunto mio e di lei, non si fece vivo prima della sua partenza; che la vidi installata al sicuro sulla diligenza di Dover, esultante per le prossime sconfitte dei somari vagabondi, con Janet al suo fianco; e che, quando la diligenza fu partita, mi volsi verso l'Adelphi pensando ai vecchi giorni in cui ero solito aggirarmi per quelle arcate sotterranee, e al felice cambiamento che mi aveva riportato alla superficie. XXIV • LA MIA PRIMA BALDORIA Era straordinariamente bello avere tutto per me quell'aereo castello e sentirmi, quando chiudevo la porta d'ingresso, come Robinson Crusoe quando era entrato nel suo fortino e si era tirato dietro la scala. Era straordinariamente bello passeggiare per la città con la chiave della mia casa in tasca e sapere che potevo invitare chiunque a venirmi a trovare con la certezza che non avrebbe scomodato nessuno se non scomodava me. Era straordinariamente bello entrare e uscire, andare e venire senza dover dire una parola ad alcuno, e suonare alla signora Crupp per farla emergere ansimante dalle profondità della terra ogni volta che avevo bisogno di lei... e che lei era disposta a venire. Tutto questo, dico, era straordinariamente bello; ma devo anche aggiungere che a volte era quanto mai triste. Era bello al mattino, specialmente nelle belle mattinate. Alle prime luci dava il senso di una vita veramente fresca e libera: ancor più fresca e libera alla luce del sole alto. Ma quando il giorno declinava, anche la vita sembrava tramontare. Non so come fosse, ma raramente appariva piacevole al lume di una candela. Allora avevo bisogno di qualcuno con cui parlare. Mi mancava Agnes. Trovavo un terribile vuoto al posto di quel sorridente rifugio delle mie confidenze. La signora Crupp era ben lontana dal poterlo essere. Pensavo al mio predecessore, che era morto a forza di bere e di fumare; e quasi desideravo che fosse stato così gentile da restare in vita senza disturbarmi col suo decesso. Dopo due giorni e due notti, mi sembrava di esser vissuto là per un anno, e tuttavia non ero invecchiato di un'ora, anche se la mia giovinezza mi angustiava come sempre. Poiché Steerforth continuava a non farsi vivo, cosa che mi induceva a temere che fosse malato, il terzo giorno lasciai presto i Commons e mi recai a Highgate. La signora Steerforth fu felicissima di vedermi e mi disse che egli era partito con uno dei suoi amici di Oxford per far visita a un altro che abitava dalle parti di St. Albans, ma che lo aspettava di ritorno il giorno dopo. Io gli volevo così bene che mi sentii decisamente geloso dei suoi amici di Oxford. Ella insisté tanto perché rimanessi a pranzo, che rimasi, e credo che non si parlasse altro che di lui per tutto il giorno. Le dissi quanto lo amasse la gente di Yarmouth e quale delizioso compagno fosse stato. La signorina Dartle fu piena di allusioni e di misteriose domande, ma si interessò moltissimo a tutto quello che avevamo fatto laggiù, e disse: «Ma davvero?» e così via tante volte che riuscì a cavarmi fuori tutte le notizie che voleva sapere. Il suo aspetto era esattamente quello che ho descritto quando la vidi la prima volta; ma la compagnia delle due dame era così gradevole e così naturale per me, che mi sentii un tantino innamorato di lei. Non potei fare a meno di pensare più volte nel corso della serata, e in particolare nel tornarmene a casa di notte, quale deliziosa compagnia sarebbe stata in Buckingham Street. Al mattino, stavo prendendo il caffè col panino, prima di andare ai Commons - posso notare qui che era sorprendente quanto caffè facesse la signora Crupp e quanto fosse diluito, a pensarci - quando entrò Steerforth in persona, con mia grandissima gioia. «Mio caro Steerforth,» esclamai, «cominciavo a pensare che non vi avrei visto più.» «Mi hanno portato via di peso,» disse Steerforth, «il mattino dopo che ero tornato a casa. Diamine, Pratolina, che bel tipo di scapolo siete qui dentro!» Gli mostrai tutto l'appartamento, senza dimenticare la dispensa, con non poco orgoglio, ed egli lodò tutto senza riserve. «Vi dirò una cosa, vecchio mio,» aggiunse, «mi farò qui un quartierino di città, a meno che non mi preghiate di filar via.» Fui felice di queste parole e gli dissi che, se aspettava questo, avrebbe potuto aspettare fino al giorno del giudizio. «Ma dovete far colazione,» dissi tendendo la mano al campanello. «La signora Crupp vi porterà del caffè fresco e io vi arrostirò della pancetta su di un fornello olandese da scapolo, che ho qui.» «No, no!» esclamò Steerforth. «Non suonate! Non posso! Sto per andare a far colazione con uno di quei due che si è fermato all'albergo Piazza, in Covent Garden.» «Ma tornerete a pranzo,» dissi. «Non posso sul mio onore. Non c'è nulla che farei più volentieri, ma devo restare con quei due. Partiremo tutti e tre domattina.» «Allora portateli a pranzo qui,» risposi. «Credete che verranno?» «Oh! ci verrebbero di corsa,» disse Steerforth; «ma vi recheremmo disturbo. È meglio che veniate a pranzo con noi in qualche parte.» Non volli a nessun costo consentire a questo, perché mi era venuto in mente che davvero dovevo fare una piccola inaugurazione della casa e che non avrei mai potuto trovare una migliore occasione. Sentivo un nuovo orgoglio per il mio appartamento dopo che egli lo aveva lodato, e ardevo dal desiderio di mostrargli tutte le possibilità di esso. Lo costrinsi dunque a promettere, a nome dei suoi due amici, e fissammo il pranzo per le sei. Quando se ne fu andato, suonai alla signora Crupp e la misi al corrente del mio disperato progetto. La signora Crupp disse anzitutto che, evidentemente, non potevo aspettarmi che lei venisse a servire, ma che conosceva un giovanotto capace il quale, pensava, poteva essere indotto a farlo; che il compenso sarebbe stato di cinque scellini, e che ne pensavo. Risposi che lo avremmo assunto senz'altro. Poi la signora Crupp fece notare che, ovviamente, non avrebbe potuto essere in egual tempo in due luoghi (cosa che trovai molto ragionevole) e che sarebbe stata indispensabile una «sguatterina» relegata nella dispensa alla luce di una candela, con il compito di lavar piatti in continuazione. Chiesi quanto sarebbe venuta a costare questa ragazza, e la signora Crupp mi rispose che, a suo parere, diciotto pence non mi avrebbero né arricchito né mandato in rovina. Dissi che lo pensavo anch'io, e questo fu sistemato. Allora la signora Crupp disse: «E adesso pensiamo al pranzo.» Si rivelò un notevole esempio di imprevidenza da parte del fabbro che aveva costruito il fornello della signora Crupp, il fatto che su di esso non si potessero cuocere che bistecche e purè di patate. Quanto alla pescera, la signora Crupp chiese se, be', volevo andar giù a vedere il fornello; più di così non poteva dire: volevo andare a vederlo? Poiché non ne avrei saputo molto di più se lo avessi visto, declinai l'invito e conclusi: «Non pensiamo più al pesce.» Ma la signora Crupp rispose di non dir così; c'erano le ostriche, e perché scartarle? Così anche questo fu sistemato. La signora Crupp disse allora che quel che mi consigliava era questo. Un paio di polli arrosto... dalla rosticceria; un piatto di bue stufato con verdura... dalla rosticceria; due piccoli tramessi come un pasticcio lievitato e un piatto di rognoni... dalla rosticceria, una torta e (se volevo) una forma di gelatina... dalla rosticceria. Così, disse la signora Crupp, lei sarebbe stata libera di concentrar la mente sulle patate e di servire il formaggio col sedano nel modo più perfetto. Seguii i consigli della signora Crupp e passai io stesso dalla rosticceria a far l'ordinazione. Poi, passeggiando lungo lo Strand e notando nella vetrina di un salumiere una sostanza molto screziata che sembrava marmo ma che portava l'etichetta «Brodo di finta tartaruga», entrai e ne acquistai una fetta che avevo ragioni per credere sufficiente a quindici persone. La signora Crupp, dopo aver fatto qualche difficoltà, consentì a scaldare questo preparato, il quale, passando allo stato liquido, si restrinse tanto da divenire quello che Steerforth definì «una porzione piuttosto scarsa» per quattro. Portati felicemente a termine questi preparativi, comprai della frutta al mercato del Covent Garden e feci un'ordinazione piuttosto generosa presso un vinaio delle vicinanze. Quando tornai a casa nel pomeriggio e vidi le bottiglie disposte in quadrato sul pavimento della dispensa, mi parvero tante (sebbene ne mancassero due, cosa che portò la signora Crupp alla disperazione), che ne rimasi assolutamente atterrito. Uno degli amici di Steerforth si chiamava Grainger e l'altro Markham. Erano allegri e vivaci; Grainger un po' più anziano di Steerforth; Markham dall'apparenza giovanile e, direi, non più che ventenne. Notai che quest'ultimo parlava sempre di sé in modo indefinito, come di «un uomo», e raramente o mai in prima persona singolare. «Un uomo può passarsela benissimo, qui, signor Copperfield,» disse Markham alludendo a se stesso. «La posizione non è brutta,» risposi, «e le stanze sono molto comode.» «Spero che siate venuti tutti e due con molto appetito,» disse Steerforth. «Sul mio onore,» rispose Markham, «sembra che la città aguzzi l'appetito di un uomo. Un uomo ha fame tutto il giorno. Un uomo non fa che mangiare in continuità.» Un po' impacciato sulle prime, e sentendomi troppo giovane per assumere la presidenza, quando il pranzo fu annunciato misi Steerforth a capo tavola e io sedetti di fronte a lui. Tutto era eccellente; non risparmiammo il vino; Steerforth si diede da fare così brillantemente perché tutto andasse bene che non vi furono soste nella nostra allegria. Durante il pranzo non fui di così buona compagnia come avrei voluto, perché la mia sedia era di fronte alla porta e io mi sentivo continuamente distratto notando come il giovanotto capace usciva spesso dalla stanza e, immediatamente dopo, la sua ombra si proiettava sulla parete dell'ingresso con una bottiglia alla bocca. Anche la «sguatterina» mi procurò un certo disagio: non perché trascurasse di lavare i piatti, ma perché li rompeva. Essendo infatti di natura indagatrice e incapace di restare (secondo le rigorose istruzioni ricevute) nei limiti della dispensa, non faceva che spiarci e immaginare di essere scoperta: nella qual convinzione si ritirava bruscamente sui piatti (che aveva disposto con cura su tutto il pavimento) facendone strage. Queste, comunque, erano piccole contrarietà facilmente dimenticate quando si sparecchiò e venne in tavola la frutta. A questo punto del pranzo, il giovanotto capace risultò completamente incapace di parlare, e io, dopo avergli dato istruzioni in privato perché andasse a far compagnia alla signora Crupp e si portasse dietro al pian terreno anche la «sguatterina», mi abbandonai alla gioia. Cominciai con l'essere singolarmente allegro e leggero; tutti gli argomenti di conversazione semidimenticati mi tornarono in folla alla memoria e mi spinsero a declamare in modo quanto mai inconsueto. Risi di cuore ai miei scherzi e a quelli degli altri; richiamai all'ordine Steerforth perché non passava il vino; presi parecchi impegni di andare a Oxford; annunciai che, fino a nuovo ordine, intendevo dare un pranzo esattamente come quello una volta la settimana; e tirai su follemente tante prese di tabacco dalla tabacchiera di Grainger, che fui costretto a rifugiarmi nella dispensa per abbandonarmi in privato a un accesso di starnuti che durò dieci minuti buoni. Andai avanti così passando il vino sempre più in fretta e balzando continuamente su col cavatappi in mano per aprire un'altra bottiglia molto prima che ce ne fosse bisogno. Proposi di brindare alla salute di Steerforth. Dissi che era il mio amico più caro, il protettore della mia infanzia, il compagno della mia giovinezza. Dissi che ero felice di brindare alla sua salute. Dissi che gli dovevo assai più di quanto avrei mai potuto ricambiare e che avevo per lui un'ammirazione assai più alta di quanto potessi mai esprimere. Conclusi dicendo: «Alla vostra salute, Steerforth! Dio vi benedica! Evviva!» Inneggiammo a lui tre volte tre, e poi ancora un'altra e una buona per concludere. Spezzai il mio bicchiere per girare attorno alla tavola e stringergli la mano, e dissi, (con due sole parole): «Steerforth... sietelastellacheguidalamiaesistenza.» Continuai accorgendomi a un tratto che qualcuno era nel bel mezzo di una canzone. Il cantore era Markham e cantava «Quando il cuor di un uomo è oppresso». Quando ebbe finito, disse di voler brindare «Alla donna». A questo feci obbiezione e non potei concederlo. Dissi che non era un modo rispettoso di proporre un brindisi e che non avrei mai permesso, in casa mia, altro brindisi che «Alle signore!». Fui molto aggressivo con lui, soprattutto, credo, perché vidi Steerforth e Grainger ridere di me, o di lui, o di entrambi. Lui disse che un uomo non riceveva ordini. Io ribattei che doveva riceverli. Lui disse che, allora, un uomo non doveva essere insultato. Io riconobbi che in questo aveva ragione: non certo sotto il mio tetto, dove i Lari erano sacri e le leggi dell'ospitalità supreme. Lui concluse che non derogava in nulla dalla dignità di un uomo confessare che io ero un tipo maledettamente simpatico. Io proposi subito un brindisi alla sua salute. Qualcuno fumava. Fumavamo tutti. Fumavo anch'io tentando di reprimere una crescente tendenza a rabbrividire. Steerforth aveva fatto un discorso su di me, nel corso del quale fui commosso fino alle lacrime. Io lo ringraziai ed espressi la speranza che la presente compagnia avrebbe pranzato con me l'indomani, e anche il giorno dopo... ogni giorno alle cinque per poter godere i piaceri della conversazione e di stare insieme per tutta una lunga serata. Mi sentii indotto a proporre un brindisi personale. Volevo che brindassero alla zia, la signorina Betsey Trotwood, la migliore del suo sesso! Qualcuno si sporgeva dalla finestra della mia stanza da letto rinfrescandosi la fronte contro la fredda pietra del davanzale e prendendo aria sul volto. Ero io. Mi rivolgevo a me stesso chiamandomi Copperfield e dicendo: «Perché hai provato a fumare? Avresti dovuto ben sapere che non ce la fai.» Adesso qualcuno si contemplava traballando le fattezze nello specchio. Ero ancora io. Nello specchio apparivo pallidissimo; gli occhi avevano uno sguardo vuoto, e i capelli - solo i capelli, nient'altro - avevano tutta l'aria di essere ubriachi. Qualcuno mi disse: «Andiamo a teatro, Copperfield! Non c'era più la stanza da letto davanti a me, ma di nuovo la tintinnante tavola coperta di bicchieri; la lampada; Grainger alla mia destra, Markham alla sinistra e Steerforth di fronte... tutti seduti in una nebbia e a una gran distanza. Il teatro? Sicuro. Proprio quello che ci voleva. Andiamo! Ma dovevano scusarmi se li mandavo avanti e spegnevo la lampada... in caso di incendio. A causa di una certa confusione nel buio, la porta era scomparsa. Io stavo cercandola fra le tende della finestra quando Steerforth, ridendo, mi prese per un braccio e mi condusse fuori. Scendemmo le scale l'uno dietro l'altro. Quasi in fondo, qualcuno cadde e ruzzolò giù. Qualcun altro disse che era Copperfield. A questa falsa affermazione mi irritai, finché, trovandomi supino nel corridoio, cominciai a pensare che doveva esserci un qualche fondamento. Una notte quanto mai nebbiosa, con grandi cerchi di luce intorno alle lampade nelle strade! Udii parlare in modo indistinto sul fatto che era umida. A me parve gelata. Steerforth mi spolverò sotto un lampione e rimise in forma il mio cappello che qualcuno tirò fuori da qualche parte nel modo più misterioso, perché prima non l'avevo. Allora Steerforth disse: «Tutto a posto, Copperfield, non è vero?» e io risposi: «Maimegliodicosì.» Un uomo seduto in una specie di piccionaia guardò fuori dalla nebbia e prese del denaro da qualcuno domandando se ero uno dei signori per i quali era stato preso il biglietto e mostrandosi molto incerto (come ricordo dall'occhiata che riuscii a dargli) se prendere o no il denaro per me. Poco dopo ci trovavamo molto in alto in un teatro ardente, a guardare in giù in un immenso pozzo che mi sembrava pieno di fumo, tanto indistinta era la gente che lo stipava. V'era anche un grande palcoscenico che, dopo le strade, mi appariva liscio e lindo; e là sopra c'era della gente che diceva qualche cosa di assolutamente incomprensibile. C'era un'abbondanza di vivide luci, e c'era della musica, e più giù c'erano delle signore nei palchi e non so che altro. Tutto l'edificio mi sembrava come se stesse imparando a nuotare: si comportava in modo inesplicabile ogni volta che cercavo di fermarlo. Su proposta di qualcuno decidemmo di scendere nel retro dei palchi, dove erano le signore. Mi passò davanti agli occhi un signore in abito da sera, sdraiato su di un divano con un binocolo in mano, e poi la mia stessa immagine a grandezza naturale in uno specchio. Poi fui spinto in uno di quei palchi e mi trovai a dire qualche cosa nel sedermi mentre la gente intorno a me intimava «Silenzio!» a qualcuno e le signore mi lanciavano sguardi sdegnati, e - ma come? ma sì! - Agnes era seduta davanti a me nello stesso palco, con una signora e un signore che non conoscevo presso di lei. Rivedo adesso il suo volto meglio di quanto non lo vedessi allora, oserei dire, con il suo incancellabile sguardo di rammarico e di meraviglia rivolto verso di me. «Agnes!» dissi con la lingua impastata, «Diomibenedica! Agnes!» «Zitto, prego!» mi rispose senza che potessi capire perché. «Disturbi questi signori. Guarda il palcoscenico.» A questa ingiunzione tentai di fissarlo e di udire qualche cosa di quello che stava succedendo laggiù, ma assolutamente invano. Poco dopo la guardai ancora e la vidi rannicchiarsi nel suo angolo portandosi la mano inguantata alla fronte. «Agnes!» dissi, «temochetunonstiabene.» «Sì, sì. Non pensare a me, Trotwood,» rispose. «Ascolta! Non vorresti andartene subito?» «Andarmenesubito?» ripetei. «Sì.» Ebbi la sciocca intenzione di rispondere che volevo aspettare per darle il braccio scendendo le scale. E credo di averlo detto in qualche modo; perché, dopo avermi guardato attentamente per un poco, parve capirmi e disse a voce bassa: «So che farai quello che ti chiedo se ti assicuro che parlo sul serio. Va via, adesso, se mi vuoi bene, e prega i tuoi amici di condurti a casa.» Frattanto mi aveva reso abbastanza consapevole del mio stato perché, sebbene adirato con lei, mi sentissi pieno di vergogna e con un breve «Bonore!» (con cui volevo intendere «Buona notte!») mi alzassi e me ne andassi. Gli altri mi seguirono e io passai immediatamente dalla porta del palco nella mia stanza da letto, dove il solo Steerforth era con me, aiutandomi a spogliarmi, e dove, alternatamente, andavo ripetendogli che Agnes era mia sorella e scongiurandolo di portarmi il cavatappi perché potessi sturare un'altra bottiglia. Poi ci fu qualcuno che si sdraiò nel mio letto e rimase lì ripetendo e rifacendo tutto questo più e più volte, a domanda e risposta, in un sogno febbrile che durò tutta notte, mentre il letto era un mare in tempesta che non si fermava mai. Poi, mentre quel qualcuno andava ricomponendosi lentamente in me stesso, cominciai a inaridirmi e ad aver l'impressione che il mio involucro di pelle fosse divenuto un duro assito; che la lingua fosse il fondo di una pentola vuota, incrostata da un lungo uso, messa a scaldare sopra un fuoco basso; che le palme delle mie mani fossero lastre di metallo ardente che nessun ghiaccio avrebbe potuto raffreddare! Ma quale angoscia, quale rimorso, quale vergogna provai quando tornai in me il giorno dopo! E l'orrore di aver commesso mille offese che avevo dimenticato e nulla avrebbe mai potuto espiare... il ricordo dell'incancellabile sguardo che Agnes mi aveva lanciato... la torturante impossibilità di comunicare con lei ignorando, bestia che ero, perché fosse a Londra e dove abitasse... il mio disgusto alla sola vista della stanza in cui era avvenuta la baldoria... la testa che mi andava in pezzi... l'odore di fumo, la vista dei bicchieri, l'impossibilità di uscire e perfino di alzarmi! Oh, che giorno fu quello! E, oh, quale sera, quando mi trovai seduto davanti al fuoco con una scodella di brodo di montone tutto increspato di grasso, a pensare che mi stavo avviando per la stessa strada del mio predecessore, e che gli sarei succeduto nella sua triste storia come nelle sue stanze, con una mezza idea di precipitarmi difilato a Dover e confessare tutto! Quale sera, quando la signora Crupp, entrando per portar via la scodella del brodo, mi presentò un rognone su di un piattino, unico avanzo del festino del giorno prima, e io mi sentii fortemente tentato di caderle sul seno di nanchino dicendole con profondo pentimento: «Oh, signora Crupp, signora Crupp, portate via questi avanzi! Sono così infelice!» Solo che dubitavo, anche in quelle condizioni, se la signora Crupp fosse proprio il tipo di donna a cui confidarsi. XXV • BUONI E CATTIVI ANGELI Stavo uscendo dalla mia porta, il mattino dopo quel deplorevole giorno di mal di testa, nausea e pentimento, con una strana confusione nella mente relativa alla data del banchetto, come se una schiera di Titani, impugnando un'enorme leva, avesse spinto indietro di qualche mese l'avantieri, quando vidi un fattorino salir le scale con una lettera in mano. In quel momento se la prendeva assai comoda nell'eseguire il suo compito; ma appena mi vide in cima alle scale, che lo guardavo al di sopra della ringhiera, prese il trotto e arrivò su ansante come se avesse corso fino all'esaurimento. «L'egregio signor T. Copperfield?» chiese il fattorino toccandosi il cappello con il suo bastoncino. Riuscii appena a riconoscere quel nome come mio, tanto mi turbava l'idea che quella lettera venisse da Agnes. Comunque risposi che l'egregio signor T. Copperfield ero io, lui lo credette e mi diede la lettera avvertendomi che aspettava la risposta. Lo chiusi fuori, lasciandolo ad aspettarla sul pianerottolo, e rientrai nelle mie stanze in un tale stato di nervosismo che fui costretto a posar la lettera sul tavolino della colazione e prender familiarità col suo esterno per qualche momento prima di potermi decidere a rompere il sigillo. Apertala, vi trovai poche righe molto gentili senza alcuna allusione alle condizioni in cui mi ero trovato a teatro. Diceva solo: «Mio caro Trotwood. Abito nella casa del rappresentante di papà, il signor Waterbrook, in Ely Place, Holborn. Vuoi venire a trovarmi quest'oggi, a qualsiasi ora ti piaccia? Sempre la tua affezionata Agnes.» Impiegai tanto tempo a scrivere una risposta soddisfacente, che non so che cosa il fattorino possa aver pensato, se non che stessi imparando a scrivere. Devo aver buttato giù almeno mezza dozzina di risposte. Ne cominciai una: «Come posso sperare, cara Agnes, di cancellare dal tuo ricordo la disgustosa impressione...» Ma non mi piacque e la lacerai. Ne cominciai un'altra: «Shakespeare ha notato, mia cara Agnes, come sia strano il fatto che un uomo possa mettersi in bocca il suo nemico...» ma mi ricordò il signor Markham, e non proseguii. Tentai perfino la poesia. Ne cominciai una in versi senari: «Giammai ti rimembre,» ma faceva rima con «quel cinque novembre», ed era idiota. Dopo molti tentativi scrissi: «Mia cara Agnes. La tua lettera è come te, e cos'altro potrei dire per farne maggior lode? Verrò alle quattro. Con affetto e con rammarico, T. C.» Con questa missiva (che avrei voluto riprendere cento volte non appena mi fu uscita dalle mani) il fattorino finalmente se ne andò. Se quel giorno fu, per qualsiasi altro professionista dei Doctors' Commons, solo la metà tremendo di quanto lo fu per me, credo sinceramente che abbia espiato la parte toccatagli di quel vecchio e inacidito formaggio ecclesiastico. Sebbene lasciassi l'ufficio alle tre e mezzo e già pochi minuti dopo mi aggirassi intorno al luogo dell'appuntamento, l'ora stabilita era già passata da un buon quarto d'ora, secondo l'orologio della chiesa di Sant'Andrea, a Holborn, prima che riuscissi ad accumulare una sufficiente disperazione per tirare il campanello privato sullo stipite sinistro del portone di casa del signor Waterbrook. Gli affari professionali dello studio del signor Waterbrook, venivano sbrigati al pianterreno, e quelli privati (che erano parecchi) nei piani superiori dell'edificio. Fui condotto in un salotto grazioso, ma piuttosto soffocante, e là era seduta Agnes, intenta a fare una borsa a rete. Appariva così calma e buona, e mi ricordava così fortemente i miei ariosi e freschi giorni di scuola a Canterbury e l'ebbro rottame, ottenebrato e impregnato di fumo quale ero stato l'altra notte, che, poiché nessun altro era presente, mi abbandonai al rimorso e alla vergogna, e... in una parola, feci una figura deplorevole. Non posso negare che versai lacrime. Ancor oggi non sono sicuro se, dopo tutto, fosse la cosa più saggia che potessi fare o la più ridicola. «Se fosse stato chiunque altro eccetto te, Agnes,» dissi volgendo la testa da parte, «non me ne importerebbe nemmeno la metà. Ma che sia stata tu a vedermi in quello stato! Vorrei quasi essere morto prima.» Mi pose per un momento la mano sul braccio: il suo tocco era diverso da quello di ogni altra mano; e me ne sentii così sostenuto e confortato che non potei fare a meno di portarla alle labbra e baciarla. «Siediti,» disse Agnes gaiamente. «Non essere infelice, Trotwood. Se non puoi avere confidenza in me, in chi potrai averla?» «Oh, Agnes,» risposi. «Tu sei il mio buon angelo!» Rise un po' tristemente, mi parve, e scosse la testa. «Sì, Agnes, il mio buon angelo! Sempre il mio buon angelo!» «Se lo fossi davvero, Trotwood,» rispose, «c'è una cosa che mi starebbe più di ogni altra a cuore.» La guardai con aria interrogativa, ma già prevedendo quello che intendeva. «Metterti in guardia,» disse Agnes con uno sguardo fermo, «contro il tuo angelo cattivo.» «Mia cara Agnes,» cominciai, «se alludi a Steerforth...» «Proprio lui, Trotwood,» rispose. «Allora, Agnes, gli fai una grande ingiustizia. L'angelo cattivo mio o di chiunque! Lui, che è solo una guida, un sostegno e un amico per me! Mia cara Agnes! Suvvia, non è forse ingiusto e indegno di te giudicarlo da quanto hai visto di me l'altra notte?» «Non lo giudico da quanto ho visto di te l'altra notte,» ribatté tranquilla. «E da che cosa, allora?» «Da molte cose... inezie in se stesse, ma che non mi sembrano tali se le metto insieme. Lo giudico in parte da quello che tu stesso mi hai detto di lui, Trotwood, e dal tuo carattere, e dall'influenza che ha su di te.» V'era sempre, nella sua voce modesta, qualche cosa che sembrava toccare in me una corda capace di rispondere solo a quel suono. La sua voce era sempre seria, ma quando era molto seria, come in quel momento, vi sentivo un fremito che mi soggiogava. Stavo lì seduto guardandola mentre abbassava gli occhi sul suo lavoro, apparentemente ascoltandola con calma; e Steerforth, nonostante tutta la mia devozione per lui, si oscurava a quel tono. «È molto ardito, da parte mia,» disse Agnes alzando di nuovo lo sguardo, «se penso di avere vissuto sempre appartata e che posso conoscere così poco del mondo, darti il mio consiglio con tanta confidenza o anche essere con tanta sicurezza di questo parere. Ma so da che cosa nasce, Trotwood, da quale sincero ricordo del nostro essere venuti su insieme, da quale sincero interesse per tutto ciò che ti riguarda. E questo mi rende ardita. Sono sicura che quello che dico è giusto. Ne sono assolutamente sicura. Ho l'impressione che sia qualcun altro a parlare, e non io, quando ti avverto che ti sei fatto un amico pericoloso.» La guardai ancora, ancora rimasi in ascolto dopo che ebbe parlato, e ancora l'immagine di Steerforth, per quanto ben fissa nel mio cuore, si oscurò. «Non sono così irragionevole da aspettarmi,» disse Agnes dopo un poco, riprendendo il suo tono abituale, «che tu voglia o possa cambiare d'un tratto un sentimento che è divenuto per te una convinzione profonda; meno che mai un sentimento che si è radicato nel tuo carattere fiducioso. Non devi farlo affrettatamente. Solo ti chiedo, Trotwood, se mai pensi a me - voglio dire,» aggiunse con un calmo sorriso, perché io stavo per interromperla e lei sapeva perché «ogni volta che pensi a me - di ricordare quello che ti ho detto. Mi perdoni per tutto questo?» «Ti perdonerò Agnes,» risposi, «quando avrai reso giustizia a Steerforth e lo amerai come lo amo io.» «Non prima?» chiese Agnes. Vidi passare un'ombra sul suo volto, quando feci questo accenno a lui, ma rispose al mio sorriso, e fummo di nuovo senza riserve nelle nostre reciproche confidenze come nei vecchi tempi. «E quando, Agnes,» chiesi a mia volta, «mi perdonerai tu l'altra notte?» «Quando me la ricorderò,» mi rispose Agnes. Avrebbe lasciato cadere così l'argomento, ma io ne ero troppo pieno per concederlo, e insistei nel raccontarle come era avvenuto che mi fossi abbassato a quel modo, e quale catena di circostanze fortuite aveva avuto il teatro come ultimo anello. Era un gran sollievo per me il farlo e il soffermarmi sulla riconoscenza che dovevo a Steerforth per la cura che si era preso di me quando ero incapace di badare a me stesso. «Non devi dimenticare,» disse Agnes, cambiando pacatamente argomento appena ebbi concluso, «che dovrai confidarmi sempre non solo i tuoi crucci ma anche i tuoi amori. Chi è succeduta alla signorina Larkins, Trotwood?» «Nessuna, Agnes.» «Qualcuna, Trotwood,» disse Agnes ridendo e alzando il dito. «No, Agnes, in parola! Certo, in casa della signora Steerforth, c'è una damigella molto intelligente con cui mi piace parlare - la signorina Dartle - ma non l'adoro davvero.» Agnes rise di nuovo della propria penetrazione, e mi disse che, se ero sincero nelle mie confidenze, avrebbe tenuto un piccolo registro delle mie passioni, con la data, la durata e il termine di ognuna, come la tavola dei regni delle regine e dei re nella Storia d'Inghilterra. Poi mi chiese se avevo visto Uriah. «Uriah Heep?» dissi. «No. È a Londra?» «Viene ogni giorno all'ufficio a terreno,» rispose Agnes. «È arrivato a Londra una settimana prima di me. Temo per una spiacevole faccenda, Trotwood.» «Per una faccenda che ti rende inquieta, Agnes, a quanto vedo,» dissi. «Che cosa può essere?» Agnes mise da parte il lavoro e, riunendo le mani l'una sull'altra e guardandomi con i suoi begli occhi dolci, rispose: «Credo che stia per entrare in società con papà.» «Chi? Uriah? Quell'essere vile e strisciante insinuarsi in una posizione simile!» esclamai sdegnato. «E non hai protestato? Considera qual relazione sarà questa. Devi parlar chiaro. Non devi permettere che tuo padre faccia questa pazzia. Devi impedirlo, Agnes, finché sei in tempo.» Sempre guardandomi, Agnes scuoteva la testa mentre parlavo, con un debole sorriso per il mio calore; e poi rispose: «Ricordi la nostra ultima conversazione circa papà? Non molto dopo - non più di due o tre giorni - mi diede la prima notizia di quel che ti ho detto. Era triste dibattersi fra il desiderio di presentarmi la cosa come se fosse un suo desiderio, e l'incapacità di celarmi che era costretto a farlo. Mi sono sentita molto addolorata.» «Costretto a farlo, Agnes? Chi lo costringe?» «Uriah,» rispose dopo un momento di esitazione, «si è reso indispensabile a papà. È astuto e accorto. Ha dominato le debolezze di papà, le ha incoraggiate e se ne è avvantaggiato, finché - per dirti tutto in una parola, Trotwood - papà è arrivato ad aver paura di lui.» V'era qualche cosa di più di quanto mi aveva detto; qualche cosa di più che lei sapeva o sospettava: lo vedevo chiaramente. Ma non potevo darle il dolore di chiederle che mai fosse, perché capivo che me lo celava per risparmiare suo padre. Mi rendevo conto che la cosa andava avanti da tempo: sì, non potevo non capire, con un minimo di riflessione, che da molto tempo le cose si erano messe per questa via. Rimasi in silenzio. «Il suo ascendente su papà,» disse Agnes, «è immenso. Non fa che professare umiltà e gratitudine - forse sinceramente: lo spero - ma la sua posizione è davvero potente, e temo che faccia un cattivo uso del suo potere.» Dissi che era un miserabile, cosa che, al momento, mi diede grande soddisfazione. «Al tempo di cui parlo, quando papà mi accennò la cosa,» proseguì Agnes, «lui aveva detto che stava per lasciarlo; che era molto spiacente di andarsene e lo faceva suo malgrado, ma aveva prospettive migliori. Mio padre, allora, era molto abbattuto e più oppresso dalle preoccupazioni di quanto tu e io lo avessimo mai visto; ma parve sollevato da questo espediente della società, sebbene ne sembrasse in egual tempo colpito e mortificato.» «E tu come l'hai accolto, Agnes?» «Feci quello che speravo fosse giusto, Trotwood,» rispose. «Ero sicura che questo sacrificio fosse necessario per la pace di papà, e lo spinsi a compierlo. Gli dissi che gli avrebbe alleggerito il peso dell'esistenza - spero che sarà così - e che io avrei avuto maggiori possibilità di essere la sua compagna. Oh, Trotwood!» esclamò Agnes mettendosi le mani sul volto mentre le lacrime sgorgavano, «temo quasi di essere stata la nemica di papà invece della sua figlia devota. Perché so quanto è stato mutato dal suo affetto per me. So quanto ha ristretto la cerchia delle sue amicizie e dei suoi impegni per concentrarsi tutto su di me. So a quante cose ha rinunciato per amor mio e come le sue vigili cure per me abbiano adombrato la sua vita e indebolito la sua volontà e le sue energie volgendole tutte su di un'unica idea. Se potessi sistemare tutto questo nel modo giusto! Se potessi rimetterlo in piedi così come sono stata innocentemente la causa del suo declino!» Non avevo mai visto Agnes piangere prima di allora. Avevo visto lacrime nei suoi occhi quando avevo portato nuovi premi dalla scuola, gliele avevo viste l'ultima volta che avevamo parlato di suo padre, e l'avevo vista volgere gentilmente il capo da parte quando ci eravamo congedati; ma non l'avevo mai vista così addolorata. Ne fui tanto rattristato che potei dire solo con sciocca impotenza: «Ti prego, Agnes, non fare così! Non fare così, mia cara sorella!» Ma Agnes era troppo superiore a me, per carattere e decisione, come so bene oggi, checché potessi saperne o non saperne allora, per avere a lungo bisogno delle mie suppliche. I suoi bei modi calmi che, nel mio ricordo, la rendono diversa da ogni altro, tornarono presto, come se una nube fosse passata via da un cielo sereno. «Probabilmente non ci ritroveremo da solo a sola per molto tempo,» disse Agnes, «e, finché ne abbiamo l'opportunità, lascia che ti preghi seriamente, Trotwood, di mostrarti amico con Uriah. Non respingerlo. Non irritarti (come credo saresti incline a fare) per quello che puoi trovare in lui di antipatico. Può darsi che non lo meriti, perché, con certezza, non conosciamo in lui nulla di male. In ogni caso, pensa prima a papà e a me!» Agnes non ebbe il tempo di dir di più, perché la porta della stanza si aprì e la signora Waterbrook, che era una dama abbondante - o che indossava un abbondante vestito: non so esattamente cosa, perché ignoro fin dove arrivasse il vestito e fin dove la signora - entrò a vele spiegate. Avevo un vago ricordo di averla vista a teatro, come se l'avessi veduta proiettata da una pallida lanterna magica; ma lei parve ricordarsi perfettamente di me e sospettare che fossi ancora in stato di ubriachezza. Comunque, accorgendosi a poco a poco che ero lucido e (spero) un giovane modesto, la signora Waterbrook si addolcì notevolmente nei miei riguardi e si informò, anzitutto, se frequentavo molto i giardini pubblici, secondariamente se frequentavo molto la società. Avendo risposto negativamente a entrambe le domande, mi accorsi di essere rientrato nel suo favore; ma lei celò tutto con grazia e mi invitò a pranzo per il giorno dopo. Accettai l'invito e presi congedo, passando, nell'uscire, dall'ufficio di Uriah e lasciandovi un biglietto di visita data la sua assenza. Quando andai al pranzo, il giorno dopo, e, appena apertosi il portone, mi trovai immerso in un denso vapore di coscia di montone, indovinai di non essere il solo ospite riconoscendo a prima vista il fattorino che, in tutt'altra veste, aiutava il domestico e attendeva ai piedi della scala per annunciarmi. Quando chiese discretamente il mio nome ebbe l'aria, raggiunta con grande abilità, di non avermi mai visto prima di allora; ma io lo riconobbi bene e non meno bene lui riconobbe me. La consapevolezza ci rese vili entrambi. Trovai che il signor Waterbrook era un signore di mezza età col collo corto e il colletto altissimo, al quale mancava soltanto un naso nero per essere il ritratto di un pechinese. Mi disse che era felice di aver l'onore di fare la mia conoscenza, e, quando ebbi presentato i miei omaggi alla signora Waterbrook, mi presentò con molte cerimonie a una terribilissima signora in abito di velluto nero, con un gran cappello di velluto nero, che ricordo di aver considerato come una stretta parente di Amleto, diciamo una zia. Si trattava della signora Henry Spiker, e c'era anche suo marito: un uomo così freddo che la sua testa, più che grigia, appariva cosparsa di brina. Agli Spiker, maschio e femmina, veniva mostrata un'immensa deferenza a causa, mi disse Agnes, del fatto che il signor Henry Spiker era procuratore di qualche cosa o di qualcuno, non ricordo che o chi, lontanamente connesso con il Tesoro. Fra gli invitati trovai Uriah Heep, in abito nero e profonda umiltà. Mi disse, quando gli strinsi la mano, di essere orgoglioso che mi fossi ricordato di lui e che si sentiva veramente obbligato verso di me per la mia condiscendenza. Avrei desiderato che si fosse sentito meno obbligato, perché, nella sua gratitudine, mi gironzolò attorno per tutto il resto della sera; e, ogni volta che dicevo una parola ad Agnes, ero sicuro che, con i suoi occhi senza ciglia e il volto cadaverico, ci spiava spettralmente alle spalle. C'erano altri invitati, tutti, con mio stupore, congelati per la circostanza, come il vino. Ma uno attrasse la mia attenzione prima ancora di comparire, quando lo udii annunciare come signor Traddles! La mia mente volò al Collegio Salem: che fosse quel Tommy, pensai, che non faceva altro che disegnare scheletri? Osservai il signor Traddles con insolito interesse. Era un giovane serio e posato dai modi riservati, con una buffa capigliatura e occhi un tantino sbarrati; si rifugiò così in fretta in un angolo oscuro che stentai parecchio a riconoscerlo. Ma infine potei vederlo bene e, se la vista non m'ingannava, era proprio il vecchio e disgraziato Tommy. Mi avvicinai al signor Waterbrook e gli dissi che credevo di aver trovato lì, con molto piacere, un mio antico compagno di scuola. «Davvero?» esclamò meravigliato il signor Waterbrook. «Ma voi siete troppo giovane per essere stato a scuola col signor Henry Spiker!» «Oh, non intendo lui,» risposi. «Mi riferisco a quel signore che si chiama Traddles.» «Oh! Sì, sì! Certo!» disse il mio ospite con molto minore interesse. «È possibile.» «È proprio lui,» continuai gettandogli uno sguardo. «Fu in una scuola chiamata Collegio Salem, dove ci trovavamo insieme. Era un ottimo ragazzo.» «Oh sì. Traddles è un buon ragazzo,» rispose il mio ospite assentendo con la testa in modo indulgente. «Proprio un buon ragazzo, Traddles.» «Curiosa coincidenza,» notai. «Veramente,» disse il mio ospite, «è proprio una coincidenza che Traddles sia qui, perché è stato invitato solo stamane, quando si è reso libero il posto destinato al fratello della signora Spiker, a causa di una sua indisposizione. Una persona molto distinta, il fratello della signora Spiker, signor Copperfield.» Mormorai un assenso pieno di sentimento, almeno se si considera che di questo signore non sapevo assolutamente nulla; e chiesi quale fosse la professione del signor Traddles. «Traddles,» rispose il signor Waterbrook, «è un giovane che studia per avvocato. Sì. Proprio un bravo ragazzo... nemico di nessuno fuorché di se stesso.» «Nemico di se stesso?» chiesi, spiacente di udire questa espressione. «Be',» rispose il signor Waterbrook sporgendo le labbra e giocherellando con la catena del suo orologio con una certa disinvolta imponenza. «Direi che è uno di quegli uomini che si fanno ombra da soli. Sì, direi, per esempio, che non riuscirà mai a valere cinquecento sterline. Traddles mi è stato raccomandato da un collega. Oh sì. Sì. Ha un certo talento nel compilare i fascicoli e nel mettere in scritto una causa con molta chiarezza. Riesco ad affidargli qualche lavoro che vada bene per lui, nel corso dell'anno; qualche cosa che, per lui, è considerevole. Oh sì. Sì.» Fui molto impressionato dal modo straordinariamente disinvolto e imponente con cui il signor Waterbrook dava fiato a ogni momento alla paroletta «Sì». Vi era in essa una forza espressiva stupefacente. Dava tutta l'idea di un uomo nato non solo con la camicia ma con una scala da assedio, e che era andato inerpicandosi su tutte le vette della vita, l'una dopo l'altra, finché, adesso, guardava dal sommo delle fortificazioni, con l'occhio di un filosofo e di un patrono, la gente minuta giù nelle trincee. Le mie riflessioni sull'argomento erano ancora in sviluppo quando fu annunciato il pranzo. Il signor Waterbrook scese con la zia di Amleto. Il signor Henry Spiker diede il braccio alla signora Waterbrook. Agnes, che avrei voluto condurre io stesso, fu assegnata a un tipo dal sorriso affettato e le gambe flosce. Uriah, Traddles e io, come i più giovani, scendemmo per ultimi per conto nostro. Non mi dispiacque troppo di perdere Agnes perché ebbi così la opportunità, scendendo le scale, di farmi riconoscere da Traddles, il quale mi fece gran festa, mentre Uriah si contorceva con una così importuna e soddisfatta umiltà che volentieri lo avrei scaraventato giù dalla ringhiera. Traddles e io fummo separati a tavola perché i nostri biglietti erano in due angoli distanti: lui nel fulgore di una signora in velluto rosso; io nelle tenebre della zia di Amleto. Il pranzo durò un'eternità e la conversazione si volse sull'aristocrazia... e sul Sangue. La signora Waterbrook non fece che ripeterci che, se aveva una debolezza, era per il Sangue. Più volte pensai che ci saremmo trovati molto più a nostro agio se non fossimo stati così aristocratici. Eravamo aristocratici a tal punto che il campo della conversazione restava molto limitato. Fra gli invitati v'erano un signore e una signora Gulpidge, che avevano qualche cosa a che fare di seconda mano (perlomeno il signor Gulpidge) con l'ufficio legale della Banca; e, tra la Banca e il Tesoro, fummo esclusivi come una circolare di Corte. Per migliorar le cose, la zia di Amleto aveva la debolezza di famiglia di indulgere ai soliloqui, e tirava avanti da sola, in modo un po' sconnesso, su ogni argomento che si presentava. Certo erano molto pochi; ma ogni volta che si ricadeva sul Sangue ella aveva davanti un campo di speculazioni astratte non meno vasto di quello di suo nipote. Avremmo potuto essere una congrega di orchi, tanto la conversazione assunse un tono sanguinario. «Confesso di condividere il parere della signora Waterbrook,» disse il signor Waterbrook portandosi il bicchier di vino davanti all'occhio. «Vi sono altre cose importanti, ma per me preferisco il Sangue.» «Oh! Non vi è nulla,» notò la zia di Amleto, «che dia tanta soddisfazione! Non vi è nulla, fra tutte queste cose, generalmente parlando, che possa presentarsi egualmente come il beau ideal della vita. Vi sono alcune menti inferiori (non molte, come sono lieta di credere, ma ve ne sono alcune) che preferirebbero quello che io chiamerei genuflettersi davanti agli idoli. Veri idoli! Davanti all'utilità, all'intelletto e così via. Ma queste sono cose astratte. Il Sangue no. Il Sangue si vede in un naso e lo si riconosce subito. Lo vediamo in un mento e diciamo: ‹Eccolo! Questo è Sangue!› È qualche cosa di concreto. Lo possiamo mostrare a dito. Non ammette dubbi.» Il tipo dal sorriso affettato e le gambe flosce, che aveva dato il braccio ad Agnes, stabilì la questione in modo ancor più deciso, a quanto mi parve. «Oh, si sa, che diavolo,» disse questo signore guardandosi attorno con un sorrisetto idiota, «non possiamo trascurare il Sangue, si sa. Il Sangue è necessario, si sa. Alcuni giovani, si sa, possono forse essere un po' al disotto della loro condizione in fatto di educazione e di contegno, e fare qualche errore, si sa, e mettere se stessi e gli altri in pasticci di vario genere... e così via... Ma, che diavolo, è sempre piacevole pensare che hanno del Sangue nelle vene! E quanto a me, preferirei in ogni momento essere sbattuto a terra da un uomo che abbia del Sangue, che tirato su da uno che non ne abbia!» Questa opinione, in quanto radunava tutta la questione in un guscio di noce, diede la massima soddisfazione e assicurò a quel signore una grande considerazione finché le signore si ritirarono. Dopo di che notai che il signor Gulpidge e il signor Henry Spiker, i quali fin allora erano stati molto distanti, strinsero un'alleanza difensiva contro di noi, comune nemico, e scambiarono un misterioso dialogo, da un capo all'altro della tavola, per la nostra disfatta e distruzione. «L'affare della prima ipoteca per quattromila e cinquecento sterline, non ha preso il corso che ci aspettavamo, Spiker,» disse il signor Gulpidge. «Volete dire il D. di A.?» chiese il signor Spiker. «Il C. di B.!» rispose il signor Gulpidge. Il signor Spiker alzò le sopracciglia e apparve molto preoccupato. «Quando la questione venne sottoposta a Lord... non è necessario nominarlo,» disse il signor Gulpidge interrompendosi. «Capisco,» disse il signor Spiker, «N.» Il signor Gulpidge assentì misteriosamente: «quando fu sottoposta a lui, la sua risposta fu: ‹Denaro o niente rilascio.›» «Il ciel mi benedica!» esclamò il signor Spiker. «Denaro o niente rilascio,» ripeté fermo il signor Gulpidge. «Il successore immediato... mi capite?» «K.,» disse il signor Spiker con uno sguardo sinistro. «K. allora si rifiutò assolutamente di firmare. Fu interpellato per questo a Newgate, ma si rifiutò nel modo più deciso.» Il signor Spiker era così interessato che impietrì. «A questo punto stanno adesso le cose,» concluse il signor Gulpidge rovesciandosi sullo schienale della sedia. «Il nostro amico Waterbrook vorrà scusarmi se mi astengo dallo spiegarmi più diffusamente, data l'imponenza degli interessi in giuoco.» Il signor Waterbrook era fin troppo felice, a quanto mi sembrava, che tali interessi e tali nomi fossero sia pure solo accennati alla sua tavola. Assunse un'espressione di severa comprensione (per quanto sia convinto che in tutta la discussione non aveva capito niente più di me) e approvò altamente la discrezione che era stata osservata. Il signor Spiker, dopo avere ricevuto una tale confidenza, desiderò naturalmente favorirne all'amico una sua; di conseguenza il dialogo precedente fu seguito da un altro nel quale toccò al signor Gulpidge di rimanere meravigliato, e questo da un altro in cui la meraviglia tornò a spettare al signor Spiker, e così via, una volta per uno. Durante tutto questo tempo noi, gli incompetenti, rimanemmo schiacciati dai tremendi interessi coinvolti nella conversazione; e il nostro ospite ci guardò orgogliosamente, come vittime di un salutare sbigottito terror sacro. Fui felicissimo di salir di sopra da Agnes e chiacchierare con lei in un angolo presentandole Traddles, che era timido ma gradevole e sempre dello stesso buon carattere. Egli dovette lasciarci presto perché partiva il mattino dopo per un mese, e io non potei conversare con lui quanto avrei desiderato; ma ci scambiammo gli indirizzi promettendoci il piacere di un nuovo incontro quando fosse tornato in città. Fu molto interessato nell'udire che conoscevo Steerforth e parlò di lui con tal calore che gli feci ripetere ad Agnes quel che pensava di lui. Ma Agnes si limitò a guardarmi per tutto il tempo e, una volta che io solo la osservavo, scosse impercettibilmente la testa. Poiché non era fra gente con cui pensassi che potesse trovarsi a suo agio, fui quasi contento di sapere che sarebbe partita fra pochi giorni, sebbene mi dispiacesse la prospettiva di dovermi ancora separare da lei così presto. Questo mi indusse a restare finché tutti gli ospiti non se ne furono andati. Conversare con lei e udirla cantare era per me un così delizioso ricordo della mia vita felice nella severa e vecchia casa resa da lei così bella, che sarei rimasto lì ancora per metà della notte; ma, non avendo scuse per trattenermi ancora quando tutte le luci del ricevimento in casa Waterbrook furono spente, mi congedai molto a malincuore. Sentii allora, più che mai, che ella era il mio angelo migliore; e se pensai del suo dolce volto e del suo calmo sorriso che erano apparizioni di qualche essere remoto, simile a un angelo, spero di non avere avuto torto. Ho detto che tutti gli ospiti se n'erano andati; ma avrei dovuto eccettuare Uriah, che non includo nella definizione di ospiti e che non aveva mai smesso di gironzolarci attorno. Mi stava attaccato quando scesi le scale, e mi stava attaccato quando uscii dalla casa, infilandosi lentamente le lunghe dita scheletriche nelle dita ancor più lunghe di un grosso paio di guanti alla Guy Fawkes. Non per inclinazione alla compagnia di Uriah, ma per il ricordo della preghiera che Agnes mi aveva rivolto, gli chiesi se voleva salire nel mio appartamento a prendere una tazza di caffè. «Oh, davvero, signorino Copperfield,» rispose, «scusatemi, voglio dire signor Copperfield, ma mi viene così naturale, non voglio che vi scomodiate a invitare una persona umile come me in casa vostra.» «In questo caso non mi scomodo affatto,» dissi. «Volete venire?» «Mi piacerebbe molto,» rispose Uriah contorcendosi. «Bene, allora venite!» dissi. Non potei impedirmi di essere un po' brusco, ma lui non parve farci caso. Andammo per la via più breve senza parlar molto durante il tragitto; ed egli fu così umile nei riguardi di quei suoi guanti da spaventapasseri che se li stava ancora infilando e sembrava non essere progredito molto in quella occupazione, quando arrivammo a casa. Lo condussi su per le scale buie per evitare che battesse la testa contro qualche parte, e in realtà la sua mano umida e fredda mi dava una tale impressione di stringere una rana nella mia, che fui tentato di lasciarla cadere e scappar via. Comunque Agnes e l'ospitalità prevalsero, e lo condussi al mio focolare. Quando accesi le candele, cadde in mansueti trasporti di ammirazione per le stanze che gli si rivelavano; e quando scaldai il caffè in un modesto recipiente di lamiera nel quale la signora Crupp era solita prepararlo (soprattutto, credo, perché non era una caffettiera ma uno scalda-acqua per la barba e perché nella dispensa v'era una costosa invenzione brevettata che si andava arrugginendo) manifestò una tale emozione che con gioia gli avrei gettato addosso il caffè bollente. «Oh, davvero, signorino Copperfield... voglio dire signor Copperfield,» disse Uriah, «vedermi servire da voi è una cosa che non mi sarei mai aspettato! Ma, in un modo o in un altro, mi sono accadute tante cose che, ne son certo, non mi sarei mai aspettato, nella mia umile condizione, da credere che le benedizioni mi piovano sul capo. Voi avrete udito qualche cosa, oso dire, di un cambiamento nelle mie prospettive, signorino Copperfield... voglio dire signor Copperfield.» Nel vederlo seduto sul mio divano, con le lunghe gambe raccolte sotto la tazza di caffè, il cappello e i guanti per terra vicino a lui, il cucchiaino che girava e girava chetamente, i suoi nudi occhi rossi, che sembravano aver bruciato le ciglia, volti verso di me senza guardarmi, le sgradevoli rughe sulle sue narici, già da me descritte, che andavano e venivano col respiro, e un'ondulazione serpentina che attraversava tutto il suo corpo dal mento alle scarpe, decisi fra me che mi era maledettamente antipatico. Mi sentivo quanto mai a disagio nell'averlo mio ospite, perché allora ero giovane e non abituato a dissimulare sentimenti così profondi. «Avrete udito qualche cosa, oso dire, di un cambiamento nelle mie prospettive, signorino Copperfield... voglio dire signor Copperfield,» disse dunque Uriah. «Sì,» risposi, «qualche cosa.» «Ah! Pensavo che la signorina Agnes ne fosse al corrente!» disse lui tranquillamente. «Sono lieto di apprendere che la signorina Agnes lo sa. Oh, grazie, signorino... signor Copperfield!» Gli avrei gettato in faccia il cavastivali (era lì pronto sul tappeto) per avermi intrappolato fino a farmi confidare qualche cosa che riguardava Agnes, per quanto inconsistente. Ma mi limitai a bere il caffè. «Che profeta siete stato, signor Copperfield!» continuò Uriah. «Dio mio che profeta avete dimostrato di essere! Non ricordate di avermi detto una volta che forse sarei divenuto socio del signor Wickfield e che forse vi sarebbe stato uno studio Wickfield e Heep? Può darsi che voi non lo ricordiate; ma quando si è umili, signorino Copperfield, si fa tesoro di queste cose.» «Ricordo di aver parlato di questo,» dissi, «sebbene allora non lo credessi certo probabile.» «Oh! chi lo avrebbe creduto probabile, allora, signor Copperfield!» rispose Uriah con entusiasmo. «Non certo io. Ricordo di avervi detto con queste mie labbra di essere troppo umile. E tale mi consideravo veramente e sinceramente. Se ne stava seduto con quel ghigno scolpito in faccia, guardando il fuoco, mentre io guardavo lui. «Ma le persone più umili, signorino Copperfield,» riprese poco dopo, «possono essere strumenti di bene. Sono felice di pensare di essere stato strumento di bene per il signor Wickfield, e che potrò esserlo anche più. Oh, che degno uomo è, signor Copperfield, ma come è stato imprudente!» «Mi dispiace di sentirlo,» dissi. E non potei impedirmi di aggiungere, con intenzione: «Sotto ogni aspetto.» «Proprio così, signor Copperfield,» rispose Uriah. «Sotto ogni aspetto. Soprattutto per la signorina Agnes! Voi non ricordate una vostra espressione molto eloquente, signorino Copperfield; ma io ricordo che avete detto un giorno come tutti dovevano ammirarla; e quanto vi ringraziai per questo! Lo avete dimenticato, vero, signorino Copperfield?» «No,» dissi asciutto. «Oh come sono felice che non lo abbiate dimenticato!» esclamò Uriah. «Pensare che voi siete stato il primo ad accendere scintille di ambizione nel mio umile cuore e che non lo avete dimenticato! Oh!... Vorrete scusarmi se vi chiedo un'altra tazza di caffè?» Qualcosa nell'enfasi da lui messa in quelle scintille accese nel suo cuore, e qualcosa nello sguardo che mi diresse dicendolo mi aveva fatto sussultare come se lo avessi visto a un tratto illuminato da una vivida fiamma. Riportato a me dalla sua richiesta, pronunciata in un tono di voce molto diverso, feci gli onori dello scalda-acqua per la barba; ma lo feci con un'incertezza nella mano, un improvviso senso di non sapergli tener testa, un'ansia perplessa e diffidente per quello che poteva dirmi ancora, che non poterono certo sfuggire alla sua osservazione. Non disse nulla. Agitò il caffè girando e girando col cucchiaino, lo sorseggiò, si accarezzò leggermente il mento con la mano spettrale, guardò il fuoco, guardò la stanza tutt'in giro, mi spalancò la bocca più che non mi sorridesse, si torse ondeggiando nel suo deferente servilismo, riprese a girare il cucchiaino e a sorseggiare, ma lasciò a me il compito di riprendere la conversazione. «Così il signor Wickfield,» dissi infine, «che vale mille volte più di voi... e di me,» - per la mia vita, credo di non aver potuto fare a meno di separare l'ultima parte di questa frase con un sussulto imbarazzato - «è stato imprudente, non è vero, signor Heep?» «Oh, proprio molto imprudente, signorino Copperfield,» rispose Uriah sospirando modestamente. «Oh, molto, molto imprudente! Ma vi prego di chiamarmi Uriah, se non vi dispiace. Come ai vecchi tempi.» «Bene! Uriah,» dissi, pronunciando la parola con una certa difficoltà. «Grazie,» rispose con fervore. «Grazie, signorino Copperfield! È come il soffio di un'antica brezza o come il suono di antiche campane sentir dire Uriah da voi. Vi chiedo scusa: stavo dicendo qualche cosa?» «Riguardo al signor Wickfield,» suggerii. «Oh! Sì, sicuro,» riprese Uriah. «Ah! Grande imprudenza, signorino Copperfield. È un argomento che non toccherei con anima viva se non con voi. E anche con voi posso solo accennarvi, non più. Se qualcun altro fosse stato al mio posto durante questi ultimi pochi anni, avrebbe ormai potuto schiacciare il signor Wickfield (e tuttavia, che degna persona è, signorino Copperfield!) sotto il pollice. Sot-to-il-pollice,» ripeté Uriah lentamente, e allungò la sua orribile mano sopra il mio tavolo premendovi sopra il pollice fino a farlo tremare e far tremare l'intera stanza. Se fossi stato costretto a guardarlo con il suo piede piatto sulla testa del signor Wickfield, credo che non avrei potuto odiarlo di più. «Oh, mio Dio, sì, signorino Copperfield,» continuò con una voce dolce, stranamente in contrasto con l'atto del suo pollice, che non diminuì minimamente la sua dura pressione, «non v'è alcun dubbio. Ci sarebbero state delle perdite, la rovina, non so che cosa. Il signor Wickfield lo sa. Io sono un umile strumento che lo serve umilmente, ed egli mi eleva a un'altezza che mai avrei sperato di raggiungere. Quando devo essergli grato!» Col viso rivolto verso di me, mentre concludeva, ma senza guardarmi, tolse il pollice distorto dal punto in cui lo aveva piantato e lentamente e pensosamente sfiorò con esso la sua scarna guancia, come se si radesse. Ricordo con quanto sdegno battesse il mio cuore mentre osservavo il suo volto astuto, appropriatamente illuminato dalla rossa luce del fuoco, già pronto a parlare ancora. «Signorino Copperfield,» cominciò, «ma forse vi tengo alzato?» «Non mi tenete alzato. In genere vado a letto tardi.» «Grazie, signorino Copperfield! Mi sono sollevato dalla mia umile condizione fin da quando cominciaste a rivolgermi la parola, è vero; ma sono ancora umile. Non penserete male della mia umiltà, se vi faccio una piccola confidenza, signorino Copperfield? Vero?» «Oh no,» dissi con uno sforzo. «Grazie!» Cavò il fazzoletto e cominciò ad asciugarsi il palmo delle mani. «La signorina Agnes, signorino Copperfield...» «Ebbene, Uriah?» «Oh, come è bello sentirsi chiamare Uriah così spontaneamente!» esclamò, e diede un sussulto come un pesce che si dibattesse. «Non vi è sembrata bellissima, stasera, signorino Copperfield?» «Mi è sembrata come sempre: superiore, sotto tutti i rispetti, a chiunque la avvicini,» risposi. «Oh, grazie! Come è vero!» esclamò. «Grazie infinite per questo.» «Niente affatto,» risposi altero. «Non c'è alcun motivo per ringraziarmi.» «Ecco, signorino Copperfield, questa,» disse Uriah, «è appunto la confidenza che sto per prendermi la libertà di farvi. Umile come sono,» si asciugò le mani con più vigore e se le guardò e guardò il fuoco alternativamente più volte, «umile com'è mia madre e modesto come è sempre stato il nostro povero ma onesto tetto, l'immagine della signorina Agnes (non m'importa di confidarvi il mio segreto, signorino Copperfield, perché ho sempre avuto fiducia in voi fin dal momento in cui ebbi il piacere di vedervi sul calessino) mi è rimasta nel cuore per anni. Oh, signorino Copperfield, con quale puro affetto amo il terreno che la mia Agnes calpesta!» Credo di avere avuto l'idea delirante di prender dal fuoco l'attizzatoio rovente e infilzarlo con quello. Un'idea che esplose in me e mi lasciò di schianto, come un colpo di fucile: ma l'immagine di Agnes oltraggiata anche da un solo pensiero di quell'essere dai capelli rossi, mi rimase nella mente quando lo guardai, seduto tutto di traverso, come se la sua ignobile anima gli tenesse il corpo in una stretta, e mi diede le vertigini. Egli parve gonfiarsi e crescere a dismisura davanti ai miei occhi; la stanza mi sembrò piena degli echi della sua voce; e s'impossessò di me la strana sensazione (a cui, forse, nessuno è del tutto estraneo) che tutto ciò fosse già avvenuto in qualche tempo indefinito, e che io conoscessi già quello che sarebbe seguito. L'essermi reso conto tempestivamente del senso di potere che era nel suo volto, mi riportò al ricordo della preghiera di Agnes, in tutta la sua forza, più di qualunque sforzo che avessi potuto fare. Gli chiesi, con una calma superiore a quello che avrei creduto possibile un istante prima, se aveva fatto conoscere i suoi sentimenti ad Agnes. «Oh no, signorino Copperfield!» mi rispose; «oh, no certo! A nessuno eccetto voi. Come vedete io sto solo sollevandomi dalla mia bassa condizione. Nutro solo una grande speranza che noti quanto sia utile a suo padre (confido di essergli davvero molto utile, signorino Copperfield) e quanto possa appianargli la strada e sostenerlo. Ella è così attaccata a suo padre, signorino Copperfield (oh, che dolce cosa è in una figlia!), da farmi sperare che, per amor suo, sarà gentile con me.» Misurai tutta la profondità del programma di quel furfante e capii perché me lo palesava. «Se avrete la bontà di mantenere il mio segreto, signorino Copperfield,» continuò, «e di non mettervi, in linea generale, contro di me, lo considererò come un favore particolare. Non vorrete che accadano cose spiacevoli. So quale cuore amico abbiate; ma avendomi conosciuto solo nel mio stato (dovrei dire nel mio stato più umile, perché sono ancora umile), potreste, senza saperlo, mettervi contro di me per quel che riguarda la mia Agnes. La chiamo mia, vedete, signorino Copperfield. C'è una canzone che dice: ‹Più corone darìa, per dirla mia!› Spero che un giorno o l'altro potrò farlo.» Cara Agnes! Era possibile che lei, troppo amabile e troppo buona per chiunque a cui potessi pensare, fosse destinata a essere la moglie di un tal miserabile? «Per il momento, lo capite, non c'è fretta, signorino Copperfield,» proseguì Uriah nel suo viscido modo mentre io stavo seduto osservandolo con questi pensieri per la testa. «La mia Agnes è ancora molto giovane; e mia madre e io dobbiamo fare ancora parecchia strada e sistemare ancora molte cose prima che sia il momento opportuno. Io avrò tempo di renderla a poco a poco familiare con le mie speranze, a seconda che si presentino le occasioni. Oh, vi sono tanto obbligato per questa confidenza! Oh, è un tale sollievo per me, non potete crederlo, sapere che voi capite la nostra situazione e che certamente (poiché non vorrete far succedere cose spiacevoli nella famiglia) non vi metterete contro di me!» Mi afferrò la mano, che non osai ritirare, e, datale un'umida stretta, consultò lo scialbo quadrante del suo orologio. «Povero me!» esclamò, «è l'una passata. Il tempo vola così in fretta in queste confidenze dei periodi passati, signorino Copperfield, che è quasi l'una e mezzo!» Risposi che pensavo fosse più tardi. Non perché lo pensassi realmente ma perché le mie facoltà di conversazione erano effettivamente sgominate. «Povero me!» ripeté meditando. «Nella casa in cui sono alloggiato, una specie di albergo privato o di pensione presso il New River, signorino Copperfield, tutti saranno andati a letto da due ore.» «Mi dispiace,» risposi, «che qui c'è un solo letto e che io...» «Oh, non parlate di letti, signorino Copperfield!» ribatté estaticamente alzando una gamba. «Ma non avreste difficoltà se restassi qui davanti al fuoco?» «Se è così,» dissi, «servitevi pure del mio letto e resterò io davanti al fuoco.» Nell'eccesso della sua meraviglia e della sua umiltà respinse questa offerta con un tale strido che dovette quasi penetrare negli orecchi della signora Crupp, la quale dormiva, credo, in una camera remota, situata a circa il livello della bassa marea, cullata nei suoi sonni dal ticchettio di un incorreggibile pendolo a cui sempre si riferiva quando avevamo qualche piccolo contrasto in fatto di puntualità e che non era mai indietro di meno di tre quarti d'ora, ma veniva sempre rimesso a posto il mattino in base alle più sicure autorità. Poiché nessuno degli argomenti a cui potei ricorrere nel mio stato di agitazione ebbe il minimo effetto su di lui per indurlo ad accettare la mia stanza da letto, fui costretto ad arrangiarmi meglio che seppi per assicurargli un riposo davanti al fuoco. Il materasso del divano (che era un bel po' più corto delle sue allampanate dimensioni), i cuscini del divano stesso, una coperta, il tappeto del tavolo, una tovaglia pulita e un cappotto gli fecero da letto e copertura, ed egli me ne fu più che grato. Dopo avergli dato un berretto da notte, che egli si infilò subito assumendo un aspetto così spaventoso che da allora non ne portai più, lo lasciai a riposare. Non dimenticherò mai quella notte. Non dimenticherò mai come continuai a rigirarmi e ad agitarmi nel letto; quanto mi tormentai pensando ad Agnes e a quell'essere; quanto meditai su quello che potevo fare e che dovevo fare; e come giunsi alla sola conclusione che il meglio per la sua pace era non far nulla e tenere per me quello che avevo udito. Se riuscivo ad addormentarmi per pochi minuti, le immagini di Agnes con i suoi occhi dolci e di suo padre che la guardava appassionatamente come lo avevo spesso visto fare, mi sorgevano dinanzi con volti imploranti e mi empivano di vaghi terrori. Quando mi svegliavo, il ricordo che Uriah dormiva nella stanza accanto gravava pesantemente su di me come un incubo di veglia e mi opprimeva con un terrore di piombo come se avessi per ospite qualche ignobile sorta di demonio. Inoltre l'attizzatoio si insinuò nei miei sonnolenti pensieri e non volle uscirne. Mi sembrava, tra il sonno e la veglia, che fosse ancora rovente e che io lo togliessi dal fuoco e glielo infilassi nel corpo. Alla fine fui così ossessionato da questa idea, pur sapendo che non vi era in essa nulla di vero, che sgattaiolai nella stanza vicina per dargli un'occhiata. Lo vidi sdraiato sul dorso, con le gambe che arrivavano non so fin dove, la gola piena di gorgogli, il naso chiuso e la bocca spalancata come un ufficio postale. Era tanto peggiore nella realtà che nella mia turbata fantasia, da farmi sentire, in seguito, attratto verso di lui per la mia stessa ripulsione, così che non potei fare a meno di entrare e uscire da quella stanza ogni mezz'ora circa per dargli un'altra occhiata. Insomma, quella lunga, lunghissima notte diveniva via via più opprimente e disperata che mai, e non vi erano promesse di alba nel cielo buio. Quando, al mattino presto, lo vidi scender le scale (perché, grazie a Dio! non volle fermarsi a colazione) mi parve che la notte se ne andasse con lui. Nell'uscire per andarmene ai Commons, diedi particolari istruzioni alla signora Crupp perché lasciasse le finestre aperte così da arieggiare il mio salotto e purificarlo della sua presenza. XXVI • CADO IN CATTIVITÀ Non vidi Uriah fino al giorno in cui Agnes lasciò la città. Andai all'ufficio delle diligenze per congedarmi da lei e vederla partire; e là c'era lui, che tornava a Canterbury con lo stesso veicolo. Mi fu di piccola consolazione vedere il suo sparuto cappotto color mora, corto di vita e largo di spalle, appeso, in compagnia di un ombrello che sembrava una tenda, al margine del sedile posteriore sul tetto, mentre Agnes, naturalmente, era nell'interno; ma ciò che dovetti soffrire nei miei sforzi di essere amichevole con lui, mentre Agnes ci guardava, meritava forse quella piccola ricompensa. Al finestrino della diligenza, come già al pranzo, ci gironzolò attorno senza un momento di sosta, come un grande avvoltoio, divorando ogni sillaba che dicevo ad Agnes e Agnes a me. Nell'agitazione in cui mi avevano messo le sue confidenze davanti al mio focolare, avevo pensato alle parole di Agnes a proposito di quell'associazione: «Feci quello che speravo fosse giusto. Ero sicura che questo sacrificio fosse necessario per la pace di papà, e lo spinsi a compierlo.» Uno sciagurato presentimento che ella avrebbe ceduto, trovando forza in esso, a questo stesso sentimento riguardo a qualsiasi sacrificio per amor del padre, mi aveva oppresso da allora in poi. Sapevo quanto lo amasse. Sapevo quanta devozione fosse nella sua natura. Sapevo, perché me lo aveva detto lei stessa, che si considerava l'innocente causa degli errori di lui e legata a lui da un grande debito che desiderava ardentemente pagargli. Non mi consolava il fatto di vedere quanto diversa fosse da quell'odioso Rufus in cappotto color mora, perché sentivo che proprio in questa differenza fra loro, nell'abnegazione della sua pura anima e nella sordida viltà di lui, era il pericolo peggiore. Certo egli sapeva perfettamente tutto questo e, nella sua astuzia, lo aveva considerato a fondo. E tuttavia ero così sicuro che la prospettiva di un tale sacrificio futuro avrebbe distrutto la felicità di Agnes, e così certo, dai suoi modi, che ella non lo sospettava ancora e non era stata toccata dalla sua ombra, da considerare una malvagità da parte mia darle un avvertimento di ciò che la minacciava. Così avvenne che ci lasciammo senza spiegazioni: lei agitando la mano e salutandomi col suo sorriso dal finestrino della diligenza, e il suo cattivo genio contorcendosi sul tetto, come se l'avesse già fra gli artigli e trionfasse. Non potei superare la visione di questa partenza per molto tempo. Quando Agnes mi scrisse per comunicarmi di essere felicemente arrivata, mi sentii infelice come quando l'avevo vista partire. Ogni volta che mi abbandonavo ai miei pensieri, quell'argomento mi si presentava regolarmente, e regolarmente la mia inquietudine raddoppiava. Raramente passava una notte senza che lo sognassi. Divenne una parte della mia vita, inseparabile da me come la mia stessa testa. Ebbi piena libertà di raffinare la mia pena: perché Steerforth era a Oxford, come mi scrisse, e, quando non ero ai Commons, mi sentivo molto solo. Credo di avere provato in questo periodo qualche segreta diffidenza per Steerforth. Risposi con molto affetto alla sua lettera, ma penso di essere stato lieto, tutto sommato, che egli non fosse a Londra in quei giorni. Immagino che, in verità, l'influenza di Agnes agisse su di me, non disturbato dalla vista di Steerforth; e che fosse tanto più potente in quanto ella entrava in così gran parte dei miei pensieri e dei miei interessi. Frattanto i giorni e le settimane scivolavano via. Io ero apprendista da Spenlow e Jorkins. Ricevevo novanta sterline l'anno (escluse la pigione e varie voci collaterali) da mia zia. Le mie stanze erano assicurate per dodici mesi: e, sebbene le trovassi tristi nelle ore serali e mi sembrassero lunghe quelle ore, riuscii ad adattarmi a uno stato di modesta monotonia e a rassegnarmi al caffè, che, guardandomi indietro, credo di aver preso a galloni in questo periodo della mia esistenza. Pure in questo tempo feci tre scoperte: anzitutto che la signora Crupp era vittima di un curioso disturbo da lei chiamato «gli spàzzimi», generalmente accompagnato da infiammazione del naso e che richiedeva di essere continuamente trattato con menta piperita; secondo, che qualche cosa di particolare nella temperatura della dispensa faceva scoppiare le mie bottiglie di acquavite; terzo, che ero solo al mondo e molto portato a fissare questa circostanza in brani di versificazione inglese. Il giorno in cui ebbe inizio il mio apprendistato non ci furono festeggiamenti oltre alla distribuzione da parte mia di tartine e vino di Xeres nell'ufficio degli scrivani, e il fatto che, la sera, me ne andai, da solo, a teatro. Andai a vedere Lo straniero, una commedia del tipo di quelle che si recitavano ai Doctors' Commons, e ne fui così sconvolto che stentai a riconoscermi nello specchio quando tornai a casa. In questa occasione, il signor Spenlow, quando fu concluso il nostro contratto, notò che mi avrebbe visto molto volentieri a casa sua, a Norwood, per celebrare l'inizio dei nostri rapporti, ma che le sue condizioni domestiche erano un po' in disordine perché aspettava il ritorno di sua figlia che aveva terminato gli studi a Parigi. Mi assicurò tuttavia che, quando ella fosse tornata a casa, sperava di avere il piacere di ospitarmi. Sapevo che era vedovo con una figlia, e gli espressi i miei ringraziamenti. Il signor Spenlow mantenne la parola. Dopo una o due settimane mi ricordò l'impegno preso e mi disse che, se volevo fargli il piacere di andare da lui il prossimo sabato e trattenermi fino al lunedì, ne sarebbe stato estremamente felice. Naturalmente risposi che gli avrei fatto quel piacere; egli mi avrebbe portato e riportato indietro col suo phaeton. Quando fu il giorno, perfino la mia valigia fu oggetto di venerazione da parte degli scrivani stipendiati, per i quali la casa di Norwood era un sacro mistero. Uno di loro mi informò di aver sentito dire che il signor Spenlow mangiava solo con piatti d'argento e di porcellana; e un altro accennò al fatto che lo champagne veniva regolarmente spillato come se fosse birra. Il vecchio scrivano con la parrucca, che si chiamava signor Tiffey, era stato là parecchie volte per ragioni di lavoro nel corso della sua carriera, e ogni volta si era spinto fino alla sala da pranzo. La descrisse come una sala sontuosa e aggiunse che vi aveva bevuto Xeres scuro invecchiato nelle Indie orientali, di una qualità così squisita da far battere le ciglia. Quel giorno avevamo avuto al Concistoriale una causa già precedentemente rinviata, circa la scomunica di un fornaio che, in una riunione parrocchiale, si era opposto a una quota di pavimentazione; e, poiché secondo i miei calcoli le testimonianze erano lunghe due volte il Robinson Crusoe, quando finimmo era piuttosto tardi. Comunque lo scomunicammo per sei settimane e lo condannammo a spese senza fine; dopo di che il procuratore parrocchiale del fornaio, il giudice e gli avvocati delle due parti (che erano tutti strettamente imparentati) lasciarono insieme la città, e il signor Spenlow e io partimmo in phaeton. Il phaeton era davvero una cosa magnifica; i cavalli inarcavano il collo e alzavano le gambe come se sapessero di appartenere ai Doctors' Commons. Vi era allora una notevole competizione, nei Commons, quanto a mettersi in mostra in ogni modo possibile, e questo fece emergere qualche equipaggio molto elegante; sebbene abbia sempre pensato e sempre penserò che, al mio tempo, il grande oggetto di competizione fosse l'amido: usato, credo, dai procuratori ecclesiastici in tutta l'estensione compatibile con la natura umana. La gita fu piacevolissima e il signor Spenlow mi favorì alcuni accenni sulla mia professione. Disse che era la più distinta professione del mondo e che non doveva assolutamente essere confusa con quella del procuratore legale, essendo una cosa del tutto diversa, infinitamente più esclusiva, meno meccanica e più redditizia. Notò che ai Commons si prendevano le cose con molta maggior calma che in qualsiasi altro luogo e che questo ci metteva a parte, come classe privilegiata. Aggiunse che era impossibile negare il fatto spiacevole che proprio i procuratori legali fossero quelli che ci davano più lavoro, ma mi fece capire che essi appartenevano a una razza inferiore, universalmente disprezzata da tutti i procuratori ecclesiastici di qualche pretesa. Chiesi al signor Spenlow quale fosse, a suo parere, il migliore dei vari casi professionali. Mi rispose che un buon caso di contestazione di testamento in cui fosse in giuoco un bel patrimonietto di trenta o quarantamila sterline, era forse il migliore di tutti. In un caso simile, disse, non solo c'era da prender su dei bei gruzzoli a guisa di argomenti in ogni fase del processo e montagne su montagne di testimonianze in interrogatorio e controinterrogatorio (per non dir nulla di un ricorso in appello, prima davanti ai Delegati e poi davanti ai Lords) ma, poiché le spese, da ultimo, sarebbero certamente venute fuori dal patrimonio, entrambe le parti ci davan dentro gaie e vivaci senza badare al risparmio. Poi si lanciò in un generico elogio dei Commons. Quello che soprattutto bisognava ammirare nei Commons, disse, era la loro compattezza. Era il luogo più accortamente organizzato del mondo. Il completo ideale del benessere. Stava tutto in un guscio di noce. Per esempio: si portava un caso di divorzio o di risarcimento nel Concistoriale. Benissimo. Il Concistoriale lo giudicava. Si faceva un piccolo giro di carte, in famiglia, e il caso veniva giudicato con tutta comodità. Supponiamo che non si fosse soddisfatti del Concistoriale che si faceva allora? Diamine, ci si appellava agli Archi. Che cosa erano gli Archi? La stessa corte, nella stessa sala, con la stessa sbarra e gli stessi praticanti ma con un altro giudice, perché il giudice del Concistoriale poteva perorare come avvocato in ogni giorno di seduta. Bene, si faceva di nuovo un giro di carte. Non si era ancora soddisfatti? Benissimo. Che si faceva allora? Ci si appellava ai Delegati. Chi erano i Delegati? Diamine, i Delegati ecclesiastici erano gli avvocati sfaccendati che avevano assistito ai giri di carte precedenti quando erano stati giocati nelle due corti, e avevano visto mischiare, tagliare e giocare le carte, e avevano parlato della cosa con i giocatori, e che adesso arrivavano freschi, in qualità di giudici, per sistemar la questione con soddisfazione di tutti! La gente scontenta poteva parlare di corruzione dei Commons, di congreghe dei Commons e di necessità di riformare i Commons, concluse solennemente il signor Spenlow; ma quando il prezzo del grano per staio era stato più alto, i Commons avevano avuto più lavoro; e ci si poteva metter la mano sul cuore e dichiarare al mondo intero: «Toccate i Commons e il paese va in rovina!» Ascoltai tutto questo con molta attenzione; e sebbene, devo dirlo, avessi i miei dubbi circa il fatto che il paese dovesse essere così obbligato ai Commons come sosteneva il signor Spenlow, accettai con rispetto la sua opinione. Quanto al prezzo del grano per staio, mi resi modestamente conto che andava oltre le mie capacità e che risolveva ogni problema. Fino a oggi non ho mai capito bene questa faccenda dello staio di grano. Per tutta la mia vita l'ho visto riapparire per distruggermi a proposito di ogni sorta di soggetti. Non so esattamente che cosa abbia a che fare con me né quale diritto rivendichi per schiacciarmi in una infinita varietà di occasioni; ma ogni volta che mi vedo metter davanti di prepotenza (come ho notato che avviene sempre) il vecchio amico staio, abbandono la discussione come perduta. Questa è una digressione. Io non ero uomo da toccare i Commons e mandare in rovina il paese. Espressi sottomesso, col mio silenzio, la mia acquiescienza a tutto ciò che avevo udito dal mio superiore in anni e dottrina; e parlammo poi dello Straniero, e del teatro, e dei due cavalli del phaeton, finché arrivammo al cancello del signor Spenlow. La casa del signor Spenlow aveva un bel giardino; e, sebbene non fosse la miglior stagione per vedere un giardino, era così ben tenuto che ne rimasi incantato. V'era un prato attraente, v'erano gruppi di alberi, v'erano viali panoramici che potevo appena distinguere nella penombra, con arcate di graticci sui quali fiori e cespugli potevano crescere nella buona stagione. «Qui,» pensai, «la signorina Spenlow va a passeggio. Povero me!» Entrammo nella casa, che era gaiamente illuminata, e in un'anticamera dov'erano ogni sorta di cappelli, berretti, cappotti, sciarponi scozzesi, guanti, frustini e bastoni da passeggio. «Dov'è la signorina Dora?» chiese il signor Spenlow al domestico. «Dora!» pensai, «che bel nome!» Voltammo in una stanza attigua (credo che fosse quella stessa stanza della colazione resa memorabile dallo Xeres scuro invecchiato nelle Indie Orientali) e udii una voce che diceva: «Il signor Copperfield, mia figlia Dora e l'amica e confidente di mia figlia Dora!» Senza dubbio era la voce del signor Spenlow, ma non la riconobbi e non mi curai di chi fosse. Tutto si concluse in un attimo. Il mio destino si compiva. Ero un prigioniero, uno schiavo. Amavo Dora alla follia! Per me ella era qualche cosa di più che umano. Era una fata, una Silfide, era non so che cosa... niente che alcuno avesse mai visto, e tutto ciò a cui tutti anelano da sempre. In un attimo fui inghiottito in un abisso di passione. Non ebbi il tempo di sostare sul margine, di misurare il fondo, di guardarmi indietro; ero già andato giù a capofitto prima ancora di poter pensare a dirle una parola. «Io,» dichiarò una voce ben nota quando mi fui inchinato ed ebbi mormorato qualcosa, «conosco già il signor Copperfield.» Chi parlava non era Dora. No; era l'amica e confidente, la signorina Murdstone! Non credo di essere rimasto molto stupito. Per quanto posso giudicare, non era rimasta in me alcuna facoltà di meraviglia. Non v'era nulla al mondo degno di menzione e di stupore se non Dora Spenlow. Dissi: «Come state, signorina Murdstone? Spero bene.» Lei rispose: «Benissimo.» Dissi: «Come sta il signor Murdstone?» Lei rispose: «Mio fratello sta ottimamente, ve ne sono obbligata.» Il signor Spenlow, che, immagino, era rimasto sorpreso nel vedere che ci conoscevamo, allora intervenne. «Sono lieto di sentire, Copperfield,» disse, «che voi e la signorina Murdstone vi conoscete già.» «Il signor Copperfield e io,» disse la signorina Murdstone con severa compostezza, «siamo parenti. Ci siamo conosciuti appena, quando lui era fanciullo. Poi le circostanze ci hanno separato. Io non lo avrei riconosciuto.» Risposi che, io, l'avrei riconosciuta dappertutto. Cosa che era fin troppo vera. «La signorina Murdstone ha avuto la bontà,» disse il signor Spenlow rivolgendosi a me, «di accettare l'ufficio - se posso chiamarlo così - di amica e confidente di mia figlia Dora. Poiché mia figlia Dora, disgraziatamente, non ha madre, la signorina Murdstone è stata così gentile da divenire la sua compagna e la sua protettrice.» Mi passò per la testa l'idea che la signorina Murdstone, come il bastoncino tascabile e piombato chiamato salvavita, non era destinata a scopi protettivi ma piuttosto di aggressione. Tuttavia, non avendo che idee di passaggio su tutto ciò che non fosse Dora, subito dopo le diedi uno sguardo, e mi parve vedere, in una certa sua arietta sdegnosa, che non era molto propensa a essere particolarmente confidenziale con la sua compagna e protettrice. In quel momento suonò una campana: il signor Spenlow disse che era il primo annuncio del pranzo e mi portò via perché mi cambiassi d'abito. L'idea di vestirmi, o di fare qualche cosa che fosse comunque un'azione, in quel mio stato amoroso, mi appariva un po' troppo ridicola. Riuscii solo a starmene seduto davanti al fuoco mordicchiando la chiave della mia valigia e pensando all'affascinante, infantile, amabile Dora dagli occhi lucenti. Che figura, che volto, che incantevole grazia nei suoi modi pieni di vita! La campana squillò ancora, così presto che mi vestii di furia, invece di farlo con quella cura che avrei voluto per la circostanza, e scesi le scale. V'erano alcuni invitati. Dora parlava con un vecchio signore dai capelli grigi. Ma per quanto grigio - e per di più bisnonno, come disse, - fui pazzamente geloso di lui. In quale stato d'animo mi trovai! Ero geloso di tutti. Non potevo sopportare l'idea che qualcuno conoscesse il signor Spenlow meglio di me. Mi sentivo messo al tormento quando li udivo parlare di avvenimenti in cui non avevo avuto parte. E quando una persona gentilissima con una lucida testa completamente calva mi domandò da un capo all'altro della tavola se vedevo quel luogo per la prima volta, gli avrei fatto tutto ciò che si potesse pensare di più selvaggio e vendicativo. Non ricordo chi c'era: solo Dora. Non ho la minima idea di quello che ci servirono a pranzo: solo Dora. Ho l'impressione che Dora sia stata il mio unico cibo e di aver rimandato indietro mezza dozzina di piatti senza toccarli. Sedevo vicino a lei. Parlai con lei. Aveva la vocina più deliziosa, i più gai sorrisetti, le più piacevoli e affascinanti mossette che mai abbiano ridotto un giovanotto fuori di sé in una schiavitù senza speranza. Era tutta al diminutivo. Tanto più preziosa per questo, pensai. Quando uscì dalla sala con la signorina Murdstone (non vi erano altre signore), caddi in una fantasticheria turbata solo dalla crudele apprensione che la signorina Murdstone mi denigrasse presso di lei. Quella benigna creatura dalla testa lucida mi raccontò una lunga storia che credo trattasse di giardinaggio. Mi sembra di averlo udito dire «il mio giardiniere» parecchie volte. Io ebbi l'aria di prestargli la più profonda attenzione, ma andai vagando per i giardini dell'Eden, con Dora, per tutto il tempo. La mia paura di essere denigrato presso l'oggetto della mia crescente passione fu ravvivata, quando entrammo nel salotto, dal fosco e distaccato aspetto della signorina Murdstone. Ma ne fui liberato in modo inatteso. «David Copperfield,» disse la signorina Murdstone facendomi cenno di seguirla nel vano della finestra. «Una parola.» Mi trovai completamente solo di fronte alla signorina Murdstone. «David Copperfield,» disse, «non voglio soffermarmi su circostanze familiari. Non sono un soggetto attraente.» «Tutt'altro, signora,» risposi. «Tutt'altro,» convenne la signorina Murdstone. «Non desidero ravvivare il ricordo di passati contrasti e di passate offese. Io sono stata offesa da una persona - una donna, sono spiacente di dirlo per l'onore del mio sesso - che non posso nominare senza disprezzo e disgusto; quindi preferisco non nominarla.» Mi sentii ardere per la zia; ma dissi che sarebbe stato meglio, se così piaceva alla signorina Murdstone, non nominarla. Aggiunsi che non avrei potuto sentirla nominare men che rispettosamente senza esprimere la mia opinione in modo molto deciso. La signorina Murdstone chiuse gli occhi e inclinò sdegnosamente la testa; poi, riaprendoli lentamente, riprese: «David Copperfield, non tenterò di nascondere il fatto che, nella vostra infanzia, mi ero fatta una sfavorevole opinione di voi. Può darsi che fosse errata, o più darsi che voi abbiate cessato di giustificarla. Ma ora, tra noi, non si tratta di questo. Io appartengo a una famiglia notevole, credo, per la sua fermezza; e non sono donna da cambiare o da dipendere dalle circostanze. Posso avere su di voi la mia opinione, e voi potete avere la vostra su di me.» Inclinai la testa a mia volta. «Ma non è necessario,» continuò la signorina Murdstone, «che queste opinioni vengano a collisione qui. Nelle attuali circostanze è meglio, sotto tutti i riguardi, che ciò non avvenga. Poiché i casi della vita ci hanno portato nuovamente insieme, e possono riportarci insieme in altre occasioni, direi, comportiamoci qui come lontani parenti. Le circostanze familiari sono una ragione sufficiente perché i nostri rapporti si svolgano solo su questo piede, e non vi è alcuna necessità che uno di noi faccia osservazioni sull'altro. Siete d'accordo?» «Signorina Murdstone,» risposi, «credo che voi e il signor Murdstone mi abbiate trattato molto crudelmente e siate stati brutali verso mia madre. Penserò così finché avrò vita. Ma sono d'accordo su quanto mi proponete.» La signorina Murdstone chiuse ancora gli occhi e piegò la testa. Poi, sfioratomi appena il dorso della mano con la punta delle sue fredde e rigide dita, se ne andò aggiustandosi le sue catenelle ai polsi e al collo: insieme decorativo che sembrava essere esattamente lo stesso che le avevo visto l'ultima volta, e nello stesso stato. Questo mi ricordò, a proposito del carattere della signorina Murdstone, le catene sopra la porta di un carcere, che suggeriscono al di fuori, a tutti gli osservatori, quello che ci si può aspettare nell'interno. Tutto quel che so del resto della serata è che udii la regina del mio cuore cantare maliose ballate in francese - tutte invitanti a ballare, Ta ra la Ta ra la, comunque andassero le cose - accompagnandosi con un magnifico strumento simile a una chitarra. Che mi sentivo perduto in un benedetto delirio. Che rifiutai il rinfresco. Che il mio animo rifuggì in particolare dal ponce. Che quando la signorina Murdstone la prese sotto la sua custodia e la portò via, ella mi sorrise e mi porse la sua deliziosa mano. Che mi diedi un'occhiata in uno specchio trovandomi assolutamente rimbecillito fino all'idiozia. Che andai a letto nel più svenevole stato d'animo e mi alzai in una crisi di immelensita infatuazione. Era una bella mattina, di buon'ora, e pensai di scendere a fare un giro per uno di quei viali con gli archi di graticci e indulgere così alla mia passione indugiando sull'immagine di lei. Nell'attraversare l'anticamera incontrai il suo cagnolino, che si chiamava Jip, abbreviazione di Gipsy. Lo avvicinai affettuosamente, perché amavo anche lui; ma quello mi mostrò l'intera serie dei suoi denti, si rifugiò sotto una sedia per abbaiarmi e non volle saperne della minima familiarità. Il giardino era freddo e solitario. Vagabondai qua e là domandandomi qual sentimento di felicità sarebbe stato il mio se avessi potuto legarmi a quella dolce meraviglia. Quanto al matrimonio, all'avvenire e tutto questo, credo che non pensassi affatto a essi, quasi con la stessa innocenza di quando amavo la piccola Emily. Avere il permesso di chiamarla «Dora», di scriverle, di adorarla e venerarla, poter pensare che, quando era con altri, rivolgesse a me la sua mente, mi sembrava il sommo di ogni umana ambizione... e lo era certo della mia. Non v'era dubbio, comunque, che ero uno sdilinquito spasimante; ma in tutto ciò v'era una purezza di cuore che mi impedisce di ricordarlo con disprezzo, per quanto mi possa far ridere. Non stavo passeggiando da molto, quando, voltando un angolo, la incontrai. Fremo ancora dalla testa ai piedi se, nel ricordo, volto quell'angolo, e la penna mi trema nelle mani. «Siete... uscita... molto presto, signorina Spenlow,» dissi. «È così noioso restare a casa,» rispose, «e la signorina Murdstone è così assurda! Dice tali sciocchezze sul fatto che il giorno deve prendere aria, prima che esca. Prendere aria!» (e qui rise nel modo più melodioso). «La domenica mattina, quando non mi esercito al piano, devo fare qualche cosa. Così ieri sera ho detto a papà che dovevo uscire. Inoltre è l'ora più luminosa di tutta la giornata. Non credete?» Arrischiai un volo ardito e dissi (non senza balbettare) che in quel momento era per me luminosissima, sebbene fosse stata molto buia un minuto prima. «Volete farmi un complimento,» chiese Dora, «o intendete che il tempo è realmente mutato?» Balbettai peggio di prima rispondendo che non volevo dire un complimento ma la pura verità; sebbene non mi fossi accorto di alcun cambiamento del tempo. Dipendeva dallo stato dei miei sentimenti, aggiunsi timidamente, per dar più forza alla spiegazione. Non vidi mai riccioli - e come avrei potuto, non essendovene mai stati al mondo di simili? - come quelli che lei scosse per nascondere il suo rossore. Quanto al cappello di paglia e ai nastri azzurri che erano sul sommo dei riccioli, se solo avessi potuto appenderli nella mia stanza in Buckingham Street, quale inestimabile tesoro sarebbero stati! «Siete appena arrivata da Parigi?» chiesi. «Sì,» rispose. «Ci siete mai stato?» «No.» «Oh! spero che ci andiate presto! Vi piacerà moltissimo!» Tracce di profonda pena apparvero sul mio volto. Che lei potesse sperare che andassi là, che considerasse possibile che fossi capace di andarci, mi era insopportabile. Disprezzai Parigi; disprezzai la Francia. Dissi che, nelle presenti circostanze, non avrei lasciato l'Inghilterra per nessuna ragione al mondo. Nulla avrebbe potuto indurmi. In breve lei stava scuotendo ancora i riccioli quando il cagnolino venne di corsa lungo il viale al nostro soccorso. Era mortalmente geloso di me e ricominciò ad abbaiarmi. Lei lo prese fra le braccia - oh, bontà divina! - e lo accarezzò, ma lui persisteva ad abbaiare. Non mi permise di toccarlo, quando tentai di farlo, e allora lei lo batté. Sentii aumentar di molto le mie sofferenze nel vedere i colpetti che gli dava per punizione sulla punta del naso schiacciato, mentre lui batteva le ciglia, e le leccava la mano, e continuava a mugolare in gola come un piccolo contrabbasso. Alla fine si calmò - e poteva ben farlo, con il mento a fossetta di lei sulla sua testa! - e noi ce ne andammo a visitare una serra. «Non siete molto intimo con la signorina Murdstone, non è vero?» mi chiese Dora. - «Gioia mia.» (Queste due ultime parole erano rivolte al cane. Oh, se fossero state per me!) «No,» risposi, «niente affatto.» «È un'essere opprimente,» disse Dora sporgendo il labbro imbronciata. «Non riesco a capire che cosa sia venuto in testa a papà quando ha scelto una creatura così fastidiosa per farmi compagnia. Chi ha bisogno di una protettrice? Io sono sicura di non averne alcun bisogno. Jip può proteggermi molto meglio della signorina Murdstone... non è vero, Jip, amore?» Lui si limitò a chiudere pigramente gli occhi quando ella lo baciò sulla testa rotonda come un gomitolo. «Papà la chiama la mia amica e confidente, ma non lo è di certo... non è vero, Jip? Non abbiamo alcuna intenzione di confidarci, Jip e io, con gente così antipatica. Noi vogliamo accordare la nostra confidenza a chi ci piace, e scegliere da soli i nostri amici senza che altri li scelga per noi... non è vero, Jip?» Jip diede in risposta un soddisfatto brontolio, un po' come una teiera che bolle. Quanto a me, ogni sua parola era un nuovo cumulo di ceppi ribadito sui primi. «È duro, non avendo più una mamma amorosa, dover sopportare in sua vece una vecchia lugubre e accigliata come la signorina Murdstone, che ci vien dietro dappertutto... non è vero Jip? Poco male, Jip. Non le faremo confidenze, saremo felici quanto potremo anche se non vuole e le daremo dispetti e non diletti... non è vero, Jip?» Se la cosa fosse durata un po' di più, credo che mi sarei gettato a ginocchi sulla ghiaia, con la probabilità di sbucciarmeli e di essere immediatamente scacciato dalla casa. Ma per mia fortuna la serra era vicina e vi giungemmo quando queste parole risuonavano ancora. Conteneva un'intera mostra dei bei gerani. Vi passammo davanti con calma, e Dora si fermò spesso per ammirarne l'uno o l'altro, ed io mi fermai per ammirarli a mia volta; e Dora, ridendo, tirò su fanciullescamente il cagnolino perché odorasse i fiori; e se non eravamo tutti e tre nel paese delle fate, certamente io c'ero. Ancor oggi l'odore di una foglia di geranio mi colpisce con uno stupore metà comico e metà serio per il mutamento che avviene in me in un attimo; e allora vedo un cappello di paglia e nastri azzurri, e una quantità di riccioli, e un piccolo cane nero tenuto su da due braccia sottili contro una mostra di fiori e di foglie brillanti. La signorina Murdstone ci stava cercando. Ci trovò lì e offrì la sua sgradevole gota, con piccole rughe piene di cipria, al bacio di Dora. Poi prese fra le sue il braccio di lei e ci guidò a colazione con passo marziale come se seguissimo il funerale di un militare. Quante tazze di tè bevetti solo perché Dora le beveva, non so. Ma ricordo perfettamente che rimasi lì a tracannar tè finché il mio intero sistema nervoso, se pure in quei giorni ne avevo uno, dovette andare in pezzi. Poco dopo ci recammo in chiesa. Nel banco, la signorina Murdstone era fra me e Dora; ma io la udii cantare e l'intera congregazione svanì. Venne pronunciato un sermone - su Dora, naturalmente - e temo di non sapere altro di quel servizio divino. Passammo una giornata tranquilla. Nessun invitato, una passeggiata, un pranzo familiare fra noi quattro, e una serata trascorsa a guardar libri e illustrazioni; la signorina Murdstone, con un'omelia davanti e lo sguardo su di noi, ci faceva vigile guardia. Ah! il signor Spenlow non si immaginava davvero, quel giorno, standomi seduto di fronte, dopo pranzo, e asciugandosi la fronte col fazzoletto, con quale fervore lo stessi abbracciando, nella mia fantasia, in qualità di genero! Non si immaginava davvero, quando mi separai da lui, la sera, di avere appena dato il suo pieno consenso al mio fidanzamento con Dora e che io stavo invocando sul suo capo ogni benedizione! Partimmo il mattino presto perché avevamo un caso di Salvataggio al Tribunale dell'Ammiragliato, che richiedeva una conoscenza piuttosto accurata di tutta la scienza della navigazione, e per il quale (poiché non ci si poteva aspettare che fossimo particolarmente profondi in questa materia, ai Commons) il giudice aveva pregato due vecchi maestri della Trinità di venire ad aiutarlo per amor cristiano. Dora, comunque, era alla tavola della colazione intenta a preparare il tè; ed io ebbi il malinconico piacere di togliermi il cappello per salutarla dal phaeton mentre lei stava sulla soglia con Jip in braccio. Che cosa l'Ammiragliato fosse per me quel giorno; quale assurdità facessi della nostra causa nella mia mente, mentre l'ascoltavo; come vedessi «Dora» inciso sulla pala del remo d'argento posato sul tavolo quale emblema di questa alta giurisdizione; e quello che sentii quando il signor Spenlow tornò a casa senza di me (avevo avuto una folle speranza che mi prendesse ancora con sé), quasi fossi anch'io un marinaio e la mia nave avesse fatto vela lasciandomi in un'isola deserta, tenterei invano di descriverlo. Se quel vecchio tribunale sonnolento potesse svegliarsi e presentare in qualche forma visibile i sogni a occhi aperti da me fatti su Dora, rivelerebbe la verità su di me. Non intendo i sogni che sognai solo quel giorno, ma giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, sessione dopo sessione. Andavo là non per badare a quello che vi si faceva ma per pensare a Dora. Se mai rivolgevo un pensiero alle cause, che mi si trascinavano lentamente davanti per tutta la loro lunghezza, era solo per meravigliarmi, nelle cause matrimoniali (ricordandomi di Dora) come accadesse che la gente sposata potesse essere altro che felice; e, nei casi di Prerogativa, per considerare, se il denaro in questione fosse stato lasciato a me, quale sarebbe stato il primo passo che mi sarei affrettato a fare nei riguardi di Dora. Durante la prima settimana della mia passione comprai quattro sontuosi panciotti - non per me; io non mi sentivo affatto orgoglioso di essi; ma per Dora - e cominciai a portare per strada guanti di capretto color paglierino, e gettai le fondamenta di tutti i calli che ebbi in seguito. Se le scarpe che calzavo in quel periodo potessero essere riportate alla luce e confrontate con le naturali dimensioni dei miei piedi, paleserebbero nel modo più commovente qual era lo stato del mio cuore. E tuttavia, pur essendomi ridotto uno sciagurato storpio con questo atto di omaggio reso a Dora, camminavo ogni giorno per miglia e miglia nella speranza di vederla. Non solo fui presto conosciuto sulla strada di Norwood come i postini della zona, ma invasi in egual modo Londra. Andavo per le strade in cui erano i migliori negozi per signora, infestavo i bazar come un'anima in pena, continuavo a trascinarmi su e giù per il Parco dopo aver raggiunto da un pezzo i limiti dell'esaurimento. A volte, a lunghi intervalli e in rare occasioni, la vedevo. Talora vedevo solo il suo guanto agitarsi al finestrino di una vettura; talora la incontravo, camminavo per un poco con lei e con la signorina Murdstone e le parlavo. In quest'ultimo caso, subito dopo, mi sentivo regolarmente infelice nel pensare di non averle detto niente che potesse servire, o che lei non immaginava tutta la vastità della mia devozione, o che non le importava nulla di me. Ero sempre in attesa, come ci si può immaginare, di un altro invito a casa del signor Spenlow. Ma rimasi sempre deluso perché non ne vennero. La signora Crupp deve essere stata una donna penetrante; perché quando questo mio affetto aveva solo poche settimane di vita e io non avevo avuto il coraggio di scrivere, perfino ad Agnes, niente di più se non che ero stato in casa del signor Spenlow «la cui famiglia,» avevo aggiunto, «consisteva in un'unica figlia»... la signora Crupp, dico, deve essere stata una donna molto penetrante perché, anche in quel primo stadio, scoprì tutto. Salì da me una sera in cui ero molto giù di morale, per chiedermi (essendo allora afflitta dal disturbo a cui ho accennato) se potevo favorirle un po' di tintura di cardamomo mischiata con rabarbaro e aromatizzata con sette gocce di essenza di chiodi di garofano, che era il miglior rimedio per il suo male; o, se non avevo nulla di questo, un po' di acquavite, che era il rimedio che veniva subito dopo. Non era per lei altrettanto gradevole, notò, ma veniva subito dopo. Poiché non avevo mai sentito nemmeno parlare della prima medicina, e avendo la seconda sempre nel mio armadio, ne diedi un bicchiere alla signora Crupp, la quale, (affinché non potessi sospettare che ne avrebbe fatto qualche uso meno degno) cominciò a sorbirla in mia presenza. «Allegro, signore!» disse la signora Crupp. «Non posso sopportare di vedervi così, signore: sono madre anch'io.» Non riuscii a capire come questo fatto potesse applicarsi a me, ma sorrisi alla signora Crupp con tutta l'amabilità che era in mio potere. «Andiamo, signore,» continuò la signora Crupp. «Scusatemi, ma so di che si tratta, signore. Qui c'è di mezzo una damigella.» «Signora Crupp!» risposi arrossendo. «Oh, benedetto voi! Fatevi animo, signore!» disse la signora Crupp assentendo con aria incoraggiante. «Non bisogna mai dire: è finita, signor mio. Se lei non vi sorride ce ne sono cento che vi sorrideranno. Voi siete un signorino a cui si può sorridere, signor Copperfull, e dovete imparare a conoscere quello che valete, signore.» La signora Crupp mi chiamava sempre signor Copperfull: anzitutto, con evidenza, perché non era il mio nome, e secondariamente, sono incline a pensare, per qualche vaga associazione con un giorno di bucato. «Che cosa vi fa supporre che ci sia di mezzo una damigella, signora Crupp?» chiesi. «Signor Copperfull,» disse la signora Crupp con grande sentimento, «sono madre anch'io.» Per qualche tempo la signora Crupp poté solo tener la mano sul suo petto di nanchino e farsi forza contro il ritorno del suo male sorseggiando la medicina che le avevo dato. Infine riprese: «Quando queste camere furono affittate per voi dalla vostra cara zia, signor Copperfull,» disse, «la mia osservazione fu di avere trovato qualcuno di cui aver cura. ‹Grazie al cielo,› dissi proprio così, ‹ho trovato qualcuno di cui aver cura!› Voi non mangiate abbastanza, signore, e neppure bevete.» «Ed è su questo che fondate la vostra supposizione, signora Crupp?» chiesi. «Signore,» disse la signora Crupp in un tono che si avvicinava molto alla severità. «Ho fatto il bucato ad altri giovani signori, prima che a voi. Un giovane può avere un'eccessiva cura di se stesso o può averne troppo poca. Può spazzolarsi i capelli troppo spesso o troppo di rado. Può portare scarpe troppo larghe per lui o troppo strette. Questo a seconda del naturale carattere di quel giovane. Ma se, in un senso o nell'altro, raggiunge gli estremi, signore, vuol dire che c'è di mezzo una damigella.» La signora Crupp scosse la testa in modo così deciso che non mi rimase un pollice di vantaggio. «Per parlar solo del signore che morì qui prima che veniste voi,» continuò la signora Crupp, «s'innamorò - della cameriera di un bar - e si fece immediatamente stringere i panciotti, sebbene si fosse gonfiato un bel po' a forza di bere.» «Signora Crupp,» dissi, «devo pregarvi di non far confronti fra la damigella del mio caso e la cameriera di un bar, o altro del genere, per favore.» «Signor Copperfull,» rispose la signora Crupp, «sono madre anch'io e non faccio nulla di simile. Vi chiedo scusa, signore, se m'intrometto. Mai che m'intrometta dove non sono desiderata. Ma voi siete un giovane signore, signor Copperfull, e il consiglio che vi do è di essere allegro, signore, di farvi animo e di sapere quel che valete. Se voleste dedicarvi a qualche cosa, signore,» concluse la signora Crupp, «se voleste dedicarvi, per esempio, ai birilli, che è un giuoco sano, trovereste che vi distrae la mente e vi fa bene.» Con queste parole la signora Crupp, ostentando di esser molto occupata con la sua acquavite - che se n'era tutta andata - mi ringraziò con un maestoso inchino e si ritirò. Mentre la sua figura scompariva nell'ombra dell'ingresso, il suo consiglio mi si presentò certo sotto l'aspetto di una piccola libertà da parte della signora Crupp; ma, in egual tempo e sotto un altro punto di vista, fui contento di averlo ricevuto, come parola rivolta a chi aveva orecchie per intendere e ammonimento a mantener meglio il mio segreto in futuro. XXVII • TOMMY TRADDLES Fu forse in conseguenza del consiglio della signora Crupp, o forse per non altra ragione che c'era una certa affinità nel suono della parola birilli con quello di Traddles, fatto sta che il giorno dopo mi venne l'idea di andare a trovare Traddles. Il periodo che aveva detto era più che trascorso, e lui viveva in una straducola presso il Collegio Veterinario a Camden Town, che era principalmente abitata, come mi informò uno scrivano che stava da quelle parti, da signori studenti che compravano asini vivi e facevano esperimenti su questi quadrupedi nei loro appartamenti privati. Ottenute da questo scrivano le indicazioni per trovare l'accademico boschetto in questione, mi avviai, quello stesso pomeriggio, per far visita al mio antico compagno di scuola. Mi accorsi che la strada non era esattamente quello che, per amor di Traddles, avrei potuto desiderare. A quanto sembrava, gli abitanti avevano una grande propensione a gettar nella via tutte quelle piccolezze di cui non avevano più bisogno: cosa che non solo la rendeva sciatta e poco odorosa, ma addirittura sporca per via delle foglie di cavolo. I rifiuti, però, non erano esclusivamente vegetali, perché io stesso, mentre andavo cercando il numero, vidi una scarpa, un paiolo contorto, un berretto nero e un ombrello in vari stati di decomposizione. L'aspetto generale del luogo mi ricordò fortemente i giorni in cui vivevo con il signore e la signora Micawber. Un'aria indescrivibile di nobiltà decaduta, tutta propria della casa che cercavo e che la rendeva diversa da tutte le altre case della strada - sebbene fossero tutte costruite secondo lo stesso monotono modello e sembrassero le prime copie di un ragazzo poco esperto il quale imparasse a far case e non fosse ancora andato oltre le aste della sua impacciata scrittura di mattoni e calcina - mi ricordò ancor più il signore e la signora Micawber. E il fatto di arrivare alla porta mentre essa si apriva per il lattaio del pomeriggio mi rese il signore e la signora Micawber ancor più presenti. «Be',» disse il lattaio alla giovanissima servetta, «ci hanno pensato a quel mio conticino?» «Oh, il padrone dice che se ne occuperà subito,» fu la risposta. «Perché,» disse il lattaio proseguendo come se non avesse ricevuto alcuna replica, e parlando, da quanto potei giudicare dal suo tono, piuttosto a edificazione di qualcuno nell'interno della casa che a quella della servetta - un'impressione rafforzata dal suo modo di guardare nel corridoio - «perché quel conticino sta girando da tanto tempo che comincio a credere che continuerà a girare per l'eternità senza che nessuno se ne occupi. E io non sono tipo da sopportarlo, mi capite?» urlò il lattaio sempre proiettando la sua voce nell'interno della casa e fissando il corridoio. Quanto alla sua condotta riguardo al mite soggetto del latte, fra parentesi, non avrebbe potuto essere più discordante. Il suo comportamento sarebbe stato feroce anche per un macellaio o per un venditore di acquavite. La voce della servetta divenne un soffio, ma mi parve, dal movimento delle labbra, che insistesse a mormorare che se ne sarebbero occupati immediatamente. «Vi dirò una cosa,» disse il lattaio guardandola fieramente per la prima volta e prendendola per il mento, «vi piace il latte?» «Sì, mi piace,» rispose lei. «Be',» concluse il lattaio. «Allora domani non ne avrete. Avete capito? Non ne avrete nemmeno un goccio, domani.» Mi parve che, nell'insieme, ella sembrasse alquanto sollevata dall'idea che oggi ne avrebbe avuto. Il lattaio, dopo aver scosso tetramente la testa, le lasciò il mento, e, mostrando tutto fuor che una buona grazia, aprì il suo bidone e versò la solita quantità di latte nella brocca di famiglia. Fatto questo se ne andò brontolando e urlò il suo richiamo alla porta appresso con uno strido di vendetta. «Il signor Traddles abita qui?» chiesi allora. Una misteriosa voce in fondo al corridoio rispose: «Sì.» Al che la servetta ripeté: «Sì.» «È in casa?» chiesi ancora. Di nuovo la voce misteriosa diede una risposta affermativa, e di nuovo la servetta le fece eco. Entrai dunque e, obbedendo alle indicazioni della servetta, salii le scale, consapevole, mentre passavo davanti alla porta posteriore del salotto, di essere sorvegliato da un misterioso occhio, con ogni probabilità appartenente alla misteriosa voce. Arrivato in cima alle scale - la casa aveva un solo piano sopra il pian terreno - Traddles era ad aspettarmi sul pianerottolo. Fu felice di vedermi e mi diede, con grande cordialità, il benvenuto nella sua stanzetta. Era sul davanti della casa e pulitissima, sebbene scarsamente ammobiliata. Mi accorsi che era la sua unica stanza; perché vi era un divano-letto e le spazzole da scarpe e il lucido erano fra i suoi libri, sopra uno scaffale, dietro un dizionario. Il suo tavolo era coperto di carte, e lui, in una vecchia giacca, stava lavorando sodo. Non guardai nulla, che sappia, ma vidi tutto, perfino la facciata di una chiesa dipinta sul suo calamaio, mentre mi sedevo: e anche questa era una facoltà fissatasi in me nei vecchi tempi di Micawber. Alcuni ingegnosi arrangiamenti da lui fatti per nascondere il cassettone, e disporre le scarpe, lo specchio per la barba e così via, mi colpirono in particolare come prove che era pur sempre lo stesso Traddles, quello che soleva un tempo costruire modellini di covi di elefanti con fogli di quaderno per metterci le mosche, e consolarsi dei maltrattamenti con le memorabili opere d'arte di cui ho parlato tante volte. In un angolo della stanza c'era qualche cosa coperto con molta proprietà da un gran drappo bianco. Non potei capire che cosa fosse. «Traddles,» dissi stringendogli ancora le mani dopo che mi fui seduto, «Sono proprio felice di vederti.» «E io sono felice di vedere te, Copperfield,» rispose. «Proprio contentissimo di vederti. E appunto perché ero davvero lieto di vederti, quando c'incontrammo a Ely Place, ed ero sicuro che tu lo eri altrettanto di vedere me, ti diedi questo indirizzo invece dell'indirizzo dello studio.» «Oh! Hai uno studio?» dissi. «Diamine, ho la quarta parte di una stanza, un corridoio e la quarta parte di uno scrivano,» rispose Traddles. «Ci siamo uniti in quattro per avere uno studio - per darci un'aria da professionisti - e dividiamo anche lo scrivano. Mezza corona la settimana mi costa.» Il suo semplice e buon carattere di un tempo, e anche qualcosa della sua antica sfortuna, mi parve che mi sorridesse nel sorriso con cui mi diede queste spiegazioni. «Non è perché abbia il minimo orgoglio, Copperfield, tu mi capisci,» disse Traddles, «se di solito non do il mio indirizzo qui. È solo per riguardo a quelli che vengono da me, i quali potrebbero non trovarsi volentieri in un posto come questo. Quanto a me, sto lottando contro le difficoltà per farmi la mia strada nel mondo e sarebbe ridicolo se pretendessi di fare qualche cosa di diverso.» «Ho saputo dal signor Waterbrook che ti prepari all'avvocatura,» dissi. «Sicuro, diamine,» rispose Traddles strofinandosi lentamente le mani l'una sull'altra. «Mi preparo all'avvocatura. Il fatto è che ho appena cominciato a seguire i corsi dopo un indugio piuttosto lungo. Ho iniziato l'apprendistato da parecchio tempo, ma il pagamento di quelle cento sterline è stato uno strappo. Uno strappo!» ripeté Traddles sussultando come se gli avessero cavato un dente. «Sai a che cosa non posso fare a meno di pensare mentre me ne sto qui seduto a guardarti, Traddles?» chiesi. «No,» rispose lui. «A quell'abito azzurro cielo che portavi.» «Buon Dio, sicuro!» esclamò Traddles ridendo. «Stretto di braccia e di gambe, eh? Povero me! Be', quelli erano tempi felici, no?» «Penso che il nostro direttore avrebbe potuto renderli più felici senza farci danno, direi,» risposi. «Forse sì,» ammise Traddles. «Ma, il ciel mi benedica, ci divertimmo un bel po'. Ricordi le sere nella camerata? Quando facevamo i nostri festini? E quando tu raccontavi le storie? Ah, ah, ah! E ricordi quando fui frustato per aver pianto sul signor Mell? Il vecchio Creakle! Mi piacerebbe rivederlo!» «Con te è stato un bruto, Traddles,» dissi sdegnato; perché il suo buon umore mi dava l'impressione di averlo visto frustare il giorno prima. «Credi?» rispose Traddles. «Davvero? Forse lo fu. Ma tutto è passato da tempo. Il vecchio Creakle!» «Tu eri allevato da uno zio, allora,» dissi. «Sicuro,» rispose Traddles. «Quello a cui volevo scrivere sempre. E non scrivevo mai, eh? Ah, ah, ah! Sì, allora avevo uno zio. Morì poco dopo che avevo lasciato il collegio. «Davvero?» «Sì. Era - come si dice? - un negoziante di stoffe... di tessuti... in ritiro... e mi aveva fatto suo erede. Ma, una volta cresciuto, non gli andai più a genio.» «Vuoi dir proprio questo?» chiesi. Era così tranquillo da farmi supporre che volesse dire qualche cosa d'altro. «Oh, caro te, Copperfield, sì! Voglio dir questo,» rispose Traddles. «Fu una sfortuna, ma non gli andai proprio più a genio. Disse che non ero affatto quello che si aspettava, e così sposò la sua governante.» «E tu che hai fatto?» «Niente di particolare,» disse Traddles. «Ho vissuto con loro aspettando di essere avviato nel mondo, finché disgraziatamente la gotta gli arrivò allo stomaco... e così morì, e lei sposò un giovanotto, e io rimasi senza un quattrino.» «Non ti lasciò proprio niente, Traddles?» «Oh, caro te, sì!» rispose Traddles. «Cinquanta sterline. Non ero stato iniziato ad alcuna professione, e sulle prime non sapevo assolutamente che cosa fare di me stesso. Comunque cominciai, con l'aiuto del figlio di un professionista, che era stato al Collegio Salem... Yawler, quello col naso storto. Lo ricordi?» No. Non era stato là con me. Ai miei tempi tutti i nasi erano dritti. «Non importa,» proseguì Traddles. «Cominciai, col suo aiuto, a copiare atti legali. La cosa non andò molto bene; e allora cominciai a stendere cause per loro e a fare estratti e lavori simili. Perché io sono un bue da lavoro, Copperfield, e ho imparato a sbrigare queste faccende con impegno. Be', questo mi suggerì l'idea di studiare legge; e così filò via il resto delle cinquanta sterline. Comunque Yawler mi raccomandò a due o tre studi legali - quello del signor Waterbrook, per esempio - ed ebbi un buon lavoro. Inoltre ebbi la fortuna di conoscere un tale nell'editoria, che stava mettendo insieme un'enciclopedia e mi diede lavoro; proprio in questo momento,» e volse un'occhiata al tavolo, «sto lavorando per lui. Non sono un cattivo compilatore, caro Copperfield,» continuò Traddles, sempre con quella sua aria di allegra confidenza, «ma non ho assolutamente fantasia; nemmeno un briciolo. Credo che non vi sia mai stato un giovanotto con meno originalità di me.» Poiché Traddles sembrava aspettare che assentissi come a cosa ovvia, assentii; e lui proseguì con la stessa vivace pazienza - non trovo espressione migliore - di prima. «Così, a poco a poco, e vivendo senza pretese, riuscii infine a metter da parte le cento sterline,» disse Traddles: «e grazie al cielo le ho pagate... sebbene sia stata... sebbene sia certamente stata,» disse Traddles sussultando ancora come se gli avessero cavato un altro dente, «uno strappo. Vivo ancora con i lavori che ti ho detto, e spero, uno di questi giorni, di mettermi in rapporto con qualche giornale, che sarebbe quasi la mia fortuna. E ora, Copperfield, tu sei così identico a quello che eri, con questa tua faccia simpatica, e sono così lieto di vederti, che non ti nasconderò nulla. Devi dunque sapere che sono fidanzato.» Fidanzato. Oh, Dora! «È la figlia di un curato,» continuò Traddles, «una di dieci, là nel Devonshire. Sì!» Perché mi vide involontariamente guardare la facciata della chiesa sul calamaio. «Quella è la chiesa! Si gira qui a sinistra, fuori da questo cancello,» e indicava col dito lungo il calamaio, «ed esattamente dove tengo adesso la penna c'è la casa... proprio di fronte alla chiesa, capisci?» Il piacere con cui entrava in questi particolari potei avvertirlo solo più tardi; perché i miei egoistici pensieri, in quel momento, stavano tracciando un piano della casa e del giardino del signor Spenlow. «È una così cara ragazza!» disse Traddles; «un po' più anziana di me, ma la più cara del mondo! Ti dissi che dovevo lasciare la città. Sono stato laggiù. Ci sono andato a piedi e sono tornato a piedi, e ho passato un periodo delizioso! Oso dire che il nostro sarà probabilmente un fidanzamento piuttosto lungo, ma il nostro motto è ‹Aspetta e spera!› Diciamo sempre così. ‹Aspetta e spera!› lo diciamo sempre. E lei mi aspetterebbe, Copperfield, fino ai sessant'anni, mi aspetterebbe fino a qualunque età!» Traddles si alzò dalla sedia e, con un sorriso di trionfo, mise la mano sul bianco drappo che avevo notato. «Comunque,» dichiarò, «non si può dire che non abbiamo cominciato a metter su casa. No, no, abbiamo cominciato. Andremo avanti per gradi, ma abbiamo cominciato. Ecco qui,» e tolse il drappo con gran cura e non minore orgoglio, «due pezzi di mobilio, tanto per cominciare. Questo vaso da fiori con il suo supporto lo ha comprato lei. Si mette davanti alla finestra di un salotto,» disse Traddles facendosi un po' indietro per osservarlo con la massima ammirazione, «con dentro una pianta e... ed eccoti a posto. Questo tavolino rotondo con il piano di marmo (due piedi e dieci di circonferenza) l'ho comprato io. Hai bisogno di posare un libro, capisci, oppure qualcuno viene a trovare te o tua moglie e cerca qualcosa per metterci sopra una tazza di tè e... ed eccoti ancora a posto!» disse Traddles. «È un magnifico pezzo di artigianato... solido come una roccia.» Li lodai entrambi, calorosamente, e Traddles rimise a posto la copertura con la stessa cura con cui l'aveva tolta. «Non è un gran passo verso un completo arredamento,» disse Traddles, «ma è qualche cosa. Le coperte da tavolo, le federe e tutte le cose di questo genere sono ciò che mi scoraggia di più, caro Copperfield. E così pure i metalli: candelieri, batterie da cucina e così via, perché son cose che contano e costano. Comunque, ‹Aspetta e spera!› E ti assicuro che è la più cara delle ragazze!» «Ne sono pienamente sicuro,» risposi. «Frattanto,» riprese Traddles tornando alla sua sedia, «e con questo finisco di parlare di me, tiro avanti meglio che posso. Non faccio molto ma non spendo molto. In genere, sto a pensione presso la famiglia qui sotto, gente quanto mai simpatica. Tanto il signore quanto la signora Micawber ne hanno viste di tutti i colori e sono di eccellente compagnia.» «Mio caro Traddles!» esclamai immediatamente. «Di che stai parlando?» Lui mi guardò come domandandosi di che stessi parlando io. «Il signore e la signora Micawber,» ripetei. «Diamine, li conosco benissimo!» Due colpi opportunamente battuti alla porta di sotto, che ben conoscevo per la mia antica esperienza in Windsor Terrace, e che nessuno tranne il signor Micawber avrebbe mai potuto battere a quella porta, mi tolsero ogni dubbio che si trattasse dei miei vecchi amici. Pregai Traddles di invitare il suo padron di casa a venire su. Traddles, di conseguenza, lo fece, al di sopra della ringhiera; e il signor Micawber, non cambiato di un capello - i calzoni attillati, il bastone, il colletto, l'occhialino, tutto come sempre - entrò nella stanza con aria giovanile e distinta. «Vi chiedo scusa, signor Traddles,» disse il signor Micawber, con fare strascicato nella voce, smettendo di mugolare un motivetto. «Non sapevo che nel vostro ritiro vi fosse una persona estranea a questa abitazione.» Il signor Micawber mi fece un leggero inchino e si tirò su il colletto. «Come state, signor Micawber?» dissi. «Signore,» rispose il signor Micawber, «siete estremamente gentile. Sono in statu quo.» «E la signora Micawber?» proseguii. «Signore,» rispose il signor Micawber, «anche lei, grazie a Dio, in statu quo.» «E i ragazzi, signor Micawber?» «Signore,» disse il signor Micawber, «sono lieto di rispondere che anche loro godono una salute perfetta.» Per tutto questo tempo il signor Micawber non mi aveva minimamente riconosciuto sebbene mi stesse a faccia a faccia. Ma ora, vedendomi sorridere, esaminò i miei lineamenti con più attenzione e indietreggiò gridando: «Possibile? Ho il piacere di rivedere Copperfield!» E mi strinse entrambe le mani con il massimo fervore. «Gran Dio, signor Traddles!» esclamò il signor Micawber, «pensare che conoscete l'amico della mia giovinezza, il compagno dei vecchi giorni! Cara!» e chiamò al di sopra della ringhiera la signora Micawber, mentre Traddles sembrava (e con ragione) non poco stupito alla descrizione che aveva fatto di me. «C'è qui un signore, nell'appartamento del signor Traddles, che lui desidera avere il piacere di presentarti, amor mio!» Il signor Micawber riapparve immediatamente e mi strinse ancora le mani. «E come sta il nostro buon amico il Dottore, Copperfield?» mi chiese, «e tutto il circolo di Canterbury?» «Ho solo buone notizie da darvi su di loro,» risposi. «Sono felice di sentirlo,» disse il signor Micawber. «Fu a Canterbury che c'incontrammo l'ultima volta. All'ombra, per dirla in modo figurato, di quell'edificio religioso immortalato da Chaucer, antica meta di pellegrini che venivano dalle più remote regioni del... insomma,» concluse il signor Micawber, «nelle immediate vicinanze della cattedrale.» Risposi che così era. Il signor Micawber continuò a parlare con tutta la volubilità che poteva; ma non, mi parve, senza mostrare, da qualche segno di preoccupazione nel suo contegno, di essere sensibile ai rumori della stanza vicina, come se la signora Micawber si stesse lavando le mani e andasse aprendo e chiudendo in furia cassetti tutt'altro che scorrevoli. «Ci trovate, Copperfield,» disse il signor Micawber con un occhio su Traddles, «stabiliti attualmente su di un piede modesto e senza pretese; ma sapete che, nel corso della mia carriera, ho superato difficoltà e dominato ostacoli. Non siete estraneo al fatto che vi sono stati periodi nella mia vita nei quali fui costretto a sostare finché non saltassero fuori certi eventi attesi: in cui fu necessario che facessi un passo indietro prima di compiere quello che spero di poter chiamare, senza essere accusato di presunzione, un balzo avanti. Il momento presente è per me uno di questi fortunosi stadi nella vita di un uomo. Così come mi vedete, sono indietreggiato per un nuovo balzo; e ho ogni ragione per credere che ne risulterà in breve un salto vigoroso.» Stavo esprimendo la mia soddisfazione quando entrò la signora Micawber: un po' più trasandata del solito, o così apparve al mio occhio non più abituato, ma agghindata in qualche modo per presentarsi in società e con un paio di guanti scuri. «Mia cara,» disse il signor Micawber conducendomi a lei, «ecco un signore che si chiama Copperfield, il quale desidera rinnovare con te la conoscenza.» Sarebbe stato meglio, come si vide, prepararla con cautela a questa notizia, perché la signora Micawber, trovandosi in uno stato di salute particolarmente delicato, ne fu travolta e si sentì così male che il signor Micawber dovette, tutto trepidante, precipitarsi al deposito dell'acqua in cortile e attingerne una catinella per aspergerle la fronte. Comunque si riebbe subito e fu veramente lieta di vedermi. Parlammo insieme per una mezz'ora; io le chiesi dei gemelli che, mi disse, erano «diventati grandi», e del signorino e della signorina Micawber, che lei mi descrisse come «veri giganti»; ma in quell'occasione essi non mi furono presentati. Il signor Micawber era molto ansioso che restassi a pranzo, e non avrei avuto nulla in contrario se non mi fosse sembrato di scoprire un certo turbamento e calcoli relativi alla quantità di carne fredda disponibile negli occhi della signora Micawber. Addussi quindi la scusa di un altro impegno, e, osservando che la signora Micawber si era immediatamente rischiarata, resistetti a ogni ulteriore pressione. Ma dissi a Traddles e al signore e alla signora Micawber che, prima di lasciarli, volevo che stabilissero un giorno in cui sarebbero venuti a pranzo da me. Le occupazioni in cui Traddles era impegnato resero necessario fissarlo a una certa distanza, ma ci accordammo infine per un appuntamento che conveniva a tutti, e io presi congedo. Il signor Micawber, con la scusa di mostrarmi una via più breve di quella che avevo preso nel venire, mi accompagnò fino all'angolo della strada: desiderava molto (mi spiegò) dire due parole in confidenza a un vecchio amico. «Mio caro Copperfield,» disse il signor Micawber, «non occorre che vi dica come l'avere sotto il proprio tetto, nelle circostanze attuali, una mente come quella che brilla - mi sia concessa questa espressione - che brilla... nel vostro amico Traddles, sia un ineffabile conforto. Con una lavandaia che espone in vendita mandorlato alla finestra del suo salotto qui alla porta accanto, e un funzionario di Bow-Strett qui di fronte, potete immaginare che la sua compagnia è fonte di consolazione per me e per la signora Micawber. Attualmente, mio caro Copperfield, mi occupo di vendita di grano su commissione. Non è un'occupazione molto remunerativa - in altre parole non rende - e alcuni momentanei imbarazzi di ordine pecuniario ne sono stati la conseguenza. Comunque, ho il piacere di aggiungere che ho adesso l'immediata prospettiva che qualche cosa salti fuori (non ho la libertà di dire in quale direzione), la quale, confido mi permetterà di provvedere, in modo permanente, tanto a me quanto al vostro amico Traddles, per il quale ho un sincero interesse. Forse siete già preparato a sapere che la signora Micawber è in uno stato di salute che rende non del tutto improbabile il prossimo aumento di quei pegni di affetto che... insomma della figliolanza. La famiglia della signora Micawber è stata così buona da esprimere la sua disapprovazione per questo stato di cose. Ho semplicemente da osservare che, per quanto sappia, questa non è una faccenda che li riguardi, e che respingo con disprezzo e con sfida questa loro manifestazione di sentimenti!» Il signor Micawber mi strinse allora nuovamente la mano e mi lasciò. XXVIII • IL GUANTO DI SFIDA DEL SIGNOR MICAWBER Finché non giunse il giorno in cui dovevo accogliere i miei ritrovati vecchi amici, vissi principalmente di Dora e di caffè. Nel mio stato di passione, l'appetito languiva; e io ne ero lieto perché quasi mi sarebbe parsa una bassezza verso Dora trovare un naturale sollievo nei miei desinari. Tutto quel gran camminare che facevo, non aveva, per questo rispetto, le sue consuete conseguenze perché la delusione mandava a vuoto il beneficio dell'aria aperta. Ho inoltre i miei dubbi, fondati sulla lancinante esperienza da me acquistata in quel periodo della mia vita, che un sano godimento del cibo materiale possa liberamente svilupparsi in un qualsiasi soggetto umano continuamente torturato dalle scarpe strette. Credo che le estremità vogliano essere in pace prima che lo stomaco si comporti vigorosamente. In occasione di quel piccolo ricevimento domestico, non ripetei i sovrabbondanti preparativi dell'altra volta. Provvidi solo un paio di sogliole, un modesto cosciotto di montone e un pasticcio di piccioni. La signora Crupp si ribellò apertamente al mio primo, timido accenno al fatto che avrebbe dovuto cucinarmi il pesce e l'arrosto, e disse, con un'aria di dignità profondamente offesa: «No, no, signore! Voi non potete chiedermi una cosa simile perché mi conoscete troppo bene per suppormi capace di fare ciò che ripugna a tutti i miei sentimenti!» Ma alla fine venimmo a un compromesso; e la signora Crupp consentì a sobbarcarsi di questa impresa a condizione che, poi, desinassi fuori casa per quindici giorni. E qui posso notare che quello che dovetti sopportare dalla signora Crupp in conseguenza della tirannia che mi impose fu spaventevole. Mai alcuno mi ispirò tanto terrore. Facevamo un compromesso su tutto. Se io esitavo, le prendeva quello straordinario disturbo che era sempre all'agguato nel suo organismo, pronto, al minimo cenno, ad afferrarle i precordi. Se suonavo spazientito il campanello dopo mezza dozzina di modesti e vani strappi, e lei appariva alla fine - cosa su cui non si poteva assolutamente fare affidamento - si mostrava con un aspetto pieno di rimprovero, sprofondava senza fiato sulla sedia accanto alla porta, si posava una mano sul petto di nanchino e cominciava a star così male che io ero ben felice di sacrificare acquavite o qualsiasi altra cosa pur di levarmela di torno. Se protestavo perché il mio letto veniva rifatto alle cinque del pomeriggio - cosa che considero ancora una pratica scomoda - un solo moto della sua mano verso la stessa nanchinese regione di sensibilità ferita bastava a farmi balbettare una scusa. In breve, avrei fatto qualsiasi cosa, purché onorevole, piuttosto che offendere la signora Crupp; ed ella era il terrore della mia vita. Per questo pranzo comprai di seconda mano un tavolino portatile per non ingaggiare nuovamente il giovanotto capace, contro il quale avevo concepito un certo pregiudizio dopo averlo incontrato sullo Strand, una domenica mattina, con un panciotto maledettamente simile a uno mio, che, dalla volta del primo banchetto, non ero più riuscito a trovare. La «sguatterina», invece fu riassunta, ma col patto che dovesse solo portare i piatti in tavola e poi ritirarsi sul pianerottolo, fuori della porta d'ingresso, dove l'abitudine da lei contratta di tirar su col naso non avrebbe disturbato gli ospiti e dove le sue fughe sui piatti sarebbero state materialmente impossibili. Dopo aver disposto il materiale per un bacile di ponce, che sarebbe stato preparato dal signor Micawber; dopo aver messo sul mio tavolo da toeletta una bottiglia di acqua di lavanda, due candele di cera, una cartina di spilli vari e un puntaspilli per assistere la signora Micawber nel suo abbigliamento; dopo avere inoltre procurato che il fuoco fosse acceso nella mia stanza da letto per comodità della signora Micawber stessa, e dopo avere steso la tovaglia con le mie stesse mani, attesi tranquillo i risultati. All'ora stabilita i miei tre ospiti arrivarono insieme. Il signor Micawber con più colletto del solito e un nuovo nastro all'occhialino; la signora Micawber con la sua cuffia in un involto di carta bianchiccia; Traddles che portava l'involto e dava il braccio alla signora Micawber. Tutti e tre ammirarono la mia dimora. Quando condussi la signora Micawber al mio tavolino da toeletta ed ella vide tutta la gamma di oggetti che avevo preparato per lei, ne fu così rapita che chiamò il signor Micawber perché venisse a vedere. «Mio caro Copperfield,» disse il signor Micawber, «questo è veramente lussuoso. È un tono di vita che mi ricorda il periodo in cui anch'io ero scapolo e la signora Micawber non era ancora stata pregata di impegnare la sua fede sull'altare di Imene.» «Vuol dire che non ero stata ancora pregata da lui,» notò maliziosamente la signora Micawber. «Non può rispondere per gli altri.» «Mia cara,» rispose il signor Micawber con improvvisa serietà, «io non desidero rispondere per altri. So fin troppo bene che, quando negli imperscrutabili decreti del fato, sei stata riserbata a me, sei stata forse riserbata a uno che era destinato, dopo una lunga lotta, a cadere infine vittima di implicazioni pecuniarie di complessa natura. Capisco la tua allusione, amor mio. Me ne rammarico, ma posso sopportarla.» «Micawber!» esclamò la signora Micawber in lacrime, «Ho forse meritato questo? Io che non ti ho mai lasciato e che mai ti lascerò, Micawber?» «Amor mio,» disse il signor Micawber molto commosso, «tu mi perdonerai e il nostro vecchio e provato amico Copperfield sono sicuro che mi perdonerà, il momentaneo strazio di uno spirito ferito, reso sensibile dalla recente collisione con un servo del Potere - in altre parole con un ribaldo idraulico dipendente dal servizio dell'acqua potabile - e avrete pietà e non condanna per i suoi eccessi.» Il signor Micawber abbracciò allora la signora Micawber e strinse la mano a me; lasciandomi inferire da questa frammentaria allusione che il suo rifornimento domestico di acqua era stato interrotto quel pomeriggio in conseguenza del mancato pagamento delle quote alla compagnia distributrice. Per distrarre i suoi pensieri da questo malinconico soggetto, informai il signor Micawber che contavo su di lui per un bacile di ponce e lo portai davanti ai limoni. Il suo recente sconforto, per non dire disperazione, scomparve in un attimo. Non ho mai visto un uomo così interamente felice tra il profumo della scorza di limone con lo zucchero, l'odore del rum ardente e il fumo dell'acqua al bollore, come lo fu il signor Micawber quel pomeriggio. Era meraviglioso vedere il suo volto raggiante dietro la sottile nube di questi effluvi delicati, mentre rimestava, e mischiava, e assaggiava, con tutta l'aria di preparare non un ponce ma la fortuna della sua famiglia fino alla più remota posterità. Quanto alla signora Micawber, non so se fosse l'effetto della cuffia, o dell'acqua di lavanda, o degli spilli, o del fuoco, o delle candele di cera, ma uscì dalla mia stanza, relativamente parlando, graziosa. E l'allodola non fu mai più gaia di quella donna eccellente. Presumo - non mi sono mai arrischiato a fare indagini, ma presumo - che la signora Crupp, dopo aver fritto le sogliole, si sia sentita male. Perché a questo punto tutto andò a rotoli. Il cosciotto di montone arrivò su rosso nell'interno e molto pallido all'esterno: inoltre era tutto cosparso di una strana sostanza di natura granulosa, come se fosse ruzzolato nelle ceneri di quel memorabile fornello da cucina. Ma non eravamo in grado di giudicarlo dalla salsa perché la «sguatterina» l'aveva fatta cadere tutta sulle scale - dove, fra parentesi, rimase per un bel pezzo in una lunga stria finché non fu consumata dal passaggio. Il pasticcio di piccioni non andava male, ma era deludente: la crosta si presentava come una scoraggiante testa, frenologicamente parlando, piena di bozze e di bernoccoli senza nulla di particolare sotto. In una parola il banchetto fu un tal fallimento che io mi sarei sentito del tutto infelice - voglio dire per il fallimento, perché, quanto a Dora, ero infelice in continuità - se non fossi stato sollevato dal gran buonumore della mia compagnia e da un brillante suggerimento del signor Micawber. «Mio caro amico Copperfield,» disse il signor Micawber, «accidenti simili capitano nelle famiglie più regolate; e nelle famiglie non regolate da quella penetrante influenza che santifica e in egual tempo accresce il... un... insomma, voglio dire dall'influenza della Donna, nel suo nobile aspetto di Moglie, possono essere attesi con fiducia e devono essere sopportati con filosofia. Ma se mi concederete la libertà di notare che pochi commestibili sono migliori, a loro modo, di un arrosto alla diavola, e che a mio parere, con una piccola divisione di lavoro, potremo prepararne uno eccellente solo che la giovane persona che ci serve riesca a procurarci una gratella, vi do la mia parola che questa piccola disgrazia potrà essere facilmente riparata.» Nella dispensa c'era la gratella sulla quale veniva arrostita la mia fetta di pancetta mattutina. La prendemmo in un batter d'occhio e immediatamente ci dedicammo a mettere in atto l'idea del signor Micawber. La divisione del lavoro a cui egli aveva accennato, consisteva in questo: Traddles tagliava a fette il montone; il signor Micawber (che faceva alla perfezione ogni cosa del genere) le ricopriva di pepe, senape, sale e caienna; io le mettevo sulla graticola, le voltavo con una forchetta e le toglievo dal fuoco sotto la direzione del signor Micawber; e la signora Micawber scaldava e continuamente rimestava in un tegamino della salsa di funghi. Quando avemmo preparato abbastanza fette per cominciare, ci mettemmo a tavola, con le maniche ancora rimboccate, mentre altre fette scoppiettavano e fiammeggiavano sul fuoco, e la nostra attenzione si divideva fra il montone che avevamo nel piatto e quello che veniva preparato. Così che, tra la novità del cucinare, l'eccellenza di ciò che veniva cucinato, il trambusto, il continuo balzar su per badare al fuoco, il continuo rimetterci a sedere per distribuire le fette croccanti via via che arrivavano calde dalla griglia, e l'essere così affaccendati, così accaldati dalla fiamma, così divertiti, in mezzo allo strepito e all'allettante profumo, riducemmo il cosciotto di montone al solo osso. L'appetito mi tornò miracolosamente. Mi vergogno a riferirlo, ma credo proprio di aver dimenticato Dora per un attimo. E sono sicuro che il signore e la signora Micawber non avrebbero potuto godersi maggiormente il festino se avessero dovuto vendere un letto per procurarselo. Traddles rise di cuore per quasi tutto il tempo, mentre mangiava e lavorava. E in realtà tutti noi facevamo lo stesso, e tutti in una volta; oso dire che non vi fu mai un maggiore successo. Eravamo al colmo della gioia, tutti indaffarati nelle nostre diverse mansioni, cercando di portare l'ultima infornata di fette a una perfezione che avrebbe dovuto coronare la festa, quando mi accorsi che nella stanza c'era una strana presenza, e i miei occhi incontrarono quelli dell'imperturbabile Littimer, che mi stava davanti col cappello in mano. «Che succede?» chiesi involontariamente. «Vi chiedo scusa, signore, mi è stato detto di entrare. Il mio padrone non è qui, signore?» «No.» «Non lo avete visto, signore?» «No; non venite da lui?» «Non direttamente, signore.» «Vi ha detto che lo avreste trovato qui?» «Non esattamente, signore. Ma poiché non è qui oggi, credo che vi sarà domani.» «Deve venire da Oxford?» «Vi prego, signore,» rispose rispettosamente, «di sedervi e di lasciare far questo a me.» E così dicendo mi prese di mano la forchetta, senza che potessi resistergli, e si chinò sulla gratella come se tutta la sua attenzione fosse concentrata su di essa. Oso dire che non saremmo stati eccessivamente scompigliati nemmeno dalla comparsa dello stesso Steerforth, ma divenimmo in un attimo i più miti fra i miti davanti a questo rispettabile servitore. Il signor Micawber, mugolando un'arietta per mostrare di essere a suo agio, sprofondò nella sedia, col manico di una forchetta, nascosta in gran furia, che sporgeva dal petto della sua giacca come se si fosse pugnalato. La signora Micawber si infilò i guanti scuri e assunse un'aria aristocraticamente languida. Traddles si passò le dita unte fra i capelli lasciandoseli dritti come spine e fissò confuso la tovaglia. Quanto a me, ero semplicemente un bambino al capo della mia tavola; e osavo appena gettare uno sguardo al rispettabile fenomeno che era venuto, sa il cielo di dove, per rimettere in ordine la mia casa. Frattanto lui tolse il montone dalla gratella e lo distribuì solennemente in giro. Tutti ne prendemmo, ma non riuscivamo più ad apprezzarlo e facemmo solo mostra di mangiare. Via via che vuotammo i piatti, egli li portò via senza rumore e servì il formaggio. Serviti che fummo, portò via anche questo, sparecchiò la tavola, raccolse tutto sul tavolino a rotelle, ci distribuì i bicchieri e, di sua iniziativa, fece scivolare il tavolino nella dispensa. Tutto ciò fu fatto in modo perfetto, ed egli non alzò mai gli occhi da quello che stava facendo. Tuttavia perfino i suoi gomiti, quando mi voltava le spalle, sembravano brulicare della sua idea fissa che ero estremamente giovane. «Posso fare ancora qualche cosa, signore?» Lo ringraziai e dissi di no; ma lui, non voleva pranzare? «No, ve ne sono obbligato, signore.» «Il signor Steerforth deve arrivare da Oxford?» «Come, signore?» «Il signor Steerforth deve arrivare da Oxford?» «Immagino che sarà qui domattina, signore. Credevo che sarebbe arrivato oggi, signore. Ho sbagliato io, non v'è dubbio, signore.» «Se lo vedeste prima di me...» dissi. «Vogliate scusarmi, signore, non credo che lo vedrò prima di voi.» «Ma nel caso che lo vedeste,» insistei, «vi prego di dirgli che mi dispiace che non sia stato qui oggi, perché avrebbe incontrato un vecchio compagno di scuola.» «Certo, signore!» E divise un inchino tra me e Traddles, lanciando un'occhiata a quest'ultimo. Stava avviandosi chetamente verso la porta quando, nella disperata speranza di dirgli qualche cosa in modo disinvolto - cosa che, con lui, non mi riuscì mai - dissi: «Oh! Littimer!» «Signore?» «Siete rimasto a lungo a Yarmouth?» «Non particolarmente, signore.» «Avete visto portare a termine il battello?» «Sì, signore. Sono rimasto appunto per veder portare a termine il battello.» «Capisco!» Lui alzò rispettosamente gli occhi verso di me. «Suppongo che il signor Steerforth non lo abbia ancora visto.» «Non potrei proprio dire, signore. Penso... ma non, potrei proprio dire. Vi auguro la buona notte, signore.» Comprese tutti i presenti nel rispettoso inchino che seguì a queste parole e scomparve. I miei ospiti parvero respirare più liberamente quando se ne fu andato; ma il mio sollievo fu ancora maggiore, perché, oltre al disagio che sorgeva in me dalla singolare sensazione di essere in condizione di svantaggio, e di cui non mi sono mai potuto liberare in presenza di quell'uomo, la mia coscienza mi metteva in imbarazzo sussurrandomi che avevo diffidato del suo padrone, e non potevo reprimere una vaga e penosa paura che egli potesse scoprirlo. Come avveniva che, pur avendo in realtà così poco da nascondere, provassi sempre l'impressione che quell'uomo mi leggesse nell'intimo? Il signor Micawber mi tolse da queste riflessioni, frammiste con una certa apprensione non priva di rimorsi, di vedere presto Steerforth, elargendo molti elogi all'assente Littimer come tipo rispettabilissimo e domestico ammirevole in tutto. Il signor Micawber, posso notare, si era presa tutta intera la sua parte dell'inchino generale e l'aveva accolta con infinita condiscendenza. «Ma il ponce, mio caro Copperfield,» disse il signor Micawber assaggiandolo, «al pari del tempo e della marea, non aspetta nessuno. Ah! In questo momento ha tutto il suo aroma. Amore, vuoi dirmi la tua opinione?» La signora Micawber dichiarò che era eccellente. «Allora,» disse il signor Micawber, «se il mio amico Copperfield vorrà permettermi di prendermi questa libertà sociale, berrò ai giorni in cui il mio amico Copperfield ed io eravamo più giovani e lottavamo a fianco a fianco per aprirci la nostra strada nel mondo. Posso dire di me stesso e di Copperfield, con le parole che abbiamo cantato altra volta, che Noi due abbiam corso lungo le colline Raccogliendo le belle pratoline ...da un punto di vista figurato... in diverse occasioni. Non so esattamente,» continuò il signor Micawber con l'antico tono strascicato nella voce e l'antica, indescrivibile aria di dire qualche cosa di distinto, «quali pratoline potessero essere, ma non ho dubbi che Copperfield e io ne avremmo colte assai spesso se tosse stato possibile.» In quel momento stesso il signor Micawber prese un sorso del suo ponce, e così facemmo noi. Traddles, evidentemente era perso nel meditare in quali lontani tempi il signor Micawber e io potevamo essere stati camerati nella lotta per la vita. «Ahem!» disse il signor Micawber schiarendosi la gola e scaldandosi col ponce e col fuoco. «Un altro bicchiere, mia cara?» La signora Micawber rispose che doveva essere piccolissimo; ma noi non potevamo permetterlo, e così fu un bicchiere pieno. «Poiché siamo tutti in confidenza, signor Copperfield,» disse la signora Micawber sorseggiando il suo ponce, «e il signor Traddles fa parte della nostra vita domestica, sarei molto lieta di avere la vostra opinione circa le prospettive che si aprono al signor Micawber. Il grano,» proseguì la signora Micawber argomentando, «come ho detto più volte al signor Micawber, sarà forse un articolo distinto, ma non è remunerativo. Una commissione di due scellini e nove pence in quindici giorni non può, per quanto modeste siano le nostre idee, essere considerata remunerativa.» Tutti convenimmo su questo. «Allora,» disse la signora Micawber, che si vantava di avere una chiara visione delle cose e di guidare il signor Micawber con il suo buon senso femminile quando altrimenti avrebbe potuto deviare un tantino, «allora ciò che mi domando è questo: se sul grano non si può far conto, a che cosa dobbiamo appigliarci? Si può contare sui carboni? Assolutamente no. Abbiamo rivolto la nostra attenzione a questa esperienza, per suggerimento della mia famiglia, e l'abbiamo trovata fallace.» Il signor Micawber, addossandosi alla sedia con le mani in tasca, ci guardò di tralice e assentì con la testa come per dire che il caso era impostato molto chiaramente. «Poiché gli articoli grano e carbone,» disse la signora Micawber argomentando ancor più intensamente, «sono egualmente fuori questione, signor Copperfield, io, naturalmente, mi guardo intorno e dico: ‹In che cosa un uomo del talento del signor Micawber avrebbe probabilità di successo?› Ed escludo il far qualche cosa su commissione perché la commissione non è una certezza. Quel che meglio si adatta a una persona del peculiare temperamento del signor Micawber, ne sono convinta, è la certezza.» Traddles e io esprimemmo insieme, con un mormorio di comprensione, che questa grande scoperta era senza dubbio esatta per quel che riguardava il signor Micawber e gli faceva molto onore. «Non vi nasconderò, mio caro signor Copperfield,» disse la signora Micawber, «che io, da molto tempo, considero la fabbricazione della birra come particolarmente adatta al signor Micawber. Guardate Barklay e Perkins! Guardate Truman, Hanbury e Buxton! Su di una base così vasta, lo so per la conoscenza personale che ho di lui, il signor Micawber è senz'altro fatto per brillare; e i profitti, a quanto mi dicono, sono e-NORmi! Ma il signor Micawber non può entrare in queste ditte... che si rifiutano di rispondere alle sue lettere quando egli offre loro i suoi servigi anche in modeste attività. A che serve soffermarci su questa idea? A niente. Io posso essere convinta che i modi del signor Micawber...» «Hem! Andiamo, mia cara,» la interruppe il signor Micawber. «Amor mio, taci,» ribatte la signora Micawber posandogli il suo guanto scuro sulla mano. «Io posso essere convinta, signor Copperfield, che i modi del signor Micawber lo qualificano particolarmente per gli affari bancari. Posso pensare fra me che, se avessi un deposito in banca, i modi del signor Micawber, come rappresentante di quella banca stessa, ispirerebbero fiducia e allargherebbero le relazioni. Ma se le varie banche rifiutano di valersi delle capacità del signor Micawber o rispondono alle sue offerte in modo insultante, a che serve soffermarsi su questa idea? A niente. E quanto a iniziare un'impresa bancaria, posso anche sapere che vi sono membri della mia famiglia i quali, se si decidessero a depositare il loro denaro nelle mani del signor Micawber, potrebbero fondare un istituto di questo genere. Ma se non si decidono a depositare il loro denaro nelle mani del signor Micawber - cosa che si guardano bene dal fare - a che serve? Continuo a sostenere che non siamo avanzati di un passo dal punto in cui eravamo.» Scossi la testa e dissi: «Nemmeno un briciolo.» Anche Traddles scosse la testa e disse: «Nemmeno un briciolo.» «Che cosa deduco da tutto questo?» continuò a dire la signora Micawber sempre con l'aria di impostare lucidamente un caso. Qual è la conclusione, mio caro signor Copperfield, alla quale mi sento irresistibilmente portata? Ho torto se dico che evidentemente dobbiamo vivere?» Io risposi: «Niente affatto!» e Traddles rispose: «Niente affatto!» e io mi trovai poco dopo ad aggiungere saggiamente, da solo, che un uomo deve vivere o morire. «Proprio così,» rispose la signora Micawber. «È precisamente questo. E il fatto è, caro signor Copperfield, che noi non possiamo vivere se non salta fuori al più presto qualche cosa di assolutamente diverso dalle attuali circostanze. Ora, io sono personalmente convinta, e l'ho fatto presente parecchie volte al signor Micawber in questi ultimi tempi, che non si può aspettare che le cose saltino fuori da sole. Dobbiamo, in certa misura, aiutarle a saltar fuori. Avrò torto, ma mi sono formata questa opinione.» Traddles e io la approvammo entrambi con fervore. «Benissimo,» disse la signora Micawber. «E allora che cosa consiglio? Ecco qui il signor Micawber con una quantità di doti... con un grande talento...» «Andiamo, amor mio,» disse il signor Micawber. «Ti prego, caro, permettimi di concludere. Ecco qui il signor Micawber con una quantità di doti, con un grande talento... vorrei dire con del genio, ma questo può essere parziale, da parte di una moglie...» Traddles e io mormorammo insieme: «No.» «Ed ecco qui il signor Micawber senza una posizione o un impiego conveniente. Di chi è la responsabilità? Evidentemente della società. Dunque voglio far conoscere un fatto così disgraziato e sfidare arditamente la società a ripararlo. Mi sembra, mio caro signor Copperfield,» disse la signora Micawber con gran forza, «che quello che il signor Micawber deve fare sia gettare il guanto alla società e dire effettivamente: ‹Guardiamo chi lo raccoglierà. Chi vuole faccia senz'altro un passo avanti.›» Mi arrischiai a chiedere alla signora Micawber come questo poteva esser fatto. «Con avvisi pubblicitari,» rispose la signora Micawber, «su tutti i giornali. Mi sembra che quanto il signor Micawber deve fare, per giustizia verso se stesso, per giustizia verso la sua famiglia, e mi spingo addirittura a dire per giustizia verso la società, dalla quale è stato finora ignorato, sia di mettere avvisi pubblicitari sui giornali; descrivere chiaramente se stesso, così e così, con queste e queste capacità, e dire: ‹Adesso datemi un impiego, a condizioni remunerative, e scrivete, franco di porto, a W. M., fermo in posta, Cadmen Town.›» «Questa idea della signora Micawber, mio caro Copperfield,» disse il signor Micawber tirandosi su il colletto fino al mento e dandomi un'occhiata di sbieco, «è, di fatto, il balzo avanti a cui alludevo quando ebbi il piacere di vedervi la volta scorsa.» «Gli avvisi pubblicitari sono piuttosto costosi,» notai dubbioso. «Proprio così!» disse la signora Micawber, sempre con lo stesso tono dialettico. «Giustissimo, mio caro signor Copperfield! Ho fatto la stessa osservazione al signor Micawber. E soprattutto per questo penso che il signor Micawber dovrebbe (come ho già detto, per giustizia verso se stesso, per giustizia verso la sua famiglia e per giustizia verso la società) procurarsi una certa somma... su di una cambiale.» Il signor Micawber, rovesciato sulla sedia, giocherellava col suo occhialino volgendo gli occhi al soffitto; ma mi parve che osservasse anche Traddles, il quale fissava il fuoco. «Se nessun membro della mia famiglia,» continuò la signora Micawber, «possiede sufficienti sentimenti naturali per negoziare questa cambiale - credo che vi sia un'espressione tecnica più appropriata per quello che intendo...» Il signor Micawber, sempre con gli occhi al soffitto, suggerì: «Scontare.» «Per scontare questa cambiale,» proseguì la signora Micawber, «allora la mia opinione è che il signor Micawber vada alla City, offra al mercato dei valori questa cambiale e ne disponga per quanto potrà ricavarne. Se quei signori del mercato dei valori costringeranno il signor Micawber a sostenere un grosso sacrificio, questo riguarda loro e la loro coscienza. Io considero l'affare, fermamente, come un investimento. Ho raccomandato al signor Micawber, mio caro signor Copperfield, di fare altrettanto: di considerarlo come un investimento di sicuro reddito e prepararsi a qualsiasi sacrificio.» Ebbi l'impressione, ma non so proprio dire perché, che tutto ciò fosse abnegazione e devozione nella signora Micawber, e mormorai qualche cosa in questo senso. Traddles, che prendeva il tono da me, fece altrettanto, sempre guardando il fuoco. «Non voglio,» disse la signora Micawber finendo il suo ponce e raccogliendosi la sciarpa sulle spalle, preludio del suo ritirarsi nella mia stanza da letto, «non voglio prolungare queste considerazioni sugli affari pecuniari del signor Micawber. Davanti al vostro focolare, mio caro signor Copperfield, e in presenza del signor Traddles, il quale, sebbene non amico di così lunga data, è tuttavia dei nostri, non ho potuto fare a meno di mettervi al corrente dell'orientamento che io consiglio al signor Micawber di prendere. Sento che è giunto il momento in cui il signor Micawber deve sforzarsi e - aggiungerò - affermarsi, e mi sembra che i mezzi siano questi. Mi rendo conto di essere solo una donna, e che un giudizio maschile è generalmente considerato più competente nel discutere queste questioni; tuttavia non posso dimenticare che, quando vivevo a casa col papà e la mamma, il mio papà soleva dire: ‹Emma è fragile di costituzione, ma nel modo con cui afferra un soggetto non è inferiore ad alcuno.› Che il mio papà fosse troppo parziale, lo so; ma che fosse un osservatore di qualche merito, il mio dovere e la mia ragione mi impediscono egualmente di dubitarne.» Con queste parole, e resistendo alle nostre insistenze perché volesse conferir grazia, con la sua presenza, ai giri di ponce che restavano, la signora Micawber si ritirò nella mia stanza da letto. E in realtà sentivo che era una donna nobile: il tipo di donna che avrebbe potuto essere una matrona romana e compiere ogni sorta di cose eroiche in tempi di pubblici travagli. Nel fervore di questa impressione, mi congratulai con il signor Micawber per il tesoro che possedeva. E altrettanto fece Traddles. Il signor Micawber tese la mano a ognuno di noi successivamente e poi si coprì il volto col fazzoletto, che credo fosse cosparso di più prese di tabacco che egli non pensasse. Infine tornò al ponce nel più alto stato di ilarità. Fu pieno di eloquenza. Ci fece capire che viviamo nuovamente nei nostri figli e che, sotto la pressione di difficoltà finanziarie, ogni aumento del loro numero è doppiamente benvenuto. Disse che la signora Micawber aveva ultimamente avuto dubbi in proposito, ma che lui li aveva dissipati rassicurandola. E che, quanto alla sua famiglia, era gente indegna di lei, che i loro sentimenti gli erano del tutto indifferenti, e che potevano - riferisco i suoi termini precisi - andarsene tutti al diavolo. Il signor Micawber ci elargì poi un caldo elogio di Traddles. Disse che quello di Traddles era un carattere dalle forti virtù del quale lui (il signor Micawber) non poteva rivolgere alcuna rivendicazione, ma che, grazie al cielo, era capace di ammirare. Alluse con molto sentimento alla damigella sconosciuta che Traddles aveva onorato del suo affetto, e che aveva ricambiato questo affetto onorando e benedicendo Traddles con il proprio. Il signor Micawber brindò a lei. E così feci io. Traddles ci ringraziò entrambi dicendo, con una semplicità e un'onestà che io ero abbastanza in me per apprezzare: «Vi sono davvero molto obbligato. E vi assicuro che è la più cara delle fanciulle!» Dopo di che il signor Micawber colse subito il destro per accennare, nel modo più cerimonioso e delicato, allo stato dei miei affetti. Nulla, se non la seria assicurazione in contrario del suo amico Copperfield, disse, poteva togliergli l'impressione che il suo amico Copperfield amasse e fosse riamato. Dopo essermi sentito addosso un gran caldo e un gran disagio per qualche tempo, e dopo un bel po' di rossori, balbettii e dinieghi, dissi, levando il bicchiere: «Ebbene! In onore di D.!» cosa che esaltò e rallegrò tanto il signor Micawber da farlo correre con un bicchiere di ponce nella mia stanza da letto affinché anche la signora Micawber potesse bere in onore di D.; ed ella bevve con entusiasmo, gridando con voce acuta dall'interno: «Evviva, evviva! Mio caro signor Copperfield, ne sono felice. Evviva!» e battendo sul muro come per applaudire. In seguito la nostra conversazione prese un giro più terreno; il signor Micawber ci disse di trovare Camden Town poco comoda, e che la prima cosa in progetto, quando gli avvisi pubblicitari fossero riusciti a far saltar fuori alcun che di soddisfacente, era un trasloco. Accennò a un filare di case elevato all'estremo occidentale di Oxford Street, di fronte a Hyde Park, sul quale aveva sempre tenuto l'occhio, ma che non si aspettava di potere raggiungere immediatamente perché richiedeva basi molto solide. Ci sarebbe stato probabilmente un intervallo, spiegò, durante il quale si sarebbe contentato della parte superiore di una casa, sopra qualche centro di affari rispettabile - diciamo in Piccadilly, - che sarebbe stata una posizione piacevole per la signora Micawber, e dove, facendo sporgere un bovindo o elevando un altro piano sul tetto, o facendo qualche piccola modificazione del genere, avrebbero potuto vivere in modo comodo e onorevole per alcuni anni. Qualunque cosa gli fosse destinata, disse esplicitamente, o dovunque potesse essere il suo alloggio, noi dovevamo far conto su questo: vi sarebbe sempre stata una stanza per Traddles e un posto a tavola per me. Lo ringraziammo per la sua gentilezza, ed egli ci pregò di perdonarlo se si era lanciato in questi particolari pratici e materiali, scusando la cosa come naturale in un uomo che stava sistemando la sua vita in un modo assolutamente nuovo. La signora Micawber, battendo di nuovo al muro per sapere se l'acqua del tè era pronta, interruppe questa fase della nostra amichevole conversazione. Ci preparò un tè eccellente, e, ogni volta che la avvicinavo, ella, porgendomi una tazza di tè e il pane e burro, mi chiedeva con un sussurro se D. era bionda o bruna, se era alta o bassa, o cose del genere che, credo, mi facevano piacere. Dopo il tè discutemmo una quantità di argomenti davanti al fuoco, e la signora Micawber fu così buona da cantarci (con una vocetta sottile e piatta che ricordavo di aver considerato, nell'udirla la prima volta, la vera birra da pasto dell'acustica) le sue ballate favorite dell'Audace sergente bianco e del Piccolo Tafflin. Per queste due canzoni la signora Micawber era stata famosa quando viveva a casa sua col papà e la mamma. Il signor Micawber ci disse che, quando l'aveva udita cantare la prima, la prima volta che l'aveva vista sotto il tetto paterno, ella aveva attratto straordinariamente la sua attenzione; ma quando era passata al Piccolo Tafflin, lui aveva deciso di conquistare quella donna o soccombere nel tentativo. Tra le dieci e le undici la signora Micawber si alzò per riporre la cuffia nell'involto bianchiccio e rimettersi il cappello. Il signor Micawber colse l'occasione che Traddles stava infilandosi il cappotto, per farmi scivolare in mano una lettera sussurrandomi di leggerla con comodo. Anch'io, nello sporgere la candela oltre la ringhiera per far loro luce, quando il signor Micawber si avviò per primo dando il braccio alla signora Micawber e Traddles si preparava a seguirli, colsi l'occasione per trattenere un attimo Traddles in cima alle scale. «Traddles,» dissi, «il signor Micawber non intende fare nulla di male, povero diavolo: ma se fossi in te non gli presterei nulla.» «Caro Copperfield,» mi rispose sorridendo, «non ho proprio nulla da prestargli.» «Hai un nome, a quanto sappiamo,» dissi io. «Oh! E tu consideri questo qualche cosa che si possa prestare?» replicò Traddles con uno sguardo pensoso. «Certo.» «Oh!» disse Traddles. «Sì, naturalmente! Ti sono molto obbligato, Copperfield; ma... temo di averglielo già prestato.» «Per la cambiale che è un sicuro investimento?» chiesi. «No,» rispose Traddles. «Non per quella. È la prima volta che ne ho udito parlare. Ho pensato che molto probabilmente me la proporrà tornando a casa. Mi riferivo a un'altra.» «Spero che non ne verrà fuori nulla di brutto,» dissi. «Lo spero anch'io,» rispose Traddles. «Direi di no, tuttavia, perché solo l'altro giorno mi ha detto di avere provveduto in proposito. Sono state le sue parole: ‹Provveduto in proposito.›» A questo punto il signor Micawber guardò in su verso di noi, e io ebbi solo il tempo di ripetergli il mio avvertimento. Traddles mi ringraziò e scese. Ma, nell'osservare il suo modo bonario di scender le scale con la cuffia in mano e di dare il braccio alla signora Micawber, ebbi una gran paura che sarebbe stato trascinato fino al collo nel mercato dei valori. Tornai presso il fuoco, e stavo meditando, metà sul serio e metà ridendo, sul carattere del signor Micawber e sui nostri vecchi rapporti, quando udii un passo veloce sulle scale. Dapprima pensai a Traddles, che tornava a prendere qualche cosa dimenticata dalla signora Micawber; ma quando il passo fu più vicino lo riconobbi, e sentii battermi forte il cuore e il sangue salirmi al volto, perché era quello di Steerforth. Non mi ero mai dimenticato di Agnes, ed ella non aveva mai lasciato, nei miei pensieri, quel santuario - se posso così chiamarlo - in cui l'avevo collocata fin da principio. Ma quando egli entrò e mi fu davanti con la mano tesa, l'ombra che era caduta su di lui si mutò in luce e io mi sentii pieno di confusione e di vergogna per aver dubitato di un uomo che amavo così cordialmente. Amavo lei non meno; la consideravo lo stesso benigno e gentile angelo della mia vita; rimproveravo me, e non lei, per avergli fatto ingiuria; e avrei fatto per lui qualsiasi espiazione se avessi saputo che fare e come farlo. «Perdinci, Pratolina, vecchio mio, tutto strabiliato!» esclamò Steerforth ridendo, stringendomi la mano con effusione e ritirandola allegramente. «Vi ho scoperto in un altro festino, Sibarita! Questi signori dei Doctors' Commons sono i tipi più allegri della città, credo, e riducono a niente noi, gente seria di Oxford!» Il suo sguardo luminoso si volse allegramente per la stanza mentre lui si sedeva di fronte a me, sul divano che la signora Micawber aveva appena lasciato, e attizzava il fuoco. «Sono rimasto così sorpreso, sulle prime,» dissi dandogli il benvenuto con tutta la cordialità che sentivo, «da avere appena il fiato per salutarvi, caro Steerforth.» «Bene, la mia vista fa bene agli occhi malati, come dicono gli Scozzesi,» rispose Steerforth, «e così pure la vostra, Pratolina in fiore. Come state, mio caro seguace di Bacco?» «Benissimo,» risposi, «e in un modo niente affatto bacchico, stasera, sebbene debba confessarvi un'altra riunione a tre.» «Tutti quelli che ho incontrato per strada e che levavano alte lodi in vostro onore,» replicò Steerforth. «Chi è quel vostro amico in calzoni attillati?» Gli diedi in poche parole, meglio che potei, un'idea del signor Micawber. Egli rise di cuore al mio pallido ritratto di quel signore e disse che era un uomo da conoscersi e che lui doveva conoscerlo. «Ma chi supponete che sia l'altro nostro amico?» dissi a mia volta. «Lo sa il cielo,» rispose Steerforth. «Non un seccatore, spero. Mi è sembrato che ne avesse un po' l'aria.» «Traddles!» esclamai trionfante. «Chi è?» chiese Steerforth con noncuranza. «Non ricordate Traddles? Traddles, nella nostra camerata al Collegio Salem?» «Oh, quel tipo!» disse Steerforth battendo con l'attizzatoio un blocco di carbone nel fuoco. «È sempre così sciocco? E dove diavolo lo avete pescato?» Come risposta feci l'elogio di Traddles meglio che potei; perché capivo che Steerforth non gli dava alcuna importanza. Steerforth, respingendo questo argomento con un breve cenno, un sorriso e il commento che sarebbe stato lieto anche lui di rivedere quel vecchio compagno che era sempre stato un tipo strampalato, mi chiese se potevo dargli qualche cosa da mangiare. Per la maggior parte di questo breve dialogo, quando non aveva parlato con l'impeto più vivace, aveva continuato a battere oziosamente il blocco di carbone con l'attizzatoio. Notai che faceva la stessa cosa mentre io andavo tirando fuori gli avanzi del pasticcio di piccioni e il resto. «Diamine, Pratolina, questa è una cena da re!» esclamò uscendo bruscamente dal suo silenzio e mettendosi a tavola. «Devo renderle giustizia perché arrivo da Yarmouth». «Credevo che tornaste a Oxford,» risposi. «No,» disse Steerforth. «Ho impiegato meglio il mio tempo... sono stato in mare». «Littimer è venuto qui quest'oggi a cercarvi,» notai, «e da quanto ha detto mi era parso capire che foste a Oxford; tuttavia, ora che ci penso, non lo ha detto di certo». «Littimer è più sciocco che non credessi, se è venuto a cercarmi qui,» disse Steerforth versandosi giovialmente un bicchiere di vino e bevendo alla mia salute. «Quanto a capirlo, siete più intelligente di tutti noi, Pratolina, se ci riuscite». «Questo è proprio vero,» risposi, avvicinando la mia sedia alla tavola. «E così siete stato a Yarmouth, Steerforth!» aggiunsi curioso di conoscere tutto a riguardo. «Ci siete rimasto a lungo?» «No,» disse. «Una scappata di una settimana o giù di lì.» «E come stanno tutti? Naturalmente la piccola Emily non si è ancora sposata.» «Non ancora. Ma sta per farlo, credo... fra qualche settimana, o qualche mese, o qualche cosa del genere. Non li ho visti molto. A proposito;» depose il coltello e la forchetta che stava usando di buona lena, e cominciò a cercarsi nelle tasche; «ho una lettera per voi.» «Di chi?» «Diamine, della vostra vecchia governante,» rispose tirando fuori alcune carte dalla tasca interna della giacca. «‹Egregio signor J. Steerforth, fattura, al Vostro buon volere...› non è questo. Pazienza, la troveremo subito. Il vecchio come-si-chiama sta male, e credo che si tratti di questo.» «Intendete Barkis?» «Sì!» Continuò a frugarsi nelle tasche e a esaminare il contenuto. «Temo che per il povero Barkis sia finita. Ho visto là un piccolo farmacista - o chirurgo, o quello che è - quello che portò alla luce vossignoria. Fu molto dotto, con me, riguardo a questo caso; ma in conclusione il suo parere fu che il corriere stava facendo piuttosto in fretta il suo ultimo viaggio... Infilate la mano nella tasca interna del mio cappotto su quella sedia, e credo che troverete la lettera. C'è?» «Eccola,» dissi io. «Bene.» Era di Peggotty; un po' meno leggibile del solito, e breve. Mi informava dello stato disperato di suo marito e accennava al fatto che era «un po' più tirato» di prima, e di conseguenza più difficile a trattarsi e a farlo stare a suo agio. Non diceva nulla della sua stanchezza e della sua assistenza, e tesseva altamente le lodi di lui. Era scritta con una semplice, schietta, casalinga pietà che sapevo essere genuina, e finiva con «i miei doveri al mio sempre amato», ossia me stesso. Mentre la decifravo, Steerforth continuava a mangiare e a bere. «È un brutto affare,» disse quando ebbi finito; «ma il sole tramonta ogni giorno, la gente muore ogni minuto e non dobbiamo spaventarci per la sorte comune. Se non riuscissimo a tenerci in piedi perché quel piede si ode egualmente battere alle porte di tutti, ogni oggetto di questo mondo ci sfuggirebbe di mano. No! Restare a cavallo. Ferrato con ramponi se necessario, ferrato liscio se può bastare, ma restare a cavallo! Galoppare su tutti gli ostacoli e vincere la corsa!» «Vincere quale corsa?» chiesi. «La corsa che abbiamo intrapreso,» mi rispose. «Restare a cavallo.» Notai, ricordo, mentre egli faceva una pausa e mi guardava con la sua bella testa un po' inclinata all'indietro e il bicchiere levato, che, sebbene la freschezza del vento marino fosse sul suo volto acceso, vi erano in esso delle tracce apparse dopo l'ultima volta che lo avevo visto, come se si fosse abbandonato a uno di quegli eccessi di fervida energia che, quando si risvegliavano, erompevano in lui così appassionatamente. Avevo in mente di rimproverarlo per quel suo disperato modo di seguire ogni fantasia che gli passasse per la testa - come queste sue lotte contro il mare infuriato e queste sue sfide alla tempesta, ad esempio - quando i miei pensieri tornarono di colpo al soggetto immediato della nostra conversazione e io la ripresi. «Vi dirò una cosa, Steerforth,» cominciai, «se i vostri ardenti spiriti vogliono ascoltarmi...» «Sono spiriti potenti e faranno tutto quello che volete,» mi rispose tornando dalla tavola al caminetto. «Allora vi dirò una cosa, Steerforth. Penso che andrò laggiù a fare una visita alla mia vecchia governante. Non che possa fare qualche cosa di bene per lei o renderle qualche servigio effettivo; ma mi è così affezionata che la mia visita avrà su di lei l'effetto di entrambe le cose. Ne sarà tanto lieta da averne conforto e aiuto. Non è certo una fatica eccessiva da affrontare per un'amica quale è sempre stata per me. Non fareste un viaggio di un giorno, se foste al mio posto?» Aveva il volto pensieroso e rimase seduto per un poco, meditando, prima di rispondermi a voce bassa: «Be', andate pure. Non potrete farle del male.» «Voi siete appena tornato di là,» dissi, «e sarebbe vano chiedervi di accompagnarmi.» «Certo,» rispose. «Vado a Highgate stanotte. Non vedo mia madre da molto tempo e mi rimorde la coscienza, perché non è poca cosa essere amati come lei ama il suo figliuol prodigo. Bah! Sciocchezze! Intendete partire domattina, immagino?» disse tenendomi distante da lui di tutta la lunghezza delle braccia, con una mano su ognuna delle mie spalle. «Sì, penso di far così.» «Bene, allora, non partite fino a dopodomani. Desideravo che veniste a passare qualche giorno con noi. Sono qui per invitarvi ed ecco che prendete il volo per Yarmouth!» «Siete un bel tipo a parlare di prendere il volo, Steerforth, voi, che non fate che precipitarvi come un forsennato in misteriose spedizioni!» Mi guardò un momento senza parlare e poi rispose, sempre tenendomi come prima e dandomi una scossa: «Andiamo! Decidetevi per dopodomani e passate con noi quanto potete della giornata di domani. Altrimenti, chissà quando ci incontreremo ancora. Su, decidetevi per dopodomani! Ho bisogno che vi mettiate fra Rosa Dartle e me e ci teniate divisi.» «Vi amereste troppo, senza di me?» «Sì; o ci odieremmo,» rispose Steerforth ridendo, «poco importa che cosa. Su, decidetevi per dopodomani.» Decisi per il dopodomani; lui si infilò il cappotto, accese un sigaro e si preparò a tornare a casa. Vedendolo così disposto, mi misi anch'io il cappotto (ma non accesi un sigaro, avendone avuto abbastanza la prima volta) e lo accompagnai nella strada: una strada triste a quell'ora di notte. Fu brillantissimo per tutta la via, e quando ci separammo e io lo guardai avviarsi baldo e leggero verso casa, pensai alle sue parole: «Galoppare su tutti gli ostacoli e vincere la corsa!» e, per la prima volta, mi augurai che la sua fosse una corsa degna. Mi stavo spogliando nella mia stanza, quando mi cadde a terra la lettera del signor Micawber. Allora me ne ricordai, ruppi il sigillo e lessi quanto segue. Era datata un'ora e mezzo prima del pranzo. Non so se ho già accennato al fatto che il signor Micawber, quando era in qualche particolare stato di crisi disperata, usava una sorta di fraseologia legale: cosa che gli sembrava l'equivalente di liquidare i suoi affari. «Signore - poiché non oso dire mio caro Copperfield, «È opportuno che vi informi che il sottoscritto è Annientato. Alcuni deboli sforzi per risparmiarvi la prematura conoscenza della sua posizione calamitosa, li avrete potuti osservare quest'oggi; ma la speranza è sprofondata sotto l'orizzonte, e il sottoscritto è Annientato. «La presente comunicazione viene vergata nella vicinanza personale (non posso dire in compagnia) di un individuo, in stato confinante con l'ubriachezza, alle dipendenze di un agente di sequestri. Questo individuo è in legale possesso del mio appartamento, sotto sequestro per la pigione. Il suo inventario include non solo il mobilio e gli effetti di ogni sorta appartenenti al sottoscritto, quale affittuario annuale di questa abitazione, ma anche quelli appartenenti al signor Thomas Traddles, subaffittante e membro dell'Onorevole Società del Collegio degli Avvocati. «Se qualche goccia di mestizia mancasse alla traboccante coppa che è adesso ‹affidata› (nel linguaggio di un immortale Scrittore) alle labbra del sottoscritto, sarà trovata nel fatto che un effetto cambiario amichevolmente avallato al sottoscritto dal sunnominato signor Thomas Traddles per la somma di 24 sterline, 4 scellini e 9 pence e mezzo, è scaduto e ad esso NON è stato provveduto. Ed egualmente nel fatto che le responsabilità vitali collegate al sottoscritto saranno, nel corso della natura, accresciute nel numero da una nuova vittima indifesa, la cui comparsa potrà essere osservata - in cifra tonda - allo spirare di un termine non superiore ai sei mesi lunari a partire dalla data odierna. «Dopo tali premesse, sarebbe opera di supererogazione aggiungere che polvere e cenere sono per sempre sparse Sulla Testa Di Wilkins Micawber» Povero Traddles! Conoscevo ormai abbastanza il signor Micawber per prevedere che, da lui, ci si poteva aspettare che si rimettesse da quel colpo; ma il mio riposo notturno fu profondamente turbato dai miei pensieri su Traddles e sulla figlia del curato, che era una di dieci, laggiù nel Devonshire, e che era una ragazza così cara, che avrebbe aspettato Traddles (lode di sinistro augurio) fino ai sessant'anni o qualsiasi altra età. XXIX • FACCIO ANCORA UNA VISITA A STEERFORTH NELLA SUA CASA Il mattino dopo dissi al signor Spenlow che chiedevo licenza di assentarmi per breve tempo; e, poiché non ricevevo alcuno stipendio e, di conseguenza, non venivo in urto con l'implacabile Jorkins, non vi furono difficoltà in proposito. Colsi l'opportunità, con una voce che mi si fermava in gola mentre la vista mi si annebbiava nel pronunciar le parole, per esprimere la mia speranza che la signorina Spenlow stesse bene; al che il signor Spenlow rispose, con non maggiore emozione che se parlassimo di un qualsiasi essere umano, che mi era molto obbligato e che lei stava benissimo. Noi apprendisti, come germi dell'ordine patrizio dei procuratori ecclesiastici, eravamo trattati con tanta considerazione che ero padrone di quasi tutto il mio tempo. Comunque, poiché non m'importava di arrivare a Highgate prima dell'una o delle due del pomeriggio, e poiché quel mattino avevamo in tribunale un altro piccolo caso di scomunica, chiamato «l'ufficio del giudice» e promosso da Tripkins contro Bullock per l'andamento della sua anima, passai un'ora o due ad assistervi molto piacevolmente col signor Spenlow. Era sorto da una lite fra due fabbricieri, l'uno dei quali era accusato di aver spinto l'altro contro una pompa; poiché il manico di quella pompa si stendeva fino a un edificio scolastico, il qual edificio scolastico era sotto il cornicione del tetto di una chiesa, la spinta costituiva un'offesa ecclesiastica. Fu un caso molto divertente, che mi fece andare a Highgate, a cassetta di una diligenza, tutto intento a meditare sui Commons e a ciò che il signor Spenlow aveva detto circa il toccare i Commons e mandare in rovina il paese. La signora Steerforth fu lieta di vedermi e così pure Rosa Dartle. Fui gradevolmente sorpreso nel trovare che Littimer non era là e che eravamo serviti da una modesta camerierina con nastri azzurri sulla cuffia, i cui occhi erano molto più piacevoli e molto meno sconcertanti, se per caso li incontravo, di quelli di quel rispettabile individuo. Ma quello che particolarmente notai, prima di essere stato mezz'ora in quella casa, fu la stretta e attenta vigilanza in cui mi tenne la signorina Dartle, e il modo furtivo con cui ella sembrava confrontare il mio viso con quello di Steerforth e quello di Steerforth col mio, restando in attesa che qualche cosa accadesse fra noi due. Quando la guardavo, notavo a colpo sicuro il suo volto intento, con i suoi spettrali occhi neri e la fronte indagatrice, fisso sul mio, o passare rapidamente dal mio a quello di Steerforth, o accoglierci entrambi a un tempo. E in questo suo scrutare da lince, ella non solo non si turbava accorgendosi che io lo notavo, ma, allora, si limitava a fissare su di me il suo sguardo penetrante con ancor maggiore intensità. Pur innocente qual ero, e quale sapevo di essere, riguardo a qualsiasi colpa che ella potesse sospettare in me, rifuggivo da quegli strani occhi, incapace di sostenere l'avido bagliore. Per tutto il giorno ella parve invadere l'intera casa. Se parlavo con Steerforth nella sua stanza, udivo il fruscìo, del suo abito nella piccola galleria esterna. Quando lui e io ci impegnammo in alcuni dei nostri vecchi esercizi sul prato della casa, vidi il suo volto passare da finestra a finestra, come un fuoco fatuo, finché non lo fermò in una per osservarci. Quando uscimmo tutti e quattro a passeggio nel pomeriggio, ella strinse la sua mano sottile al mio braccio, come una molla, e mi tenne indietro, mentre Steerforth e sua madre ci precedevano fuori della portata della nostra voce: e allora mi parlò. «Siete stato molto tempo,» mi disse, «senza venir qui. La vostra professione vi impegna e vi interessa davvero tanto da assorbire tutta la vostra attenzione? Lo chiedo perché desidero sempre di essere informata, quando non so qualche cosa. È proprio così?» Risposi che la mia professione mi piaceva abbastanza, ma non esigeva certo tutto questo da me. «Oh! sono felice di saperlo, perché mi piace sempre essere corretta quando sbaglio,» disse Rosa Dartle. «Forse pensate che è un po' arida?» «Be'» risposi, «forse è un po' arida». «Oh! Ed è per questo che avete bisogno di sollievo e di mutamenti... di qualche eccitazione e così via?» chiese. «Ah! verissimo! Ma non è un po'... Eh?... per lui, non intendo per voi.» Un suo rapido sguardo verso il luogo in cui Steerforth stava camminando con sua madre, che gli si appoggiava al braccio, mi fece capire chi intendeva; ma, oltre questo, non riuscivo assolutamente a capire. E sono certo di averlo fatto vedere. «E questo non - non dico che sia così, ricordatevi che cerco soltanto di sapere - non lo assorbe un po' troppo? Non lo rende, forse, un po' più trascurato del solito nelle sue visite a colei che lo ama ciecamente... eh?» E diede un altro rapido sguardo a loro, e uno a me che parve leggermi nei più riposti pensieri. «Signorina Dartle,» risposi, «vi prego di non credere...» «Non credo!» disse. «Oh, povera me, non supponete che creda qualche cosa! Non sono sospettosa. Faccio solo una domanda. Non esprimo un'opinione. Voglio farmi un'opinione su quello che voi mi dite. Dunque non è così? Bene! Sono proprio felice di saperlo.» «Una cosa è certa,» dissi perplesso, «che non sono responsabile se Steerforth è stato lontano da casa più a lungo del solito... se pure lo è stato: cosa che in questo momento veramente ignoro, se non me lo dite voi. Non l'ho visto per molto tempo, fino a ieri sera.» «No?» «Veramente, signorina Dartle, no.» Mi fissò intensamente e io vidi il suo volto divenire più affilato e pallido, e il segno della sua vecchia ferita allungarsi finché non passò oltre il labbro deformato per approfondirsi in quello inferiore e scendere obliquo sulla faccia. C'era per me, in questo, e nel fulgore dei suoi occhi, qualche cosa di decisamente pauroso mentre ella diceva guardandomi fisso: «Che cosa fa?» Ripetei quelle parole, più per me stesso che per lei, tanto ero sbigottito. «Che cosa fa?» chiese ancora con un'avidità che sembrava consumarla come fuoco. «In che cosa lo aiuta quell'uomo che non mi guarda mai senza un'imperscrutabile falsità negli occhi? Se siete un uomo d'onore e fedele, io non vi chiedo di tradire il vostro amico. Vi chiedo solo di dirmi: è ira, è odio, è orgoglio, è inquietudine, è qualche forsennata fantasia, è amore, che cosa è che lo spinge?» «Signorina Dartle,» risposi, «come posso dirvi, in modo che mi crediate, che non vedo in Steerforth niente di diverso da come era quando venni qui la prima volta? Non posso pensare a niente. Credo fermamente che non vi sia niente. Capisco appena quello che intendete dire.» Mentre continuava a guardarmi con fissità, una contrazione o un palpito, da cui non potei dissociare l'idea di angoscia, passò per quel segno crudele, e rialzò l'angolo del suo labbro come in un'espressione di scherno o di sprezzante pietà. Si affrettò a mettervi sopra la mano - una mano così sottile e delicata che, quando l'avevo vista levarsi davanti al fuoco per ripararle il volto, l'avevo paragonata fra me a una fine porcellana - e, dopo aver detto con un tono rapido, fiero, appassionato, «Vi considero obbligato a tenere il segreto su tutto questo!» non aggiunse altra parola. La signora Steerforth era particolarmente felice della presenza del figlio, e Steerforth, in quella occasione, fu con lei particolarmente attento e rispettoso. Era molto interessante per me vederli insieme, non solo per il loro reciproco affetto, ma per la loro forte somiglianza e il modo con cui tutto ciò che in lui era altero e impetuoso veniva mitigato dall'età e dal sesso nella dignitosa grazia di lei. Pensai più di una volta che per fortuna nessuna seria causa di separazione era mai intervenuta fra loro; perché due caratteri tali - o meglio due tali sfumature di uno stesso carattere - sarebbero stati più difficili a riconciliarsi che non i due più opposti estremi nel creato. Questa idea non nacque dal mio acume, devo confessarlo, ma da un discorso di Rosa Dartle. A pranzo ella disse: «Oh, me lo dica qualcuno in qualche modo perché ci ho pensato tutto il giorno e vorrei saperlo.» «Che cosa vorresti sapere, Rosa?» chiese la signora Steerforth. «Andiamo, Rosa, ti prego, non essere misteriosa.» «Misteriosa!» esclamò lei. «Oh! davvero? Mi considerate tale?» «Non ti ho sempre consigliato,» disse la signora Steerforth, «di parlare con semplicità, al tuo modo naturale?» «Oh! allora questo non è il mio modo naturale?» ribatté lei. «Dovete proprio compatirmi perché chiedo per sapere. Non si riesce mai a conoscerci.» «È divenuta in te una seconda natura,» disse la signora Steerforth senza alcuna irritazione; «ma ricordo - e credo che anche tu devi ricordarti - il tempo in cui i tuoi modi erano molto diversi, Rosa; quando erano meno controllati e più sinceri.» «Sono sicura che avete ragione,» rispose lei; «e così ho preso delle cattive abitudini! Davvero? Meno controllati e più sinceri? Mi domando come ho potuto trasformarmi a poco a poco! Be', è molto strano! Devo fare in modo di tornare me stessa.» «Vorrei che lo facessi,» disse la signora Steerforth sorridendo. «Oh! Lo voglio proprio, sapete?» rispose. «Imparerò la franchezza da... guardiamo un po'... da James.» «Non potresti impararla, Rosa,» ribatté pronta la signora Steerforth - perché vi era sempre qualche cosa di sarcastico in quello che Rosa Dartle diceva, sebbene fosse detto certo nel modo più inconsapevole - «a una scuola migliore.» «Ne sono certissima,» rispose lei con insolito fervore. «Naturalmente, se posso essere certa di qualche cosa, lo sapete, è di questo.» Mi parve che la signora Steerforth si rammaricasse di essere stata un po' pungente; perché subito dopo disse in tono affabile: «Bene, mia cara Rosa, non abbiamo ancora sentito quello che volevi sapere.» «Quello che volevo sapere?» rispose lei con provocante freddezza. «Oh! Era solo se coloro che sono simili per costituzione morale... è l'espressione giusta?» «È un'espressione come un'altra,» disse la signora Steerforth. «Grazie: se coloro che sono simili per costituzione morale, supponendo che sorgano fra loro seri motivi di contrasto, non corrano maggior pericolo degli altri, che non hanno queste qualità, di separarsi violentemente e profondamente.» «Direi di sì,» rispose Steerforth. «Lo direste?» Ripeté lei. «Povera me! Supponendo allora, per esempio - si possono supporre le cose più assurde - che voi e vostra madre aveste un serio litigio...» «Mia cara Rosa,» la interruppe la signora Steerforth ridendo bonariamente, «fate qualche altra supposizione! James e io conosciamo troppo bene i nostri reciproci doveri, grazie al cielo!» «Oh!» disse la signorina Dartle assentendo pensosamente col capo. «Certo. Questo potrebbe prevenirlo? Evvia, è naturale che lo preverrebbe. Esattamente. Adesso sono felice di essere stata così sciocca da porre la questione, perché è bellissimo sapere che i vostri reciproci doveri preverrebbero un caso simile. Grazie infinite.» Non devo omettere un'altra piccola circostanza connessa con la signorina Dartle; perché ebbi ragione di ricordarla in seguito, quando tutto l'irrimediabile passato fu chiaro. Per l'intera giornata, ma specialmente a partire da questo momento, Steerforth esercitò tutta la sua abilità, e con tutta la sua disinvoltura, per trasformare come per incanto quella singolare creatura in una compagna piacevole e compiaciuta. Che vi riuscisse non mi sorprese. E non mi sorprese nemmeno che lei lottasse contro l'influsso fascinoso della sua deliziosa arte (della sua deliziosa natura, pensavo allora); perché sapevo che era spesso prevenuta e ostile. Vidi cambiare lentamente i suoi lineamenti e i suoi modi; la vidi rivolgergli sguardi di crescente ammirazione; la vidi tentare, sempre più debolmente, ma sempre con asprezza, come se condannasse la propria incapacità, di resistere al cattivante potere da lui posseduto; e infine vidi mitigarsi il suo sguardo acuto, il suo sorriso divenire gentile, e smisi di aver paura di lei, come l'avevo avuta in realtà per tutto quel giorno, e sedemmo tutti davanti al fuoco ridendo e parlando insieme senza alcuna riserva, come fanciulli. Non so se fu perché Steerforth era rimasto seduto così a lungo o perché non voleva perdere il vantaggio acquistato, ma certo è che non restammo nella sala da pranzo più di cinque minuti dopo che ella ci ebbe lasciati. «Suona l'arpa,» disse piano Steerforth sulla soglia del salotto, «e credo che nessuno, eccetto mia madre, la abbia udita suonare negli ultimi tre anni.» Lo disse con un curioso sorriso che subito disparve; entrammo nella sala e la trovammo là sola. «Non alzarti,» disse Steerforth (ma lei lo aveva già fatto); «mia cara Rosa, no! Sii gentile per una volta e cantaci una canzone irlandese.» «Che ve ne importa di una canzone irlandese?» chiese. «Molto!» rispose Steerforth. «Molto più che di ogni altra. E qui c'è la Pratolina, che ama la musica con tutta l'anima. Cantaci una canzone irlandese, Rosa! e lascia che mi sieda ad ascoltarla come facevo un tempo.» Non la toccò né toccò la sedia da cui lei si era alzata, ma si sedette presso l'arpa. Ella rimase per un poco in piedi presso lo strumento, in uno strano modo, muovendo le dita della destra come se lo suonasse, ma senza farlo suonare. Alla fine si sedette, trasse a sé l'arpa con un gesto improvviso, e suonò e cantò. Non so che cosa, nel suo tocco e nella sua voce, rese quel canto il più spettrale che abbia mai udito in vita mia o che possa immaginare. Vi era in esso qualcosa di veramente pauroso. Sembrava che non fosse mai stato scritto né messo in musica ma scaturisse dalla passione che era in lei: una passione che trovava imperfetta espressione nei toni bassi della sua voce e che parve raccogliersi ancora in sé quando tutto tacque. Io rimasi muto, mentre lei tornava a curvarsi sull'arpa muovendo le dita della destra come se suonasse, ma senza suonare. Un minuto dopo fui svegliato così dal mio rapimento: Steerforth aveva lasciato la sua sedia, si era avvicinato a lei, le aveva messo ridendo un braccio attorno, al collo e aveva detto: «Su, Rosa, nell'avvenire ci ameremo moltissimo l'un l'altra!» E lei lo aveva percosso, lo aveva respinto con la furia di un gatto selvaggio e si era precipitata fuori della sala. «Che è successo a Rosa?» chiese la signora Steerforth entrando. «È stata un angelo, mamma,» rispose Steerforth, «per appena un momento; e poi è corsa all'estremo opposto per mettere in pari le cose.» «Dovresti stare attento a non irritarla, James. Il suo carattere è stato inasprito, ricordatelo, e non dovrebbe essere messo alla prova.» Rosa non tornò; e non si fece altra allusione a lei finché andai con Steerforth nella sua stanza per dargli la buona notte. Allora egli rise di lei e mi domandò se avevo mai visto un così feroce campioncino di incomprensione. Io espressi tutto lo stupore che ero capace di esprimere, e gli chiesi se poteva supporre che cosa ella avesse preso così in mala parte e così all'improvviso. «Oh, il cielo lo sa,» rispose Steerforth. «Tutto quello che volete, o niente! Vi ho già detto che ha passato e affilato tutto alla mola, compresa se stessa. È un taglio di rasoio e deve essere trattata con molta precauzione. Rimane sempre pericolosa. Buona notte.» «Buona notte,» dissi, «mio caro Steerforth! Domattina sarò partito prima del vostro risveglio. Buona notte.» Non sapeva decidersi a lasciarmi andare; e rimase dritto, trattenendomi con una mano su ognuna delle mie spalle, come aveva fatto nella mia stanza. «Pratolina,» mi disse sorridendo, «- perché, sebbene non sia questo il nome che vi hanno dato i vostri padrini e le vostre madrine, è quello con il quale mi piace di più chiamarvi - e vorrei, vorrei, vorrei proprio che poteste darlo a me!» «Diamine, posso farlo, se voglio,» dissi. «Pratolina, se qualche cosa dovesse separarci, dovete pensare a me per quello che ho di meglio, vecchio mio. Su! Facciamo questo patto. Penserete a me per quello che ho di meglio se mai le circostanze ci separeranno!» «Voi non avete per me un meglio o un peggio, Steerforth,» dissi. «Voi sarete sempre egualmente amato e accolto con affetto nel mio cuore.» Sentivo un tal rammarico per avergli fatto torto, sia pure con un pensiero senza forma, che la confessione di averlo fatto mi stava salendo alle labbra. Senza la riluttanza che provavo a tradire la fiducia di Agnes e l'incapacità di affrontare il soggetto senza rischiare di farlo, vi sarebbe giunta prima che lui dicesse: «Dio vi benedica, Pratolina, e buona notte!» Nel dubbio, quella confessione non vi giunse; ci stringemmo la mano e ci separammo. Mi alzai col grigiore dell'alba, e, vestitomi più silenziosamente che potei, diedi un'occhiata nella sua stanza. Dormiva profondamente, abbandonato a suo agio con la testa sul braccio, come lo avevo visto dormire tante volte in collegio. Venne il tempo, e fu molto presto, in cui mi sarei meravigliato che nulla turbasse il suo riposo mentre lo guardavo. Ma lui dormiva - lasciate che lo ricordi ancora così - come lo avevo visto dormire tante volte al collegio; e così, in quell'ora silenziosa, lo lasciai. Mai più, oh, Dio ti perdoni, Steerforth, avrei toccato quella mano inerte con amore e amicizia. Mai, mai più. XXX • UNA PERDITA Giunsi a Yarmouth la sera e andai alla locanda. Sapevo che la camera degli ospiti di Peggotty - la mia camera - sarebbe stata probabilmente occupata tra poco, se pure la grande Visitatrice, davanti alla quale tutti i viventi devono cedere il passo, non era già arrivata nella casa; per questo mi diressi alla locanda, cenai là e fissai un letto. Erano le dieci quando uscii. La maggior parte delle botteghe era chiusa e la città spenta. Quando giunsi da Omer e Joram, trovai le imposte chiuse, ma la porta del negozio era aperta. E vedendo il signor Omer nell'interno, intento a fumar la pipa presso la porta del salotto, entrai e gli chiesi come stava. «Dio mi benedica!» esclamò il signor Omer, «e voi come state? Prendete una sedia. Il fumo non vi dà noia, spero!» «Niente affatto,» dissi. «Anzi mi piace... quando esce dalla pipa di un altro.» «Ah, non dalla vostra, eh?» rispose ridendo il signor Omer. «Tanto meglio, signore. È una cattiva abitudine per un giovane. Prendete una sedia. Quanto a me, fumo per l'asma.» Il signor Omer mi fece posto e mi offrì una sedia. Poi tornò a sedersi senza fiato, ansimando nella sua pipa come se contenesse un supplemento di quell'elemento essenziale senza il quale sarebbe morto. «Sono spiacente di avere avuto cattive notizie del signor Barkis,» dissi. Il signor Omer mi guardò con un'espressione seria e scosse la testa. «Sapete come sta stasera?» chiesi. «È proprio quello che vi avrei chiesto, signore,» mi rispose il signor Omer, «se non fosse stato per delicatezza. È uno degli inconvenienti della nostra professione. Se qualcuno sta male, non possiamo chiedere come sta.» Non avevo pensato a questa difficoltà, sebbene, entrando, avessi avuto qualche apprensione di ascoltare la vecchia canzone. Nel sentirgliela accennare, comunque, fui d'accordo con lui e glielo dissi. «Sì, sì, voi mi capite,» disse Omer assentendo col capo. «Non osiamo farlo. Il cielo vi benedica, sarebbe un colpo che la gente, in genere, non saprebbe sopportare andare a dire: ‹Tanti rispetti da parte di Omer e Joram, e come state stamane?› o quest'oggi, a seconda dei casi.» Il signor Omer e io ci facemmo a vicenda cenni di assentimento, e lui riprese fiato con l'aiuto della pipa. «È una di quelle cose che impediscono al nostro lavoro tante attenzioni che spesso vorremmo mostrare,» continuò il signor Omer. «Prendete me. Se conosco Barkis solo da un anno, lo vedo passare nei suoi viaggi da quaranta. Ma io non posso andare a chiedere come sta.» Trovai che era piuttosto dura per il signor Omer, e glielo dissi. «Io non sono più avido, lo spero, di qualsiasi altro,» disse il signor Omer. «Guardatemi! Il fiato mi può mancare da un momento all'altro, e in queste condizioni, che io sappia, non è verosimile che sia avido. Dico che non è verosimile in un uomo che sa che il suo fiato se ne andrà, quando se ne andrà, come se un soffietto fosse spaccato a metà; e che per di più è nonno,» disse il signor Omer. Io dissi: «Assolutamente no.» «Non che mi lagni del mio mestiere,» proseguì il signor Omer. «Non è questo. In tutte le professioni, senza dubbio, c'è del bene e del male. Quello che vorrei è che la gente venisse su con un po' più di buon senso.» Il signor Omer, con un'espressione molto compiaciuta e cordiale, tirò parecchie pipate in silenzio e poi disse, riprendendo il primo punto: «Di conseguenza siamo costretti, per sapere come sta Barkis, a limitarci a Emily. Lei sa quali sono i nostri veri scopi e non ha su di noi allarmi né sospetti, come se fossimo tanti agnelli. Minnie e Joram sono giusto andati laggiù alla casa (lei è là da parecchie ore per dare una mano a sua zia) per sapere come sta stanotte; se voleste aspettare il loro ritorno, vi daranno tutti i particolari. Volete qualche cosa? Un bicchiere di rum e succo di limone annacquato? Anch'io fumo e bevo rum e succo di limone annacquato,» disse il signor Omer prendendo il bicchiere, «perché dicono che ammorbidisce i passaggi per i quali questo mio maledetto fiato entra in azione. Ma, il Signore vi benedica,» proseguì il signor Omer con voce rauca, «non sono i passaggi a essere in disordine! ‹Dammi abbastanza fiato,› ho detto a mia figlia Minnie, ‹e i passaggi li troverò io, mia cara.›» In realtà non aveva fiato da sprecare, e il vederlo ridere era davvero impressionante. Quando fu di nuovo in condizioni da potergli parlare, lo ringraziai del rinfresco che mi aveva offerto, rifiutandolo tuttavia perché avevo appena finito di pranzare; e, notando che avrei atteso, poiché era stato così buono da permettermelo, il ritorno di sua figlia e di suo genero, gli chiesi come stava Emily. «Be', signore,» disse il signor Omer togliendosi di bocca la pipa per potersi grattare il mento, «vi dirò la verità: sarò contento quando la vedrò sposata.» «Perché?» chiesi. «Be', perché adesso è fuori posto,» rispose il signor Omer. «Non che non sia bella come sempre: è più bella, anzi... vi assicuro che è più bella. E non che non lavori bene come sempre, perché lavora. Ne valeva sei e ne vale sei ancora. Ma in certo modo non ha mordente. Non so se capite,» disse il signor Omer dopo essersi grattato ancora il mento e aver fumato un po', «quello che intendo in generale con l'espressione ‹Forza, ragazzi; sotto, ragazzi; avanti, ragazzi, evviva!› Vorrei dire che è questo - generalmente parlando - che non vedo in Emily.» Il volto e i modi del signor Omer erano così espressivi, che potei in coscienza fare un cenno di assenso come se avessi indovinato quello che voleva dire. La prontezza della mia comprensione parve piacergli, e lui proseguì: «Considero che questo dipenda soprattutto dal fatto che lei non si sente a posto, vedete. Ne abbiamo parlato un bel po', suo zio e io, e il suo fidanzato e io, dopo il lavoro; e considero che dipenda soprattutto dal fatto che lei non si sente a posto. Dobbiamo sempre ricordarci, con Emily,» disse il signor Omer scuotendo piano la testa, «che è una creaturina quanto mai affettuosa. Il proverbio dice ‹Non si può fare una borsa di seta con un orecchio di maiale.› Be', quanto a questo non lo so. Io credo che si possa, se si comincia a tempo. È stata lei a fare una casa di quella vecchia barca, signore, meglio che se fosse stata di pietra e di marmo.» «Ne sono sicuro,» dissi io. «Vedere come quel cosino è attaccata a suo zio,» continuò il signor Omer, «vedere come si stringe a lui, sempre più legata e vicina di giorno in giorno, è uno spettacolo. Ebbene, lo sapete, quando succedono queste cose c'è una lotta. E perché prolungarla più del necessario?» Ascoltavo attentamente quel buon vecchio e approvavo di tutto cuore quello che diceva. «Dunque ho detto loro questo,» disse il signor Omer con un tono tranquillo e disinvolto. «Ho detto: ‹Non dovete affatto considerare che Emily sia legata fino a un dato termine. Stabilitelo voi, il termine. La sua opera è stata più utile di quanto pensassi; ha imparato più in fretta di quanto pensassi; Omer e Joram possono tirare un tratto di penna sul periodo di apprendistato che ancora le rimane, e lei è libera quando volete. Se poi vorrà fare qualche piccolo accordo nel senso di eseguire a casa qualche lavoretto, benissimo. Se non vorrà, benissimo lo stesso. Comunque noi non ci perderemo niente.› Perché, vedete,» disse il signor Omer toccandomi con la pipa, «Non è giusto che un uomo dal fiato corto come me, e per di più nonno, si metta a far l'intransigente con un fiorellino dagli occhi azzurri come lei.» «No certo, ne sono sicuro,» dissi. «No certo! Avete ragione!» disse il signor Omer. «Be', signore, suo cugino... Lo sapete che il suo fidanzato è un suo cugino?» «Oh sì,» risposi, «lo conosco bene.» «Naturalmente.» disse il signor Omer. «Be', signore, suo cugino, che a quanto sembra ha un buon lavoro e guadagna, mi ringraziò per questo in un modo veramente da uomo (e si comportò in tutto, devo dirlo, così da darmi un'ottima opinione di lui), e andò a trovarsi la più comoda casetta che si possa desiderare di sbatterci il naso contro. Adesso questa casetta è ammobiliata a puntino, ordinata e completa come il salotto di una bambola; e se la malattia di Barkis non avesse preso questa brutta piega, povero diavolo, oso dire che a quest'ora sarebbero già marito e moglie. Così come stanno le cose ci sarà un ritardo.» «E Emily, signor Omer?» domandai. «Si è rimessa?» «Questo, sapete,» rispose strofinandosi ancora il doppio mento, «non ce lo potevamo aspettare tanto naturalmente. La prospettiva del cambiamento e della separazione e tutto il resto è, per così dire, vicina a lei e lontana da lei nello stesso tempo. La morte di Barkis non dovrebbe differire di molto il matrimonio, ma se lui tira per le lunghe lo potrebbe. A ogni modo è una situazione molto incerta, come vedete.» «Vedo,» dissi. «Così che,» continuò il signor Omer, «Emily è ancora un po' giù e un po' inquieta; forse, tutto sommato, lo è ancor più di prima. Sembra che si affezioni sempre più, di giorno in giorno, allo zio, e che sempre più le ripugni separarsi da tutti noi. Basta che le dica una sola parola affettuosa perché le si riempiano gli occhi di lacrime; e se la vedeste con la piccola di mia figlia Minnie, non riuscireste mai a dimenticarlo. Dio mi benedica,» esclamò il signor Omer meditando, «quanto vuol bene a quella bambina!» Avendone un'occasione così favorevole, pensai di domandare al signor Omer, prima che la nostra conversazione fosse interrotta dal ritorno di sua figlia e del genere, se aveva notizie di Martha. «Ah!» rispose scuotendo il capo con un'aria molto abbattuta. «Niente di buono. Una brutta storia, signore, comunque siate venuto a conoscerla. Io non ho mai pensato che vi fosse del male in quella ragazza. Non ne parlerei di fronte a mia figlia Minnie... perché mi farebbe tacere immediatamente... ma non l'ho mai pensato. Nessuno di noi lo ha pensato.» Il signor Omer, udendo il passo di sua figlia prima di me, mi toccò con la pipa e chiuse un occhio per avvertirmi. Subito dopo entrò lei col marito. Il loro resoconto fu che il signor Barkis stava «come peggio non avrebbe potuto»; che era del tutto fuori di coscienza; e che il signor Chillip aveva detto lugubremente in cucina, andandosene proprio allora, che il Collegio dei Medici, il Collegio dei Chirurghi e la Sala dei Farmacisti, se si fossero riuniti insieme, non avrebbero potuto far nulla per lui. Era ormai andato oltre le possibilità dei due Collegi, aveva detto il signor Chillip, e quanto alla Sala, avrebbe potuto solo avvelenarlo. Nell'udir questo, e saputo che il signor Peggotty era là, decisi di recarmi subito a casa. Augurai la buona notte al signor Omer e al signore e alla signora Joram, e diressi laggiù i miei passi, con un senso di solennità che rendeva per me il signor Barkis un essere del tutto nuovo e diverso. Al lieve colpo che diedi sulla porta rispose il signor Peggotty. Nel vedermi non apparve sorpreso come mi aspettavo. Notai questo anche in Peggotty, quando scese, e l'ho visto poi in altre occasioni simili: penso che, nell'attesa di quella sorpresa terribile, ogni altro mutamento e meraviglia si riducano a nulla. Strinsi le mani al signor Peggotty ed entrai nella cucina, mentre egli chiudeva delicatamente la porta. La piccola Emily era seduta davanti al fuoco, con il volto fra le mani. Ham era in piedi accanto a lei. Parlammo per bisbigli, tendendo l'orecchio ogni tanto ai suoni che venivano dalla stanza di sopra. Non ci avevo badato in occasione della mia ultima visita, ma come strano mi appariva, adesso, non vedere il signor Barkis nella cucina! «È stato molto gentile, da parte vostra, signorino Davy,» disse il signor Peggotty. «Davvero molto gentile,» disse Ham. «Emily, cara,» esclamò il signor Peggotty, «Guarda qui! È venuto il signorino Davy! Su, piccola, fatti animo! Nemmeno una parola al signorino Davy?» V'era in lei un tremito che adesso potevo vedere. E potei anche sentire il gelo della sua mano quando la toccai. Il solo segno di vita di quella mano fu di liberarsi dalla mia; poi ella scivolò via dalla sedia e, avvicinatasi lentamente all'altro fianco di suo zio, si abbandonò, sempre silenziosa e tremante, sul suo petto. «Ha un cuore così affettuoso,» disse il signor Peggotty lisciandole gli abbondanti capelli con la sua grande e dura mano, «che non può sopportare questa pena. È una cosa naturale nei giovani, signorino Davy, quando sono nuovi a queste prove e timidi come il mio uccellino... è naturale.» Ella si aggrappò più stretta a lui, ma non alzò il volto né disse parola. «Si sta facendo tardi, cara,» riprese il signor Peggotty, «e qui c'è Ham, che è venuto per riaccompagnarti a casa. Su! Va con quest'altro cuore innamorato! Che c'è, Emily, Eh, piccola mia?» Il suono della voce di lei non mi giunse, ma lui chinò la testa come se l'ascoltasse e poi disse: «Lasciarti qui con tuo zio? Andiamo, non devi chiedermi questo! Restare con tuo zio, bambolina? Quando tuo marito, o che lo sarà presto, è qui per condurti a casa? Be', nessuno lo crederebbe, a vedere questo cosino accanto a un tipo da tempesta come me,» disse il signor Peggotty guardando noi due con infinito orgoglio, «ma il mare non ha tanto sale quanto affetto ha lei per suo zio... questa piccola Emily sciocchina!» «In questo Emily ha ragione, signorino Davy!» disse Ham. «Guardate qui. Poiché Emily lo desidera e per di più è così inquieta e spaurita, la lascerò qui fino a domattina. E permettete che resti anch'io.» «No, no,» ribatté il signor Peggotty. «Tu non devi... un uomo sposato... o come se lo fosse... buttar via una giornata di lavoro. E non devi nemmeno far la veglia e poi lavorare. Non conviene. Tu vai a casa e ti metti a letto. Non hai certo paura che Emily non sia curata come si deve, questo lo so.» Ham cedette a quegli argomenti prese il cappello per andarsene. Anche quando la baciò - e mai lo vidi avvicinarsi a lei senza sentire che la natura gli aveva dato l'animo di un gentiluomo - ella parve stringersi ancor più allo zio, ritraendosi perfino dal marito da lei scelto. Chiusi la porta dietro di lui perché il colpo non disturbasse la pace dominante; e quando mi volsi vidi che il signor Peggotty le stava ancora parlando. «Adesso vado di sopra per dire a tua zia che il signorino Davy è qui, e questo la consolerà un poco,» disse. «Siediti qui davanti al fuoco, frattanto, cara, e riscaldati queste mani fredde come se fossero morte. Non devi avere tanta paura e prendertela così a cuore. Che cosa? Vuoi venire con me. Be', vieni con me... andiamo. Se suo zio fosse scacciato di casa e costretto a sdraiarsi in un fosso, signorino Davy,» disse il signor Peggotty con non meno orgoglio di prima, «credo che vorrebbe andare con lui. Ma ci sarà presto qualche altro... ci sarà presto qualche altro, Emily!» Più tardi, quando salii al piano di sopra e passai davanti alla porta della mia cameretta, che era buia, ebbi la vaga impressione che lei fosse lì, abbandonata sul pavimento. Ma se fosse realmente lei, o solo una confusione di ombre nella stanza, adesso non potrei dire. Davanti al fuoco della cucina ebbi modo di pensare al terrore della morte che inquietava la piccola Emily - e che, unito a quanto il signor Omer mi aveva detto, mi appariva la causa del suo smarrimento - ed ebbi anche modo, prima che Peggotty scendesse, di considerare con maggiore indulgenza questa debolezza, mentre me ne stavo lì seduto contando i battiti dell'orologio e approfondendo in me la sensazione del solenne silenzio che mi circondava. Peggotty mi strinse fra le braccia, mi benedisse e mi ringraziò più e più volte per esserle di tanto conforto (così disse) nella sua pena. Poi mi invitò a salir di sopra dicendo fra i singhiozzi che il signor Barkis mi aveva sempre voluto bene e sempre mi aveva ammirato; che aveva spesso parlato di me prima di perdere coscienza; e che lei credeva, qualora fosse tornato ancora in sé, che si sarebbe allietato nel vedermi, se pure poteva allietarlo qualche cosa terrena. La probabilità che potesse farlo, quando lo vidi, mi parve molto scarsa. Giaceva con la testa e le spalle fuori del letto, in atteggiamento molto scomodo, per metà appoggiato sulla cassa che gli aveva dato tanti crucci e preoccupazioni. Seppi che, quando non aveva più potuto scivolare giù dal letto per aprirla né assicurarsi che fosse al sicuro per mezzo di quella bacchetta magica che gli avevo visto usare, aveva chiesto che fosse posta su di una sedia accanto al letto e che da allora l'aveva tenuta stretta fra le braccia, notte e giorno. Adesso il suo braccio era abbandonato su di essa. Il tempo e il mondo stavano scivolando via sotto di lui, ma la cassa era lì; e le ultime parole da lui pronunciate erano state, in tono di spiegazione: «Vecchi abiti!» «Barkis, caro!» disse Peggotty quasi allegramente, chinandosi su di lui, mentre suo fratello e io rimanevamo ai piedi del letto. «C'è qui il mio caro ragazzo... il mio caro ragazzo, il signorino Davy, quello che ci ha fatti incontrare, Barkis! Quello che mi ha portato i tuoi messaggi, ricordi? Non vuoi parlare al signorino Davy?» Lui era muto e insensibile come la sua cassa, dalla quale il suo atteggiamento traeva l'unica espressione che avesse. «Se ne andrà con la bassa marea,» mi disse il signor Peggotty coprendosi la bocca con la mano. Avevo gli occhi offuscati, come pure il signor Peggotty; ma ripetei in un sussurro: «Con la bassa marea?» «Qui lungo la costa, la gente non può morire,» mi disse il signor Peggotty, «se non quando la marea cala. E non può nascere se non quando cresce... non nasce propriamente se non col flusso... Lui se ne andrà con la marea. Il riflusso è alle tre: mezz'ora di acqua bassa. Se vive fino al ritorno dell'acqua, tirerà avanti fin dopo il flusso e se ne andrà con la prossima marea.» Rimanemmo lì a vegliarlo per lungo tempo... ore. Quale misteriosa influenza la mia presenza avesse su di lui, nelle condizioni in cui era, non pretendo di dirlo; ma, quando infine cominciò a delirare debolmente, è certo che brontolò qualcosa circa il condurmi in collegio. «Sta tornando in sé,» disse Peggotty. Il signor Peggotty mi toccò sussurrandomi con molta gravità e reverenza: «Se ne vanno in fretta tutti e due.» «Barkis, caro!» esclamò Peggotty. «C. P. Barkis,» mormorò lui debolmente. «Non c'è miglior donna al mondo!» «Guarda! C'è qui il signorino Davy!» disse Peggotty, perché in quel momento lui aveva riaperto gli occhi. Stavo per chiedergli se mi riconosceva quando egli tentò di allungare il braccio e mi disse distintamente con un cordiale sorriso: «Barkis è pronto!» E, poiché l'acqua era bassa, se ne andò con la marea. XXXI • UNA PERDITA PIÙ GRANDE Non ebbi difficoltà a decidere, dietro le preghiere di Peggotty, di rimanere dov'ero finché i resti del povero corriere non avessero fatto il loro ultimo viaggio a Blunderstone. Peggotty da molto tempo, con i suoi risparmi, aveva acquistato un piccolo pezzo di terra nel nostro vecchio cimitero, presso la tomba della «sua cara bambina», come sempre chiamava mia madre; e là avrebbero trovato entrambi il loro riposo. Nel tener compagnia a Peggotty e nel far per lei tutto quello che potevo (ben poco per quanto facessi) mostrai tutta la gratitudine, mi rallegra il pensarlo, che ancor oggi potrei desiderare di aver mostrato. Ma temo di avere avuto una suprema soddisfazione, di natura personale e professionale, nell'occuparmi del testamento del signor Barkis e nell'esporne il contenuto. Posso rivendicarmi il merito di aver suggerito che quel testamento bisognava cercarlo nella cassa. Dopo qualche indagine fu appunto trovato nella cassa, in fondo a una di quelle sacchette da foraggio che si appendono al muso dei cavalli, dove (oltre al fieno) si scoprì un vecchio orologio d'oro con catena e sigilli, che il signor Barkis aveva portato il giorno del suo matrimonio e che nessuno aveva mai visto né prima né dopo; un premitabacco d'argento a forma di gamba; un finto limone pieno di tazzine e piattini in miniatura, che penso il signor Barkis si fosse procurato per farmene un regalo quando ero bambino e dal quale fosse poi stato incapace di separarsi; ottantasette ghinee e mezza in pezzi da una e da mezza ghinea; duecentodieci sterline in biglietti di banca nuovissimi; alcune ricevute di depositi fatti alla Banca d'Inghilterra; un vecchio ferro di cavallo, uno scellino falso, un pezzo di canfora e un guscio d'ostrica. Dal fatto che quest'ultimo oggetto appariva molto lucidato e mostrava nell'interno tutti i colori dell'iride, concludo che il signor Barkis avesse alcune vaghe idee sulle perle, che non si erano mai risolte in qualche cosa di definito. Per anni e anni il signor Barkis aveva portato con sé quella cassa in tutti i suoi viaggi, giorno per giorno. Perché potesse passare meglio inosservata, aveva inventato la storia che appartenesse a un certo «signor Blackboy» e che doveva «restare a Barkis fino a richiesta»; una favola che aveva accuratamente scritto sul coperchio in caratteri adesso appena leggibili. Mi accorsi che in tutti quegli anni aveva accumulato a buon motivo. Il suo capitale in denaro ammontava a quasi tremila sterline. Di esse lasciava l'interesse di un migliaio al signor Peggotty vita natural durante; alla sua morte, il capitale doveva essere diviso fra Peggotty, la piccola Emily e me, o al sopravvissuto o ai sopravvissuti di noi, in parti eguali. Tutto il resto che possedeva lo lasciava a Peggotty, da lui istituita erede universale e unica esecutrice delle sue ultime volontà. Mi sentii un vero procuratore ecclesiastico quando lessi questo documento a voce alta con ogni possibile solennità, e ne ripetei le clausole tutte le volte che gli interessati lo richiesero. Cominciai a pensare che nei Commons ci fosse più di quanto supponessi. Esaminai il testamento con la massima attenzione, lo dichiarai perfettamente valido sotto ogni rispetto, feci qualche segno a matita in margine, e mi meravigliai io stesso di sapere tante cose. In queste astruse occupazioni; nel fare il conto, per Peggotty, dei beni che erano passati nelle sue mani; nell'assestare tutto in bell'ordine; e nell'essere il suo arbitro e consigliere su ogni punto con nostro comune diletto, trascorsi la settimana precedente il funerale. In questo intervallo non vidi la piccola Emily, ma mi dissero che si sarebbe serenamente sposata entro la quindicina. Non seguii il funerale in veste ufficiale, se posso arrischiarmi a dir così. Intendo che non mi vestii di nero con un gran nastro da spaventapasseri, ma andai a Blunderstone a piedi il mattino presto ed ero già al cimitero quando giunse il feretro seguito solo da Peggotty e da suo fratello. Il signore pazzo guardava dalla mia antica finestrella; il piccolo del signor Chillip agitava la sua pesante testa e roteava gli occhi sporgenti verso l'ecclesiastico al di sopra della spalla della sua nutrice; il signor Omer ansimava nello sfondo; non c'era nessun altro, e tutto si svolse in modo molto tranquillo. Quando la cerimonia fu finita, passeggiammo per un'ora nel cimitero e strappammo alcune tenere foglie dall'albero sulla tomba di mia madre. Qui mi coglie uno spavento. Una nube si abbassa sulla lontana città verso cui torno a muovere i miei passi solitari. Ho paura di avvicinarla. Non riesco a pensare a quello che avvenne in quella memorabile notte, a quello che tornerà ad avvenire se proseguo. Ma non sarà peggio solo perché lo scrivo, come non migliorerebbe se arrestassi la mia mano riluttante. È avvenuto. Nulla può disfarlo; nulla può renderlo diverso da quello che fu. La mia vecchia governante doveva venire a Londra con me, il giorno dopo, per le pratiche testamentarie. La piccola Emily avrebbe trascorso la giornata dal signor Omer. La sera dovevamo tutti incontrarci nella vecchia casa-battello. Ham vi avrebbe condotto Emily all'ora solita. Io sarei tornato da solo a mio agio. Fratello e sorella avrebbero rifatto la strada come erano venuti e ci avrebbero aspettato, sul finir del giorno, davanti al fuoco. Mi separai da loro al cancelletto dove l'immaginario Strap, nei vecchi tempi, aveva sostato con la bisaccia di Roderick Random; e, invece di tornare direttamente, mi inoltrai per un po' lungo la strada di Lowestoft. Poi mi volsi incamminandomi verso Yarmouth. Mi fermai a desinare in una birreria decente, un miglio o due dal traghetto che ho già ricordato; così trascorse il giorno ed era ormai sera quando vi giunsi. Frattanto la pioggia aveva cominciato a cadere fitta e si annunciava una brutta notte; ma dietro le nubi appariva la luna e il buio non era completo. Fui presto in vista della casa del signor Peggotty e della luce interna che brillava attraverso la finestra. Dopo aver camminato per un po' a fatica nella sabbia pesante, giunsi alla porta ed entrai. Tutto appariva intimo e tranquillo. Il signor Peggotty aveva fumato la sua pipa serale e si facevano preparativi per la cena. Il fuoco brillava, le ceneri erano state scosse, la cassapanca era pronta al suo vecchio posto per la piccola Emily. E al suo vecchio posto sedeva, ancora una volta, Peggotty, con l'aria (a eccezione dell'abito da lutto) di non averlo mai lasciato. Era già tornata in compagnia della sua scatola da lavoro con la cattedrale di San Paolo sul coperchio, del metro nella sua villetta e del pezzetto di candela di cera; ed erano lì tutti, proprio come se nulla li avesse mai turbati. La signora Gummidge appariva un po' angustiata, nel suo vecchio angolo; e di conseguenza era come sempre anche lei. «Siete il primo della compagnia, signorino Davy!» disse il signor Peggotty col volto raggiante. «Non restate con la giacca, se è bagnata.» «Grazie, signor Peggotty,» dissi porgendogli il cappotto perché lo appendesse. «È perfettamente asciutta.» «Proprio così!» confermò il signor Peggotty toccandomi le spalle. «Asciutta come un truciolo. Sedetevi, signore. A voi non c'è bisogno di dare il benvenuto, perché lo siete sempre, con tutto il cuore e tutto l'affetto.» «Grazie, signor Peggotty, ne sono sicuro. Bene, Peggotty,» dissi dandole un bacio. «E tu come stai, vecchia mia?» «Ah, ah!» esclamò ridendo il signor Peggotty sedendosi accanto a noi e strofinandosi le mani con un senso di sollievo dopo i recenti crucci, nella genuina schiettezza del suo carattere; «non c'è una donna al mondo, signore, - come ho detto anche a lei - che possa avere un animo più sereno del suo! Ha fatto il suo dovere con lo scomparso e lo scomparso lo sapeva; e lo scomparso ha fatto con lei quello che era giusto, come lei ha fatto quello che era giusto verso lo scomparso; e... e... e così tutto va bene.» La signora Gummidge gemette. «Fatevi animo, nonnetta!» disse il signor Peggotty. (Ma scosse di nascosto la testa verso di noi, rendendosi conto, evidentemente, che gli ultimi avvenimenti le avevano richiamato alla memoria il suo vecchio.) «Non abbattetevi. Fatevi animo un pochino, da voi stessa, e vedrete se non vi sentirete tirata su un bel po', naturalmente.» «Con me non succede, Daniel,» rispose la signora Gummidge. «Con me nulla avviene naturalmente se non di essere sola e derelitta.» «No, no,» disse il signor Peggotty cercando di mitigare le sue pene. «Sì, sì, Daniel,» insistette la signora Gummidge. «Non sono una persona da poter vivere con chi ha ereditato del denaro. A me le cose vanno per traverso. Farei meglio a liberarvi di me.» «Diamine, e come potrei spenderlo senza di voi?» chiese il signor Peggotty in tono di seria protesta. «Di che state parlando? Non ho forse, adesso, bisogno di voi più che mai?» «Lo sapevo che non sono mai stata necessaria a nessuno!» esclamò la signora Gummidge con un pietoso gemito, «e adesso me lo dicono in faccia. Come potrei pensare di essere necessaria, sola e derelitta come mi trovo e con tutto che mi va per traverso?» Il signor Peggotty parve molto spiacente per aver fatto un discorso tale da essere interpretato in modo così duro, ma Peggotty gli impedì di rispondere tirandolo per la manica e scuotendo la testa. Dopo aver guardato per qualche momento la signora Gummidge con aria profondamente rattristata, diede un'occhiata all'orologio della Selva Nera, si alzò, smoccolò la candela e la mise sul davanzale della finestra. «Ecco,» disse allegramente. «Ecco qua, signora Gummidge!» La signora Gummidge gemette debolmente. «L'illuminazione secondo l'uso! Vi domandate a che cosa serva, signore? Be', è per la nostra piccola Emily. Vedete, il sentiero non è illuminato né piacevole, di notte; e quando sono qui nell'ora in cui lei torna a casa, metto la luce alla finestra. Così, capite,» continuò il signor Peggotty chinandosi verso di me al colmo della gioia, «raggiungo due scopi. Dice lei, Emily, ‹Eccomi a casa.› E dice anche: ‹Lo zio è a casa!› Perché quando non ci sono non posso metterle alcuna luce.» «Sei un bamboccio!» disse Peggotty con tutto l'affetto che aveva in cuore. «Be',» ribatté il signor Peggotty piantandosi a gambe spalancate e strofinandosi le mani contento e soddisfatto mentre guardava alternativamente noi e il fuoco. «Non so come, ma lo sono. Certo non a guardarmi, come vedete.» «Non esattamente,» notò Peggotty. «No,» confermò il signor Peggotty ridendo, «non a guardarmi, ma a... a considerarmi, ecco. E io, benedetti voi, non me ne curo! Adesso vi dirò una cosa. Quando vado a guardare e a riguardare la casetta della nostra Emily, possa essere... possa essere impecionato,» disse il signor Peggotty con improvvisa enfasi, «e di più non mi è possibile dire, se non mi sembra che tutte quelle cosette siano lei stessa, o quasi. Le prendo, le rimetto a posto, le tocco delicatamente come se fossero la nostra Emily. E così per le sue cuffiette e tutto il resto. Non potrei vederle maltrattare di proposito nemmeno per tutto l'oro del mondo. Ecco quello che per te è un bamboccio, sotto forma di un grande riccio di mare!» disse il signor Peggotty sottolineando il suo fervore con una risata che parve un ruggito. Peggotty e io ridemmo anche se non così forte. «A mio parere, vedete,» continuò il signor Peggotty pieno di contentezza, dopo essersi strofinato ancora le zampe, «dipende dal fatto che ho tanto giocato con lei quando non mi arrivava nemmeno al ginocchio, facendole credere che eravamo turchi, o francesi, o pescicani e tante altre cose strane, Dio vi benedica, sì, e anche leoni, e balene e non so più che cosa! Ormai ho preso questa abitudine, capite? Guardate questa candela!» disse il signor Peggotty indicandola pieno di gioia con la mano. «Io so benissimo che, quando lei si sarà sposata e se ne sarà andata, continuerò a metterla lì, proprio come adesso. Io so benissimo che, quando sarò qui di notte (e dove altro potrei essere, Dio vi benedica, per quanto ricco possa diventare?) e lei non ci sarà, metterò la candela alla finestra e mi siederò davanti al fuoco fingendo di aspettarla come faccio adesso. E per te questo è un bamboccio,» disse il signor Peggotty con un altro ruggito, «in forma di riccio di mare! Perdinci, in questo momento, nel vedere la candela accesa, mi dico: ‹Lei la sta guardando! Emily sta per arrivare!› E per te questo è un bamboccio in forma di riccio di mare! Ma tutto va bene,» concluse il signor Peggotty smorzando il suo ruggito e battendo le mani, «perché eccola qui.» Era solo Ham. La notte doveva essere divenuta più umida, da quando ero arrivato, perché portava un grande cappello di incerato tirato sul volto. «Dov'è Emily?» chiese il signor Peggotty. Ham fece un movimento con la testa come per dire che era fuori. Il signor Peggotty prese la candela dalla finestra, la smoccolò, la pose sulla tavola, e stava attizzando il fuoco quando Ham, che non si era mosso, disse: «Signorino Davy, volete uscire un attimo per vedere una cosa che Emily e io vogliamo mostrarvi?» Uscimmo. Nel passargli davanti sulla soglia, vidi, stupito e atterrito, che aveva un pallore di morte. Mi spinse in fretta all'aria aperta e chiuse la porta dietro di noi. Dietro noi due soli. «Ham! Che succede?» «Signorino Davy!...» Oh, quel suo cuore spezzato, come paurosamente piangeva! Ero paralizzato alla vista di un tale dolore. Non so che cosa pensassi o che cosa temessi. Potevo solo guardarlo. «Ham! Povero ragazzo! Per amor del cielo, ditemi che cosa è successo!» «Il mio amore, signorino Davy... l'orgoglio e la speranza del mio cuore... quella per cui sarei morto e per cui morrei anche adesso... è andata via!» «Andata via?» «Emily è fuggita! Oh, signorino Davy, pensate come è fuggita se io prego il buon Dio di farla morire (lei, che è per me la più cara di ogni cosa) prima che la raggiungano la rovina e il disonore!» La faccia che rivolse al cielo tempestoso, il tremito delle sue mani strette insieme, l'angoscia della sua espressione rimangono associati, nel mio ricordo, ancor oggi, con la piana deserta. È sempre notte, laggiù, e lui è l'unico oggetto nella scena. «Voi studiate,» mi disse in fretta, «e sapete quello che è giusto e quello che è meglio. Che cosa devo dire, là dentro? Come devo rivelarglielo, signorino Davy?» Vidi la porta muoversi e istintivamente tentai di trattenere la maniglia esterna per guadagnare un attimo di tempo. Era troppo tardi. Il signor Peggotty sporse il volto, e mai potrò dimenticare il suo cambiamento quando ci vide, nemmeno se vivessi cinquecento anni. Ricordo un gran pianto e un gran lamento, e le donne che si aggrappavano a lui, e noi tutti in piedi nella stanza; io con in mano un foglio che Ham mi aveva dato; il signor Peggotty col panciotto aperto e strappato, i capelli arruffati, il volto e le labbra bianchissimi e il sangue che gli gocciava sul petto (credo che gli uscisse dalla bocca), che mi guardava fisso. «Leggete, signore,» disse con voce bassa e tremante. «Piano, vi prego: non so se riuscirò a capire.» In un silenzio di morte, lessi in una lettera macchiata le parole che seguono: «Quando tu che mi ami più che non abbia mai meritato, anche quando il mio animo era innocente, leggerai questo, io sarò molto lontana.» «Sarò molto lontana,» ripeté lui lentamente. «Fermatevi! Emily molto lontana. Bene!» «Quando lascerò la mia cara casa... la mia cara casa... oh, la mia cara casa!... domattina,» la lettera era datata dalla notte precedente: «sarà per non tornare più, a meno che lui non mi riporti indietro come sua moglie. Questa lettera sarà trovata di sera, molte ore dopo, invece di me. Oh, se sapessi lo strazio del mio cuore. Se perfino tu, che ho offeso tanto, che mai saprai perdonarmi, potessi solo conoscere quanto soffro! Ma sono troppo perversa per scriverti di me. Oh, consolati pensando a quanto sono cattiva. Oh, per pietà, di' allo zio che non l'ho mai amato la metà di quanto lo amo adesso. Oh, non ricordare quanto tutti voi siete stati buoni e affettuosi con me... non ricordare che dovevamo sposarci... ma cerca di pensare che io sia morta da piccola e sepolta in qualche parte. Prego il cielo, da cui mi sto allontanando, di aver compassione dello zio! Digli che non l'ho mai amato la metà di quanto lo amo adesso. Sii il suo conforto. Ama qualche buona ragazza che sarà per lo zio quello che ero io, che sia sincera con te e degna di te, e che non conosca altra vergogna che la mia. Dio vi benedica tutti! Io pregherò per tutti, spesso, in ginocchio. Se lui non mi riporterà come sua sposa e io non potrò pregare per me, pregherò per voi tutti. Tutto il mio amore allo zio. Le ultime lacrime e i miei ultimi ringraziamenti allo zio!» Era tutto. Egli rimase in piedi, molto tempo dopo che ebbi finito di leggere, sempre fissandomi. Alla fine mi arrischiai a prendergli la mano e scongiurarlo, meglio che potei, di dominarsi. Rispose: «Grazie, signore, grazie!» senza muoversi. Ham gli parlò. Il signor Peggotty fu così sensibile al suo dolore da stringergli la mano, ma per il resto rimase nello stesso stato e nessuno osò turbarlo. Infine, lentamente, tolse gli occhi dal mio viso, come se si risvegliasse da una visione, e li volse per la stanza. Poi disse a bassa voce: «Chi è lui? Voglio sapere il suo nome.» Ham mi diede un'occhiata, e improvvisamente sentii un colpo che mi spinse indietro. «Dev'esserci un uomo sospetto,» disse il signor Peggotty. «Chi è?» «Signorino Davy!» implorò Ham. «Uscite un momento e lasciate che gli dica quello che devo. Voi non dovreste ascoltare, signore.» Sentii ancora quel colpo. Mi lasciai cadere su una sedia e tentai di pronunciare qualche risposta; ma avevo la lingua legata e la vista mi si annebbiava. Udii che diceva ancora una volta: «Voglio sapere il suo nome.» «In questi ultimi tempi,» balbettò Ham, «un servo si è fatto vedere da queste parti, alle ore più strane. C'era anche un signore. Ed erano collegati fra loro.» Il signor Peggotty rimase immobile come prima, ma adesso lo guardava fisso. «Il servitore,» proseguì Ham, «fu visto con... la nostra poveretta... ieri sera. È stato visto nascondersi da queste parti, nell'ultima settimana. Si credeva che se ne fosse andato, ma stava nascosto. Non rimanete qui, signorino Davy, non rimanete!» Mi sentii il braccio di Peggotty attorno al collo, ma non avrei potuto muovermi nemmeno se la casa avesse minacciato di cadermi addosso. «Una vettura e dei cavalli stranieri erano fuori città, stamattina, sulla strada di Norwich, un poco prima dell'alba,» proseguì Ham. «Il servitore vi andò, se ne allontanò e vi tornò ancora. Quando vi tornò, Emily era con lui. L'altro era nell'interno. L'uomo è lui.» «Per amor di Dio,» disse il signor Peggotty indietreggiando e tendendo il braccio come per allontanare da sé quello che temeva. «Non dirmi che il suo nome è Steerforth!» «Signorino Davy,» esclamò Ham con voce rotta, «non è colpa vostra... sono ben lontano dall'accusarvi... ma il suo nome è Steerforth, un maledetto furfante!» Il signor Peggotty non diede grida, non versò lacrime, non si mosse, finché parve di nuovo svegliarsi, improvvisamente, e tirò giù la sua rozza giacca dall'attaccapanni nell'angolo. «Datemi una mano a infilarla! Sono a terra e da solo non ce la faccio,» disse con impazienza. «Aiutatemi. Bene!» quando qualcuno gli ebbe obbedito. «Adesso datemi quel cappello.» Ham gli chiese dove voleva andare. «Vado a cercare mia nipote. Vado a cercare la mia Emily. Vado, anzitutto, a sfondare quella nave e farla affondare dove avrei annegato lui, quanto è vero che sono al mondo, se avessi solo immaginato quello che aveva in mente! Quando mi stava seduto di fronte,» aggiunse con impeto selvaggio tendendo la destra serrata a pugno, «quando mi stava seduto di fronte, a faccia a faccia, ammazzatemi pure se non l'avrei annegato convinto di far giustizia! Vado a cercare mia nipote.» «Dove?» gridò Ham mettendosi fra lui e la porta. «Dappertutto! Vado a cercare mia nipote per tutto il mondo. Vado a trovare la mia povera nipote nella sua vergogna e a riportarla a casa. Non fermatemi! Vi dico che vado a cercare mia nipote.» «No, no!» gridò la signora Gummidge correndo fra loro in una crisi di pianto. «No, no, Daniel, non nello stato in cui siete adesso. Andate a cercarla fra un poco, mio povero e abbandonato Daniel, e sarà giusto! Ma non nello stato in cui siete adesso. Sedetevi e perdonatemi per avervi dato tante angustie, Daniel... che cosa sono mai state le mie disgrazie di fronte a questa?... Parliamo invece dei tempi quando lei era un'orfanella, e quando lo era anche Ham, e io ero una povera vedova, e mi prendeste con voi. Questo consolerà il tuo povero cuore, Daniel,» e posò la testa sulla sua spalla, «e voi sopporterete meglio la vostra pena, perché conoscete la promessa, Daniel ‹Quello che avrete fatto al più piccolo di costoro, lo avrete fatto a me›; e questa promessa non verrà mai meno sotto questo tetto che è stato il nostro riparo per tanti e tanti anni!» Lui era ormai del tutto passivo; e quando lo udii piangere, l'impulso che avevo avuto di gettarmi in ginocchio e chiedere il loro perdono per la desolazione che avevo causato e maledire Steerforth, cedette a un sentimento migliore. Il mio cuore oppresso trovò lo stesso sollievo e piansi anch'io. XXXII • INIZIO DI UN LUNGO VIAGGIO Quello che è naturale in me, penso che sia naturale in molti altri, e non ho dunque paura di scrivere che non avevo mai amato Steerforth più di quanto i legami che mi stringevano a lui furono spezzati. Nell'acuta angoscia in cui mi aveva gettato la scoperta della sua indegnità, io pensai a ciò che v'era di brillante in lui, mi commossi per tutto ciò che v'era in lui di buono, resi giustizia a quelle doti che avrebbero potuto fare di lui un uomo di nobile carattere e di grande nome, assai più di quanto avessi mai fatto nel colmo della mia devozione verso di lui. Per quanto profondamente sentissi la parte che inconsapevolmente avevo avuto nel disonore da lui portato in una casa onesta, pensavo che, se mi fossi trovato a faccia a faccia con lui, non avrei saputo pronunciare un rimprovero. Avrei continuato ad amarlo in tal modo - sebbene non fossi più sotto il suo fascino - avrei sentito ancora con tanta tenerezza il ricordo del mio affetto per lui, che, credo, sarei stato debole come un bambino ferito nell'intimo, in tutto fuorché nella speranza che ci saremmo mai riuniti. Non ho mai più avuto questo pensiero. Sentivo, come lui aveva sentito, che tutto era finito fra noi. Non ho mai saputo quali ricordi egli serbasse di me - forse molto lievi e facilmente allontanati - ma i miei di lui furono come i ricordi di un caro amico morto. Sì, Steerforth, ormai molto lontano dalle scene di questo povero racconto! Il mio dolore potrà essere involontario testimone contro di te davanti al Trono del Giudizio, ma non lo saranno mai, lo so, la mia collera e i miei rimproveri. La notizia di ciò che era avvenuto si diffuse presto per la città; tanto che, nel passare lungo le strade al mattino, udii la gente parlarne sulle porte. Alcuni erano severi con lei, altri lo erano con lui, ma per il suo secondo padre e per il suo fidanzato non vi era che un solo sentimento. Fra la gente di ogni sorta prevaleva, per loro e per la loro disgrazia, un rispetto pieno di nobiltà e di delicatezza. Gli uomini di mare si fecero da parte quando si videro i due, al mattino presto, camminare a passi lenti lungo la spiaggia, e si raccolsero in gruppi parlando commossi fra loro. Li trovai sulla spiaggia, lungo la linea del mare. Sarebbe stato facile accorgersi che non avevano dormito per tutta la notte anche se Peggotty non mi avesse detto che erano rimasti seduti come li avevo lasciati fino a giorno fatto. Apparivano distrutti; e pensai che la testa del signor Peggotty si era curvata in una notte più che in tutti gli anni che lo avevo conosciuto. Ma erano entrambi solenni e fermi come il mare stesso, che allora giaceva immoto sotto un cupo cielo - percorso tuttavia da un vasto palpito, come se respirasse nel suo riposo - e sfiorato all'orizzonte da un striscia di luce argentea che veniva dal sole nascosto. «Abbiamo parlato molto, signore,» mi disse il signor Peggotty dopo che tutti e tre avemmo camminato per un po' in silenzio, «su quello che si doveva o non si doveva fare. Ma adesso vediamo la via da prendere.» Diedi per caso un'occhiata a Ham, che stava guardando la luce lontana sopra la distesa del mare, e un pauroso pensiero mi attraversò la mente - non che il suo volto fosse adirato, perché non lo era; ricordo solo in esso una espressione di cupa decisione - che se mai avesse incontrato Steerforth lo avrebbe ucciso. «I miei doveri qui, signore,» disse il signor Peggotty, «li ho compiuti. Vado a cercare la mia...» si interruppe e proseguì con voce più ferma: «vado a cercarla. Questo sarà da ora in poi il mio dovere.» Scosse la testa quando gli chiesi dove sarebbe andato a cercarla, e mi domandò se sarei andato a Londra il giorno dopo. Gli risposi che non ero partito quel giorno per non perdere l'opportunità di essergli utile, ma che ero pronto ad andare quando voleva. «Domani verrò con voi, signore,» continuò, «se lo permettete.» Camminammo ancora, per un momento, in silenzio. «Quanto a Ham,» riprese poco dopo, «continuerà a fare il suo lavoro e andrà a vivere con mia sorella. Quella vecchia barca...» «Abbandonerete la vecchia barca, signor Peggotty?» lo interruppi con dolcezza. «Il mio posto, signorino Davy,» rispose, «non è più qui; e se mai una barca è andata a fondo perché v'era buio sul mare, questa è andata a fondo. Ma no, signore, no: non intendo che debba essere abbandonata. Tutt'altro.» Camminammo ancora un poco, come prima, finché egli si spiegò. «Il mio desiderio, signore, è che appaia giorno e notte, estate e inverno, come è sempre apparsa fin dalla prima volta che l'avete vista. Se mai lei dovesse tornare in qualche vagabondaggio, non voglio che questo vecchio luogo sembri respingerla, capite: voglio invece che la inviti ad avvicinarsi e a spiare nell'interno, forse, come un fantasma, fuggendo dalla pioggia e dal vento, attraverso la vecchia finestra, il vecchio sedile presso il fuoco. Allora, forse, signorino Davy, vedendo solo la signora Gummidge, potrà farsi animo per scivolare dentro, tremante; e potrà andarsi a coricare nel suo vecchio letto e riposare il capo stanco qui dove una volta è stata tanto felice.» Non riuscii a rispondergli sebbene lo tentassi. «Ogni notte,» disse il signor Peggotty, «regolarmente come viene la notte, la candela verrà messa dietro il solito vetro affinché, se mai lei dovesse vederla, le sembri dire: ‹Torna, bambina mia, torna!› Se mai sentirai battere alla porta, Ham (in particolare battere lievemente) dopo buio, alla porta di tua zia, non andare tu ad aprire. Lascia che sia lei... non tu... ad andare incontro alla mia bambina caduta.» Ci precedette un poco e rimase davanti a noi per qualche minuto. In questo intervallo guardai ancora Ham e, notando la stessa espressione sul suo volto e i suoi occhi sempre diretti verso la luce lontana, gli toccai il braccio. Due volte lo chiamai per nome, nel tono con cui avrei cercato di risvegliare un dormiente, prima che mi prestasse attenzione. Quando infine gli chiesi dove fossero così assorti i suoi pensieri, rispose: «Su quello che mi sta davanti, signorino Davy; laggiù.» «Volete dire sulla vostra vita futura?» Egli aveva infatti vagamente accennato al mare. «Sì, signorino Davy. Non so bene come sia, ma mi è sembrato che di laggiù venisse... come la fine.» E mi guardò come se si stesse svegliando, ma sempre con lo stesso volto deciso. «Quale fine?» chiesi sentendomi riprendere dalla paura di prima. «Non so,» rispose soprappensiero; «mi è venuto in mente che il principio di tutto avvenne qui... e poi viene la fine. Ma è passato! Signorino Davy,» aggiunse rispondendo, credo, al mio sguardo, «non dovete aver paura di me: ma sono molto confuso; non riesco a capir nulla,» che era quanto dire che non si sentiva in sé ed era tutto sconvolto. Il signor Peggotty si fermò per attenderci; lo raggiungemmo senza dire altro. Il ricordo di tutto questo, collegato al mio precedente pensiero, mi ossessionò comunque a intervalli, finché l'inesorabile fine venne al momento stabilito. Ci avvicinammo a poco a poco al vecchio battello ed entrammo. La signora Gummidge, non più rannicchiata nel suo solito cantuccio, era tutta affaccendata a preparare la colazione. Prese il cappello del signor Peggotty, gli preparò una sedia e gli parlò in tono così dolce e consolatore che quasi non la riconobbi. «Daniel, mio brav'uomo,» disse, «dovete mangiare, bere e tenervi in forze perché altrimenti non riuscirete a far nulla. Tentate, benedetto voi! E se vi do noia con il mio ciarfuglìo,» intendeva dire con le sue chiacchiere, «ditemelo, Daniel, e starò zitta.» Dopo averci serviti, si ritirò davanti alla finestra e si diede attivamente a riparare alcune camicie e altri indumenti del signor Peggotty, ripiegandoli poi accuratamente e disponendoli in una vecchia sacca di incerato da marinaio. Frattanto continuava a parlare nello stesso modo tranquillo. «In ogni tempo e stagione, sapete, Daniel, io resterò sempre qui, e tutto apparirà come desiderate. Io sono poco istruita, ma vi scriverò nei momenti liberi, quando sarete via, e manderò le mie lettere al signorino Davy. Forse anche voi mi scriverete, Daniel, nei momenti liberi, e mi direte come ve la passate viaggiando solo solo.» «Temo che anche voi, qui, vi sentirete molto sola!» disse il signor Peggotty. «No, no. Daniel,» rispose lei, «non lo sarò. Non pensate a me. Avrò abbastanza da fare per tenervi lo stato» (la signora Gummidge intendeva la casa) «per quando tornerete... per tenere lo stato per chiunque possa tornare, Daniel. Quando farà bel tempo mi siederò fuori, davanti alla porta, come solevo fare. E se qualcuno dovesse avvicinarsi, vedrà da lontano la vecchia vedova che gli è rimasta fedele.» Quale cambiamento nella signora Gummidge, in così poco tempo! Era un'altra donna. Si mostrava così devota, così pronta a capire quello che era bene dire e quello che era meglio tacere, era così dimentica di sé e così piena di riguardi per il dolore degli altri, che sentii per lei una sorta di venerazione. Il lavoro che fece quel giorno! C'era una quantità di cose che dovevano essere tolte dalla spiaggia e disposte nel magazzino: remi, reti, vele, cordami, alberature, nasse di aragoste, sacchi di zavorra e simili; e, sebbene vi fosse abbondanza di aiuti, giacché non c'era su tutta la spiaggia un paio di braccia valide che non fosse disposto a lavorar duro per il signor Peggotty e non si sentisse pagato a sufficienza dalla sola richiesta di farlo, ella persistette tuttavia per l'intera giornata a trascinarsi sotto pesi superiori alle sue forze e a correre su e giù per far commissioni non necessarie. Quanto a rammaricarsi delle sue disgrazie, sembrava che avesse totalmente dimenticato di averne mai avute. Mantenne un'inalterata serenità in tutte le sue dimostrazioni di solidale affetto, e questo non fu certo il lato meno stupefacente del cambiamento avvenuto in lei. Le querimonie erano fuori questione. Non potei nemmeno notare che le tremasse la voce o che le sfuggisse una lacrima dagli occhi per tutto quel giorno, fino al tramonto; quando rimanemmo soli, lei, io e il signor Peggotty, che cadde addormentato in uno stato di completo esaurimento, solo allora ebbe una crisi di pianto e di singhiozzi a metà soffocati, e, conducendomi verso la porta, mi disse: «Dio vi benedica, signorino Davy, siate sempre amico di questo poveretto!» Poi corse subito fuori a lavarsi la faccia per poterglisi sedere silenziosa a fianco ed essere trovata lì al lavoro quando si fosse destato. Insomma, nell'andarmene, a notte, la lasciai come un vero sostegno per il dolore del signor Peggotty; e non potevo meditare abbastanza sulla lezione che avevo imparato dalla signora Gummidge e sulla nuova esperienza che ella mi aveva mostrato. Fra le nove e le dieci, dopo aver vagabondato malinconicamente per la città, mi fermai alla porta del signor Omer. Il signor Omer si era preso tanto a cuore il fatto, mi disse sua figlia, che era rimasto triste e abbattuto per tutto il giorno ed era andato a letto senza fumar la sua pipa. «Una ragazza falsa e senza cuore,» disse la signora Joram. «Non c'è mai stato in lei nulla di buono.» «Non dite così,» risposi. «In realtà non lo pensate.» «Sì che lo penso!» esclamò aspra la signora Joram. «No, no,» dissi io. La signora Joram scosse la testa cercando di apparire severa e ostile; ma non poté dominare quanto di più dolce era in lei e si mise a piangere. Ero giovane, senza dubbio; ma l'apprezzai molto di più per questa manifestazione di simpatia, e mi parve che le si adattasse molto bene come moglie e madre virtuosa. «Che cosa farà?» singhiozzò Minnie. «Dove andrà? Che avverrà di lei? Oh, come ha potuto essere così crudele verso se stessa e verso di lui?» Ricordai il tempo in cui Minnie era una ragazza giovane e graziosa; e fui lieto che anche lei lo ricordasse con tanto sentimento. «La mia piccola Minnie,» disse la signora Joram, «è riuscita ad addormentarsi solo adesso. E anche dormendo continua a singhiozzare per Emily. Ha pianto per lei tutto il giorno, la piccola Minnie, e non faceva che domandarmi se Emily era cattiva. Che potevo dirle? L'ultima sera che fu qui, Emily si tolse un nastro che aveva al collo per legarlo a quello di Minnie, e pose la testa sul cuscino, accanto a lei, finché non si fu addormentata! Il nastro è ancora al collo della mia piccola Minnie. Forse non dovrebbe restarci, ma che posso fare? Emily è molto cattiva, ma si volevano tanto bene. E la bambina non sa nulla!» La signora Joram era così afflitta che suo marito uscì a consolarla. Li lasciai insieme e mi avviai verso la casa di Peggotty, più triste, se è possibile, di quanto fossi stato. Quella buona creatura - intendo Peggotty - per nulla stanca dopo le sue ultime ansietà e le notti insonni, era da suo fratello, dove intendeva restare fino al mattino. Una vecchia, che si era occupata della casa nelle ultime settimane, quando Peggotty non aveva potuto farlo, era l'unica a occupare con me l'appartamento. Poiché non avevo bisogno dei suoi servigi, la mandai a letto senza alcuna opposizione da parte sua e mi sedetti per un po' davanti al focolare della cucina pensando a tutto ciò che era avvenuto. Stavo frammischiando quegli eventi con la morte del signor Barkis e correvo con la marea verso quella lontananza a cui Ham aveva guardato così stranamente, il mattino, quando un colpo alla porta mi richiamò dai miei vagabondaggi. Alla porta vi era un battente, ma il suono non proveniva da esso. Era il colpo di una mano, e sul basso della porta, come se lo avesse dato un bambino. Mi fece sussultare quasi fosse stato il battere di un servitore alla porta di qualche gran personaggio. Aprii e, guardando in giù, con mio stupore, dapprima non vidi che un grande ombrello che sembrava camminare da solo. Ma poco dopo scoprii sotto di esso la signorina Mowcher. Sarei stato poco disposto a fare un'accoglienza molto calorosa a quel piccolo essere se, nello scostare l'ombrello, che con tutti i suoi sforzi non riusciva a chiudere, ella mi avesse mostrato quell'espressione «volubile» che mi aveva fatto tanta impressione la prima e ultima volta che l'avevo incontrata. Ma il suo volto, quando lo alzò verso di me, era così serio, e, quando la liberai dall'ombrello (che sarebbe stato di impaccio anche a un gigante irlandese) si torse le mani con tanta angoscia che mi sentii attratto verso di lei. «Signorina Mowcher!» dissi dopo aver guardato alle due estremità della via deserta, senza saper bene io stesso che cosa mi aspettassi di vedere, «come mai siete qui? Che è successo?» Mi accennò, con la sua piccola destra, di chiuder l'ombrello per lei e, passandomi davanti in fretta, entrò in cucina. Quando ebbi chiuso la porta, seguendola con l'ombrello in mano, la trovai seduta sull'angolo del parafuoco - che era di ferro, basso, con due sbarre piatte sul sommo per posarvi i piatti - nell'ombra del bollitore, che si dondolava avanti e indietro strofinandosi le mani sulle ginocchia, come chi soffra. Preoccupatissimo di esser l'unico a ricevere questa visita a ora così insolita, e l'unico testimone di questo strano comportamento, esclamai: «Vi prego, signorina Mowcher, ditemi, che succede? Vi sentite male?» «Caro giovanetto,» rispose la signorina Mowcher premendosi le mani, l'una sull'altra, sul cuore, «mi sento male qui, molto male. E pensare che si doveva arrivare a questo, quando avrei potuto averne notizia e forse prevenirlo se non fossi stata una pazza sventata!» Di nuovo il suo grande cappello (del tutto sproporzionato alla sua statura) andò avanti e indietro insieme al dondolìo del suo piccolo corpo, mentre un ancor più gigantesco cappello ondeggiava, all'unisono col primo, sulla parete. «Sono stupito,» cominciai, «di vedervi così seria e agitata...» quando ella mi interruppe. «Sì, è sempre così!» disse. «Sono sempre stupiti questi giovani sconsiderati, venuti su bellamente e in giuste dimensioni, di vedere sentimenti naturali in una cosina come me! Fanno di me un giocattolo, si servono di me per divertirsi, mi gettano via quando sono stanchi e si meravigliano che io sia più sensibile di un cavalluccio di legno o di un soldatino di piombo! Sì, sì, fanno così. Sempre così!» «Forse con gli altri,» risposi, «ma vi assicuro che con me è diverso. Forse non dovevo stupirmi di vedervi come siete ora: conosco così poco di voi. Ho detto, senza riflettere, quello che pensavo.» «Che posso farci?» ribatté la donnina drizzandosi e tendendo le braccia per mettersi in mostra. «Guardate! Quello che sono lo era mio padre; lo è mia sorella; lo è mio fratello. Ho lavorato per mia sorella e per mio fratello tutti questi anni - lavorato duro, signor Copperfield - giorno per giorno. Devo vivere. Non faccio del male. Se c'è gente così sventata o così crudele da farsi giuoco di me, che mi resta allora se non di farmi giuoco di me stessa e di tutto? E se lo faccio ogni tanto, di chi è la colpa? Mia?» «No. Non certo della signorina Mowcher, mi rendo conto.» «Se mi fossi mostrata al vostro falso amico come una nana sensibile,» continuò la donnina scuotendo la testa verso di me con severo rimprovero, «quali aiuti e quale benevolenza credete che avrei mai avuto da lui? Se la piccola Mowcher (che non ha fatto nulla, signorino mio, per costruirsi qual è) si fosse rivolta a lui o ai suoi simili in nome delle sue disgrazie, quando credete che la sua piccola voce sarebbe stata udita? La piccola Mowcher avrebbe avuto bisogno di vivere anche se fosse stata la più malvagia e la più stupida delle pigmee; ma non ci sarebbe riuscita. No. Avrebbe potuto fischiare per avere il suo pane e burro finché non fosse morta di aria.» La signorina Mowcher tornò a sedersi sul parafuoco, trasse il fazzoletto e si asciugò gli occhi. «Ringraziatemi, se avete un cuore buono come credo,» proseguì, «che io sia allegra e sopporti tutto pur sapendo bene cosa sono. Comunque ringrazio me stessa di essermi saputa aprire una piccola strada nel mondo senza dover nulla ad alcuno, e di aver potuto raccontar bubbole, mentre tiro avanti, in cambio di quello che mi è stato gettato per follia o per orgoglio. Se non rimugino su tutto ciò che mi manca, è tanto meglio per me e non danneggia nessuno. Se sono un giocattolo per voi, giganti, siate buoni con me.» La signorina Mowcher si rimise in tasca il fazzoletto, sempre guardandomi fissa, e proseguì: «Vi ho visto poco fa in strada. Immaginerete che non posso tenere il vostro passo, con le mie gambe corte e il mio fiato corto, e non sarei capace di raggiungervi; ma ho guardato dove andavate e vi sono venuta dietro. Sono già stata qui, quest'oggi, ma quella buona donna non era in casa.» «La conoscete?» chiesi. «Ho saputo di lei e delle sue vicende,» rispose, «da Omer e Joram. Ero là stamane alle sette. Vi ricordate quello che mi disse Steerforth su quella disgraziata ragazza quando vi vidi per la prima volta alla locanda?» Il grande cappello sulla testa della signorina Mowcher, e quello ancora più grande sulla parete, cominciarono ad andare nuovamente avanti e indietro mentre ella mi faceva questa domanda. Ricordavo benissimo quello a cui si riferiva avendoci ripensato più volte in quel giorno. E glielo dissi. «Che il Padre di ogni male possa confonderlo,» disse la donnina alzando l'indice fra me e i suoi occhi brillanti, «e confonda dieci volte di più quel maledetto servitore; ma io credevo che foste voi ad aver concepito una passione fanciullesca per quella ragazzina.» «Io?» ripetei. «Ragazzo, ragazzo! In nome della sfortuna cieca,» gridò la signorina Mowcher torcendosi le mani per l'impazienza e tornando a dondolarsi sul parafuoco, «perché l'avete lodata tanto, e siete arrossito, e vi siete mostrato confuso?» Non potei nascondermi di aver fatto questo, sebbene per ragioni molto diverse da quelle che lei supponeva. «Che ne sapevo, io?» continuò la signorina Mowcher tornando a trarre il fazzoletto e battendo leggermente i piedi a terra ogni volta che, a brevi intervalli, se lo applicava agli occhi con le due mani riunite. «Vedevo che lui vi stuzzicava e vi faceva moine; vedevo che eravate come cera molle nelle sue mani. Un minuto dopo che avevo lasciato la stanza, il suo uomo mi disse che il ‹Piccolo innocente› (vi chiamava così, e voi potrete chiamarlo il ‹Grande peccatore› finché vivrete) le aveva dato il suo cuore, e che lei aveva perso la testa e lo amava, ma che il suo padrone aveva deciso che non dovesse derivarne alcun male - più per amore di lui che di lei - e che erano venuti lì per questo. Che potevo fare se non credergli? Avevo visto Steerforth blandirvi e compiacervi lodandola! Voi eravate stato il primo a fare il suo nome. Avevate confessato un'antica ammirazione per lei. Quando vi aveva parlato di lei eravate diventato caldo e freddo, rosso e bianco tutto allo stesso tempo. Che cosa potevo credere - che cosa credetti - se non che foste un giovane libertino in tutto fuorché nell'esperienza, capitato in mani abbastanza esperte e capaci di guidarvi per il vostro bene, se volevano farlo? Oh! oh! oh! Avevano paura che scoprissi la verità,» esclamò la signorina Mowcher lasciando il parafuoco e trotterellando su e giù per la cucina con le due braccine disperatamente levate, «perché sono una cosina che sa il fatto suo - devo esserlo, se voglio tirare avanti nel mondo! - e loro mi ingannarono, e io portai una lettera a quella povera e disgraziata ragazza, una lettera che, ne sono certa, fu il principio delle sue relazioni con Littimer, lasciato là apposta!» Rimasi sbigottito alla rivelazione di tanta perfidia, guardando la signorina Mowcher che continuò ad andare su e giù per la cucina finché rimase senza fiato: allora tornò a sedersi sul parafuoco e, asciugatosi il volto col fazzoletto, scosse a lungo la testa senza fare altro movimento e senza rompere il silenzio. «I miei giri per la regione,» aggiunse infine, «mi portarono a Norwich, signor Copperfield, due notti fa. Quello che mi capitò di scoprire laggiù circa i loro misteriosi andirivieni, senza di voi - che mi parve strano - mi fece sospettare qualche cosa di male. La notte scorsa presi la diligenza di Londra, quando passò da Norwich, e stamattina ero qui. Oh! oh! oh! troppo tardi!» La povera piccola Mowcher si sentì così gelata, dopo tanto gridare, che fece un mezzo giro sul parafuoco per ficcare i suoi poveri piedini bagnati fra le ceneri e riscaldarli, e rimase seduta guardando il fuoco come una grande bambola. Io mi misi su una sedia, sull'altro lato del focolare, perduto in meste riflessioni guardando anch'io il fuoco e, ogni tanto, lei. «Devo andarmene,» disse infine alzandosi. «È tardi. Non diffidate di me?» Nell'incontrare il suo sguardo acuto, più acuto che mai mentre mi faceva la domanda, non potei francamente rispondere di no a questa specie di sfida. «Andiamo,» disse accettando la mano che le offrivo per aiutarla a scavalcare il parafuoco e guardandomi fissa in volto, «sapete bene che non diffidereste di me se fossi una donna di dimensioni normali!» Sentii che vi era molto di vero in questo; e provai una certa vergogna di me stesso. «Voi siete giovane,» disse lei assentendo col capo. «Ascoltate una parola di consiglio, sia pure da una cosina di tre piedi. Cercate di non associare i difetti fisici a quelli morali, mio buon amico, a meno che non ne abbiate buone ragioni.» Aveva scavalcato il parafuoco, adesso, e io scavalcai i miei sospetti. Le dissi che credevo mi avesse fatto un fedele resoconto e che entrambi eravamo stati dei disgraziati strumenti in mani astute. Mi ringraziò e disse che ero un bravo ragazzo. «Non importa!» esclamò voltandosi mentre si avviava alla porta e guardandomi con aria accorta e l'indice ancora levato. «Ho ragioni di sospettare, da quanto ho udito - le mie orecchie sono sempre aperte, e io non posso permettermi di non far uso delle mie capacità - che siano andati all'estero. Ma se mai tornano, se mai uno di loro ritorna finché son viva, ho più probabilità di un'altra, con tutti i giri che faccio, di saperlo subito. Tutto quello che saprò, voi lo saprete. Se mai potrò fare qualche cosa per quella povera ragazza tradita, lo farò fedelmente, se così piace al cielo! E Littimer dovrebbe sentirsi più sicuro con un segugio alle calcagna che non con la piccola Mowcher!» Prestai implicita fede a questa affermazione quando osservai lo sguardo che l'accompagnava. «Non fidatevi di me né più né meno di quanto vi fidereste di una donna normale,» continuò quell'esserino toccandomi il polso con aria supplichevole. «Se mai mi rivedrete, diversa da quello che sono ora e simile a quello che apparvi quando mi vedeste la prima volta, osservate la compagnia in cui mi troverò. Ricordatevi che sono una cosina senza aiuti e senza difese. Immaginatemi a casa mia, con mio fratello simile a me e mia sorella simile a me, dopo una giornata di lavoro. Forse, allora, non sarete molto severo verso di me e non vi meraviglierete che possa essere seria e angustiata. Buona notte!» Diedi la mano alla signorina Mowcher con un'opinione di lei molto diversa da quella che avevo avuto fin allora, e aprii la porta per lasciarla passare. Non fu affar da poco innalzare il grande ombrello e metterglielo bene equilibrato nella mano; ma alla fine ci riuscii, e lo vidi andarsene traballando per la via, sotto la pioggia, senza la minima apparenza che ci fosse qualcuno sotto, se non quando uno scroscio più violento del solito, cadendo da qualche grondaia traboccante, lo faceva rovesciare da un lato scoprendo la signorina Mowcher che lottava violentemente per raddrizzarlo. Dopo una o due sortite in suo aiuto, rese inutili dal tornar su dell'ombrello, come un immenso uccello, prima che lo raggiungessi, rientrai, andai a letto e dormii fino al mattino. Il mattino mi raggiunsero il signor Peggotty e la mia vecchia governante, e di buon'ora ci recammo all'ufficio delle diligenze, dove ci aspettavano la signora Gummidge e Ham per salutarci. «Signorino Davy,» mi sussurrò Ham tirandomi da parte mentre il signor Peggotty sistemava la sua sacca fra i bagagli, «la sua vita è ormai spezzata. Non sa dove va, non sa che cosa gli si prepari, si è messo in un viaggio che durerà, più o meno, per tutto il resto dei suoi giorni, potete credermi, a meno che non trovi quello che cerca. Sono sicuro che sarete per lui un amico, signorino Davy.» «Abbiate fiducia in me, lo sarò,» dissi stringendogli la mano con calore. «Grazie. Grazie, siete molto buono, signore. Ancora una cosa. Io ho un buon lavoro, lo sapete, signorino Davy, e adesso non ho modo di spendere quello che guadagno. Il denaro non mi serve più che per vivere. Se voi potrete spenderlo per lui, mi darò al lavoro con maggiore impegno. Sebbene, quanto a questo, signore,» e parlava con molta fermezza e dolcezza, «credete pure che lavorerò sempre, da uomo, e farò sempre il meglio che potrò.» Gli dissi che ne ero più che convinto; e gli accennai di sperare che sarebbe venuto un tempo in cui avrebbe cessato di condurre la vita solitaria che, adesso, naturalmente, prevedeva. «No, signore,» mi rispose scuotendo la testa, «tutto questo per me è passato e finito. Nessuna colmerà mai il posto rimasto vuoto. Ma vi ricorderete quel che vi ho detto del denaro? Che c'è sempre qui qualcuno che lo mette da parte per lui?» Gli feci notare che il signor Peggotty traeva una sicura, per quanto modesta, entrata dal lascito di suo cognato; ma gli promisi che non avrei dimenticato. Quindi ci separammo. Nemmeno adesso so lasciarlo senza ricordare con una fitta al cuore la sua umile forza d'animo e il suo grande dolore. Quanto alla signora Gummidge, se dovessi tentar di descrivere come corse lungo la via a fianco della diligenza, senza vedere altro che il signor Peggotty sull'imperiale, attraverso le lacrime che cercava di reprimere, precipitandosi sulla gente che veniva in senso opposto, mi avventurerei in un'impresa piuttosto difficile. Sarà dunque meglio che la lasci seduta sul gradino della soglia di una panetteria, senza fiato, il cappello privo ormai di ogni forma e una scarpa sul lastricato, a notevole distanza. Quando giungemmo alla fine del nostro viaggio, la nostra prima cura fu di cercare un alloggetto per Peggotty, dove suo fratello potesse avere un letto. Avemmo la fortuna di trovarne uno, molto pulito e a poco prezzo, sopra il negozio di un droghiere, a solo due strade di distanza da casa mia. Fissato questo domicilio, comprai della carne fredda a una rosticceria e portai a casa i miei compagni di viaggio, a prendere il tè: cosa, mi dispiace dirlo, che non incontrò affatto l'approvazione della signora Crupp, ma esattamente il contrario. Devo notare comunque, a spiegazione dei sentimenti di questa signora, che ella fu molto offesa dal fatto che Peggotty, prima ancora di essere stata dieci minuti sul luogo, rimboccatasi la veste vedovile, si mise a spolverare la mia stanza da letto. La signora Crupp lo considerò una libertà, e una libertà, disse, era proprio quello che non poteva sopportare. Mentre venivamo a Londra, il signor Peggotty mi aveva fatto una comunicazione a cui non ero impreparato. Aveva deciso di vedere anzitutto la signora Steerforth. Poiché mi sentivo obbligato ad assisterlo in questo e a fare da intermediario fra i due, e per risparmiare per quanto potessi i sentimenti della madre, le scrissi quella sera stessa. Descrissi più pacatamente che potei la disgrazia di lui e la parte che avevo avuto nell'offesa fattagli. Dissi che era uomo di condizione molto umile ma di un carattere quanto mai nobile e sensibile, e che mi arrischiavo a esprimere la speranza che non avrebbe rifiutato di vederlo nella sua profonda sventura. Indicai le due del pomeriggio come l'ora del nostro arrivo, e spedii la lettera io stesso con la prima diligenza del mattino. All'ora stabilita eravamo alla porta: la porta di quella casa in cui ero stato così felice solo alcuni giorni prima, dove avevo prodigato così liberamente la mia giovanile fiducia e il calore del mio cuore, e che d'ora in avanti sarebbe rimasta chiusa per me, non più altro che desolazione e rovina. Non apparve alcun Littimer. Il più piacevole volto, che lo aveva sostituito in occasione della mia ultima visita, rispose alla nostra chiamata e ci fece strada in salotto. La signora Steerforth era seduta lì. Rosa Dartle, quando entrammo, scivolò fuori da un'altra parte della stanza e si fermò dietro la poltrona di lei. Vidi subito, dal volto della madre, che ella aveva saputo da lui stesso quello che aveva fatto. Era pallidissimo e recava le tracce di un'emozione più profonda di quella che avrebbe potuto probabilmente far sorgere in lei la sola mia lettera, indebolita dai dubbi che il suo affetto avrebbe potuto far sorgere su di essa. Mi parve più somigliante a lui di quanto mi fosse mai sembrata; e sentii, più che non vidi, che quella rassomiglianza non era sfuggita al mio compagno. Sedeva dritta sulla poltrona con un'aria imponente, imperturbabile e spassionata che nulla, sembrava, avrebbe potuto turbare. Guardò con molta fermezza il signor Peggotty quando le si fermò dinanzi, ed egli guardò lei quasi con la stessa fermezza. Lo sguardo acuto di Rosa Dartle ci abbracciava tutti. Per qualche momento non fu detta parola. Lei accennò al signor Peggotty di sedersi. Lui rispose a voce bassa: «Non mi sembra naturale, signora, che mi sieda in questa casa. Preferisco restare in piedi.» E seguì un altro silenzio che lei ruppe così: «So, con profondo rammarico, quello che vi ha portato qui. Che cosa desiderate da me? Che cosa volete che faccia?» Lui si mise il cappello sotto il braccio e, cercatasi in petto la lettera di Emily, la trasse fuori, la spiegò e gliela porse. «Vi prego di leggerla, signora. È scritta da mia nipote!» Lei la lesse, sempre con la sua aria impassibile - insensibile al suo contenuto, da quanto potei vedere - e gliela restituì. «‹A meno che lui non mi riporti indietro come sua moglie,›» disse il signor Peggotty seguendo col dito questo passo. «Vengo per sapere, signora, se egli manterrà la sua parola.» «No,» rispose lei. «Perché no?» chiese il signor Peggotty. «È impossibile. Sarebbe la sua rovina. Non potete ignorare che ella è molto al di sotto di lui.» «Elevatela!» disse il signor Peggotty. «È ineducata e ignorante.» «Forse no; forse sì,» rispose il signor Peggotty. «Io credo di no, signora; ma non sono giudice in queste cose. Educatela voi!» «Poiché mi costringete a parlare più chiaramente, cosa che proprio non vorrei fare, solo la sua umile condizione renderebbe la cosa impossibile, anche se non ci fosse altro.» «Ascoltatemi, signora,» rispose lui piano e con calma. «Voi sapete che cosa significhi amare un figlio. Lo so anch'io. Se lei fosse cento volte mia figlia non potrei amarla di più. Voi non sapete che cosa significhi perdere un figlio. Io lo so. Tutte le ricchezze del mondo non sarebbero nulla per me (se le possedessi) pur di poterla riscattare! Ma salvatela dal disonore ed ella non sarà disonorata dalla nostra presenza. Nessuno di noi, fra cui ella è cresciuta, nessuno di noi, che abbiamo vissuto con lei e l'abbiamo considerata il nostro tutto per tanti anni, vedrà mai più il suo bel viso. Ci contenteremo che esista; ci contenteremo di pensare a lei, da lontano, come se fosse sotto un altro sole e un altro cielo; ci contenteremo di affidarla a suo marito - forse ai suoi bambini - e aspetteremo il tempo in cui tutti saremo eguali dinanzi a Dio.» La rude eloquenza delle sue parole non fu del tutto priva di effetto. Ella mantenne il suo atteggiamento orgoglioso, ma vi era nella sua voce una nota di dolcezza quando rispose: «Io non giustifico nulla. Non faccio controaccuse. Ma sono spiacente di ripetere che è impossibile. Un matrimonio simile metterebbe irreparabilmente in ombra la carriera di mio figlio e rovinerebbe le sue speranze. Nulla è più certo del fatto che non potrà mai avvenire e mai avverrà. Se c'è qualche altro compenso...» «Sto guardando un volto molto simile,» la interruppe il signor Peggotty con uno sguardo fermo ma acceso, «a quel volto che mi ha guardato nella mia casa, davanti al mio focolare, nella mia barca - e dove mai no? - sorridendomi amichevolmente, mentre era così traditore che mi sento una belva se ci penso. Se questo volto così simile al suo non diventa di fiamma all'idea di offrirmi del denaro in compenso del disonore e della rovina della mia bambina, è altrettanto malvagio. Non so se, trattandosi di una dama, non lo è anche di più.» Si trasformò in un attimo. Una vampa d'ira le invase il volto, ed ella gridò esasperata, afferrandosi ai bracciuoli della poltrona: «E quale compenso potete dare a me per avere aperto un abisso fra me e mio figlio? Che cosa è il vostro amore di fronte al mio? Che cosa è la vostra separazione di fronte alla nostra?» La signorina Dartle la toccò delicatamente e chinò la testa per sussurrarle qualche cosa, ma ella non volle udire. «No, Rosa, nemmeno una parola! Lasciate che questo uomo ascolti quello che dico. Mio figlio, che è stato lo scopo della mia vita, a cui ho dedicato ogni mio pensiero, che ho accontentato fin da fanciullo in tutti i suoi desideri, da cui non mi sono mai separata dal momento in cui è nato... innamorarsi di una miserabile ragazza e allontanarsi da me! Ripagare la mia fiducia con il sistematico inganno per amor suo e abbandonarmi per lei! Opporre questo maledetto capriccio ai diritti che sua madre ha alla sua obbedienza, al suo amore, al suo rispetto, alla sua gratitudine... diritti che ogni giorno e ogni ora della sua vita avrebbero dovuto rafforzare con legami capaci di resistere a ogni prova! Non è un'offesa, questa?» Di nuovo Rosa Dartle cercò di calmarla; e di nuovo invano. «Ho detto nemmeno una parola, Rosa! Se lui può puntare tutto sul più frivolo degli oggetti, io posso puntare tutto sul più alto degli scopi. Vada pure dove vuole con i mezzi che il mio amore gli ha assicurato! Crede di potermi piegare con una lunga assenza? Se lo crede, conosce molto poco sua madre. Rinunci subito al suo capriccio e sarà il benvenuto al ritorno. Si rifiuti di lasciare quella ragazza e non tornerà mai più vicino a me, viva o morente, finché potrò alzare una mano per fare un cenno che lo impedisca, a meno che, liberatosi per sempre di lei, torni a me umilmente per chiedermi perdono. È il mio diritto. È il riconoscimento che avrò. Ecco la separazione che è avvenuta fra noi!» aggiunse guardando il suo ospite con quell'aria orgogliosa ed esasperata che aveva avuto all'inizio. «E non è un'offesa, questa?» Nell'udire e nel vedere la madre, mentre pronunciava queste parole, mi sembrava di udire e vedere il figlio sfidarle. Tutto ciò che di ostinato e di caparbio avevo visto in lui, lo vedevo in lei. Tutta la comprensione che avevo adesso delle sue energie mal dirette diveniva anche comprensione del carattere di lei e intuizione che esso era, nelle sue più solide molle, lo stesso. Poi, a voce alta, e riprendendo il suo precedente controllo, mi fece notare che era inutile dire o ascoltare di più e che pregava di metter fine all'intervista. Si era gia alzata con aria dignitosa per lasciare la stanza, quando il signor Peggotty le disse che non era necessario. «Non temete che vi sia di qualche impaccio, non ho altro da dirvi, signora,» dichiarò avviandosi verso la porta. «Sono venuto qui senza speranza e me ne vado senza speranza. Ho fatto quello che pensavo di dover fare, ma non mi sono mai aspettato nulla di buono dal mio tentativo. Questa è una casa troppo malvagia per me e per i miei perché possa aspettarlo sensatamente.» E così ce ne andammo, lasciandola in piedi presso la poltrona, vera pittura di un nobile portamento e di un volto bellissimo. Per uscire dovevamo attraversare un vestibolo lastricato con le pareti e il tetto a vetri, su cui correvano ramificazioni di vite. Le foglie e i germogli erano allora verdi e, poiché era un giorno di sole, due porte a vetri che davano sul giardino, erano spalancate. Rosa Dartle entrò con passo silenzioso da una di esse, mentre vi passavamo vicino, e si rivolse a me. «Bella cosa davvero avete fatto,» mi disse, «portando qui quest'uomo!» Non avrei creduto che si potesse raccogliere, nemmeno sul suo volto, una concentrazione di rabbia e di disprezzo come quella che adombrava i suoi lineamenti e fiammeggiava nei suoi occhi nerissimi. La cicatrice lasciata dal martello era, come sempre, nell'eccitazione del suo viso, fortemente marcata. Quando il tremito, che avevo osservato altre volte, raggiunse quella cicatrice, ella alzò decisamente la mano e vi diede un colpo. «Questo,» disse, «è un tipo da difendersi e da portar qui, vero? Siete un vero uomo!» «Signorina Dartle,» risposi, «non sarete certo così ingiusta da condannare me!» «Perché avete scavato un abisso fra questi due folli?» ribatté. «Non sapete che sono entrambi pazzi di ostinazione e di orgoglio?» «È opera mia?» chiesi. «È opera vostra!» rispose. «Perché portare qui quest'uomo?» «È un uomo profondamente offeso, signorina Dartle,» dissi. «Forse non lo sapete.» «So che James Steerforth,» disse mettendosi una mano sul petto come per impedire di erompere alla tempesta che vi infuriava, «è falso, corrotto e traditore. Ma che bisogno ho di occuparmi di lui o della sua volgare nipote?» «Signorina Dartle,» risposi «voi aggravate l'offesa. È già sufficiente. Vi dirò solo, andandomene, che gli fate un grave torto.» «Non gli faccio alcun torto,» ribatté. «È gente indegna e depravata. Vorrei che quella ragazza venisse frustata!» Il signor Peggotty tirò avanti senza far parola e uscì dalla porta. «Oh, vergogna, signorina Dartle! Vergogna!» dissi sdegnato. «Come potete calpestare la sua sventura così immeritata?» «Vorrei calpestarli tutti,» rispose. «Vorrei veder la sua casa a terra. Vorrei che quella ragazza fosse bollata in faccia, coperta di cenci e gettata sulla strada a morir di fame. Se potessi essere suo giudice, vorrei che fosse fatto. Che fosse fatto? Glielo farei io stessa. La odio. Se potessi rinfacciarle la sua infame condizione, andrei dappertutto per farlo. Se potessi darle la caccia fino alla tomba, lo farei. Se ci fosse una parola di conforto che potesse sollevarla nell'ora della morte, e io sola la conoscessi, non la pronuncerei a costo della vita.» Mi rendo conto che la pura violenza delle sue parole può dar solo una pallida idea della passione che la possedeva e che si esprimeva in tutto il suo aspetto, sebbene la sua voce, invece di elevarsi, fosse più bassa del solito. Nessuna descrizione che potessi fare di lei renderebbe giustizia al ricordo che ne mantengo o del suo completo abbandono alla propria collera. Ho visto la passione sotto vari aspetti, ma non l'ho mai vista in una forma simile. Quando raggiunsi il signor Peggotty, camminava piano e pensoso giù per la collina. Mi disse, non appena gli fui a fianco, che, liberatasi ormai la mente da quello che voleva fare a Londra, intendeva «incominciare il suo viaggio» quella sera stessa. Gli chiesi dove voleva andare. Mi rispose solo: «Signore, vado a cercar mia nipote.» Tornammo al piccolo alloggio sopra la drogheria, e lì trovai modo di ripetere a Peggotty quello che mi aveva detto. Mi rispose che aveva detto a lei la stessa cosa al mattino. Non sapeva più di me dove fosse diretto, ma pensava che avesse già formulato qualche progetto. Non volli lasciarlo in quelle condizioni, e cenammo insieme tutti e tre con un pasticcio di carne - che era una delle tante cose buone per le quali Peggotty andava famosa - e che, in quell'occasione, fu stranamente profumato, lo ricordo bene, da aromi frammisti di tè, caffè, burro, pancetta affumicata, formaggio, pane fresco, legna da ardere, candele e salsa di noci che emanavano continuamente dalla drogheria. Dopo cena rimanemmo seduti per circa un'ora davanti alla finestra, senza parlar molto; poi il signor Peggotty si alzò, prese la sua sacca di incerato e il suo grosso bastone e li mise sulla tavola. Accettò, dal peculio liquido di sua sorella, una piccola somma in acconto della sua parte di eredità, appena sufficiente, mi sembra di aver pensato, a mantenerlo per un mese. Se gli fosse successo qualche cosa, promise di farmelo sapere; si gettò sulle spalle la sacca, prese il cappello e il bastone, e ci salutò entrambi. «Ti auguro ogni bene, mia cara vecchia,» disse a Peggotty abbracciandola, «e anche a voi, signorino Davy,» aggiunse stringendomi la mano. «Vado a cercarla dappertutto. Se tornasse a casa mentre sono via - ma, ahimè, non è probabile - o se riesco a riportarla, è mia intenzione di andare a vivere e a morire con lei dove nessuno possa rimproverarle nulla. Se mi dovesse capitare qualche disgrazia, ricordatevi che le mie ultime parole per lei sono: ‹Il mio amore per la mia cara bambina è immutato, e le perdono!›» Lo disse solennemente, a capo scoperto; poi, messosi il cappello, scese le scale e uscì. Lo seguimmo alla porta. Era una sera calma e polverosa, proprio nel momento in cui, nel grande corso da cui si staccava quella viuzza secondaria, v'era una momentanea sosta del continuo batter di piedi sul lastricato e cadeva un vivo sole purpureo. Svoltò, solo, all'angolo della nostra buia strada, in un fascio di luce, e si perdette in quello. Raramente venne quell'ora di sera, raramente mi svegliai la notte, raramente alzai lo sguardo verso la luna o le stelle, o guardai cadere la pioggia, o ascoltai il vento, senza che pensassi a quella figura solitaria che avanzava faticosamente, povero pellegrino, o ricordassi le sue parole: «Vado a cercarla dappertutto. Se mi dovesse capitare qualche disgrazia, ricordatevi che le mie ultime parole per lei sono: ‹Il mio amore per la mia cara bambina è immutato, e le perdono!›» XXXIII • FELICE Per tutto questo tempo avevo continuato ad amare Dora più che mai. L'idea di lei era il mio rifugio nel disappunto e nell'afflizione e mi compensava in qualche modo perfino della perdita del mio amico. Quanto più commiseravo me stesso o gli altri, tanto più cercavo consolazione nell'immagine di Dora. Quanto maggiore era l'accumularsi dei disinganni e dei crucci nel mondo, tanto più alta, più pura e brillante, sul mondo, risplendeva la stella di Dora. Non credo che avessi una precisa idea del luogo da cui Dora veniva né del suo grado di parentela con un ordine di esseri superiori; ma sono sicurissimo che avrei respinto con sdegno e disprezzo l'insinuazione che fosse una semplice creatura umana al pari, quindi, di qualsiasi altra damigella. Se posso così esprimermi, ero immerso in Dora. Non ero solo innamorato di lei fin sopra la testa: ne ero impregnato. Si sarebbe potuto spremer fuori da me, metaforicamente parlando, abbastanza amore per annegarci dentro chiunque; e tuttavia ne sarebbe rimasto abbastanza in me e su di me, per pervadere la mia intera esistenza. La prima cosa che feci, a mio riguardo, quando fui tornato, fu una passeggiata notturna a Norwood, dove, come il soggetto di un venerabile indovinello della mia infanzia, andai «tutt'intorno alla casa senza toccar la casa», pensando a Dora. Credo che il tema di questo incomprensibile enigma fosse la luna. Comunque sia, io, lunatico schiavo di Dora, camminai per due ore tutt'intorno alla casa e al giardino, guardando attraverso le fessure delle palizzate, sporgendo il mento con sforzi violenti oltre i rugginosi chiodi del sommo, gettando baci alle luci delle finestre e inviando di tanto in tanto romantici appelli alla notte perché proteggesse Dora... non so esattamente da che, penso dagli incendi. O forse dai topi, dei quali aveva una gran paura. Il mio amore occupava talmente il mio cuore, ed era per me così naturale confidarmi a Peggotty, una sera che me la trovai nuovamente accanto con il suo vecchio attrezzamento di ferri da lavoro, tutta affaccendata a ripassare il mio guardaroba, che le rivelai, in modo piuttosto confuso, il mio grande segreto. Peggotty ne fu fortemente interessata, ma non riuscii assolutamente a farle considerare il caso dal mio punto di vista. Era temerariamente prevenuta in mio favore e del tutto incapace di capire perché dovessi nutrire apprensioni o abbattermi nei riguardi di esso. «La signorina può essere più che soddisfatta,» notò, «di avere un tal pretendente. E quanto a suo padre,» disse, «che cosa si aspetta, di grazia, questo signore?» Notai, comunque, che la toga da procuratore ecclesiastico del signor Spenlow e la sua rigida cravatta intimidirono un po' Peggotty e le ispirarono una maggior reverenza per l'uomo che, a poco a poco, diveniva ogni giorno più etereo ai miei occhi, e intorno al quale mi sembrava radiare una luce riflessa quando sedeva dritto in tribunale fra le sue carte come un piccolo faro in un mare di cancelleria. Ricordo, a proposito, che, quando sedevo anch'io in tribunale, soleva apparirmi come cosa stranamente bizzarra meditare a quello che quei tetri vecchi, giudici e avvocati, avrebbero pensato di Dora se l'avessero conosciuta; a come sarebbero rimasti insensibili senza andare affatto in estasi se fosse stato loro proposto di sposare Dora; a come Dora avrebbe potuto cantare e suonare la sua magnifica chitarra fino a portar me sul limite della pazzia, ma senza far sgarrare di un pollice quei lenti viandanti. Li disprezzavo dal primo all'ultimo. Nutrivo un rancore personale contro tutti loro, vecchi, raggelati giardinieri delle aiuole del cuore. Il tribunale non era per me che un insensibile congrega di zotici. Il banco non aveva più tenerezza né poesia del banco di un'osteria. Presa nelle mani, non senza orgoglio, la direzione degli affari di Peggotty, feci omologare il testamento, venni a un accordo con l'Ufficio delle Tasse di successione, la condussi alla banca e presto misi in ordine ogni cosa. Demmo varietà al carattere legale di queste iniziative andando a vedere certe trasudanti figure di cera in Fleet Street (che spero si saranno sciolte in questi ultimi vent'anni); visitando la Mostra della signorina Linwood, che ricordo come un museo di lavori ad ago favorevole agli esami di coscienza e agli atti di contrizione; ispezionando la Torre di Londra e salendo in cima a San Paolo. Queste meraviglie diedero a Peggotty tutto quel piacere che lei poteva godere nelle presenti circostanze: eccetto, credo, San Paolo, che, in grazia del suo diuturno affetto per la sua scatola da lavoro, era divenuto un rivale del dipinto sul coperchio ed era superato in alcuni particolari, come notò lei, da quest'opera d'arte. Sistemati così gli affari di Peggotty, che erano ciò che ai Commons solevamo chiamare «normale amministrazione» (ed era una normale amministrazione facile e lucrosa), un mattino la condussi all'ufficio per pagare il suo conto. Il signor Spenlow era uscito, ci disse il vecchio Tiffey, per far giurare un signore che chiedeva una licenza di matrimonio; ma sapendo che sarebbe tornato presto, dato che eravamo vicini alla Vicaria e anche all'Ufficio del Vicario Generale, dissi a Peggotty di attendere. Ai Commons eravamo un po' come impresari di pompe funebri, quando si trattava di omologazioni testamentarie: generalmente ci facevamo regola di mostrarci più o meno compunti quando avevamo a che fare con clienti in lutto. Per un'eguale delicatezza di sentimenti, eravamo sempre gai e di cuor leggero con i clienti che richiedevano licenze matrimoniali. Accennai quindi a Peggotty che avrebbe trovato il signor Spenlow molto rimesso dal colpo ricevuto dalla morte del signor Barkis; difatti arrivò che sembrava uno sposo novello. Ma né Peggotty né io badammo a lui quando vedemmo, in sua compagnia, il signor Murdstone. Era pochissimo cambiato. I suoi capelli apparivano folti ed erano certamente neri come sempre; e il suo sguardo non era meno infido di un tempo. «Ah, Copperfield!» disse il signor Spenlow. «Credo che conosciate questo signore.» Feci al signore un inchino distaccato, e Peggotty diede appena segno di riconoscerlo. Lui, dapprima, fu un po' sconcertato nel vederci insieme; ma presto decise sul da farsi e venne a me. «Spero,» disse, «che stiate bene.» «È una cosa che può interessarvi assai poco,» risposi. «Se desiderate saperlo, sì.» Ci guardammo l'un l'altro e lui si rivolse a Peggotty. «E voi?» disse. «Mi dispiace notare che avete perduto vostro marito.» «Non è la prima perdita che ho avuto in vita mia, signor Murdstone,» rispose Peggotty tremando da capo a piedi. «Sono felice di sperare che, per questa, non vi sia alcuno da biasimare... alcuno che ne sia responsabile.» «Ah!» disse lui; «questo è un conforto. Avete fatto il vostro dovere?» «Non ho logorato la vita di nessuno,» rispose Peggotty, «e ne ringrazio il cielo! No, signor Murdstone, non ho torturato né atterrito nessuna dolce creatura fino a spingerla nella tomba prima della sua ora.» Le diede per un attimo uno sguardo tetro - di rimorso, mi parve - e, volgendosi a me, ma guardandomi i piedi e non il volto, disse: «Non è probabile che dobbiamo ancora incontrarci presto... una fonte di soddisfazione per entrambi, senza dubbio, perché tali incontri non possono essere mai piacevoli. Non mi aspetto che voi, sempre ribelle alla mia giusta autorità, esercitata per vostro bene e correzione, abbiate adesso per me della benevolenza. C'è fra noi un'antipatia...» «Una vecchia antipatia, credo,» dissi interrompendolo. Sorrise, e mi volse uno sguardo cattivo per quanto lo potevano i suoi neri occhi. «Ha infettato il vostro cuore di fanciullo,» disse. «Ha amareggiato la vita della vostra povera madre. Avete ragione. Spero tuttavia che possiate divenire migliore; spero che possiate correggervi.» Qui pose fine al dialogo, che era stato condotto a bassa voce in un angolo dell'ufficio esterno, e passò nella stanza del signor Spenlow dicendo ad alta voce in tono tranquillo: «I signori della professione del signor Spenlow sono abituati ai disaccordi familiari e sanno quanto difficili e complessi siano sempre!» Con questo pagò il denaro per la sua licenza, e, ricevutala ben ripiegata dal signor Spenlow, insieme a una stretta di mano e a un educato augurio di felicità per lui e per la signora, lasciò lo studio. Avrei avuto maggior difficoltà a costringermi al silenzio, dopo le sue parole, se mi fosse stato più facile persuadere Peggotty (che era furente solo per me, povera creatura!) che non eravamo in un luogo da fare recriminazioni e che la scongiuravo di stare tranquilla. Era quanto mai eccitata e fui felice di venire a una transazione con un affettuoso abbraccio, provocato dal ravvivarsi in lei delle antiche offese, e di venirne fuori così come meglio potevo dinanzi al signor Spenlow e ai suoi scrivani. Il signor Spenlow parve ignorare quali rapporti corressero fra il signor Murdstone e me; e ne fui felice perché non potevo sopportare l'idea di riconoscerlo come parente, nemmeno in cuor mio, ricordando quel che ricordavo della storia della mia povera madre. Il signor Spenlow parve pensare, se pur pensò qualche cosa in proposito, che mia zia fosse a capo della parte principale della nostra famiglia e che vi fosse un'altra parte ribelle e capeggiata da qualcun altro... così almeno mi parve capire da quello che disse mentre aspettavamo che il signor Tiffey preparasse il conto delle spese di Peggotty. «La signorina Trotwood,» notò, «è senza dubbio un carattere molto fermo e non facile a cedere alle opposizioni. Ho molta ammirazione per lei, e posso congratularmi con voi, Copperfield, di essere dalla parte giusta. I disaccordi fra parenti sono molto deplorevoli... ma quanto mai diffusi... e l'importante è di essere dalla parte giusta.» Intendeva, evidentemente, la parte interessata danarosa. «Un matrimonio piuttosto buono, penso,» disse il signor Spenlow. Spiegai che non ne sapevo nulla. «Veramente!» confermò. «Dalle poche parole che si è lasciato sfuggire il signor Murdstone - come avviene per lo più in queste occasioni - e da quanto si è lasciata sfuggire la signorina Murdstone, direi che è un matrimonio piuttosto buono.» «Intendete che vi è del denaro, signore?» chiesi. «Sì,» rispose il signor Spenlow, «ho capito che vi è del denaro. E anche della bellezza, a quanto mi dicono.» «Davvero? E la sua nuova moglie è giovane?» «Ha raggiunto appena l'età,» disse il signor Spenlow. «E così di recente che credo abbiano dovuto attendere per questo.» «Dio la protegga!» disse Peggotty in modo così enfatico e inatteso che rimanemmo tutti e tre imbarazzati finché Tiffey arrivò con la parcella. Il vecchio Tiffey comparve presto, comunque, e la porse al signor Spenlow perché la esaminasse. Il signor Spenlow, accomodatosi il mento nella cravatta e grattandoselo leggermente, scorse gli articoli con aria deprecatoria - come se fossero tutta opera di Jorkins - e la restituì a Tiffey con un blando sospiro. «Sì,» disse. «È esatta. Perfettamente esatta. Sarei stato felicissimo, Copperfield, di limitare questo conto alle pure spese, ma nella mia vita professionale vi è la noiosa incidenza che non son libero di seguire i miei desideri. Ho un socio... il signor Jorkins.» Mentre diceva così con una signorile malinconia che sembrava quasi voler rinunciare a ogni competenza, io espressi i miei ringraziamenti da parte di Peggotty e pagai Tiffey in biglietti di banca. Peggotty si ritirò allora nel suo alloggio e il signor Spenlow e io andammo in tribunale, dove avevamo in atto una causa di divorzio fondata su di un ingegnoso articoletto (adesso abrogato, credo, ma in virtù del quale ho visto annullare parecchi matrimoni) le cui virtù erano le seguenti. Il marito, il cui nome era Thomas Benjamin, si era fatto dare la sua licenza come Thomas soltanto, sopprimendo il Benjamin nel caso in cui non si trovasse così soddisfatto come si aspettava. Non trovandosi soddisfatto come si aspettava, o essendosi un po' stancato di sua moglie, povero diavolo, si faceva adesso avanti, per mezzo di un amico, dopo essere rimasto sposato per un anno o due, dichiarando che il suo nome era Thomas Benjamin e che di conseguenza non era affatto sposato. Cosa che il tribunale confermò con sua grande soddisfazione. Devo dire che avevo i miei dubbi sulla rigorosa giustizia di tutto ciò, e non ne fui liberato nemmeno dallo spauracchio di quello staio di grano che riconcilia tutte le anomalie. Ma il signor Spenlow discusse la cosa con me. Disse: «Guardate il mondo: vi è del bene e vi è del male; guardate la legge ecclesiastica: vi è del bene e vi è del male anche lì. Tutto fa parte di un sistema. Dunque siete a posto.» Io non ardii suggerire al padre di Dora che forse si sarebbe potuto migliorare un tantino anche il mondo alzandoci il mattino presto, togliendoci la giacca e mettendoci al lavoro, ma confessai che, a mio parere, si sarebbero potuti migliorare i Commons. Il signor Spenlow rispose che mi consigliava particolarmente di togliermi questa idea di testa, non essendo degna del carattere di un gentiluomo come me, ma che sarebbe stato lieto di sapere da me di quali miglioramenti io credessi suscettibili i Commons. Prendendo in considerazione quella parte dei Commons che ci si trovava per caso più vicina - perché frattanto il nostro uomo era tornato celibe e noi, usciti dal tribunale, passeggiavamo a lato del Prerogativo - gli sottoposi l'idea che il Prerogativo fosse un'istituzione amministrata in modo piuttosto strano. Il signor Spenlow mi chiese sotto quale rispetto. Risposi con tutta la dovuta deferenza per la sua esperienza (ma con ancor più deferenza, temo, per il fatto che era il padre di Dora) che era forse un tantino assurdo che l'Archivio di questo tribunale, contenente i testamenti di tutti coloro che avevano lasciato beni nell'immensa provincia di Canterbury per tre interi secoli, fosse un edificio scelto a caso, costruito per tutt'altro scopo, preso in affitto dai cancellieri per loro utile privato, per nulla sicuro, nemmeno, con certezza, a prova di incendio, stipato dagli importanti documenti che custodiva, e insomma, dalle fondamenta al tetto una pura speculazione dei cancellieri, che traevano abbondanti introiti dal pubblico e ficcavano i pubblici testamenti in qualche modo e in qualche parte senza altro scopo che di sbarazzarsene a buon mercato. Aggiunsi che forse era un po' irragionevole che questi cancellieri, ricevendo profitti che ammontavano a otto o novemila sterline l'anno (per non dir nulla dei profitti dei sostituti e degli impiegati di seggio), non fossero costretti a spendere un po' di quel denaro per provvedere un luogo ragionevolmente sicuro agli importanti documenti che gente di ogni classe era obbligata ad affidare loro, lo volesse o no. Che forse era un tantino ingiusto che tutti gli uffici maggiori in quel grande ufficio fossero delle magnifiche sinecure, mentre i disgraziati scrivani, nella buia e fredda stanza dell'ultimo piano, erano i peggio compensati e i meno considerati fra gli uomini che, in Londra, prestavano importanti servigi. Che forse era un po' indecente che il cancelliere principale, il cui dovere era di offrire al pubblico, che continuamente si rivolgeva a quel luogo, ogni necessaria comodità, fosse un enorme sinecurista in virtù di quel posto (e poteva essere, inoltre, un ecclesiastico, con vari benefici e titolare di uno stallo nella cattedrale) mentre il pubblico era esposto a disagi di cui avevamo un esempio ogni pomeriggio, quando l'ufficio era in piena attività e in una confusione che noi sapevamo assolutamente mostruosa. Che forse, per dirla in breve, il Prerogativo della diocesi di Canterbury era una così pestilenziale istituzione e una così pericolosa assurdità che solo per il fatto di essere stipato in un angolo del cimitero di San Paolo, cosa che pochi sapevano, non era stato completamente rovesciato e trasformato da tempo. Il signor Spenlow sorrise mentre io modestamente mi accaloravo sul soggetto, e poi discusse con me questa questione come aveva discusso l'altra. Di che si trattava, in definitiva?, disse. Era una questione di sentimento. Se in pubblico aveva la convinzione che i suoi testamenti stavano al sicuro, e accettava come garantito che l'ufficio non si potesse migliorare, chi ne subiva il danno? Nessuno. E chi ne traeva vantaggio? Tutti i sinecuristi. Benissimo. Dunque i vantaggi predominavano. Poteva non essere un sistema perfetto; ma nulla era perfetto. Quello a cui si opponeva era di inserire un cuneo nel sistema. Sotto l'Ufficio della Prerogativa, il paese aveva avuto la sua gloria. Inserite un cuneo nell'Ufficio della Prerogativa e il paese rimarrà senza gloria. Egli considerava dovere di un gentiluomo accettare le cose come le aveva trovate; e non aveva alcun dubbio che l'Ufficio della Prerogativa sarebbe durato quanto il nostro tempo. Io mi rimisi alla sua opinione, sebbene avessi grossi dubbi in proposito. Comunque trovo che aveva ragione, perché non solo è durato fino a oggi, ma è durato nonostante una grande relazione parlamentare fatta (non troppo volentieri) diciotto anni fa, quando tutte queste mie obiezioni furono esposte minutamente e quando lo stivaggio di testamenti esistente era descritto come quello di soli due anni e mezzo dopo il giorno in cui avevo avuto quella discussione. Che cosa ne abbiano fatto in seguito, se ne abbiano persi in quantità o se li abbiano venduti ogni tanto ai salumai, non lo so. Sono lieto che il mio non sia là, e spero che non ci vada a finire per un pezzo. Ho scritto tutto questo nel mio presente, felice capitolo, perché viene a trovarsi qui nel suo luogo naturale. Il signor Spenlow e io, entrati in questa conversazione, la prolungammo passeggiando su e giù fino a volgere su argomenti generali. E così, sulla fine, avvenne che il signor Spenlow mi disse che, fra una settimana, cadeva il compleanno di Dora e che sarebbe stato felice se avessi partecipato a una piccola colazione in campagna data nell'occasione. Andai immediatamente fuori di me; e giunsi alla pura cretineria il giorno dopo, ricevendo un bigliettino orlato di trina: «Per desiderio di papà. Promemoria.» Trascorsi in uno stato di rimbambimento tutto l'intervallo. Credo di aver commesso tutte le assurdità che potevo nei preparativi per quel benedetto evento. Divento di bracia se penso alla cravatta che mi comprai. Le mie scarpe potrebbero essere messe in qualunque collezione di strumenti di tortura. Mi procurai, e mandai a Norwood con la diligenza della sera prima, un delicato cestino che, di per se stesso, penso, equivaleva a una dichiarazione. Era pieno di dolci friabili con i più teneri aforismi che si possano avere per moneta. Alle sei del mattino ero al mercato di Covent Garden a comprare un mazzo di fiori per Dora. Alle dieci ero a cavallo (avevo noleggiato per l'occasione un ardente pomellato) con il mazzo sul cappello, per tenerlo al fresco, e trottavo verso Norwood. Immagino che, quando vidi Dora nel giardino e feci finta di non vederla, e galoppai lungo la casa fingendo di cercarla ansiosamente, commisi due piccole sciocchezze che altri signorini, nelle mie condizioni, possono avere commesso... perché furono in me molto naturali. Ma oh! quando trovai la casa e smontai al cancello del giardino, e trascinai quelle scarpe spietate attraverso il prato fino a Dora seduta su di una sedia rustica sotto un lillà, quale spettacolo ella mi presentò, in quella bella mattinata, tra le farfalle, in cappellino bianco e abito di celestiale azzurro! V'era con lei una damigella, in confronto più avanti negli anni, almeno sui venti, direi. Il suo nome era signorina Mills; e Dora la chiamava la sua Julia. Era l'amica del cuore di Dora. Felice signorina Mills! Jip era là, e Jip mi abbaiò ancora. Quando presentai il mio mazzo, mi mostrò i denti pieno di gelosia. E poteva ben farlo. Se aveva la minima idea di quanto adorassi la sua padrona, poteva ben farlo! «Oh, grazie, signor Copperfield! Che bei fiori!» disse Dora. Io avevo intenzione di risponderle (e avevo elaborato la frase per tre miglia onde metterla nella forma migliore) che avevo creduto che fossero belli prima di averli visti così vicino a lei. Ma non ci riuscii. Mi aveva troppo disorientato. Vederla accostare i fiori alla fossetta del suo mento significava perdere ogni presenza di spirito e ogni potere di linguaggio in una languida estasi. Mi meraviglio di non aver detto: «Uccidetemi, se avete un cuore, signorina Mills. Fate che muoia qui.» Poi Dora tese i miei fiori a Jip perché li annusasse, ma Jip ringhiò e non volle annusarli. Allora Dora rise e li mise un po' più vicini a Jip per costringerlo. E Jip afferrò coi denti un lembo di geranio e dilaniò in esso immaginari gatti. E Dora lo picchiò, e fece il broncio, e disse: «I miei poveri bei fiori!» con tutta la compassione, pensai, che se Jip avesse addentato me. Desiderai che lo avesse fatto! «Sarete lieto di sapere, signor Copperfield,» disse Dora, «che quell'opprimente signorina Murdstone non è qui. È andata al matrimonio di suo fratello e starà via almeno tre settimane. Non è una festa?» Risposi che certo era per lei una festa e che tutto ciò che faceva piacere a lei lo faceva a me. La signorina Mills, con un'aria di superiore saggezza e benevolenza, ci sorrise. «È l'essere più sgradevole che abbia conosciuto,» disse Dora. «Non puoi credere, Julia, quanto sia urtante e di cattivo carattere.» «Sì che lo posso, cara!» rispose Julia. «Tu forse lo puoi, amore,» ammise Dora con la mano su quella di Julia. «Perdonami se non ti ho subito eccettuata, cara.» Imparai da questo che la signorina Mills aveva fatto le sue prove nel corso di una movimentata esistenza, e che a queste, forse, dovevo attribuire quella saggia benignità di modi che avevo già notato. Scoprii poi, durante la giornata, che si trattava di questo: la signorina Mills era stata infelice per un affetto mal riposto e rimaneva sottinteso che si fosse ritirata dal mondo con la sua paurosa provvista di esperienza, pur continuando a prendere un calmo interesse per le fresche speranze e gli amori della gioventù. Ma adesso uscì di casa il signor Spenlow e Dora gli andò incontro dicendo: «Guarda, papà, che bei fiori!» E la signorina Mills sorrise pensosamente come chi dicesse: «Oh, effimere, godetevi la vostra breve esistenza nel chiaro mattino della vita!» E tutti ci avviammo sul prato verso la carrozza ormai pronta. Non farò mai più una gita come quella. Non ne ho mai fatta un'altra. Nel phaeton v'erano solo loro tre, la loro cesta, la mia cesta e l'astuccio della chitarra; e naturalmente il phaeton era aperto; e io cavalcavo dietro e Dora sedeva volgendo le spalle ai cavalli e guardandomi. Teneva vicino a sé il mazzo, sul cuscino, e non permetteva assolutamente a Jip di accucciarsi su quel lato per paura che lo sciupasse. Spesso lo prendeva tra le mani e spesso si rinfrescava con la sua fragranza. In questi casi i nostri occhi si incontravano spesso; e la mia gran meraviglia è di non essere saltato nella carrozza sopra la testa del mio ardente pomellato. C'era polvere, credo. Credo che ci fosse molta polvere. Ho la vaga impressione che il signor Spenlow mi facesse rimostranze perché ci cavalcavo framezzo; ma io non capivo più nulla. Percepivo solo una nube di amore e di bellezza intorno a Dora e niente altro. Lui si alzava ogni tanto e mi domandava che ne pensassi del panorama. Rispondevo che era piacevolissimo e oserei dire che lo fosse; ma per me era Dora. Il sole risplendeva di Dora, gli uccelli cantavano Dora. Il vento del sud alitava Dora e i fiori selvatici sulle siepi erano tutti Dora, fino all'ultimo boccio. Il mio conforto è che la signorina Mills mi capiva. Solo la signorina Mills poteva penetrare a fondo i miei sentimenti. Non so per quanto tempo andammo avanti e ancor oggi ignoro dove arrivammo. Forse era presso Guildford. Forse qualche mago delle Mille e una notte aprì quel luogo per quel giorno e lo chiuse per sempre quando ce ne andammo. Era uno spazio verdeggiante su una collina, coperto da un soffice tappeto erboso. V'erano alberi dalla fresca ombra, erica e, per quanto l'occhio poteva giungere, un ricco paesaggio. Fu una dura prova trovare qui della gente che ci aspettava; e la mia gelosia, anche per le signore, non ebbe limiti. Ma tutti quelli del mio sesso - specialmente un impostore di tre o quattro anni più anziano di me, con favoriti rossi sui quali fondava un cumulo di insopportabile presunzione - erano miei mortali nemici. Aprimmo le nostre ceste e ci mettemmo a preparare il desinare. Favoriti Rossi pretendeva di saper fare l'insalata (cosa che non credo affatto) e s'impose all'attenzione pubblica. Alcune damigelle lavarono la lattuga per lui e la tagliarono a strisce secondo le sue direzioni. Dora era fra loro. Sentii che il fato mi aveva messo in gara con quell'uomo e che uno di noi doveva cadere. Favoriti Rossi fece la sua insalata (mi meraviglio che potessero mangiarla. Io non l'avrei toccata per nulla al mondo) e si promosse alla carica di capo della cantina, da lui creata, ingegnosa bestia che era, nel cavo di un albero. Poco dopo lo vidi, con la maggior parte di un'aragosta nel suo piatto, che mangiava ai piedi di Dora! Ho solo una vaga idea di quello che accadde per qualche tempo, dopo che questo funesto spettacolo si fu presentato ai miei occhi. So di essere stato molto allegro; ma era un'allegria vuota. Mi misi con una giovane creatura in rosa dagli occhietti vivaci, e la corteggiai disperatamente. Accolse le mie attenzioni con favore, ma non potrei dire se solo per me o perché aveva qualche progetto su Favoriti Rossi. Si bevve alla salute di Dora. Quando bevvi io, ostentai di interrompere per questo la conversazione e di riprenderla subito dopo. Colsi lo sguardo di Dora mentre mi inchinavo verso di lei, e mi parve supplichevole. Ma giunse a me sopra la testa di Favoriti Rossi, e io fui adamantino. La giovane creatura in rosa aveva una madre in verde; e sono propenso a credere che quest'ultima ci divise per motivi diplomatici. Comunque, tutta la compagnia si sciolse mentre i resti del desinare venivano portati via; e io me ne andai a gironzolare soletto, fra gli alberi, pieno di rabbia e di rimorsi. Stavo domandandomi se non era il caso di fingere di star poco bene e filar via - non so dove - sul mio ardente pomellato, quando Dora e la signorina Mills mi incontrarono. «Signor Copperfield,» disse la signorina Mills, «non capite niente.» Le chiesi scusa. Non era certo così. «E tu, Dora,» continuò la signorina Mills, «non capisci niente.» Oh, cara, no! Non era assolutamente vero. «Signor Copperfield e Dora,» disse la signorina Mills con aria quasi venerabile. «Basta di questo. Non permettete che un banale malinteso faccia appassire la fioritura della primavera, che, una volta sbocciata e avvizzita, non si rinnova più. Io parlo,» aggiunse la signorina Mills, «in base all'esperienza del passato... il lontano e irrevocabile passato. Le zampillanti fontane che risplendono al sole non devono essere estinte da un puro capriccio; le oasi nel deserto del Sahara non devono essere sradicate inutilmente.» Io sapevo appena quel che facevo, tanto mi sentivo tutto in fiamme; ma presi la manina di Dora e la baciai... e lei lasciò fare! Baciai la mano della signorina Mills; e mi parve che tutti salissimo dritti al settimo cielo. Non tornammo più giù. Rimanemmo lassù per tutta la sera. Dapprima passeggiammo su e giù fra gli alberi: io col timido braccio di Dora appoggiato al mio: e sa il cielo, sebbene fosse tutto una follia, se non sarebbe stato un felice destino passare nell'immortalità con quegli assurdi sentimenti e rimanere per sempre fra quegli alberi. Ma molto presto, troppo presto udimmo gli altri ridere e parlare, e chiedere: «Dov'è Dora?» Allora tornammo: volevano che Dora cantasse. Favoriti Rossi pretendeva di andare a prendere l'astuccio della chitarra nella vettura, ma Dora gli disse che nessuno sapeva dove era se non io. Così Favoriti Rossi fu liquidato in un attimo; e io andai a prenderlo, e io lo aprii, e io ne tirai fuori la chitarra e io mi sedetti presso di lei, e io tenni il suo fazzoletto e i suoi guanti, e io bevvi ogni nota della sua cara voce, e lei cantò per me che l'amavo, e tutti gli altri potevano applaudire quanto volevano ma non ci avevano nulla a che fare. Ero ebbro di gioia. Temevo che fosse troppo bello per essere vero e che da un momento all'altro mi sarei svegliato in Buckingham Street per udire la signora Crupp far tintinnare le tazze da tè preparandomi la colazione. Ma Dora cantò, e gli altri cantarono, e la signorina Mills cantò - di certi dormienti echi nelle caverne della memoria, come se avesse cent'anni - e giunse la sera; e prendemmo il tè facendo bollir l'acqua nel bollitore su di un fuoco zingaresco; e io continuavo a esser felice. E più felice che mai mi sentii quando la compagnia si separò e gli altri, lo sconfitto Favoriti Rossi e tutti quanti, presero ognuno la loro via e noi prendemmo la nostra nella sera immota e la luce morente mentre dolci profumi ci esalavano attorno. Il signor Spenlow, un po' assonnato dopo lo champagne - onore al suolo che alimentò i grappoli, ai grappoli che fecero il vino, al sole che lo maturò e al mercante che lo adulterò - si addormentò in un angolo della vettura, e io potei così cavalcarvi a fianco e parlare con Dora. Lei ammirava il mio cavallo e lo accarezzava - oh, come cara era quella manina su di un cavallo! - e il suo scialle non voleva stare a posto e ogni tanto glielo tiravo attorno con la mano; e mi parve perfino che Jip cominciasse a capire come stavano le cose e a rendersi conto di dover decidersi a essere mio amico. E quella sagace signorina Mills! quell'amabile, per quanto logorata, reclusa; quella piccola patriarca di un po' meno di vent'anni, che l'aveva fatta finita col mondo e non voleva a nessun costo risvegliare i dormienti echi nelle caverne della memoria, che gentile gesto fece! «Signor Copperfield,» disse la signorina Mills, «venite un attimo da questo lato della vettura... se potete dedicarmi un attimo. Ho qualche cosa da dirvi.» Ed eccomi, sul mio ardente pomellato, chinarmi al fianco della signorina Mills, con la mano sullo sportello! «Dora verrà a stare con me. Verrà con me, a casa nostra, dopodomani. Se vorrete farci una visita, sono sicura che papà sarà lieto di conoscervi.» Che altro potevo fare se non invocare una tacita benedizione sul capo della signorina Mills, e riporre l'indirizzo della signorina Mills nel più sicuro angolo della mia memoria? Che altro potevo fare se non dire alla signorina Mills, con sguardi grati e fervide parole, quanto apprezzavo i suoi buoni uffici e di quale inestimabile valore considerassi la sua amicizia? Poi la signorina Mills benignamente mi diede licenza dicendo: «Tornate da Dora!» e tornai e Dora si sporse dalla vettura per parlarmi, e parlammo per tutto il resto della strada; e io feci trottare il mio ardente pomellato così vicino alla ruota da scalfirgli contro di essa la zampa anteriore e «togliergli la scorza», come si espresse il suo proprietario, «per il valore di tre sterline e sette scellini», che pagai trovandoli una vera inezia per tanta gioia. Frattanto la signorina Mills se ne stette seduta guardando la luna, mormorando versi e rievocando, immagino, gli antichi giorni in cui lei e la terra avevano qualche cosa in comune. Norwood era di parecchie miglia troppo vicino, e noi vi giungemmo di parecchie ore troppo presto; ma il signor Spenlow tornò in sé poco prima di arrivarvi e disse: «Dovete entrare, Copperfield, e riposarvi!» e, avendo io accettato, ci furono serviti crostini e acqua e vino. Nella sala a vetri, il rossore di Dora mi parve così attraente che non riuscii a strapparmi di lì e rimasi seduto in sognante contemplazione, finché il russare del signor Spenlow non mi rese abbastanza consapevole che era l'ora di prender commiato. Così ci separammo; io cavalcai per tutta la strada verso Londra col tocco di addio della mano di Dora lievemente impresso sulla mia, rievocando ogni parola diecimila volte; e infine mi infilai nel letto fuori dei miei cinque sensi come mai lo fu un giovanetto sciocco ed estasiato. Quando mi svegliai al mattino ero deciso a dichiarare a Dora la mia passione e conoscere il mio destino. Tutto il problema era adesso felicità o disperazione. Non vi era per me altro problema al mondo e solo Dora poteva risolverlo. Passai tre giorni in un'orgia di scoramento torturandomi nel presentarmi ogni possibile varietà di deprimenti interpretazioni di quanto era avvenuto fra Dora e me. Alla fine, agghindatomi per l'occasione con grandi spese, andai dalla signorina Mills carico di una dichiarazione. Quante volte andai su e giù per la strada e girai la piazza - penosamente consapevole di essere un oggetto molto più rispondente all'antico indovinello che non quello originario - prima di decidermi a salire gli scalini e bussare, non è il caso che lo racconti. Anche quando, infine, ebbi bussato e rimasi ad aspettare alla porta, ebbi qualche confusa idea di domandare se abitava lì il signor Blackboy (imitando il povero Barkis), chiedere scusa e ritirarmi. Ma tenni duro. Il signor Mills non era in casa. Non mi aspettavo che ci fosse. Nessuno aveva bisogno di lui. Era in casa la signorina Mills. E la signorina Mills bastava. Fui condotto in una stanza al piano di sopra, dov'erano la signorina Mills e Dora. C'era anche Jip. La signorina Mills stava copiando della musica (ricordo che era una nuova canzone intitolata Compianto dell'affetto) e Dora dipingeva dei fiori. Quali furono i miei sentimenti quando riconobbi i miei fiori, l'identico acquisto da me fatto al mercato di Covent Garden! Non posso dire che fossero molto somiglianti o che apparissero particolarmente simili a un qualsiasi fiore caduto sotto i miei occhi; ma capii di che si trattava dalla carta che li avvolgeva, copiata con molta cura. La signorina Mills fu molto lieta di vedermi e molto spiacente che suo papà non fosse in casa: mi parve tuttavia che sopportassimo tutti e tre il colpo con grande fermezza. La signorina Mills fece conversazione per pochi minuti e poi, posando la penna sul Compianto dell'affetto, si alzò e lasciò la stanza. Io cominciai a pensare che avrei rimandato tutto al giorno dopo. «Spero che il vostro povero cavallo non fosse stanco, quando è tornato a casa stanotte,» disse Dora alzando i suoi begli occhi. «È stata una strada lunga, per lui.» Cominciai a pensare che lo avrei fatto quel giorno stesso. «È stata una strada lunga per lui,» dissi, «perché lui non aveva nulla che lo sostenesse durante il viaggio.» «Non aveva mangiato, poverino?» chiese Dora. Cominciai a pensare che avrei rimandato tutto al giorno dopo. «S... sì,» dissi, «per questo era stato ben provvisto. Volevo dire che non aveva avuto la mia stessa inesprimibile felicità di starvi così vicino.» Dora chinò la testa sul suo dipinto e disse, dopo un poco (frattanto io me n'ero stato seduto, ardente di febbre e con le gambe stecchite): «Voi stesso non sembraste molto sensibile a quella felicità in un certo momento della giornata.» Adesso vidi che ero arrivato al punto e che bisognava farlo subito. «Non vi preoccupavate affatto di quella felicità,» continuò Dora alzando un poco le sopracciglia e scuotendo la testa, «quando eravate seduto accanto alla signorina Kitt.» Kitt, devo notare, era il nome della creatura in rosa dagli occhietti vivaci. «Sebbene certo ignori perché avreste dovuto preoccuparvene,» disse ancora Dora, «o addirittura perché dobbiate chiamarla una felicità. Ma naturalmente non parlate sul serio. E certo nessuno dubita che siate libero di fare quel che volete. Jip, piccolo cattivo, vieni qui!» Non so come lo feci. Lo feci in un attimo. Mi misi davanti a Jip. Mi trovai Dora fra le braccia. Fui pieno di eloquenza. Non mi fermai un attimo a cercar le parole. Le dissi che l'amavo. Le dissi che sarei morto senza di lei. Le dissi che la idolatravo e la veneravo. Jip abbaiò come un forsennato per tutto il tempo. Quando Dora abbassò la testa e si mise a piangere, tutta tremante, la mia eloquenza aumentò ancor più. Se voleva che morissi per lei, non aveva che da dire una parola e io ero pronto. La vita senza l'amore di Dora non era una cosa da accettarsi a nessun costo. Non avrei potuto né voluto sopportarla. L'avevo amata ogni minuto, giorno e notte, da quando l'avevo vista. In quel momento stesso l'amavo alla follia. E l'avrei sempre amata alla follia, minuto per minuto. Innamorati avevano già amato e innamorati avrebbero amato ancora, ma nessun innamorato avrebbe mai amato, mai avrebbe potuto, voluto, saputo, dovuto amare come io amavo Dora. Più io deliravo e più Jip abbaiava. Ognuno di noi, a suo modo, diventava sempre più matto. Bene, bene! Poco dopo, Dora e io eravamo seduti sul divano, abbastanza tranquilli, e Jip era accucciato nel suo grembo ammiccandomi pacificamente. Avevo dimenticato. Ero in uno stato di assoluto rapimento. Dora e io eravamo fidanzati. Immagino che avessimo una qualche nozione che tutto doveva finire in un matrimonio. Dovevamo averla perché Dora stipulò che non ci saremmo mai sposati senza il consenso di suo papà. Ma, nella nostra estasi giovanile, non credo che guardassimo veramente al futuro o al passato, o che avessimo qualche altra ispirazione oltre l'ignaro presente. Avremmo tenuto il segreto con il signor Spenlow; ma sono sicuro che, allora, non mi passò nemmeno per la testa l'idea che vi fosse in ciò qualche cosa di disonorevole. La signorina Mills era più pensosa del solito quando Dora, andata a cercarla, tornò con lei; temo perché, in quello che era avvenuto, v'era una vaga tendenza a risvegliare i dormienti echi nelle caverne della memoria. Ma ci diede la sua benedizione, ci assicurò la sua durevole amicizia e ci parlò in generale, come si conveniva a una Voce dal Chiostro. Che tempo spensierato fu quello! Che tempo irreale, felice, assurdo. Quando misurai il dito di Dora per un anello che doveva essere fatto di non-ti-scordar-di-me, e quando il gioielliere a cui portai la misura capì tutto, e rise dietro il libro delle ordinazioni, e mi fece pagare tutto quello che volle per quel grazioso ninnolo di pietre azzurre: così legato nel mio ricordo con la mano di Dora che non più tardi di ieri, nel vederne per caso uno simile al dito di mia figlia, ebbi in cuore un momentaneo sussulto, quasi una fitta! Quando andavo passeggiando, tutto esaltato dal mio segreto, pieno della mia gioia, e sentivo in tal modo la dignità di amare Dora e di essere amato da lei, che, se avessi camminato nell'aria, non avrei potuto essere più al di sopra dell'altra gente, che strisciava a terra! Quando ci incontravamo nel giardino della piazza e stavamo seduti nello squallido padiglione rustico, così felici che ancor oggi amo i passeri di Londra per nessun'altra ragione e vedo il piumaggio dei tropici nelle loro penne fumose. Quando avemmo il nostro primo grande litigio (una settimana dopo il nostro fidanzamento) e Dora mi rimandò l'anello chiuso nel cartoccetto di uno sconvolgente bigliettino in cui aveva vergato la terribile frase: «Il nostro amore è cominciato nella follia e finito nella demenza!» Paurose parole che mi fecero strappare i capelli e gridare che tutto era finito! Quando, sotto il riparo della notte, volai dalla signorina Mills, che vidi in segreto in un retrocucina dove c'era un mangano per stirare le lenzuola e implorai la signorina Mills di interporsi fra noi per evitare la pazzia. Quando la signorina Mills si sobbarcò dell'incarico e tornò con Dora, esortandoci, dal pulpito della sua amara giovinezza, alle mutue concessioni e a tenerci lontani dal deserto del Sahara! Quando piangemmo, e ci riconciliammo, e fummo di nuovo così felici che il retrocucina, mangano e tutto, si mutò nel tempio dell'amore nel quale stabilimmo un piano di corrispondenza attraverso la signorina Mills, che doveva comprendere almeno una lettera al giorno per ognuno di noi! Che tempo spensierato. Che tempo irreale, felice, assurdo! Di tutti i periodi che il Tempo ha nel suo pugno, non ve n'è alcuno a cui possa rivolgere uno sguardo retrospettivo con lo stesso sorriso e la stessa tenerezza. XXXIV • LA ZIA MI FA STUPIRE Scrissi ad Agnes non appena Dora e io ci fummo fidanzati. Le scrissi una lunga lettera, nella quale tentavo di farle capire quanto fossi felice e quanto cara fosse Dora. Scongiurai Agnes di non considerare questa come una frivola passione da poter cedere a un'altra, o che avesse la minima somiglianza con le fantasie fanciullesche su cui eravamo soliti scherzare. La assicurai che la sua profondità era assolutamente insondabile, ed espressi la convinzione che nulla di simile era mai esistito. In qualche modo, scrivendo ad Agnes in una bella sera, presso la finestra aperta, segretamente pervaso dal ricordo dei suoi occhi limpidi e pacati e del suo volto gentile, tutto ciò diffuse una così serena influenza sulla furia agitata in cui ero vissuto negli ultimi tempi, e di cui la mia effettiva felicità partecipava in qualche misura, che mi intenerì fino alle lacrime. Ricordo che restai seduto con la testa appoggiata alla mano, quando la lettera era scritta a metà, accarezzando la vaga fantasia che Agnes fosse uno degli elementi della mia casa naturale. Come se, nell'intimità di quella casa resa quasi sacra per me dalla sua presenza, Dora e io dovessimo essere più felici che altrove. Come se nell'amore, nella gioia, nella pena, nella speranza o nella delusione, in tutte le emozioni, il mio cuore si volgesse naturalmente là e vi trovasse il suo rifugio e l'amicizia più sicura. Di Steerforth non dissi nulla. Le scrissi solo che a Yarmouth c'era stato un grande dolore per la fuga di Emily, e che per me era stata una doppia ferita a causa delle circostanze relative. Sapevo quanto fosse sempre pronta a indovinare la verità, e che non sarebbe mai stata la prima a pronunciare il suo nome. A questa lettera ricevetti la risposta a giro di posta. Nel leggerla mi parve di udire Agnes stessa parlarmi. Suonava ai miei orecchi come la sua voce cordiale. Che posso dire di più? Negli ultimi tempi, mentre ero fuori casa, Traddles era venuto a cercarmi due o tre volte. Trovando Peggotty, e avendo saputo da lei (sempre pronta a dare questa informazione a chiunque volesse ascoltarla) che era la mia vecchia governante, aveva stabilito con Peggotty una cordiale conoscenza, e si era fermato a far quattro chiacchiere con lei su di me. Così disse Peggotty; ma temo che le quattro chiacchiere fossero fatte solo da parte sua e per una lunghezza smoderata, perché era molto difficile fermarla, Dio la benedica!, quando parlava di me. Questo mi fa ricordare non solo che aspettavo Traddles in un certo pomeriggio da lui stesso fissato, e che era appunto quello a cui mi riferisco, ma che la signora Crupp aveva rinunciato a tutto quello che riguardava il suo ufficio (eccettuato il salario) finché Peggotty non avesse smesso di presentarsi. La signora Crupp, dopo aver tenuto, relativamente a Peggotty, diverse conversazioni a voce molto alta, sulle scale - con qualche invisibile spirito familiare, a quanto sembra, perché, materialmente parlando, ogni volta era assolutamente sola - mi scrisse una lettera spiegandomi il suo punto di vista. Dopo aver cominciato con la constatazione, universalmente applicabile e adatta a ogni occasione della sua vita, e cioè che era una madre anche lei, proseguiva informandomi di avere visto tempi molto diversi, ma che in ogni periodo della sua esistenza aveva avuto una costituzionale antipatia per le spie, gli intrusi e gli informatori. Non faceva nomi, diceva; capisse chi voleva capire; ma le spie, gli intrusi e gli informatori, specialmente in gramaglie vedovili (queste parole erano sottolineate) aveva sempre avuto l'abitudine di disprezzarli. Se un signore dabbene era vittima di spie, intrusi e informatori (ma sempre senza far nomi) era cosa che riguardava lui. Aveva il diritto di compiacersene e lo facesse pure. Tutto quello che lei, la signora Crupp, pretendeva era di non essere «messa in contratto» con tali persone. Chiedeva dunque di essere scusata se rinunciava a ogni ulteriore servizio all'appartamento dell'ultimo piano, finché le cose non sarebbero tornate come erano e come si poteva desiderare che tornassero; avvertiva inoltre che il suo conticino sarebbe stato trovato sul tavolo della colazione ogni sabato mattina, e di esso chiedeva il saldo immediato col benefico scopo di evitare disturbi e «malestie» a entrambe le parti. Dopo di che la signora Crupp si limitò a metter trabocchetti sulle scale, specialmente con brocche, nella speranza che Peggotty ci si rompesse le gambe. Trovai piuttosto disagevole vivere in questo stato di assedio, ma avevo troppa paura della signora Crupp per cercare una via di uscita. «Mio caro Copperfield,» esclamò Traddles apparendo puntuale alla mia porta nonostante tutti questi ostacoli, «come stai?» «Caro Traddles,» risposi, «sono felice di vederti, finalmente, e mi dispiace di non essere stato in casa le volte precedenti. Ma ho avuto molto da fare...» «Sì, sì, lo so,» disse Traddles, «naturalmente. La tua vive a Londra, credo.» «Di che parli?» «Lei... scusami... la signorina D., sai bene,» rispose Traddles arrossendo nella sua estrema delicatezza. «Vive a Londra, credo.» «Oh, sì. Vicino a Londra.» «La mia, forse ricordi,» disse Traddles con uno sguardo serio, «vive laggiù nel Devonshire... una di dieci. Di conseguenza non sono impegnato quanto te... in questo senso.» «Mi meraviglio che tu possa sopportare,» risposi, «di vederla così di rado.» «Ah!» esclamò Traddles pensosamente. «C'è proprio da meravigliarsene. Penso che sia, caro Copperfield, perché non c'è rimedio.» «Penso anch'io,» risposi sorridendo e non senza arrossire. «E perché tu, Traddles, hai tanta costanza e pazienza.» «Povero me!» esclamò Traddles pensandoci sopra, «ti faccio tanto colpo per questo, Copperfield? In realtà non lo so se ho tanta costanza e pazienza. Ma lei è una così straordinariamente cara ragazza per se stessa, che è possibile mi abbia trasmesso un po' di queste virtù. Ora che lo hai detto, Copperfield, non me ne meraviglio affatto. Ti assicuro che non bada mai a se stessa e non fa che preoccuparsi delle altre nove.» «È la maggiore?» domandai. «Oh, mio caro, no,» rispose Traddles. «La maggiore è una vera bellezza.» Si accorse, penso, che non avevo potuto fare a meno di sorridere alla semplicità della risposta; e aggiunse con un sorriso sul suo volto ingenuo: «Non, naturalmente, che la mia Sophy... bel nome, Copperfield, io almeno lo penso sempre.» «Bellissimo!» dissi. «Non, naturalmente, che la mia Sophy non sia bella ai miei occhi, e una delle più care ragazze che siano mai esistite agli occhi di tutti, direi. Ma quando dico che la maggiore è una bellezza, intendo che lo è realmente.» Sembrava plasmare delle nubi intorno a sé con entrambe le mani: «Splendida, sai?» disse Traddles con energia. «Davvero!» dissi io. «Oh, te lo assicuro,» proseguì Traddles, «qualche cosa veramente fuori del comune! Allora, capisci, essendo fatta per la società e per essere ammirata, e non potendo goderne molto a causa dei suoi scarsi mezzi, naturalmente è diventata un po' irritabile ed esigente, a volte. Ma Sophy la mette di buon umore.» «Sophy è la più giovane?» arrischiai. «Oh, caro, no!» disse Traddles accarezzandosi il mento. «Le più giovani hanno solo nove e dieci anni. Sophy le educa.» «Forse è la seconda,» arrischiai ancora. «No,» rispose Traddles. «La seconda è Sarah. Sarah ha qualche cosa alla spina dorsale, povera ragazza. I dottori dicono che la malattia se ne andrà a poco a poco, ma frattanto deve stare a letto per un anno. Sophy le fa da infermiera. Sophy è la quarta.» «E la madre è ancora viva?» chiesi. «Oh sì,» rispose Traddles, «è viva. È una donna superiore, ma la regione umida non è adatta alla sua costituzione e... il fatto è che ha perso l'uso delle membra.» «Oh, poveretta!» dissi. «Molto triste, no?» disse Traddles. «Ma da un punto di vista strettamente domestico non è così brutto come potrebbe essere perché Sophy ha preso il suo posto. È veramente una madre per sua madre e per le altre nove.» Sentii la massima ammirazione per le virtù di questa fanciulla, e onestamente, col fine di fare del mio meglio affinché la bontà di Traddles non venisse sfruttata a detrimento dei loro comuni programmi di vita, chiesi come stava il signor Micawber. «Sta benissimo, grazie, Copperfield,» rispose Traddles. «In questo momento non vivo con lui.» «No?» «No. La verità è,» disse Traddles a bassa voce, «che ha cambiato il suo nome in quello di Mortimer, a causa dei suoi momentanei imbarazzi; ed esce solo di notte... e anche allora con gli occhiali. Sono venuti a casa nostra a fare un sequestro, per via dell'affitto. La signora Micawber cadde in uno stato così pauroso che io non ho potuto resistere a dare il mio nome per quella seconda cambiale di cui avevamo parlato. Puoi immaginare quanto sono stato felice di vedere così sistemata la faccenda e la signora Micawber tornare in sé.» «Hum!» dissi. «Non che la sua felicità sia stata di lunga durata,» proseguì Traddles, «perché disgraziatamente dopo una settimana fu fatto un altro sequestro. La casa andò in pezzi. Da allora vivo in un appartamento ammobiliato e i Mortimer conducono un'esistenza ritiratissima. Spero che non mi crederai egoista, Copperfield, se ti dico che il sequestrante si è portato via il mio tavolino rotondo col piano di marmo e il vaso da fiori col supporto, di Sophy.» «Oh che brutta cosa!» esclamai sdegnato. «È stato... è stato uno strappo,» disse Traddles col sussulto con cui accompagnava sempre questa espressione. «Non parlo di questo per rimprovero, comunque, ma per un motivo. Il fatto è, Copperfield, che io non potei riscattarli al momento del sequestro, anzitutto perché il sequestrante, essendosi accorto che li volevo, alzò il prezzo alle stelle; e in secondo luogo perché... non avevo un soldo. Be', da allora ho tenuto d'occhio il negozio del sequestrante,» proseguì Traddles, tutto felice di quella sua aria di mistero, «che è in cima a Tottenham Court Road, e infine ho saputo che oggi saranno posti in vendita. Io li ho visti solo dalla strada perché se il sequestrante mi vede, mi chiede quel che vuole! Ho pensato che, ora che ho il denaro, forse non avrai difficoltà che la tua buona governante venga con me al negozio - io posso mostrarglielo dall'angolo della via successiva - e acquistarli al miglior prezzo, come se fossero per lei.» Il piacere con cui Traddles mi proponeva questo piano e il senso che aveva della sua non comune astuzia, sono fra i miei ricordi più puri. Gli dissi che la mia vecchia governante sarebbe stata felice di aiutarlo e che avremmo fatto una spedizione tutti e tre, ma a una condizione: e cioè che si impegnasse solennemente a non far più prestiti del suo nome né di altro al signor Micawber. «Mio caro Copperfield,» disse Traddles, «l'ho già fatto, perché comincio a capire di essere stato non solo sconsiderato, ma anche decisamente ingiusto verso Sophy. Poiché mi sono dato la mia parola, non è più il caso di aver timori; ma sono prontissimo a darla anche a te. Quella prima disgraziata cambiale l'ho pagata. Non ho dubbi che l'avrebbe pagata il signor Micawber se avesse potuto, ma non poté. Una cosa devo dire, che mi piace molto nel signor Micawber, caro Copperfield. Si riferisce alla seconda cambiale, che non è ancora scaduta. Non mi dice che ha provveduto in proposito, ma che vi provvederà. Mi sembra che in questo ci sia qualche cosa di molto bello e onesto!» Non volevo smorzare la fiducia del mio buon amico, e quindi assentii. Dopo aver fatto ancora un po' di conversazione, scendemmo alla drogheria per arruolare Peggotty; Traddles non volle passare la serata con me, sia perché era quanto mai in ansia temendo che la sua proprietà fosse acquistata da qualche altro prima che potesse riscattarla, sia perché era la sera che egli sempre dedicava a scrivere alla più cara ragazza del mondo. Non dimenticherò mai di come lo vidi spiare dall'angolo della strada che dava in Tottenham Court Road, mentre Peggotty contrattava i preziosi articoli; e la sua agitazione quando lei uscì lentamente dirigendosi verso di noi dopo avere offerto invano un prezzo, e fu richiamata all'ammansito sequestrante e tornò indietro. La fine delle trattative fu che acquistò i due oggetti a un prezzo passabilmente basso e Traddles fu fuori di sé per la gioia. «Vi sono davvero molto obbligato,» disse nel sapere che sarebbero stati mandati quella sera stessa alla sua dimora. «Se ti chiedessi un altro favore, spero che non lo troveresti assurdo, Copperfield.» Risposi anticipatamente di no. «Allora, se voleste essere così buona,» disse Traddles a Peggotty, «da prendere adesso il vaso da fiori, credo che sarei contento (poiché è di Sophy, Copperfield) di portarmelo a casa io stesso!» Peggotty fu lieta di farlo, e lui la sommerse nei ringraziamenti, e se ne andò per Tottenham Court Road tenendosi il vaso amorosamente fra le braccia con una delle più beate espressioni che abbia mai visto. Noi ci avviammo verso il mio appartamento. E siccome le botteghe avevano per Peggotty un fascino che non ho mai saputo avessero in egual misura per nessun altro, bighellonai con tutta calma divertendomi alle occhiate che lei dava nelle vetrine e aspettandola ogni volta che voleva indugiare. Impiegammo così un certo tempo per giungere all'Adelphi. Nel salir le scale, richiamai la sua attenzione sull'improvvisa scomparsa dei trabocchetti della signora Crupp e anche sulle impronte di passi recenti. Salendo ancora, fummo entrambi molto sorpresi nel trovare aperta la porta (che avevo chiuso) e nell'udire voci nell'interno. Ci guardammo l'un l'altro senza saper che pensare, ed entrammo nel salotto. Quale fu il mio stupore nel trovar là, fra tutto il genere umano, mia zia e il signor Dick! La zia era seduta tra un mucchio di bagagli, con due uccelli davanti a lei e il gatto sulle ginocchia, come un Robinson Crusoe femmina, intenta a bere il tè. Il signor Dick si chinava pensosamente su di un grande aquilone, di quelli che avevamo tante volte lanciato nell'aria, con un altro mucchio di bagagli attorno! «Cara zia,» gridai. «Che gioia inaspettata!» Ci abbracciammo cordialmente, e non meno cordialmente il signor Dick e io ci stringemmo la mano; e la signora Crupp, tutta affaccendata a preparare il tè con un impegno che non avrebbe potuto essere maggiore, disse teneramente di saper bene che il signor Copperfield si sarebbe sentito il cuore in bocca nel trovare i suoi cari parenti. «Ohe!» disse la zia a Peggotty, che tremava dinanzi alla sua paurosa presenza. «E voi chi siete?» «Ricordi mia zia, Peggotty?» dissi. «Per amor di Dio, ragazzo,» esclamò mia zia, «non chiamarla con questo nome da isole dei Mari del Sud! Poiché si è sposata e se n'è sbarazzata, che era la miglior cosa che potesse fare, perché non le concedi il beneficio del cambiamento? Qual è il vostro nome, adesso... P?» chiese la zia in via di compromesso. «Barkis, signora,» rispose Peggotty con una riverenza. «Be', questo è un nome umano,» ammise la zia. «Sembra aver meno bisogno di un missionario. Come state, Barkis? Spero che stiate bene.» Incoraggiata da queste cortesi parole e dal fatto che la zia le tendeva la mano, Barkis si fece avanti, prese quella mano e presentò il suo omaggio con una riverenza. «Siamo più vecchi di un tempo, a quanto vedo,» disse la zia. «Ci siamo viste una sola volta prima d'ora, eh? Combinammo una bella faccenda, allora. Trot, caro, un'altra tazza.» La porsi rispettosamente alla zia, che aveva il suo solito portamento inflessibile, e mi arrischiai a protestare per il suo starsene seduta su di un baule. «Lascia che porti qui il divano o la poltrona, zia,» dissi. «Perché vuoi stare così scomoda?» «Grazie, Trot,» rispose la zia, «preferisco star seduta sulla mia roba.» E qui diede un'occhiata dura alla signora Crupp dicendo: «Non è necessario che vi disturbiate ancora per noi, signora.» «Devo mettere ancora un po' di tè nel bollitore, prima di andarmene, signora?» chiese la signora Crupp. «No, grazie, signora,» rispose la zia. «Devo andare a prendere un altro panetto di burro, signora?» chiese ancora la signora Crupp. «O vi lascerete indurre a prendere un uovo fresco? O devo arrostirvi una fetta di pancetta? Non vi è nulla che possa fare per la vostra cara zia, signor Copperfield?» «Nulla signora,» rispose la zia. «Sto benissimo, grazie.» La signora Crupp, che aveva continuato a sorridere per mostrare il suo buon carattere, che aveva continuamente tenuto la testa inclinata da una parte per mostrare la sua debole costituzione, e si era stropicciata senza sosta le mani per esprimere il desiderio di rendersi utile in qualsiasi degna occasione, a furia di sorrisi, inclinamenti e stropicciamenti lasciò la stanza. «Dick!» disse la zia. «Vi ricordate quello che vi ho detto sugli opportunisti e gli adoratori della ricchezza?» Il signor Dick, con un'aria un po' sgomenta, come se se ne fosse dimenticato, si affrettò a dare una risposta affermativa. «La signora Crupp è una di loro,» dichiarò la zia. «Barkis, vi darò il disturbo di occuparvi del tè e di farmene avere un'altra tazza, perché non intendo che quella donna me lo versi!» Conoscevo abbastanza mia zia per sapere che aveva in mente qualche cosa di importante e che sotto quell'arrivo c'era molto di più di quanto un estraneo potesse supporre. Notai come il suo occhio si posava su di me quando pensava che la mia attenzione fosse occupata altrove, e quale curiosa esitazione sembrava essere nel suo intimo mentre manteneva la sua rigidità e compostezza esteriore. Cominciai a riflettere se non avevo fatto qualche cosa che potesse offenderla, e la mia coscienza mi sussurrò che non le avevo ancora detto niente di Dora. Mi domandai se per caso non si trattasse di questo. Sapendo che avrebbe parlato solo quando le fosse parso opportuno, mi sedetti accanto a lei, parlai con gli uccelli, giocai col gatto e mi tenni tranquillo come potei. Ma ero ben lungi dall'essere veramente tranquillo, e non lo sarei stato nemmeno se il signor Dick, chinandosi sul grande aquilone dietro mia zia, non avesse colto ogni occasione per scuotere in segreto e cupamente la testa verso di me e puntare il dito su di lei. «Trot,» disse infine la zia dopo aver finito il suo tè ed essersi lisciata accuratamente il vestito e asciugate le labbra, «- non andatevene Barkis! - Trot, hai imparato a essere fermo e sicuro di te?» «Lo spero, zia.» «Tu, che cosa credi?» chiese la signorina Betsey. «Lo credo, zia.» «E allora, amor mio,» disse la zia guardandomi seriamente, «perché pensi che stasera abbia voluto star seduta sulla mia roba?» Scossi la testa, incapace di indovinare. «Perché,» spiegò la zia, «è tutto quello che ho. Perché sono rovinata, mio caro!» Se la casa e tutti noi fossimo rotolati insieme nel fiume, difficilmente avrei potuto ricevere un colpo più forte. «Dick lo sa,» disse la zia posandomi calma la mano sulla spalla. «Sono rovinata, mio caro Trot. Tutto quello che ho al mondo è in questa stanza, eccetto la villa; e ho lasciato laggiù Janet per affittarla. Barkis, mi occorre un letto per questo signore, stanotte. Per risparmiare le spese forse potete arrangiarmi qui qualche cosa per me. Tutto andrà bene. È solo per stanotte. Parleremo di questo domani.» Fui risvegliato dal mio stupore e dalle mie preoccupazioni per lei - solo per lei, ne sono sicuro - nel sentirla gettarmi le braccia al collo per un momento, mentre diceva piangendo di essere addolorata solo per me. Un attimo dopo dominò la sua emozione e affermò con un'aria piuttosto trionfante che depressa: «Dobbiamo affrontare con coraggio le disgrazie e non lasciarcene spaventare, mio caro. Dobbiamo saper recitare la nostra parte fino in fondo. Dobbiamo essere superiori alla sfortuna, Trot.» XXXV • DEPRESSIONE Appena potei riprendere la mia presenza di spirito, che mi aveva completamente abbandonato al primo, travolgente urto di quella notizia, proposi al signor Dick di andare alla drogheria e prender possesso del letto lasciato recentemente libero dal signor Peggotty. La drogheria era in Hungerford Market, e poiché Hungerford Market era a quel tempo un luogo molto diverso da ora, v'era un basso colonnato di legno davanti alla porta (non molto dissimile da quello davanti alla casa dove vivevano l'ometto e la donnina nel vecchio barometro), che piacque immensamente al signor Dick. La gloria di alloggiare sopra quella costruzione lo avrebbe compensato, credo, di molti inconvenienti; ma, siccome questi inconvenienti erano in realtà molto pochi, oltre gli aromi frammisti di cui ho già parlato, e forse la mancanza di un po' più di spazio, fu perfettamente soddisfatto della sua sistemazione. La signora Crupp aveva affermato sdegnata che non c'era posto per farci girare un gatto; ma, come il signor Dick mi fece notare molto giustamente sedendosi ai piedi del letto e accarezzandosi una gamba, «Vedete, Trotwood, io non ho bisogno di far girare un gatto. Io non faccio mai girare i gatti. Quindi, a me, che m'importa?» Cercai di appurare se il signor Dick aveva una qualche chiara idea delle cause dell'improvviso e radicale cambiamento negli affari della zia. Come potevo aspettarmi, non ne aveva alcuna. Il solo resoconto che mi poté dare fu che la zia, due giorni prima, gli aveva detto: «Dunque, Dick, siete realmente quel vero filosofo che ho sempre visto in voi?» Che allora lui aveva risposto che sì, che lo sperava. Che allora la zia aveva detto: «Dick, sono rovinata.» Che allora lui aveva detto: «Oh, davvero?» Che allora la zia lo aveva lodato altamente e che lui ne era stato felicissimo. E che allora erano venuti da me e che durante la strada avevano buttato giù birra e panini imbottiti. Il signor Dick era così compiaciuto mentre se ne stava seduto ai piedi del letto, accarezzandosi una gamba e raccontandomi tutto questo, con gli occhi spalancati e un sorriso di meraviglia, che fui spinto, mi dispiace dirlo, a spiegargli che rovina significa strettezze, bisogno e fame; ma fui subito amaramente punito di questa durezza nel vedere il suo volto impallidire e le lacrime scivolare lungo le sue gote allungate, mentre egli fissava su di me uno sguardo di così inesprimibile angoscia da intenerire un cuore molto più rude del mio. Mi fu infinitamente più difficile ritirarlo su e fargli animo che non abbatterlo; e presto capii (cosa che avrei dovuto far fin da prima) che era stato così fiducioso solo per la sua fede nella più saggia e meravigliosa delle donne e il suo illimitato affidamento sulle mie risorse mentali. Queste ultime, credo, erano da lui considerate una difesa per qualunque genere di disastro non assolutamente mortale. «Che dobbiamo fare, Trotwood?» chiese il signor Dick. «C'è il Memoriale...» «Certo che c'è,» dissi io. «Ma tutto quello che possiamo fare per ora, signor Dick, è di mantenere un contegno allegro in modo che la zia non si accorga che siamo preoccupati.» Assentì a questo col massimo calore; e mi scongiurò, se mai lo vedessi sgarrare di un pollice dalla linea giusta, di richiamarlo con qualcuno di quei metodi superiori che erano sempre a mia disposizione. Ma sono spiacente di riconoscere che la paura che gli avevo messo addosso era troppo al di sopra dei suoi migliori tentativi per tenere il segreto. Per tutta la sera i suoi occhi vagarono verso il volto di mia zia con l'espressione della più angosciata ansia come se la vedesse assottigliarsi di momento in momento. Lui ne era consapevole e cercava di dominare i movimenti della testa; ma, tenendola immobile e ruotando gli occhi come se ci fosse dentro un meccanismo, mentre se ne stava seduto, non migliorava affatto le cose. A desinare lo vidi guardare il pane (che per caso era un po' scarso) come se non ci fosse più nulla tra noi e la fame; e quando mia zia insistette perché facesse il suo pasto abituale, lo scoprii nell'atto di mettersi in tasca pezzetti del suo pane e del suo formaggio, con l'evidente proposito di tenerci in vita con queste risorse quando avessimo raggiunto un avanzato stato di denutrizione. La zia, d'altra parte, serbava una tranquillità che era un insegnamento per tutti noi... per me senz'altro. Fu quanto mai gentile con Peggotty, eccetto quando inavvertitamente la chiamai con questo nome; e, per quanto sapessi che si sentiva del tutto estranea in Londra, sembrava a casa sua. Avrebbe dormito nel mio letto e io in salotto, per farle la guardia. Diede molta importanza al fatto che eravamo così vicini al fiume, in caso di incendio; e penso che trovasse davvero una certa soddisfazione in questa circostanza. «Trot, mio caro,» disse la zia nel vedermi fare i preparativi per la sua bibita serale. «No.» «Non vuoi, zia?» «Non vino, caro. Birra.» «Ma il vino c'è, zia. E l'abbiamo sempre fatta col vino.» «Tienlo da conto in caso di malattia,» disse la zia. «Non dobbiamo usarlo sconsideratamente, Trot. Per me va bene la birra. Mezza pinta.» Pensai che il signor Dick sarebbe caduto privo di sensi. Ma poiché la zia era decisa, uscii per acquistare io stesso la birra. E siccome era ormai tardi, Peggotty e il signor Dick colsero l'occasione per andare insieme alla drogheria. Mi separai da lui, pover'uomo, all'angolo della strada, e lo lasciai col suo grande aquilone sulle spalle, vero monumento all'umana infelicità. Quando tornai, la zia stava camminando su e giù per la stanza, gualcendo con le dita gli orli della sua cuffia da notte. Scaldai la birra e preparai il crostino secondo i soliti infallibili principi. Quando fu pronto, anche lei era pronta, con la cuffia in testa e l'orlo della veste rimboccato sulle ginocchia. «Caro,» disse la zia dopo aver preso un cucchiaio della sua bibita, «è molto meglio del vino. Per nulla così bilioso.» Suppongo di essermi mostrato piuttosto in dubbio, perché aggiunse: «Zitto, zitto, ragazzo. Se non ci capita niente di peggio della birra possiamo esser contenti.» «Lo crederei anch'io, zia; ne son sicuro,» dissi. «E allora perché non lo credi?» ribatté lei. «Perché tu e io siamo molto diversi,» risposi. «Sciocchezze, assurdità, Trot!» mi rimbeccò la zia. Con un tranquillo compiacimento nel quale v'era ben poca affettazione, se pur ve n'era, la zia continuò a prendere a cucchiai la sua birra calda inzuppandovi le fette del crostino. «Trot,» disse, «in genere non amo le facce nuove, ma questa tua Barkis mi è piuttosto simpatica, sai?» «Preferisco sentirti dire così che avere cento sterline in tasca,» risposi. «Questo mondo è assolutamente straordinario,» notò la zia grattandosi il naso. «Non riesco a capire come quella donna abbia potuto entrarci con un nome simile. Si direbbe che sia molto più facile nascere come una Jackson o qualche cosa del genere.» «Forse lo pensa anche lei; non è sua colpa,» dissi. «Suppongo che non lo sia,» rispose la zia piuttosto riluttante ad ammetterlo; «ma è proprio indisponente. Comunque adesso è Barkis. E questo è confortante. Barkis ti vuole un bene dell'anima, Trot.» «Farebbe di tutto per dimostrarlo,» dissi. «Proprio di tutto, credo,» rispose la zia. «Per esempio quella povera matta non ha fatto che pregare e implorare per darci un po' del suo denaro... perché ne ha fin troppo. Un'ingenua!» Le lacrime di gioia della zia gocciavano letteralmente nella birra calda. «È la più ridicola creatura che sia mai venuta al mondo,» continuò la zia. «L'ho capito fin dal primo momento che la vidi con quella povera cara bambina di tua madre, che era la più ridicola dei mortali. Ma vi sono delle buone qualità in Barkis!» Fingendo di ridere colse l'occasione per portarsi una mano agli occhi. Dopo di che riprese insieme il crostino e il discorso. «Ah! Dio ci aiuti!» sospirò la zia. «So tutto, Trot! Barkis e io abbiamo fatto una completa conversazione mentre tu eri via con Dick. So tutto. Da parte mia non capisco dove queste disgraziate ragazze credano di andare. Mi meraviglio che non si rompano la testa contro... contro la mensola del camino,» disse la zia; idea questa che probabilmente le fu suggerita dal fatto che contemplava quella del mio. «Povera Emily!» dissi. «Oh, non parlarmi di povere,» ribatté la zia. «Avrebbe dovuto pensarci prima di provocare tutto questo guaio! Dammi un bacio, Trot. Mi dispiace di questa tua esperienza precoce.» Mentre mi chinavo in avanti, mi pose il bicchiere sul ginocchio per fermarmi e disse: «Oh, Trot, Trot! E così ti immagini di essere innamorato, non è vero?» «Mi immagino, zia?» esclamai, rosso quanto potevo esserlo. «L'adoro con tutta l'anima!» «Dora, già!» rispose la zia. «E vuoi dire che quella cosina è molto affascinante, suppongo.» «Mia cara zia,» risposi, «nessuno può farsi la minima idea di quello che è!» «Ah! E non è sciocca?» chiese la zia. «Sciocca, zia?» Penso seriamente che non mi fosse mai passato per la testa, nemmeno per un attimo, di domandarmi se lo fosse o no. Naturalmente fui ferito da quell'idea; ma ne fui in certo modo colpito, come da un'idea del tutto nuova. «Non è leggerina?» insisté la zia. «Leggerina, zia?» Potei solo ripetere questa audace insinuazione con gli stessi sentimenti con cui avevo ripetuto la precedente domanda. «Be', be',» disse la zia. «Non faccio che domandare. Non la disprezzo. Povera coppietta! E così pensi che siate fatti l'uno per l'altro e che possiate affrontar la vita come un banchetto, come due pasticcini, eh, Trot?» Me lo domandò così affettuosamente e con un tono così gentile, metà giocoso e metà serio, che ne fui profondamente commosso. «Siamo giovani e senza esperienza, zia, lo so,» risposi; «e oso dire che diciamo e pensiamo una quantità di sciocchezze. Ma ci amiamo seriamente, ne sono sicuro. E se penso che Dora possa amare un altro o cessare di amare me, o che io possa amare un'altra e cessare di amare lei, non so cosa farei... credo che diventerei matto.» «Ah, Trot!» disse la zia scuotendo la testa. e sorridendo gravemente; «cieco, cieco, cieco!» «Qualcuno che conosco, Trot,» proseguì la zia dopo una pausa, «sebbene di carattere molto docile, ha una serietà nei suoi affetti che mi ricorda quella povera bambina. E la serietà è quello a cui questo qualcuno deve mirare, perché lo sostenga e lo renda migliore, Trot. Profonda, schietta, costante serietà.» «Se tu solo conoscessi la serietà di Dora, zia!» esclamai. «Oh, Trot,» ripeté, «cieco, cieco!» E senza sapere perché, ebbi la vaga, angosciosa impressione di una perdita, della mancanza di qualche cosa, che mi copriva d'ombra come una nube. «Comunque,» disse la zia, «non voglio far perdere la fiducia in se stesse a due giovani creature, né renderle infelici; così, sebbene si tratti dell'affetto di una ragazzina e di un ragazzo, e gli affetti fra una ragazzina e un ragazzo molto spesso - bada! non dico sempre - finiscano in nulla, lo prenderemo sul serio e spero che, uno di questi giorni, giunga a una felice conclusione. Abbiamo davanti tanto tempo che può giungere dappertutto.» Questo, tutto considerato, non era molto confortante per un innamorato in delirio; ma fui lieto di essermi confidato alla zia e cominciai a pensare che doveva essere stanca. La ringraziai dunque fervidamente per i suoi segni di affetto e per tutte le bontà che mi aveva rivolto, e, dopo un tenero «buona notte», lei se ne andò con la sua cuffia nella mia stanza. Quanto mi sentii infelice, non appena coricato! Quanto pensai e ripensai al fatto che ero povero agli occhi del signor Spenlow; che non ero più quello che credevo di essere quando mi ero dichiarato a Dora; alla cavalleresca necessità di palesare a Dora quale era la mia attuale condizione e di liberarla dal suo impegno se lo credeva opportuno; a come avrei potuto vivere durante il lungo periodo di apprendistato, durante il quale non avrei guadagnato nulla; al dover fare qualche cosa per venire in aiuto della zia, senza vedere alcun modo per far qualcosa; all'essere ridotto a non avere più un soldo in tasca, costretto a indossare abiti frusti, nell'impossibilità di fare regalucci a Dora, di cavalcare ardenti pomellati, di mostrarmi in bella luce! Per quanto sordido ed egoista fosse il lasciar correre così la mente sulle mie sole disgrazie, e pur torturandomi nel rendermi conto che lo era, mi sentivo così devoto a Dora che non potevo farne a meno. Sapevo che era vile, da parte mia, non pensare di più alla zia e meno a me stesso; ma, al punto in cui ero, l'egoismo era inseparabile da Dora e non potevo dare la precedenza su Dora a nessuna creatura mortale. Quanto fui profondamente infelice, quella notte! Quanto a dormire, ebbi ogni sorta di sogni di miseria, ma mi parve di sognare senza la previa cerimonia di addormentarmi. Ora ero un pezzente che cercava di vendere fiammiferi a Dora, sei scatole per mezzo penny; ora mi trovavo nello studio in camicia da notte e scarpe, rimproverato dal signor Spenlow perché mi presentavo ai clienti in quel leggero abbigliamento; ora raccoglievo affamato le briciole che cadevano dal quotidiano biscotto del vecchio Tiffey, regolarmente consumato quando l'orologio di San Paolo batteva l'una; ora tentavo disperatamente di ottenere una licenza matrimoniale per sposare Dora, senza avere altro da offrire in cambio se non uno dei guanti di Uriah Heep, respinto da tutti i Commons; e tuttavia, più o meno consapevole di essere nella mia stanza, continuavo ad agitarmi e voltarmi come una nave in pericolo in un mare di coperte. Anche la zia era agitata perché la udii spesso camminare su e giù. Due o tre volte, nel corso della notte, avvolta in una lunga vestaglia di flanella che la faceva apparire alta sette piedi, apparve nella mia stanza come un'anima in pena e venne al fianco del divano su cui giacevo. La prima volta balzai su allarmato per sentirmi dire che, da una particolare luminosità del cielo, ella arguiva che l'abbazia di Westminster fosse in fiamme, ed essere consultato sulla possibilità che, qualora il vento cambiasse, il fuoco potesse giungere fino a Buckingham Street. Più tardi, mentre giacevo immobile, la trovai seduta presso di me che mormorava fra sé: «Povero ragazzo!» E allora mi sentii cento volte più disgraziato nel rendermi conto di quanto generosamente ella si preoccupava di me e di quanto egoisticamente io pensassi solo a me stesso. Era difficile pensare che una notte così lunga per me potesse essere breve per qualsiasi altro. Questa considerazione mi fece pensare e ripensare a un immaginario ricevimento in cui la gente non faceva che danzare, finché anche questo divenne un sogno e vidi Dora continuamente impegnata in una danza senza darsi di me il minimo pensiero. Colui che aveva suonato l'arpa per tutta la notte stava tentando invano di coprirla con un normale berretto da notte, quando mi svegliai; o piuttosto dovrei dire quando smisi di cercare di addormentarmi, e vidi finalmente il sole brillare attraverso la finestra. In quei tempi, all'estremità di una delle strade che partono dallo Strand, c'era - e forse c'è ancora - un vecchio bagno romano nel quale feci parecchi bagni freddi. Vestitomi più silenziosamente che potei e lasciando a Peggotty la cura di assistere la zia, mi ci precipitai a testa avanti, e poi andai a fare una passeggiata a Hampstead. Speravo che quel trattamento vigoroso mi rinfrescasse gli spiriti; e penso che fece loro bene perché venni subito alla conclusione che il primo passo da fare era di vedere se il mio apprendistato si potesse annullare recuperandone il premio relativo. Feci colazione alla buona nella brughiera e poi mi avviai ai Doctors' Commons lungo le vie acquose e tra un piacevole profumo di fiori estivi che crescevano nei giardini ed erano portati in città sulla testa dei venditori ambulanti, tutto intento a questo primo sforzo per venire incontro alla nostra mutata condizione. Pur dopo aver fatto tante cose, arrivai all'ufficio così presto che dovetti bighellonare per mezz'ora attorno ai Commons prima che il vecchio Tiffey, che era sempre il più mattiniero, apparisse con la chiave. Allora mi sedetti nel mio angolo in ombra contemplando il sole sui comignoli che avevo in fronte e pensando a Dora; finché arrivò il signor Spenlow fresco e arricciato. «Come state, Copperfield?» chiese. «Bella mattinata.» «Bella mattinata,» risposi. «Posso dirvi una parola prima che andiate in tribunale?» «Naturalmente,» disse. «Venite nella mia stanza.» Lo seguii nella sua stanza, ed egli cominciò a infilarsi la toga e a ritoccarsi davanti a uno specchietto che aveva appeso sul lato interno dello sportello di un armadio. «Sono spiacente di dirvi,» cominciai, «che ho delle nuove piuttosto brutte su mia zia.» «No!» esclamò. «Oh diamine! Non è una paralisi, spero.» «Non mi riferisco alla sua salute, signore,» risposi. «Ha avuto delle grosse perdite. Insomma, le è rimasto proprio assai poco.» «Mi fate stra... biliare, Copperfield!» gridò il signor Spenlow. Scossi la testa. «In realtà, signore,» dissi, «la sua situazione è così cambiata che vorrei domandarvi se fosse possibile... pur sacrificando una certa parte del premio, naturalmente,» dissi questo sotto il pungolo del momento, messo sull'avviso dall'espressione vacua del suo volto, «annullare il mio contratto di apprendistato.» Quello che mi costò fare questa proposta nessuno lo sa. Era come chiedere, per favore, di essere condannato alla deportazione lungi da Dora. «Annullare il vostro apprendistato, Copperfield? Annullarlo?» Spiegai con una certa fermezza che non sapevo proprio di dove potessero venire i miei mezzi di sussistenza se non riuscivo a guadagnarmeli da solo. Non avevo paura per il futuro, dissi - e misi una grande enfasi in questo come per sottintendere che, un giorno o l'altro, sarei stato un genero decisamente accettabile - ma per il momento dovevo ricorrere alle mie sole risorse. «Sono quanto mai spiacente di udir questo, Copperfield,» disse il signor Spenlow. «Quanto mai spiacente. Non è cosa consueta annullare gli apprendistati per ragioni simili. Non è un modo di procedere professionale. Non è affatto un precedente che convenga. Tutt'altro. In egual tempo però...» «Siete molto buono, signore,» mormorai prevedendo una concessione. «Niente affatto. Non parlatene nemmeno,» ribatté il signor Spenlow. «In egual tempo, stavo per dire, se avessi le mani libere... se non avessi un socio... il signor Jorkins...» Le mie speranze furono sbaragliate in un attimo, ma feci un altro tentativo. «Non credete, signore,» dissi, «che se parlassi io al signor Jorkins...» Il signor Spenlow scosse la testa in modo scoraggiante. «Non voglia il cielo, Copperfield,» rispose, «che io faccia ingiustizia a qualcuno, e tanto meno al signor Jorkins. Ma conosco il mio socio, Copperfield. Il signor Jorkins non è uomo da venire incontro a una proposta di questa peculiare natura. Il signor Jorkins molto difficilmente esce dalla strada battuta. Voi lo conoscete.» Sono certo che non sapevo nulla di lui se non che un tempo era da solo negli affari e adesso viveva per conto suo in una casa presso Montagu Square, che aveva un pauroso bisogno di essere ridipinta; che arrivava molto tardi e se ne andava molto presto; che sembrava non venir mai consultato su qualche cosa; e che aveva uno squallido stambugio al piano di sopra, dove non si concludeva mai nulla e sulla cui scrivania c'era una solida copertura di carta gialla, senza una macchia di inchiostro sebbene considerata vecchia di vent'anni. «Avreste nulla in contrario a che ne parlassi a lui, signore?» chiesi. «Assolutamente no,» disse il signor Spenlow. «Ma ho una certa esperienza del signor Jorkins, caro Copperfield. Vorrei che non fosse così perché sarei felice di accontentare i vostri desideri sotto ogni aspetto. Non posso fare alcuna obiezione a che parliate col signor Jorkins, Copperfield, se credete che possa servire a qualche cosa.» Valendomi del suo permesso, che mi fu dato con una calda stretta di mano, mi sedetti pensando a Dora e guardando il sole che scivolava dai comignoli lungo la facciata della casa di fronte, finché arrivò il signor Jorkins. Allora salii nella stanza del signor Jorkins e, evidentemente, stupii moltissimo lo stesso signor Jorkins facendo lì la mia comparsa. «Entrate, signor Copperfield,» disse il signor Jorkins. «Entrate!» Entrai, mi sedetti e spiegai il mio caso al signor Jorkins così come lo avevo spiegato al signor Spenlow. Il signor Jorkins non era assolutamente quella terrificante creatura che ci si può immaginare, ma un uomo sulla sessantina, grasso, mite, col volto liscio, il quale tirava su tante prese di tabacco da far nascere ai Commons la leggenda che vivesse principalmente di questo stimolante essendoci poco spazio, nel suo sistema, per accogliere qualsiasi altro sostentamento dietetico. «Suppongo che ne avrete parlato col signor Spenlow,» disse il signor Jorkins dopo avermi udito, con molta agitazione, fino in fondo. Risposi di sì e gli dissi che il signor Spenlow aveva fatto il suo nome. «E ha detto che avrei fatto obiezione?» chiese il signor Jorkins. Fui costretto ad ammettere che il signor Spenlow lo aveva considerato probabile. «Sono spiacente di dirvi, signor Copperfield, che non posso accogliere la vostra proposta,» disse il signor Jorkins nervosamente. «Il fatto è... ma ho un appuntamento in banca, se volete avere la bontà di scusarmi.» Con questo si alzò in gran furia e stava uscendo dalla stanza quando io mi feci coraggio per dirgli che, in tal caso, temevo non ci fosse modo di venire a un accomodamento. «No!» dichiarò il signor Jorkins fermandosi sulla soglia e scuotendo la testa. «Oh, no! Faccio obiezione, capite?» Lo disse molto rapidamente e uscì. «Dovete rendervi conto, signor Copperfield,» aggiunse riaffacciandosi tutto agitato alla porta, «che se il signor Spenlow si oppone...» «Personalmente lui non si oppone, signore,» dissi. «Oh! Personalmente!» ripeté il signor Jorkins in tono impaziente. «Vi assicuro che ci sono delle obiezioni, signor Copperfield. Niente da fare. Quello che desiderate non è possibile. Io... io ho davvero un appuntamento in banca.» E con questo scappò letteralmente via; per quanto sappia stette tre giorni senza farsi vedere ai Commons. Poiché tenevo molto a non lasciar nulla di intentato, aspettai che il signor Spenlow tornasse e poi gli esposi quello che era avvenuto, facendogli capire di non aver perso la speranza che lui riuscisse ad addolcire l'adamantino Jorkins, se voleva occuparsene. «Copperfield,» rispose il signor Spenlow con un benigno sorriso, «voi non avete conosciuto il mio socio, Jorkins, così a lungo come l'ho conosciuto io. Nulla è più lontano dai miei pensieri che attribuire al signor Jorkins un'ombra di artificio. Ma il signor Jorkins ha un modo di esprimere le sue obiezioni che spesso inganna la gente. No, Copperfield!» concluse scuotendo la testa. «Il signor Jorkins è irremovibile, credete a me!» Ero completamente disorientato fra il signor Spenlow e il signor Jorkins, non riuscendo a capire quale dei due fosse realmente l'oppositore; ma vidi con sufficiente chiarezza che vi era un'ostinazione in qualche parte della ditta e che il ricupero delle mille sterline di mia zia era fuori questione. In uno stato di scoraggiamento che ricordo con tutto fuorché con soddisfazione, perché so che si riferiva troppo a me stesso (sebbene sempre in rapporto a Dora), lasciai l'ufficio e mi avviai verso casa. Tentavo di rendermi familiare l'idea del peggio e di passare in rivista i provvedimenti che avremmo dovuto prendere per il futuro, nel suo aspetto più fosco, quando una vettura da nolo, che veniva alle mie spalle e si fermò proprio al mio fianco, mi fece alzare gli occhi. Una bella mano era tesa verso di me fuori del finestrino; e il volto che non avevo mai visto senza un sentimento di serena felicità fin dal momento in cui si era voltato verso di me sulla vecchia scala di quercia dalla grande e larga balaustrata e io avevo associato la sua delicata bellezza alle vetrate della chiesa, mi sorrideva. «Agnes!» gridai pieno di gioia. «Oh, mia cara Agnes, che piacere vedere proprio te fra tutti quelli che sono al mondo!» «Davvero?» chiese lei con voce cordiale. «Desidero tanto parlare con te!» dissi. «È un tal sollievo per il mio cuore solo vederti! Se avessi avuto una bacchetta magica, non avrei evocato nessun altro che te.» «Come?» ribatté Agnes. «Be', forse avrei dato la precedenza a Dora,» ammisi arrossendo. «Certo, spero che Dora venga per prima,» disse Agnes ridendo. «Ma tu subito dopo,» risposi. «Dove stai andando?» Era diretta a casa mia per far visita alla zia. Poiché era una giornata bellissima, fu lieta di uscire dalla carrozza, che odorava (c'ero stato con la testa dentro per tutto quel tempo) come una stalla tenuta sotto una serra. Congedai il vetturino, lei mi prese il braccio e ci avviammo insieme. Era per me la speranza fatta persona. Come mi sentii diverso in un attimo, con Agnes a fianco! Mia zia le aveva scritto uno di quei suoi strani e bruschi biglietti - ben poco più lunghi di un biglietto di banca - a cui si limitavano in genere i suoi sforzi epistolari. Aveva detto di essere caduta in difficoltà e che stava per lasciare Dover per sempre, ma si era completamente rassegnata e stava così bene che nessuno doveva preoccuparsi per lei. Agnes era venuta a Londra per vedere la zia: si era stabilita fra loro, in quegli ultimi anni, una reciproca amicizia, che in realtà datava dal tempo in cui ero andato ad abitare in casa del signor Wickfield. Non era sola, mi disse. Il suo papà era con lei... e Uriah Heep. «E adesso sono soci,» dissi. «Che sia maledetto!» «Sì,» rispose Agnes. «Hanno degli affari qui; e ho colto l'occasione della loro venuta per venire anch'io. Non devi pensare che la mia visita sia solo amichevole e disinteressata, Trotwood, perché - forse sarà un ingiusto pregiudizio - non mi piace che papà si metta in viaggio da solo, con lui.» «Esercita sempre la stessa influenza sul signor Wickfield, Agnes?» Agnes scosse la testa. «È avvenuto un tale cambiamento a casa nostra,» disse, «che non riconosceresti più la cara vecchia casa. Adesso vivono con noi.» «Chi?» chiesi. «Il signor Heep e sua madre. Lui dorme nella tua vecchia stanza,» disse Agnes guardandomi in faccia. «Vorrei poter comandare i suoi sogni,» risposi. «Non ci dormirebbe a lungo.» «Io ho mantenuto la mia stanzetta,» disse Agnes, «in cui solevo studiare. Come fugge il tempo! Ricordi? La stanzetta a pannelli che dà sul salotto.» «Se ricordo, Agnes? Quando ti vidi per la prima volta uscire da lì, col tuo strano panierino delle chiavi al fianco?» «È ancora tale e quale,» rispose Agnes ridendo. «Sono lieta che te ne ricordi con tanto piacere. Eravamo così felici.» «Lo eravamo davvero,» dissi. «Tengo ancora per me quella stanza; ma non posso lasciar sempre sola la signora Heep, capisci. E così,» disse calma Agnes, «mi sento obbligata a farle compagnia quando preferirei esser sola. Ma non ho altre ragioni per lamentarmi di lei. Se a volte mi stanca a forza di tesser gli elogi di suo figlio, è cosa naturale, in una madre. E lui si comporta da buon figlio verso di lei.» Nel sentirle dire queste parole, guardai Agnes senza scoprire in lei alcun indizio che conoscesse i progetti di Uriah. I suoi occhi dolci, ma seri incontrarono i miei con la loro bella franchezza, e non v'era mutamento nel suo volto gentile. «Il peggio della loro presenza in casa nostra,» continuò Agnes «è che non posso stare vicina a papà come vorrei - Uriah Heep è sempre fra noi - e non posso vegliare su di lui, se questa non è un'espressione troppo ardita, da presso come sarebbe mio desiderio. Ma se ordiscono contro di lui qualche frode o tradimento, spero che l'amore e la verità, da soli, finiscano con l'essere più forti. Spero che il vero amore e la verità finiscano con il rivelarsi più forti di ogni male o di ogni disgrazia che possano capitare.» Un certo sorriso luminoso, che io mai non vidi su alcun altro volto, scomparve proprio mentre pensavo quanto era bello e quanto mi era stato familiare un tempo; ed ella mi domandò, con un rapido mutamento di espressione (eravamo ormai vicinissimi alla mia strada) se sapevo come era avvenuto il disastro di mia zia. Dopo che ebbi risposto di no, che la zia non me lo aveva ancora detto, Agnes divenne pensosa e mi parve di sentire il suo braccio tremare nel mio. Trovammo la zia sola, in un certo stato di agitazione. Era sorta una discussione fra lei e la signora Crupp, a proposito di una questione astratta (se stesse bene che gli appartamenti ammobiliati fossero occupati dal gentil sesso); e la zia, del tutto indifferente agli spasimi della signora Crupp, aveva tagliato corto avvertendo questa signora che puzzava della mia acquavite e che la pregava di darsi la pena di andarsene. La signora Crupp aveva considerato entrambe queste espressioni come perseguibili in giudizio, ed espresso la sua intenzione di portarle davanti a una «Giudìa inglese» - intendendo con queste parole, credo, il baluardo delle nostre libertà nazionali. La zia, comunque, avendo avuto il tempo per raffreddarsi, mentre Peggotty era fuori per far vedere al signor Dick i soldati della Guardia a cavallo - ed essendo inoltre molto contenta di vedere Agnes - era piuttosto soddisfatta che non di tutta la faccenda e ci ricevette con inalterato buon umore. Quando Agnes ebbe posto sul tavolo il suo cappello e le si fu seduta a lato, non potei fare a meno di pensare, guardando i suoi dolci occhi e la sua fronte radiosa, come sembrasse naturale averla lì; con quanta fiducia mia zia si confidasse a lei, pur così giovane e inesperta; quanto ella fosse forte, in realtà, nella sua semplice e affettuosa schiettezza. Cominciammo a parlare delle perdite della zia, e allora esposi ciò che avevo tentato di fare il mattino. «È stata una cosa poco giudiziosa, Trot,» disse la zia, «ma l'hai fatta con buone intenzioni. Sei un ragazzo generoso - penso che adesso devo dire un giovane - e sono fiera di te, mio caro. Fin qui, tutto bene. Ora, Trot e Agnes, guardate in faccia il caso di Betsey Trotwood e considerate come stanno le cose.» Notai che Agnes impallidiva, fissando attentamente la zia; ed essa, accarezzando il gatto, fissò attentamente Agnes. «Betsey Trotwood,» disse la zia, che aveva sempre tenuto per sé i suoi affari finanziari: «- non alludo a tua sorella, caro Trot, ma a me stessa - aveva un certo patrimonio. Poco importa quanto; abbastanza per viverci. Di più, anzi, perché aveva fatto dei piccoli risparmi e li aveva aggiunti al capitale. Betsey investì per qualche tempo il patrimonio in pubbliche obbligazioni, e poi, per consiglio del suo agente, in ipoteche immobiliari. Fu un'ottima cosa e diede buoni interessi, finché il denaro fu restituito a Betsey. Parlo di Betsey come dell'eroe di un romanzo cavalleresco. Bene! Allora Betsey dovette guardarsi attorno per un nuovo investimento. Adesso credette di essere più brava del suo agente che nel frattempo era divenuto meno accorto di una volta - alludo a tuo padre, Agnes - e si mise in testa di investirlo per conto suo. Così portò i suoi maiali,» disse la zia, «a un altro mercato, che si rivelò essere un pessimo mercato. Dapprima perse nelle miniere, e poi perse nei ricuperi marittimi - pesca di tesori e altre sciocchezze da Tom Tiddler -» spiegò la zia strofinandosi il naso; «e poi perse ancora nelle miniere, e, alla fine di tutto, per coronare degnamente la faccenda, perse in banca. Non so quanto rendessero, per poco tempo, le azioni della banca,» continuò la zia; «credo che il minimo fosse il cento per cento; ma la banca era all'altro capo del mondo e, per quanto sappia, saltò per aria; comunque andò in pezzi e non vorrà né potrà mai pagare sei pence; e i sei pence di Betsey erano tutti lì, e questa fu la loro fine. Meno se ne parla meglio è.» La zia concluse questo filosofico sommario fissando gli occhi, con un'espressione di affettuoso trionfo, su Agnes, sul cui volto tornavano a poco a poco i colori. «Mia cara signorina Trotwood, è tutta qui la storia?» chiese Agnes. «Spero che ce ne sia abbastanza, bambina mia,» rispose la zia. «Se ci fosse stato altro denaro da perdere non sarebbe stata tutta qui, oso dire. Betsey avrebbe fatto in modo di gettare anche quello dietro il resto e avrebbe scritto un altro capitolo, non ne dubito. Ma non c'era più denaro e non ci fu più storia.» Agnes aveva ascoltato dapprima col fiato sospeso. Adesso il suo colorito continuava ad andare e venire, ma ella respirava più liberamente. Credetti di sapere perché. Pensai che avesse temuto che il suo disgraziato padre potesse essere in qualche modo responsabile di ciò che era accaduto. Mia zia le prese la mano fra le sue, e rise. «È tutto qui?» ripeté. «Diamine, sì, è tutto qui, eccetto ‹e poi visse sempre felice e contenta.› Può darsi che un giorno o l'altro questo si possa aggiungere alla storia di Betsey. Adesso, Agnes, tu hai la testa a posto. E anche tu, Trot, in certe cose, sebbene non possa sempre farti i miei complimenti»; e qui la zia scosse la testa verso di me con un'energia tutta sua particolare. «Cosa dobbiamo fare? C'è la villa che, in media, può rendere, diciamo, settanta sterline l'anno. Credo che si possa con sicurezza far conto su questo. Bene! Questo è tutto quello che abbiamo,» disse la zia, che, al pari di alcuni cavalli, aveva l'estro di fermarsi bruscamente quando sembrava bene avviata e pronta a continuare per un pezzo. «Poi,» riprese dopo una pausa, «c'è Dick. Vale un cento sterline l'anno, ma naturalmente queste devono essere per lui. Preferirei mandarlo via, pur sapendo di essere l'unica persona che lo apprezza, che tenerlo con me e non spendere per lui il suo denaro. Come potremo, Trot e io, arrangiarci coi nostri mezzi? Che ne dici, Agnes?» «Io dico,» dichiarai, «che devo fare qualche cosa.» «Arruolarti come soldato, vuoi dire?» disse la zia allarmata; «o andare per mare? Non voglio sentirne parlare. Tu devi diventare procuratore ecclesiastico. Non vogliamo vivere in continue apprensioni, in questa famiglia, col tuo permesso, signorino.» Io stavo per spiegarle che non intendevo introdurre in famiglia tali mezzi di sussistenza, quando Agnes chiese se le mie stanze erano affittate per lungo termine. «Sei venuta al punto, mia cara,» disse la zia. «Non potremo liberarcene per almeno sei mesi, a meno che non le subaffittiamo, cosa che non credo possibile. L'ultimo inquilino è morto qui. E cinque inquilini su sei ci morirebbero; naturalmente, con quella donna in nanchino e gonna di flanella. Ho un po' di denaro spicciolo; e sono d'accordo con te che la miglior cosa da fare è di stare qui fino alla scadenza dell'affitto e cercare una stanza qui vicino per Dick.» Credetti mio dovere accennare al disagio che mia zia avrebbe avuto nel vivere in uno stato di continua guerriglia con la signora Crupp; ma lei liquidò sommariamente questa obiezione dichiarando che, alla prima dimostrazione di ostilità, era pronta a sbigottire la signora Crupp per tutto il resto della sua vita. «Stavo pensando, Trotwood,» disse Agnes esitante, «che, se tu avessi del tempo libero...» «Ho tutto il tempo che voglio, Agnes. Sono sempre disimpegnato dopo le quattro o le cinque, e ho tempo il mattino presto. In un modo o in un altro,» dissi rendendomi conto di arrossire all'idea delle ore e ore che avevo dedicato a sfacchinare per la città e su e giù per la strada di Norwood, «ho tempo in abbondanza.» «So che non rifiuteresti,» proseguì Agnes avvicinandosi a me e parlando a voce bassa, con un interessamento così dolce e pieno di speranza che mi sembra di udirla ancora adesso, «un posto di segretario.» «Rifiutarlo, Agnes?» «Perché,» continuò Agnes, «il dottor Strong ha messo in atto la sua intenzione di ritirarsi ed è venuto a vivere a Londra; e so che ha chiesto a papà se aveva qualcuno da raccomandargli. Non pensi che preferirebbe avere con sé il suo allievo favorito piuttosto che un altro?» «Cara Agnes!» esclamai. «Che cosa farei senza di te? Sei sempre il mio buon angelo, te l'ho già detto. Non riesco a pensarti in altra luce.» Agnes rispose col suo piacevole riso che un angelo buono (intendeva Dora) era sufficiente; e proseguì ricordandomi che il dottore era solito darsi ai suoi studi il mattino presto e la sera, e che probabilmente i miei momenti liberi si sarebbero accordati benissimo con le sue esigenze. Non ero più felice della prospettiva di guadagnarmi il pane che della speranza di farlo sotto il mio vecchio maestro; in breve, seguendo il consiglio di Agnes, mi sedetti a scrivere una lettera al dottore esponendogli il mio desiderio e chiedendogli un appuntamento per le dieci del mattino dopo. La indirizzai a Highgate - perché abitava in quel luogo per me così memorabile - e andai a impostarla io stesso senza perdere un minuto. Dovunque fosse Agnes si avvertiva immancabilmente il segno della sua silenziosa presenza. Quando tornai, le gabbie degli uccelli di mia zia erano appese come lo erano state per tanto tempo nella villa, davanti alla finestra del salotto; e la mia poltrona, al pari di quella molto più comoda della zia, era disposta davanti alla finestra aperta; perfino il verde schermo rotondo, che la zia aveva portato con sé, era assicurato al davanzale. Capii chi aveva fatto tutto questo dal fatto che ogni cosa sembrava essersi messa chetamente al suo posto da sé; e mi sarei reso conto in un attimo di chi aveva disposto i miei trascurati libri nel vecchio ordine di quando andavo a scuola se avessi creduto Agnes lontana mille miglia invece di vederla occuparsene sorridendo del disordine in cui erano stati lasciati. La zia fu molto benevola nei riguardi del Tamigi (che davvero era molto bello, illuminato dal sole, sebbene non quanto il mare davanti alla villa), ma non sapeva conciliarsi con il fumo di Londra che, disse, «cospargeva di pepe ogni cosa». Una completa rivoluzione, nella quale Peggotty sosteneva la parte principale, era in pieno svolgimento in ogni angolo delle mie stanze, in considerazione appunto di questo pepe; e io stavo a guardarla pensando quanto poco perfino Peggotty sembrava fare con grande trambusto, e quanto faceva invece Agnes senza alcuno scompiglio, quando si udì battere alla porta. «Penso,» disse Agnes impallidendo, «che sia papà. Mi ha promesso che sarebbe venuto.» Aprii la porta e feci entrare non solo il signor Wickfield, ma anche Uriah Heep. Non avevo visto il signor Wickfield da qualche tempo. Dopo quello che avevo udito da Agnes, ero preparato a un grande cambiamento in lui, ma il suo aspetto mi colpì. Non perché appariva più vecchio di molti anni, sebbene vestito con l'antica scrupolosa proprietà; né per il malsano rossore del suo volto; né per gli occhi gonfi e sanguigni; né per il tremito nervoso della sua mano, di cui conoscevo la causa e che avevo osservato per molti anni. E non che avesse perso il suo bell'aspetto, il suo antico portamento signorile, perché li aveva ancora. Ma quello che mi colpì di più fu che, pur con i segni evidenti della sua originaria superiorità, egli si sottomettesse a quella strisciante personificazione della bassezza che era Uriah Heep. Il rovesciamento delle due nature nelle loro relative posizioni, di potere in Uriah e di dipendenza nel signor Wickfield, fu per me qualche cosa di più penoso che non possa esprimere. Se avessi visto una scimmia prendere il comando di un uomo, non avrei potuto considerarlo uno spettacolo più degradante. Egli appariva esserne perfin troppo consapevole. Appena entrato rimase fermo, con la testa china, come se lo sentisse nell'intimo. Ma fu solo per un momento, perché Agnes gli disse dolcemente: «Papà! Ecco qui la signorina Trotwood... e Trotwood, che non vedete da tanto tempo!» Allora si avvicinò e con un certo imbarazzo diede la mano alla zia stringendo poi più cordialmente la mia. Nella breve pausa a cui ho accennato, vidi il volto di Uriah atteggiarsi a un sorriso quanto mai sgradevole. Anche Agnes lo vide, perché si ritrasse da lui. Quello che vide o non vide la zia sfido la scienza fisiognomica a decifrarlo senza il consenso di lei. Credo che non ci fu mai alcuno con un'espressione imperturbabile come quella da lei assunta. In questa occasione il suo volto avrebbe potuto essere una parete cieca perché in esso nessuna luce tradiva i suoi pensieri; finché non ruppe il silenzio col suo solito fare brusco. «Bene, Wickfield!» disse mia zia; e per la prima volta egli alzò gli occhi su di lei. «Ho raccontato a vostra figlia come ho impiegato bene il mio denaro da sola, non potendo più confidare in voi che, in fatto di affari finanziari, vi eravate un po' arrugginito. Ci siamo consigliate insieme e, tutto considerato, ce la siamo cavata molto bene. A mio parere Agnes vale l'intera ditta.» «Se posso farlo umilmente notare,» disse Uriah Heep con una torsione, «sono pienamente d'accordo con la signorina Betsey Trotwood e non sarei che troppo felice se la signorina Agnes si associasse.» «Siete già divenuto socio voi, lo sapete,» rispose la zia, «e questo può bastarvi, mi sembra. Come vi trovate, adesso, signore?» In risposta a questa domanda, rivolta con singolare rudezza, il signor Heep, stringendo convulso e sconcertato la borsa azzurra che aveva, rispose che stava bene, che ringraziava la zia e che sperava stesse bene anche lei. «E voi, signorino... dovrei dire signor Copperfield,» continuò Uriah, «spero di trovarvi bene! Sono lieto di vedervi, signor Copperfield, anche nelle circostanze presenti.» Gli credetti senz'altro perché sembrava gustarle moltissimo. «Le circostanze attuali non sono quello che i vostri amici avrebbero desiderato per voi, signor Copperfield, ma non è il denaro quello che fa l'uomo: è... in verità con le mie umili capacità non riesco a esprimere che cosa è,» disse Uriah con uno strisciante sobbalzo, «ma non è il denaro!» A questo punto mi strinse la mano: non nel modo normale, ma restando a buona distanza da me e alzando e abbassando la mia mano come se fosse il manico di una pompa di cui avesse una certa paura. «E che aspetto vi sembra che abbiamo, signorino Copperfield... voglio dire signore?» riprese col solito tono strisciante. «Non trovate fiorente il signor Wickfield, signore? Gli anni non contano molto nella nostra ditta, signorino Copperfield, se non per sollevare gli umili, e precisamente mia madre e me... e nello sviluppare,» aggiunse come in un secondo pensiero, «la bellezza, e precisamente la signorina Agnes.» Dopo questo complimento fece un altro sobbalzo, in un modo così insopportabile che la zia, la quale era rimasta seduta fissandolo, perse tutta la sua pazienza. «Il diavolo se lo porti!» esclamò severamente, «che ha? Siete galvanico, signore?» «Vi chiedo scusa, signorina Trotwood,» rispose Uriah; «mi rendo conto che siete nervosa.» «Pensate ai fatti vostri, signore!» disse la zia tutt'altro che ammansita. «Non osate dir questo. Non sono niente di simile. Se siete un'anguilla, signore, comportatevi da anguilla. E se siete un uomo controllate le vostre membra, signore! Buon Dio!» continuò la zia con grande sdegno, «non voglio uscir di cervello a causa di questi movimenti da serpente o da cavatappi!» Il signor Heep rimase piuttosto avvilito da questa esplosione, che avrebbe avvilito anche parecchia altra gente e a cui aggiunse una particolare forza il modo sdegnato con cui la zia continuò poi ad agitarsi sulla sua poltrona, scuotendo la testa come se volesse balzar su di lui e addentarlo. Ma egli mi disse a parte, a bassa voce: «Capisco bene, signorino Copperfield, che la signorina Trotwood, sebbene sia un'eccellente signora, ha un carattere vivace (in realtà credo di avere avuto il piacere di conoscerla prima di voi, signorino Copperfield, quando ero scrivano) ed è assolutamente naturale, ne sono sicuro, che sia divenuto più vivace nelle circostanze attuali. Mi meraviglio anzi che non sia molto peggio! Io son venuto a farvi visita solo per dire che se ci fosse, nelle presenti circostanze, qualche cosa che noi potessimo fare, mia madre e io o la ditta Wickfield e Heep, ne saremmo veramente felici. Posso arrischiarmi a tanto?» disse Uriah volgendo un nauseante sorriso al suo socio. «Uriah Heep,» disse il signor Wickfield con tono monotono e forzato, «è molto attivo negli affari, caro Trotwood. Sono d'accordo con quanto dice. Come sapete, ho un antico interesse per voi. Ma indipendentemente da questo sono perfettamente d'accordo con quanto dice Uriah.» «Oh, quale premio è questo,» disse Uriah tirando su una gamba a rischio di farsi rotolare addosso un'altra reprimenda da parte della zia, «godere di tanta fiducia! Ma io spero di esser capace di far qualche cosa per alleggerirgli le fatiche degli affari, signorino Copperfield!» «Uriah Heep mi è di grande sollievo,» disse il signor Wickfield con la stessa voce spenta. «Mi sento sgravato da un peso, caro Trotwood, nell'avere un socio simile.» Sapevo che quella volpe rossa gli faceva dire tutto questo per mostrarmelo nella luce in cui me lo aveva descritto la notte in cui aveva intossicato il mio riposo. Vedevo di nuovo sul suo volto quel sorriso repellente e mi accorgevo di come mi fissava. «Non devi andare, papà?» chiese Agnes ansiosa. «Non vuoi tornare con Trotwood e con me?» Credo che lui avrebbe dato un'occhiata a Uriah prima di rispondere, se quel degno personaggio non lo avesse prevenuto. «Ho un impegno per affari,» disse Uriah; «altrimenti sarei stato felice di rimanere con i miei amici. Ma lascio il mio socio a rappresentare la ditta. Signorina Agnes, sempre ai vostri ordini! Vi auguro buon giorno, signorino Copperfield, e lascio i miei umili omaggi alla signorina Betsey Trotwood.» Con queste parole si ritirò, baciandosi la grande mano e guardandoci di traverso come una maschera. Noi restammo seduti parlando per un'ora o due dei nostri felici vecchi tempi di Canterbury. Il signor Wickfield, lasciato ad Agnes, divenne subito più simile a quello che era, sebbene si fosse fissata su di lui una depressione di cui non poté mai liberarsi. Tuttavia si rischiarò, e provava un evidente piacere nel sentirci rievocare i piccoli incidenti della nostra vecchia vita, molti dei quali ricordava benissimo. Disse che, nel trovarsi ancora solo con Agnes e con me gli sembrava di essere come allora, e fosse piaciuto al cielo che nulla fosse cambiato. Sono sicuro che nel placido volto di Agnes, nel semplice tocco della mano di lei sul suo braccio, v'era un influsso che faceva meraviglie su di lui. La zia (che per quasi tutto il tempo fu affaccendata con Peggotty nella stanza interna) non volle accompagnarci al loro alloggio, ma insisté perché andassi io; e andai. Pranzammo insieme. Dopo pranzo, Agnes gli sedette accanto, come un tempo, e gli versò il suo vino. Lui prese quello che ella gli aveva dato, e non più - come un bambino - e tutti e tre ci sedemmo davanti alla finestra mentre la sera si addensava. Quando fu quasi buio, egli si sdraiò sul divano mentre Agnes gli metteva un cuscino sotto la testa e rimaneva per un poco china su di lui; quando tornò alla finestra, non era così buio che io non potessi vederle le lacrime scintillare negli occhi. Prego il cielo di non poter mai dimenticare quella cara fanciulla nel suo schietto amore, in quel periodo della mia vita; perché se lo dimenticassi sarebbe indizio del mio avvicinarmi alla fine, e in quel momento vorrei ricordarla ancor più! Ella colmò il mio cuore di tanti buoni propositi, rafforzò talmente la mia debolezza col suo esempio, diresse così sicuramente - non so come perché era troppo modesta e gentile per darmi consigli con molte parole - il vagabondo ardore e i disordinati progetti che erano in me, che quel poco di bene che ho fatto e il male che ho impedito, credo solennemente di poterlo attribuire a lei. E come mi parlò di Dora, seduta alla finestra nell'ombra; come ascoltò le lodi che tessevo di lei; come tornò a lodarla lei stessa; e come diffuse attorno a quella figurina fatata qualche riflesso della sua pura luce, che la rese per me ancora più preziosa e innocente! Oh, Agnes, sorella della mia fanciullezza, se avessi saputo allora quello che seppi molto più tardi! Quando scesi, v'era nella strada un mendicante; e mentre alzavo la testa verso la finestra pensando ai calmi occhi serafici di lei, mi fece sussultare mormorando, come se fosse un eco delle parole del mattino: «Cieco! Cieco! Cieco!» XXXVI • ENTUSIASMO Iniziai il giorno dopo con un altro tuffo nel bagno romano, e poi mi misi in cammino per Highgate. Adesso non ero più scoraggiato. Non avevo paura degli abiti consunti né più desideravo ardenti pomellati. Tutto il mio modo di pensare sulla nostra recente disgrazia era mutato. Quel che dovevo fare era di mostrare alla zia che tutte le bontà che aveva avuto per me nel passato non erano state sprecate per un soggetto insensibile e ingrato. Quel che dovevo fare era di trar vantaggio dalla penosa disciplina dei miei anni più giovani per mettermi al lavoro con cuore fermo e deciso. Quello che dovevo fare era di afferrare l'ascia del pioniere e farmi strada nella foresta delle difficoltà tagliando alberi finché non arrivassi a Dora. E così tirai avanti di buon passo come se tutto potesse essere fatto a forza di camminare. Quando mi trovai sulla familiare strada di Highgate, intento a un fine così diverso da quello piacevole di un tempo, con cui quella strada era associata, mi parve che un completo cambiamento fosse avvenuto su tutta la mia vita. Ma questo non mi abbatté. Con la nuova vita venivano nuovi propositi e nuovi intenti. La fatica era grande, ma il premio inestimabile. Quel premio era Dora, e Dora doveva essere conquistata. Fui preso da un tale entusiasmo da sentirmi spiacente che il mio abito non fosse già un po' frusto. Volevo mettermi subito a tagliare quegli alberi nella foresta delle difficoltà, in circostanze che potessero dimostrare la mia forza. Pensai seriamente a chiedere a un vecchio dagli occhiali di rete di ferro, che spezzava pietre lungo la strada, di prestarmi per un poco il suo martello e permettermi di cominciare ad aprirmi nel granito la strada verso Dora. Mi accaldai e mi sfiatai tanto che mi pareva di aver guadagnato non so quanto. In questo stato entrai in un villino che, a quanto vedevo, era da affittare, e lo esaminai da vicino, perché sentivo necessario essere pratico. Sarebbe andato a meraviglia per Dora e per me: con un piccolo giardino sulla fronte, dove Jip avrebbe potuto scorrazzare e abbaiare ai venditori ambulanti attraverso il cancello, e una magnifica stanza al piano superiore, per la zia. Tornai a uscirne, più ardente e frettoloso che mai, e mi precipitai verso Highgate a un passo tale che vi arrivai con un'ora di anticipo; ma anche se non fosse stato così, sarei stato costretto a gironzolare un po' per raffreddarmi prima di essere del tutto presentabile. La mia prima cura, dopo avere compiuto questo necessario preliminare, fu di cercare la casa del dottore. Non era in quella parte di Highgate in cui abitava la signora Steerforth, ma nel lato opposto della cittadina. Fatta questa scoperta, tornai, per un'attrazione a cui non potei resistere, in un sentiero presso l'abitazione della signora Steerforth e guardai di sopra l'angolo del muro del giardino. La camera di Steerforth era ermeticamente chiusa. Le porte della serra erano spalancate, e Rosa Dartle stava passeggiando, a testa nuda, con un passo rapido e impetuoso, su e giù per un viale di ghiaia a lato del prato. Mi diede l'idea di una qualche creatura selvaggia che stesse trascinando su e giù per un sentiero la sua catena, per tutta la sua lunghezza, rodendosi il cuore. Mi allontanai silenziosamente dal mio luogo di osservazione, ed evitando quei paraggi col rammarico di averli avvicinati, bighellonai fino alle dieci. La chiesa dal campanile sottile che oggi sorge sul sommo della collina, non era ancora là, in quel tempo, per dirmi l'ora. Al suo posto v'era una vecchia costruzione di mattoni usata come scuola, e, per quanto ricordi, doveva essere stato un bel vecchio edificio, per andarvi a imparare. Quando mi avvicinai al villino del dottore - una graziosa e antica costruzione per la quale sembrava aver fatto delle spese, a giudicare dagli abbellimenti e dai restauri che avevano l'aria di essere appena finiti - lo vidi passeggiare nel giardino che la fiancheggiava, con ghette e tutto, come se non avesse mai smesso di passeggiare dai miei giorni di scuola. Aveva anche intorno a sé i suoi vecchi compagni: perché nei paraggi v'era una quantità di alti alberi, e due o tre cornacchie erano sull'erba a guardarlo, come se fossero state messe al corrente su di lui per lettera dalle cornacchie di Canterbury, e di conseguenza lo osservassero con grande interesse. Sapendo che non potevo assolutamente sperare di attrarre la sua attenzione a quella distanza, osai aprire il cancello e camminare dietro di lui così da essergli di fronte appena si sarebbe voltato. Quando lo fece e mi venne incontro, mi guardò per pochi istanti con aria meditabonda, evidentemente senza pensare affatto a me; poi il suo volto bonario espresse uno straordinario piacere ed egli mi prese entrambe le mani. «Diamine, mio caro Copperfield,» esclamò il dottore, «siete un uomo! Come state? Sono felice di vedervi. Caro Copperfield, che progressi avete fatto! Siete proprio... sì... povero me!» Espressi la mia speranza che stesse bene, e così pure la signora Strong. «Oh buon Dio, sì!» rispose il dottore. «Annie sta benissimo e sarà lieta di vedervi. Siete sempre stato il suo beniamino. Lo disse anche ieri sera, quando le ho mostrato la vostra lettera. E... sì, certamente... ricorderete il signor Jack Maldon, Copperfield.» «Perfettamente, signore.» «È naturale,» disse il dottore, «sicuro. Sta bene anche lui.» «È tornato in patria, signore?» chiesi. «Dall'India?» disse il dottore. «Sì. Il signor Jack Maldon non poteva sopportare quel clima, mio caro. La signora Markleham... non avrete dimenticato la signora Markleham!» Dimenticare il Vecchio Soldato? E in così breve tempo? «La signora Markleham,» continuò il dottore, «se ne faceva un gran cruccio, povera donna; così lo abbiamo fatto tornare in patria; e gli abbiamo acquistato un posticino ai Brevetti, che gli si confà molto meglio.» Conoscevo abbastanza il signor Jack Maldon per sospettare, in seguito a questa spiegazione, che fosse un posto dove c'era poco da fare e ben retribuito. Il dottore, passeggiando su e giù con la mano sulla mia spalla e il viso voltato verso di me in modo incoraggiante, continuò: «Adesso caro Copperfield, veniamo alla vostra proposta. È per me molto soddisfacente e piacevole, certo; ma non pensate che potreste aver di meglio? Quando eravate con noi vi eravate distinto, lo sapete. Siete qualificato per molte belle cose. Avete messo fondamenta tali da potervi far sorgere sopra qualsiasi edificio; e non è un peccato che dedichiate la primavera della vostra vita a una occupazione così misera come quella che posso offrirvi?» Tornai ad ardere e, esprimendomi, temo, in uno stile piuttosto lirico, insistei fermamente nella mia richiesta, ricordando al dottore che avevo già una professione. «Bene, bene,» disse il dottore, «questo è vero. Certo il fatto che abbiate una professione e che siate adesso impegnato a impararla fa una differenza. Ma, mio buon giovane amico, che cosa sono settanta sterline l'anno?» «Raddoppiano le nostre entrate, dottor Strong,» dissi. «Povero me!» rispose il dottore. «Pensate un po'. Non ch'io voglia intendere che lo stipendio sia rigorosamente limitato a settanta sterline l'anno, perché ho sempre pensato di dare anche un premio al giovane amico che avrei così impiegato, chiunque fosse. Senza dubbio,» disse il dottore sempre camminando su e giù con la mano sulla mia spalla. «Ho sempre messo nel conto un premio annuale.» «Mio caro maestro,» dissi (e adesso in realtà, senza sciocchezze liriche), «a cui devo già più gratitudine di quanta non possa mai...» «No, no,» mi interruppe il dottore. «Vi prego!» «Se a voi basta il tempo di cui dispongo, ossia le mie mattine e le mie sere, e credete che valga settanta sterline l'anno, mi renderete un servigio tale che non saprò come ringraziarvi.» «Povero me,» rispose il dottore ingenuamente. «E pensare che così poco possa avere tanta importanza! Gesù, Gesù! Ma quando troverete di meglio, lo accetterete? Sulla vostra parola?» mi chiese il dottore, che aveva sempre fatto appello all'onore di noi ragazzi. «Sulla mia parola, signore!» risposi, al modo della nostra vecchia scuola. «Allora sia così,» concluse il dottore battendomi sulla spalla e sempre tenendovi la mano, continuando a camminare su e giù. «E io sarò cento volte più felice, signore,» dissi con una piccola - spero innocente - adulazione, «se il mio compito riguarderà il dizionario.» Il dottore si fermò e sorridendo tornò a battermi sulla spalla esclamando con un'espressione di trionfo quanto mai piacevole a vedersi, come se avessi dato fondo a tutti gli abissi della sagacità umana: «Mio caro giovane amico, avete indovinato. Si tratta del dizionario!» Come poteva essere altrimenti? Le sue tasche erano piene di quel dizionario non meno della sua testa: scappava fuori da lui in tutte le direzioni. Mi disse che, da quando si era ritirato dall'attività scolastica aveva fatto progressi mirabili, e che nulla poteva andargli meglio del proposto accordo per un lavoro mattutino e serale, essendo sua abitudine passeggiare durante il giorno per meditare. Le sue carte erano un po' in disordine perché ultimamente il signor Jack Maldon si era offerto per questi occasionali servigi di amanuense, e non era molto pratico di tale lavoro; ma avremmo presto rimesso in sesto quello che era fuori posto e saremmo poi andati avanti a meraviglia. Più tardi, quando fummo in piena attività, trovai che gli sforzi del signor Jack Maldon mi davano più difficoltà di quante mi aspettassi, perché non si era limitato a fare numerosi errori, ma aveva disegnato tanti soldati e tante teste di donna sul manoscritto del dottore, che spesso mi trovavo circondato da un labirinto di oscurità. Il dottore fu felice della prospettiva che avremmo lavorato insieme in questa meravigliosa impresa, e stabilimmo di cominciare il mattino dopo alle sette. Avremmo lavorato due ore al mattino e due o tre ore la sera, eccetto il sabato, perché mi riposassi. Naturalmente anche la domenica era di riposo, e mi parvero ottime condizioni. Sistemati così i nostri piani con reciproca soddisfazione, il dottore mi condusse in casa per presentarmi alla signora Strong, che trovammo nel nuovo studio del dottore intenta a spolverare i suoi libri: una libertà che egli non permetteva a nessun altro di prendersi con i suoi sacri amici. Avevano ritardato per me la colazione, e ci sedemmo a tavola insieme. Non eravamo lì da molto, quando, dall'espressione della signora Strong, capii che si stava avvicinando qualcuno, prima ancora di udirne il rumore. Un signore a cavallo si fermò al cancello, e, fatto entrare l'animale nel cortiletto, tenendo la briglia sotto braccio, come se fosse perfettamente a casa sua, lo legò a un anello sul muro della rimessa vuota, ed entrò nel salottino della colazione col frustino in mano. Era il signor Jack Maldon; e mi parve che il signor Jack Maldon non fosse stato per nulla migliorato dall'India. Tuttavia ero allora in uno stato di feroce virtù riguardo ai giovani che non tagliavano alberi nella foresta delle difficoltà; e la mia impressione deve essere accolta con le dovute riserve. «Il signor Jack!» disse il dottore. «Copperfield.» Il signor Jack Maldon mi strinse la mano, ma senza molto calore, mi parve; e con un'aria di languida protezione, di cui mi stizzii alquanto, in segreto. Ma il suo languore, tutto considerato, era un magnifico spettacolo, eccetto quando egli si rivolgeva alla cugina Annie. «Avete già fatto colazione, stamane, signor Jack?» chiese il dottore. «Non faccio quasi mai colazione, signore,» rispose, con la testa rovesciata sulla poltrona. «Trovo che mi annoia.» «Ci sono novità, oggi?» chiese ancora il dottore. «Nessuna, signore,» rispose il signor Maldon. «C'è un resoconto su gente affamata e scontenta su nel nord, ma ci sono sempre degli affamati e degli scontenti in qualche parte.» Il dottore divenne serio e disse, come se volesse cambiar discorso: «Dunque non ci sono novità; e, come si dice, nessuna nuova buona nuova.» «C'è sui giornali un lungo rapporto su di un omicidio,» osservò il signor Maldon. «Ma c'è sempre qualcuno che si fa ammazzare, e non l'ho letto.» A quel tempo, una ostentazione di indifferenza per tutte le azioni e le passioni umane non veniva ancora considerata, credo, una qualità così distinta come ho notato che fu considerata in seguito. In realtà l'ho vista divenire un atteggiamento molto alla moda e sfoggiato con tanto successo che ho incontrato signore e signori distinti che avrebbero potuto benissimo nascere bruchi. Forse mi fece allora particolare impressione perché nuova per me, e non contribuì certo a esaltare la mia opinione sul signor Jack Maldon né a rafforzare la fiducia che avevo in lui. «Sono venuto per chiedere se Annie verrebbe volentieri all'opera, stasera,» disse il signor Maldon volgendosi verso di lei. «È l'ultima serata importante della stagione; e c'è una cantante che davvero dovrebbe udire: assolutamente squisita. E inoltre è così deliziosamente brutta,» aggiunse ricadendo in languore. Il dottore, a cui sempre piaceva quello che poteva piacere alla sua giovane moglie, si volse a lei dicendo: «Devi andare, Annie. Devi andare.» «Preferirei di no,» gli rispose lei. «Preferisco restare a casa. Resterei molto più volentieri a casa.» Senza guardare il cugino, ella si rivolse allora a me e mi chiese di Agnes, e se poteva vederla, e se non sarebbe venuta quel giorno; ed era così agitata che mi domandai come perfino il dottore, che si stava imburrando un crostino, potesse essere cieco davanti a ciò che era ovvio. Ma egli non vide nulla. Le disse bonariamente che lei era giovane e doveva divertirsi e svagarsi, senza lasciarsi intorpidire da un vecchio torpido. Inoltre, disse, voleva sentirle cantare le arie della nuova cantante, e come poteva farlo opportunamente se non andava ad ascoltarla? Così il dottore insisté prendendo l'impegno per lei e invitò a pranzo il signor Jack Maldon. Concluso questo, lui se ne andò ai Brevetti, suppongo; in ogni caso se ne andò sul suo cavallo con un'aria molto indolente. Il mattino dopo ero curioso di sapere se era andata. Non lo aveva fatto: aveva mandato a Londra per liberare il cugino dall'impegno; e nel pomeriggio era uscita per vedere Agnes ed era riuscita a indurre il dottore ad andare con lei; ed erano tornati a casa per i campi, mi disse il dottore, essendo una serata deliziosa. Mi domandai allora se sarebbe andata qualora Agnes non fosse stata in città, e se Agnes non aveva una qualche buona influenza su di lei! Non appariva molto felice, mi parve; ma aveva un'espressione di bontà, se non era del tutto falsa. La guardai spesso, perché rimase seduta alla finestra per tutto il tempo che noi fummo intenti al lavoro; e ci preparò la colazione, che prendemmo a bocconi continuando la nostra occupazione. Quando mi congedai, alle nove, era inginocchiata sul pavimento ai piedi del dottore, intenta a mettergli le scarpe e le ghette. Sul suo volto v'era una morbida ombra che veniva da alcune foglie verdi, pendenti davanti alla finestra aperta della stanza a terreno; e per tutta la strada che feci verso i Doctors' Commons pensai alla notte in cui l'avevo vista fissare il marito che leggeva. Adesso avevo un bel da fare; mi alzavo alle cinque del mattino e tornavo alle nove o alle dieci di sera. Ma provavo un'infinita soddisfazione nell'essere così occupato, non rallentavo mai il ritmo per alcuna ragione e mi entusiasmavo all'idea che più mi stancavo, più facevo per meritarmi Dora. Non avevo ancora rivelato a Dora la mia nuova condizione perché entro pochi giorni doveva andare dalla signorina Mills e rimandavo a quel momento tutto ciò che dovevo dirle, limitandomi a informarla, nelle mie lettere (tutte le nostre comunicazioni avvenivano in segreto attraverso la signorina Mills) che avevo molte notizie da darle. Frattanto mi misi su di un piano di grande economia quanto al grasso d'orso, rinunciai totalmente al sapone profumato e all'acqua di lavanda, e, con immenso sacrificio, vendetti tre panciotti considerandoli troppo lussuosi per il mio austero tenor di vita. Non soddisfatto di tutto questo, ma ardente per l'impazienza di far qualche cosa di più, scrissi a Traddles, che adesso viveva al riparo di una casa in Castle Street, Holborn. Il signor Dick, che era già stato con me due volte a Highgate e aveva ripreso la sua amicizia col dottore, mi accompagnò. Presi con me il signor Dick perché, sensibilissimo ai guai della zia, e sinceramente convinto che nessun remigante di galera né alcun forzato lavorassero quanto me, aveva cominciato a crucciarsi e angustiarsi fino a perdere il buonumore e l'appetito non avendo nulla di utile da fare. In queste condizioni si sentiva più incapace che mai di finire il Memoriale; e quanto più accanitamente lavorava a esso, tanto più spesso quella malaugurata testa del re Carlo I riusciva a entrarvi. Seriamente preoccupato che la sua malattia si aggravasse a meno che non trovassimo un qualche innocente inganno per fargli credere di essere utile o potessimo dargli modo di essere utile sul serio (che sarebbe stato ancora meglio), decisi di vedere se Traddles poteva aiutarci. Prima di andare da lui gli scrissi un completo resoconto di quello che era avvenuto, e Traddles mi mandò una magnifica risposta, tutta solidarietà e simpatia. Lo trovammo immerso nel lavoro, fra carte e inchiostro, confortato dalla vista del vaso da fiori col supporto e del tavolino rotondo in un angolo del suo piccolo appartamento. Ci accolse cordialmente e fece amicizia col signor Dick in un attimo. Il signor Dick si dichiarò assolutamente certo di averlo già visto, e noi due dicemmo: «È molto probabile.» Il primo soggetto su cui volevo consultare Traddles era questo. Avevo sentito dire che molti uomini illustri in varie attività avevano iniziato la carriera facendo i resoconti dei dibattiti parlamentari. Traddles mi aveva parlato dei giornali come una delle sue speranze; io avevo messo insieme le due cose e, nella mia lettera, avevo detto a Traddles che desideravo sapere come avrei potuto qualificarmi per questa attività. Traddles mi informò adesso, come risultato delle sue indagini, che la pura capacità meccanica necessaria, salvo rare eccezioni, per una completa eccellenza in questa occupazione, e cioè una perfetta e completa padronanza dei misteri della stenografia, scritta e letta, era suppergiù eguale, in difficoltà, alla conoscenza profonda di sei lingue; e che poteva forse essere raggiunta, a forza di perseveranza, nel corso di alcuni anni. Traddles supponeva ragionevolmente che questo avrebbe liquidato la faccenda, ma io, pensando solo che qui vi erano realmente dei grossi alberi da abbattere, decisi immediatamente di aprirmi la strada verso Dora attraverso questo bosco, ascia alla mano. «Ti sono molto obbligato, mio caro Traddles!» dissi. «Comincerò domani.» Traddles si mostrò sbigottito quanto poteva; ma non conosceva ancora la mia esaltazione. «Comprerò un libro,» dissi, «che mi dia un buon panorama di quest'arte. Mi ci dedicherò ai Commons, dove per almeno metà del tempo non ho nulla da fare; e per esercizio stenograferò i discorsi del nostro tribunale... Traddles, caro mio, ne diventerò padrone!» «Povero me,» disse Traddles sbarrando gli occhi, «non immaginavo proprio che tu avessi un carattere così deciso, Copperfield!» Non so come avrebbe potuto immaginarselo perché era una novità anche per me. Lasciai questo argomento e misi sul tappeto la questione del signor Dick. «Vedete,» disse il signor Dick vivacemente, «se potessi far qualche cosa, signor Traddles... se potessi suonare il tamburo o soffiare in qualche strumento!» Povero diavolo! Non dubito che, in cuor suo, avrebbe preferito un'occupazione di questo genere a qualsiasi altra. Traddles, che non si sarebbe messo a ridere per nulla al mondo, rispose tranquillo: «Ma voi siete un buono scrivano, signore. Non mi hai detto così, Copperfield?» «Eccellente,» risposi. E in realtà lo era. Scriveva con straordinaria chiarezza. «Non credete,» disse Traddles, «che potreste copiare dei manoscritti, signore, se ve li procurassi?» Il signor Dick mi guardò dubbioso. «Eh, Trotwood?» Io scossi la testa. Il signor Dick scosse la sua e sospirò. «Ditegli del Memoriale,» mi pregò il signor Dick. Spiegai a Traddles che c'era una difficoltà nel tener fuori la testa di Carlo I dai manoscritti di Dick; frattanto il signor Dick guardava Traddles con molta serietà e deferenza succhiandosi il pollice. «Ma questi scritti di cui parlo, lo sapete, sono già stesi e compiuti,» disse Traddles dopo averci pensato un po'. «Il signor Dick non deve farci nulla. Non ti pare che ci sia una differenza, Copperfield? A ogni modo non sarebbe bene fare una prova?» Questo ci diede nuova speranza. Traddles e io, parlando a parte con le teste unite, mentre il signor Dick ci guardava ansioso dalla sua sedia, concertammo un piano in virtù del quale lo mettemmo al lavoro il giorno dopo con trionfale successo. Su di un tavolo presso la finestra in Buckingham Street disponemmo il lavoro che Traddles gli aveva procurato - si trattava di fare non ricordo quante copie di un documento legale relativo a qualche diritto di transito - e su di un altro tavolo mettemmo l'ultimo originale incompiuto del grande Memoriale. Le nostre istruzioni al signor Dick furono che doveva copiare esattamente quello che aveva davanti senza scostarsi minimamente dal testo, e che, quando sentiva la necessità di fare la più lieve allusione a Carlo I, doveva correre al Memoriale. Lo esortammo a essere ben deciso in questo e lo lasciammo sotto la sorveglianza della zia. Ella ci raccontò più tardi che dapprima aveva fatto come un suonatore di timpani, dividendo continuamente la sua attenzione fra i due lavori; ma che, trovando che questo lo confondeva e lo affaticava, e avendo la sua copia lì, ben distesa davanti agli occhi, presto si era dedicato a quella con ordine e zelo rimandando il Memoriale a un tempo più opportuno. In una parola, sebbene badassimo attentamente a non farlo lavorare più di quanto fosse opportuno per lui, e sebbene non avesse cominciato con l'inizio della settimana, il sabato seguente guadagnò dieci scellini e nove pence; e mai, finché avrò vita, dimenticherò il suo vagare per tutte le botteghe del vicinato per cambiare il suo tesoro in pezzi da sei pence, e il momento in cui li portò alla zia su di un vassoio, disposti a forma di cuore, con lacrime di gioia e di orgoglio negli occhi. Da quando si sentì utilmente occupato parve sotto l'influenza di un incanto benefico; e se quel sabato sera vi fu al mondo un uomo felice, fu quella creatura riconoscente che considerava la zia come la più meravigliosa donna esistente e me come il più meraviglioso giovane. «Non moriremo più di fame, adesso, Trotwood,» disse il signor Dick stringendomi la mano in un angolo. «Io provvederò a lei, signore!» e agitava le dieci dita nell'aria come se fossero dieci banche. Non so proprio chi si rallegrasse di più, se Traddles o io. «Mi faceva andar via di testa,» disse Traddles improvvisamente togliendosi una lettera di tasca e porgendomela, «la lettera del signor Micawber!» La lettera (il signor Micawber non perdeva mai l'occasione di scrivere una lettera) era indirizzata a me «Mediante la cortesia dell'egregio signor T. Traddles dell'Inner Temple.» E diceva così: «Mio caro Copperfield, «forse non sarete impreparato a ricevere la notizia che qualche cosa è saltato fuori. Forse vi ho detto in altra occasione che ero in attesa di un tale evento. «Sto per stabilirmi in una città di provincia della nostra fortunata isola (la cui società può essere definita un felice miscuglio di attività agricole e impiegatizie) in immediato rapporto con una delle nostre professioni dotte. La signora Micawber e la nostra discendenza mi accompagneranno. In un'epoca futura, le nostre ceneri saranno probabilmente confuse nel cimitero unito a un venerabile tempio in grazia del quale il luogo ha raggiunto una celebrità che va, dirò, dalla Cina al Perù. «Nel dire addio alla moderna Babilonia nella quale abbiamo avuto tante vicissitudini, spero non ignobilmente, la signora Micawber e io non possiamo nasconderci che ci separiamo, forse per anni, forse per sempre, da una persona legata da indimenticabili ricordi all'altare della nostra vita domestica. Se alla vigilia di tale separazione vorrete accompagnare il nostro comune amico signor Thomas Traddles alla nostra attuale abitazione per quivi scambiarci gli auguri propri dell'occasione, farete un vero favore A Uno Che È Il sempre vostro Wilkins Micawber.» Fui felice di apprendere che il signor Micawber si era liberato della sua polvere e della sua cenere e che qualche cosa, alla fine, era veramente saltato fuori. Saputo da Traddles che l'invito si riferiva a quella sera stessa, mi dichiarai pronto a farvi onore; e ci recammo insieme all'alloggio che il signor Micawber occupava sotto il nome di Mortimer, e che era situato presso l'estremità di Gray's Inn Road. Le risorse di questo alloggio erano così limitate che trovammo i gemelli, ora di otto o nove anni, sistemati per il riposo in un letto ribaltabile nel soggiorno, dove il signor Micawber aveva preparato, in una brocca da lavabo, quello che egli chiamava «una mistura» della gradevole bevanda per la quale era famoso. In questa occasione ebbi il piacere di rinnovare la conoscenza con il signorino Micawber, che giudicai un promettente ragazzo di dodici o tredici anni, molto soggetto a quell'irrequietudine di membra che non è fenomeno raro nei giovani della sua età. Fui anche nuovamente presentato a sua sorella, la signorina Micawber, nella quale, come ci disse il signor Micawber, «sua madre rinnovellava la propria gioventù al pari della Fenice.» «Mio caro Copperfield,» disse il signor Micawber, «voi e il signor Traddles ci trovate sull'orlo dell'emigrazione, e vorrete scusare i piccoli disagi propri di questa condizione.» Guardandomi attorno, mentre davo una risposta adeguata, notai che gli effetti familiari erano già imballati e che l'insieme del bagaglio non era affatto imponente. Mi congratulai col signor Micawber per il cambiamento che gli si preparava. «Mio caro signor Copperfield,» disse la signora Micawber, «sono ben sicura del vostro amichevole interesse per le nostre vicende. La mia famiglia lo potrà considerare un esilio, se così crede; ma io sono moglie e madre, e mai abbandonerò il signor Micawber.» Traddles, richiamato da uno sguardo della signora Micawber, assentì calorosamente. «Questa,» proseguì la signora Micawber, «questa, almeno, è la mia interpretazione, mio caro signor Copperfield e signor Traddles, dell'obbligo che mi sono assunta nel ripetere le irrevocabili parole: ‹Io, Emma, prendo te, Wilkins.› Lessi tutta la funzione, al lume di candela, la notte precedente il matrimonio, e la conclusione che ne trassi fu che non dovevo mai abbandonare il signor Micawber. E,» concluse la signora Micawber, «per quanto sia possibile che mi sia ingannata nell'interpretare la funzione, mai lo lascerò.» «Ma cara,» disse il signor Micawber con una certa impazienza, «non mi risulta che ci si attenda da te qualche cosa di simile.» «Mi rendo conto, mio caro signor Copperfield,» riprese la signora Micawber, «che sto per spingere il mio destino fra genti estranee; e mi rendo anche conto che i vari membri della famiglia, a cui il signor Micawber ha scritto nei termini più cortesi annunciando il fatto, non hanno dato alcuna risposta alla comunicazione del signor Micawber. In verità potrò essere superstiziosa,» disse la signora Micawber, «ma mi sembra che il signor Micawber sia destinato a non ricevere mai risposta alla maggior parte delle lettere che scrive. Posso presumere, dal silenzio della mia famiglia, che non approvino la decisione che ho preso; ma non mi lascerei deviare dalla strada del dovere, signor Copperfield, nemmeno dal papà e dalla mamma, se vivessero ancora.» Espressi la mia opinione che questo significava andare per la via giusta. «Potrà essere un sacrificio,» continuò la signora Micawber, «murarsi in una città-cattedrale; ma certo, signor Copperfield, se è un sacrificio per me, lo è molto più per un uomo delle capacità del signor Micawber.» «Oh! Andate in una città-cattedrale?» chiesi. Il signor Micawber, che ci aveva serviti tutti con la brocca da lavabo, rispose: «A Canterbury. In realtà, mia caro Copperfield, ho fatto accordi in virtù dei quali mi sono legato per contratto al nostro amico Heep, per assisterlo e servirlo in qualità di... ed essere... il suo impiegato di fiducia.» Fissai il signor Micawber, che godette enormemente la mia meraviglia. «Sono tenuto a dichiararvi,» disse in tono ufficiale, «che le doti pratiche e i prudenti consigli della signora Micawber hanno portato in gran misura a questo risultato. Il guanto, a cui la signora Micawber ha fatto riferimento in una precedente occasione, è stato gettato sotto forma di un annuncio ed è stato accolto dal mio amico Heep portando a un reciproco riconoscimento. Del mio amico Heep,» disse il signor Micawber, «che è uomo di notevole accortezza, voglio parlare con ogni possibile rispetto. Il mio amico Heep non ha fissato la rimunerazione materiale a un livello troppo alto, ma ha fatto molto per districarmi dalla pressione delle mie difficoltà finanziarie in rapporto al valore dei miei servigi futuri; e sul valore di questi servigi io ripongo ogni fiducia. Tutta l'abilità e l'intelligenza che posso possedere,» disse il signor Micawber con orgogliosa modestia e con la sua antica aria signorile, «saranno dedicate al servizio del mio amico Heep. Ho già qualche conoscenza di diritto - come convenuto in processi civili - e mi dedicherò immediatamente allo studio dei Commentari di uno dei più eminenti e notevoli fra i giuristi inglesi. Credo inutile aggiungere che alludo all'egregio giudice Blackstone.» Queste osservazioni e, per vero dire, la maggior parte delle osservazioni fatte quella sera, furono interrotte dal fatto che la signora Micawber scopriva continuamente che il signorino Micawber era seduto sulle sue scarpe, o si teneva la testa con entrambe le mani come se se la sentisse staccata, o tirava inavvertitamente calci al signor Traddles sotto la tavola, o si strofinava i piedi l'uno contro l'altro, o li stendeva a distanze apparentemente contro natura, o abbandonava la testa di fianco con i capelli tra i bicchieri, o manifestava l'irrequietezza delle sue membra in qualche altro modo incompatibile con gli interessi generali della società; e dal fatto che il signorino Micawber riceveva queste osservazioni con spirito tutt'altro che remissivo. Per tutto il tempo me ne rimasi seduto, strabiliato dalla rivelazione del signor Micawber e domandandomi che cosa potesse significare; finché la signora Micawber riprese il discorso reclamando la mia attenzione. «Quello a cui chiedo che il signor Micawber stia particolarmente attento,» disse la signora Micawber, «è, mio caro signor Copperfield, che, applicandosi a questo ramo subordinato del diritto, non si metta nell'impossibilità di salire da ultimo fino in cima all'albero. Sono convinta che il signor Micawber, dedicandosi a una professione così adatta alle sue fertili risorse e al suo fluente parlare, deve distinguersi. Per esempio, signor Traddles,» disse la signora Micawber con aria profonda, «come giudice o anche come presidente. Un uomo si mette forse al di fuori di ogni possibilità di raggiungere queste cariche dedicandosi a un'attività come quella che il signor Micawber ha accettato?» «Mia cara,» osservò il signor Micawber, dando tuttavia anche lui un'occhiata inquisitiva a Traddles, «abbiamo abbastanza tempo davanti a noi per considerare questi problemi.» «Micawber,» rispose lei, «no! Il tuo errore nella vita è che non guardi mai abbastanza lontano. È tuo dovere, per giustizia verso la tua famiglia, se non verso te stesso, considerare in uno sguardo complessivo gli estremi punti dell'orizzonte a cui le tue capacità possono condurti.» Il signor Micawber tossì e bevve il suo ponce con aria quanto mai soddisfatta... sempre guardando Traddles, come se desiderasse avere la sua opinione. «Be', lo stato sostanziale delle cose, signora Micawber,» disse Traddles cercando di rivelarle cautamente la verità, «voglio dire il fatto prosaicamente reale, capite...» «Proprio così,» approvò la signora Micawber, «mio caro signor Traddles, desidero anch'io essere prosaica ed esatta per quanto è possibile su di un soggetto di tale importanza.» «Il fatto è dunque,» proseguì Traddles, «che questo ramo legale che ha scelto, anche se il signor Micawber fosse un regolare procuratore...» «Esattamente,» lo interruppe la signora Micawber. «(Wilkins, non torcere gli occhi, non riuscirai più a riportarli a posto.)» «Non ha nulla a che fare,» continuò Traddles, «con quello di cui parlate. Solo un avvocato è eleggibile a tali cariche; il signor Micawber non può divenire avvocato senza essere stato, come studente, in un collegio di avvocati per cinque anni.» «Vi ho capito bene?» chiese la signora Micawber con il suo più affabile tono pratico. «Volete dire, mio caro signor Traddles, che, al termine di tale periodo il signor Micawber sarebbe eleggibile alla carica di giudice e o di presidente?» «Sarebbe eleggibile,» rispose Traddles mettendo una particolare forza su questa parola. «Grazie,» disse la signora Micawber. «Questo è del tutto sufficiente. Se così stanno le cose, il signor Micawber non rinuncia ad alcun privilegio accettando questi doveri e ogni mia ansietà vien meno. Parlo,» disse la signora Micawber, «come donna, necessariamente; ma sono sempre stata del parere che il signor Micawber possieda quello che ho sentito chiamare da mio papà, quando vivevo in casa, una mentalità giuridica; e spero che il signor Micawber stia ora entrando in un campo in cui questa mentalità potrà svilupparsi e giungere a un posto di comando.» Credo proprio che il signor Micawber si vedesse già, con l'occhio della sua mentalità giuridica, sul seggio del Lord Cancelliere. Si passò soddisfatto la mano sulla testa calva e disse con ostentata rassegnazione: «Mia cara, non anticipiamo i decreti della fortuna. Se sono destinato a portare una parrucca, sono per lo meno preparato esternamente,» alludendo alla sua calvizie, «a questa distinzione. Non rimpiango i miei capelli,» disse il signor Micawber, «e potrei esserne stato privato per uno scopo specifico. Non posso dire. È mia intenzione, mio caro Copperfield, educare mio figlio per la Chiesa; non nego che sarei felice per lui se giungesse all'eminenza.» «Per la Chiesa?» dissi sempre pensando a Uriah Heep. «Sì,» rispose il signor Micawber. «Ha una notevole voce di testa e comincerà come corista. La nostra residenza a Canterbury e le nostre relazioni locali gli permetteranno certo di approfittare del primo posto vacante che si presenti nel corpo corale della cattedrale.» Guardando di nuovo il signorino Micawber, vidi che aveva una certa espressione come se la voce gli stesse dietro le sopracciglia; e lì effettivamente apparve essere quando ci cantò (come alternativa tra farlo o andare a letto) Il battito del picchio. Dopo molti complimenti per la sua esibizione, entrammo in una conversazione generale; e, poiché ero troppo pieno delle mie disperate intenzioni per tener per me solo il mio cambiamento di fortuna, lo feci conoscere al signore e alla signora Micawber. Non posso dire che razza di allegria mettesse in entrambi l'idea che mia zia si trovasse in difficoltà, né quanto questa idea li rendesse amichevoli e solleciti a consolarmi. Quando fummo ormai giunti all'ultimo giro del ponce, io mi rivolsi a Traddles ricordandogli che non dovevamo separarci senza augurare ai nostri amici salute, felicità e successo nella loro nuova vita. Pregai il signor Micawber di riempirci fino all'orlo i bicchieri e pronunciai il brindisi nella debita forma: stringendo la mano a lui attraverso la tavola e baciando la signora Micawber per commemorare quella circostanza ricca di eventi. Traddles mi imitò nel primo gesto, ma non si considerò abbastanza vecchio amico per arrischiare il secondo. «Il mio caro Copperfield,» disse il signor Micawber alzandosi con i due pollici infilati nei taschini del panciotto, «compagno della mia gioventù, se posso concedermi l'espressione, e il mio stimato amico Traddles, se posso permettermi di chiamarlo così, vorranno darmi licenza di ringraziarli, a nome della signora Micawber, mio e dei nostri rampolli, nel modo più caldo e più schietto per il loro buon augurio. Ci si può aspettare che, alla vigilia di una emigrazione che ci consegnerà a un'esistenza totalmente nuova,» il signor Micawber parlava come se stessero per allontanarsi di cinquecentomila miglia, «io dica alcune parole di addio a due amici tali come quelli che mi vedo dinanzi. Ma tutto quello che avevo da dire in proposito l'ho già detto. Quale che sia la posizione sociale che potrò raggiungere mediante la dotta professione di cui sto per divenire indegnamente membro, cercherò di non disonorarla, e la signora Micawber saprò certo adornarla. Sotto la momentanea pressione di impegni finanziari contratti in vista di una loro immediata estinzione, ma rimasti pendenti per una serie di circostanze, mi sono trovato nella necessità di assumere un aspetto che ripugna ai miei istinti naturali - alludo agli occhiali - e di appropriarmi di un cognome sul quale non posso addurre alcuna legittima pretesa. Tutto quello che posso dire su questo argomento, è che la nube si è allontanata dal fosco scenario e il Dio della luce è ancora una volta alto sulle vette delle montagne. Lunedì prossimo, quando arriverà a Canterbury la diligenza delle quattro pomeridiane, il mio piede sarà sulla mia landa natìa... e il mio nome sarà Micawber!» Il signor Micawber tornò a sedersi dopo aver detto queste parole, e si bevette con gran compunzione due bicchieri di ponce l'uno dietro l'altro. Quindi disse con molta solennità: «Ancora una cosa mi resta da fare prima che questa separazione sia completa, e cioè compiere un atto di giustizia. Il mio amico signor Thomas Traddles ha, in due diverse occasioni, ‹messo il suo nome›, se posso valermi di un'espressione comune, su cambiali a mio favore. Nella prima occasione il signor Thomas Traddles fu lasciato... per dirla in una parola, nelle peste. La scadenza della seconda cambiale non è ancora arrivata. L'ammontare della prima obbligazione,» e qui il signor Micawber consultò con cura dei fogli, «era, credo, di ventitré sterline, quattro scellini e nove pence e mezzo; quello della seconda, a quanto vedo negli appunti da me presi sulla transazione, di diciotto, sei e due. Queste somme, unite, fanno un totale, se il mio calcolo è esatto, di quarantun sterline, dieci scellini e undici pence e mezzo. Amico Copperfield, volete farmi il favore di controllare questo totale?» Lo feci e lo trovai esatto. «Lasciare questa metropoli,» riprese il signor Micawber, «e il mio amico signor Thomas Traddles senza liberarmi della parte pecuniaria di questa obbligazione peserebbe sulla mia coscienza in modo insopportabile. Ho dunque preparato, per il mio amico signor Thomas Traddles, e lo tengo in mano in questo momento, un documento che raggiunge il desiderato scopo. Prego di consegnare al mio amico signor Thomas Traddles questo pagherò di quarantuno, dieci e undici e mezzo, e io sono felice di recuperare la mia dignità morale e di sapere che, ancora una volta, posso camminare a testa alta davanti ai miei simili!» Con questo preambolo (che lo commosse profondamente), il signor Micawber mise il suo pagherò nelle mani di Traddles e disse che gli augurava ogni bene in tutte le circostanze della sua vita. Sono convinto non solo che questo fu per il signor Micawber esattamente la stessa cosa che pagare in contanti, ma che lo stesso Traddles non si rese conto della differenza finché non ebbe avuto il tempo di pensarci. Il signor Micawber camminava così a testa alta davanti ai suoi simili, sulla base di questo atto virtuoso, che il suo petto sembrava essere tornato alla metà di quanto si era gonfiato quando ci fece luce sulle scale. Ci separammo con grande cordialità da entrambe le parti; e quando ebbi accompagnato Traddles alla sua porta, nel tornarmene a casa pensai, tra le altre cose strane e contraddittorie su cui andavo fantasticando, che, sempre guizzante qual era il signor Micawber, dovevo forse a qualche compassionevole ricordo da lui mantenuto di me come suo piccolo inquilino, il fatto che non mi avesse mai chiesto denaro. Certo non avrei avuto il coraggio morale di rifiutarglielo; e non ho dubbi che egli lo sapeva (sia detto a suo credito) esattamente come lo sapevo io. XXXVII • UN PO' DI ACQUA FREDDA La mia nuova vita durava da più di una settimana e io mi attenevo più forte che mai a quelle tremende risoluzioni pratiche che sentivo richieste dalla crisi. Continuai a camminare quanto mai in fretta e ad avere la confusa idea di progredire così. Mi feci una regola di trarre da me tutto ciò che potevo in ogni cosa a cui applicassi le mie energie. Mi ridussi a una perfetta vittima. Accarezzai anche l'idea di limitarmi a una dieta vegetale, con la vaga convinzione che, trasformandomi in animale erbivoro, avrei fatto sacrificio a Dora. Per il momento la piccola Dora era completamente all'oscuro della mia disperata risolutezza, eccettuato quello a cui le mie lettere alludevano in modo sibillino. Ma venne un altro sabato, e quel sabato sera lei avrebbe fatto visita alla signorina Mills; e quando il signor Mills fosse andato al suo circolo per il whist (cosa che mi sarebbe stata telegrafata mettendo una gabbia da uccelli alla finestra centrale del salotto), io sarei salito a prendere il tè. Frattanto ci eravamo sistemati a Buckingham Street, dove il signor Dick continuava a fare il copista in uno stato di assoluta felicità. Mia zia aveva riportato una segnalata vittoria sulla signora Crupp liquidandola, gettando dalla finestra la prima brocca trovata sulle scale, e proteggendo personalmente le salite e le discese di una donna a ore ingaggiata da fuori. Queste vigorose misure misero un tal terrore in petto alla signora Crupp che ella si rifugiò nella sua cucina convinta che la zia fosse matta. E siccome la zia, con suprema indifferenza per le opinioni della signora Crupp come per quelle di ogni altro, cercava piuttosto di favorire che di contrariare questa idea, la signora Crupp, poco prima tanto battagliera, divenne in pochi giorni così vile che, pur di non incontrare mia zia sulle scale, cercava di nascondere la sua corpulenza dietro le porte - lasciando tuttavia visibile un largo margine di sottana di flanella - o si rannicchiava negli angoli bui. Questo diede alla zia una tale ineffabile soddisfazione che credo si dilettasse nel vagar su e giù, con la cuffia follemente issata in cima al capo, quando c'era la probabilità che la signora Crupp le capitasse fra i piedi. La zia, pulita e ingegnosa in modo non comune, fece tanti piccoli miglioramenti, nella nostra sistemazione domestica da farla risultare più ricca invece che più povera. Fra l'altro trasformò la dispensa in spogliatoio per me; e acquistò e abbellì per me un letto che, durante il giorno, assomigliava a uno scaffale per libri, per quanto un letto possa assomigliarvi. Io ero l'oggetto della sua costante sollecitudine, e la mia povera madre stessa non avrebbe potuto amarmi di più né preoccuparsi maggiormente per farmi felice. Peggotty aveva considerato come un alto privilegio l'essere ammessa a partecipare a questi lavori; e, sebbene conservasse ancora un po' del suo antico sentimento di terror sacro e di reverenza verso mia zia, aveva ricevuto tanti segni di incoraggiamento e di fiducia che le due donne erano divenute le migliori amiche. Ma era giunto il tempo (parlo del sabato in cui dovevo andare a prendere il tè dalla signorina Mills) in cui era costretta a tornare a casa per occuparsi di quei doveri che aveva assunto in favore di Ham. «Addio, dunque, Barkis,» disse la zia, «e badate a star bene! Di certo non avrei mai pensato di poter essere così spiacente di perdervi!» Accompagnai Peggotty all'ufficio delle diligenze e la vidi partire. Lei piangeva nel lasciarmi, e affidò suo fratello alla mia amicizia come aveva fatto Ham. Non avevamo saputo nulla di lui da quando se n'era andato in quel pomeriggio di sole. «E ora, caro Davy mio,» disse Peggotty, «se mentre sei ancora apprendista, avrai bisogno di un po' di denaro, o se, quando avrai finito, caro, te ne occorrerà per metterti a posto (e ti capiterà l'una o l'altra di queste cose, amor mio, o tutte e due), chi ha il diritto di chiederti di potertelo prestare eccetto questa stupida vecchia della mia cara bambina?» Io non ero così furiosamente orgoglioso da risponderle altra cosa se non che, qualora avessi avuto bisogno di un prestito, non lo avrei chiesto ad altri che a lei. Credo che solo accettando immediatamente una grossa somma avrei potuto dare a Peggotty maggior conforto. «E, mio caro,» sussurrò Peggotty, «di' a quel piccolo caro angelo che avrei voluto vederla anche solo per un minuto! E dille che, prima che sposi il mio bambino, verrò a rendervi bellissima la casa, se me lo permetterete!» Dichiarai che nessun altro l'avrebbe toccata; e Peggotty ne fu così rallegrata che partì di buon umore. Ai Commons mi affaticai per tutto il giorno, con vari accorgimenti, quanto mi fu possibile, e a sera, all'ora fissata, mi recai alla strada del signor Mills. Il signor Mills, che era un terribile tipo quanto ad addormentarsi dopo pranzo, non era ancora uscito e non v'era alcuna gabbia alla finestra centrale. Mi tenne in attesa così a lungo da farmi sperare con tutto il cuore che il suo circolo lo multasse per il ritardo. Alla fine uscì; e allora vidi la mia Dora appendere la gabbietta e spiare dal balcone cercandomi, e rientrare di corsa quando si accorse che ero lì, mentre Jip restava indietro per abbaiare furiosamente a un immenso cane da macellaio che era nella strada e che avrebbe potuto ingoiarselo come una pillola. Dora venne sulla porta del salotto per incontrarmi; Jip le tenne dietro caracollando e capitombolando per i suoi stessi ringhi, convinto che fossi un bandito, e tutti e tre entrammo felici e innamorati quanto si poteva essere. Ma presto portai la desolazione nel petto delle mie gioie - non che volessi farlo, ma perché ero troppo pieno dell'argomento - domandando a Dora, senza averla minimamente preparata, se avrebbe potuto amare un mendicante. Cara, piccola e strabiliata Dora! Le sue uniche associazioni con questa parola erano una faccia gialla con un berretto da notte, o un paio di grucce, o una gamba di legno, o un cane con un piattello in bocca, o qualche cosa del genere; e mi sbarrò gli occhi addosso con la più incantevole meraviglia. «Come puoi domandarmi qualche cosa di così sciocco?» disse Dora facendo il broncio. «Amare un mendicante!» «Dora, amor mio,» esclamai. «Io sono un mendicante!» «Come puoi essere tanto stupido,» rispose Dora dandomi un colpetto sulla mano, «da sederti lì e dirmi queste storie? Ti farò mordere da Jip!» I suoi modi infantili erano per me i più deliziosi del mondo, ma bisognava essere espliciti e io ripetei solennemente: «Dora, mia unica vita, io sono il tuo David rovinato.» «Ti dico che ti farò mordere da Jip,» esclamò Dora scuotendo i riccioli, «se continui a essere così ridicolo!» Ma ero così serio che Dora smise di scuotere i riccioli, mi pose la mano tremante sulla spalla e dapprima assunse un'espressione spaurita e ansiosa, poi si mise a piangere. Fu terribile. Io caddi in ginocchio davanti al divano accarezzandola e implorandola di non lacerarmi il cuore; ma, per qualche tempo, la povera piccola Dora non fece che esclamare: Oh povera me! Povera me! E oh, com'era spaventata! E dov'era Julia Mills? E oh, portatemi da Julia Mills, e va' via ti prego! finché fui quasi fuori di me stesso. Alla fine, dopo un'agonia di suppliche e di proteste, ottenni che Dora volgesse gli occhi su di me, con in faccia un'espressione di orrore che, a poco a poco, riuscii a calmare finché fu solo di amore e la sua tenera e gentile guancia si appoggiò sulla mia. Allora le dissi, tenendola fra le braccia, quanto l'amassi, e con quanta tenerezza, come sentissi il dovere di lasciarla libera di riprendere la sua parola, perché adesso ero povero; come non avrei potuto sopportarlo né mai riprendermi, se l'avessi perduta; come non avessi alcuna paura della povertà se neanche lei l'aveva, poiché da lei era invigorito il mio braccio e ispirato il mio cuore; come stessi già lavorando con un coraggio che solo un amante può avere; come avessi cominciato a essere pratico e a guardare il futuro; come una pagnotta ben guadagnata fosse più dolce di un festino ereditato; e tante altre cose sempre sullo stesso tema, che enunciai in un tale scoppio di appassionata eloquenza da rimanerne io stesso completamente stupito, sebbene non avessi fatto altro che pensarci, giorno e notte, fin dal momento in cui la zia mi aveva sbigottito con la sua rivelazione. «Il tuo cuore è ancora mio, cara Dora?» chiesi delirante perché avevo capito che lo era dal modo con cui si aggrappava a me. «Oh, sì!» gridò Dora. «Oh, sì, è tutto tuo. Ma non farmi tanta paura!» «Io far paura? A Dora?» «Non parlarmi di esser povero e di lavorar duro!» implorò Dora stringendosi ancor più a me. «Oh no, no!» «Amor mio,» dissi, «una pagnotta ben guadagnata...» «Oh, sì; ma non voglio sentir più parlare di pagnotte!» ribatté Dora. «E Jip deve avere una bistecca di montone ogni giorno alle dodici, altrimenti morirà.» Ero affascinato dai suoi modi infantili e suadenti. Spiegai appassionatamente a Dora che Jip avrebbe avuto la sua bistecca di montone con la solita regolarità. Tracciai uno schizzo della nostra frugale casa, resa indipendente dal mio lavoro, descrivendo la casetta che avevo visto a Highgate, con la zia nella sua stanza al primo piano. «Ti faccio ancora paura, Dora?» chiesi teneramente. «Oh, no, no,!» esclamò Dora. «Ma spero che tua zia se ne resterà nella sua stanza per la maggior parte del tempo. E spero che non sia una vecchia bisbetica.» Se mi era possibile amar Dora più che mai, sono certo che lo feci. Ma mi resi conto che era un tantino intrattabile. E il mio rinato ardore fu raffreddato dall'accorgermi che era così difficile comunicarlo a lei. Feci un altro tentativo. Quando fu del tutto rientrata in se stessa e si mise ad arricciar le orecchie di Jip accucciato nel suo grembo, divenni serio e dissi: «Cara, posso dire una cosa?» «Oh, ti prego, non essere pratico!» rispose Dora con voce carezzevole. «È una cosa che mi spaventa tanto!» «Cuor mio,» dissi, «non c'è nulla che possa allarmarti, in tutto questo. Desidero che tu lo consideri in modo assolutamente diverso. Voglio che tu ne sia rafforzata e ispirata, Dora!» «Oh, ma è così ripugnante!» esclamò Dora. «Amor mio, no. La perseveranza e la forza di carattere ci permetteranno di superare cose molto peggiori.» «Ma io non ho nessuna forza,» disse Dora scuotendo i riccioli. «Non è vero, Jip. Oh, dà un bacio a Jip e sii buono!» Mi fu impossibile rifiutarmi di baciare Jip quando ella me lo porse a questo scopo atteggiando al bacio la sua piccola bocca rosea e brillante, e diresse l'operazione che doveva essere compiuta simmetricamente, al centro del suo naso. Io obbedii - prendendomi poi il compenso della mia obbedienza - ed ella mi fece uscir per incanto dalla mia gravità per non so quanto tempo. «Ma Dora, amor mio!» dissi infine riprendendo quella gravità; «stavo per dirti una cosa.» Il giudice della Prerogativa si sarebbe senz'altro innamorato di lei nel vederla giungere le manine e alzarle verso di me pregandomi e implorandomi di non farle più paura. «Non ne ho davvero l'intenzione, cara!» la rassicurai. «Ma, Dora, amor mio, se qualche volta penserai - non con angoscia, sai? Nulla di questo - ma se qualche volta penserai - solo per farti coraggio - che ti sei promessa a un uomo povero...» «No, no! Ti prego, no!» gridò Dora. «È così pauroso!» «Per nulla, anima mia!» le dissi allegramente. «Se penserai qualche volta a questo, e baderai ogni tanto all'andamento della casa di tuo papà, cercando di prendere un po' l'abitudine... a fare i conti, per esempio...» La povera piccola Dora accolse questo suggerimento con qualche cosa che era per metà un singhiozzo e per metà uno strillo. «Questo ci sarebbe utile in seguito,» continuai. «E se mi promettessi di leggere un piccolo... un piccolo libro di cucina che ti manderei, sarebbe una cosa eccellente per tutti e due. Perché la nostra strada nella vita, Dora mia,» dissi accalorandomi sull'argomento, «adesso è aspra e piena di sassi, e tocca a noi appianarla. Dovremo combattere per andare avanti. Dovremo avere coraggio. Ci sono ostacoli da affrontare, e noi dobbiamo affrontarli e superarli!» Continuavo così di gran carriera, con un pugno chiuso e un aspetto pieno di entusiasmo; ma non c'era più alcuna necessità di proseguire. Avevo detto fin troppo. Avevo nuovamente combinato il guaio. Oh, lei era così impaurita! Oh, dov'era Julia Mills! Oh, portami da Julia Mills e va' via, ti prego! Così che, a farla breve, io andai del tutto fuori di me e mi aggirai per il salotto come un pazzo. Questa volta credetti di averla uccisa. Le spruzzai acqua sul volto. Mi gettai in ginocchio. Mi strappai i capelli. Dichiarai di essere un bruto spietato e una fiera senza leggi. Implorai il suo perdono. La scongiurai di alzare gli occhi. Misi sottosopra la scatola da lavoro della signorina Mills cercando una boccetta di profumo e, nella mia ambascia, presi invece un agoraio di avorio e feci cadere tutti gli aghi addosso a Dora. Mostrai i pugni a Jip, che era frenetico quanto me. Feci tutte le più selvagge stravaganze possibili, ed ero fuori di me da un pezzo quando la signorina Mills entrò nella stanza. «Chi ha combinato tutto questo?» esclamò la signorina Mills correndo a soccorrere l'amica. Risposi: «Io, signorina Mills! Io l'ho fatto! Ecco qui il colpevole!» o parole di questo genere... e andai a nascondere il volto nel cuscino del divano, fuggendo la luce del giorno. Dapprima la signorina Mills credette che si trattasse di un bisticcio e che noi ci addentrassimo nel deserto del Sahara; ma presto capì come stavano le cose perché la mia cara e affettuosa piccola Dora, abbracciandola, cominciò a esclamare che ero «un povero operaio»; e poi pianse per me, e mi abbracciò, e mi chiese se le permettevo di darmi tutto il denaro che aveva messo da parte, e poi si aggrappò al collo della signorina Mills singhiozzando come se il suo tenero cuore si fosse spezzato. La signorina Mills doveva essere nata per rappresentare la nostra benedizione. Si fece dire da me in poche parole di che si trattava, confortò Dora e a poco a poco la convinse che non ero un operaio - perché dal mio modo di esporre il caso, credo che Dora concludesse che ero un bracciante e andavo su e giù per un'impalcatura con una carriola - e così ci ricondusse alla pace. Quando fummo del tutto riconciliati, e Dora fu salita al piano di sopra per bagnarsi gli occhi con acqua di rose, la signorina Mills suonò per il tè. Nell'intervallo che seguì, dissi alla signorina Mills che era per sempre la mia amica e che il mio cuore avrebbe smesso di battere prima che potessi dimenticare la sua solidarietà. Poi esposi alla signorina Mills quello che avevo tentato, con così scarso successo, di esporre a Dora. La signorina Mills rispose, come principi generali, che la capanna della contentezza era meglio del palazzo del freddo splendore, e che dove c'era l'amore c'era tutto. Io dissi alla signorina Mills che questo era verissimo, e chi lo poteva sapere meglio di me, che amavo Dora di un amore quale mai alcun mortale aveva sperimentato? Ma poiché la signorina Mills osservò amaramente che, se le cose stavano così, non era certo un complimento per certi cuori, spiegai che chiedevo il permesso di limitare la mia affermazione solo ai mortali di genere maschile. Poi pregai la signorina Mills di dirmi se scorgeva o no un certo merito pratico nel suggerimento che ero stato ansioso di dare circa i conti, il governo della casa e il libro di cucina. La signorina Mills, dopo averci pensato su, mi rispose: «Signor Copperfield, sarò chiara con voi. Le sofferenze morali e le prove suppliscono, in certe nature, agli anni, e io sarò sincera con voi come se fossi una madre badessa. No. Il suggerimento non è adatto per la nostra Dora. La nostra cara Dora è una figlia favorita della natura. È una creatura di luce, di levità, di gioia. Vi confesso liberamente che, se fosse stato attuabile, sarebbe stato buono, ma...» E la signorina Mills scosse la testa. Questa ammissione conclusiva da parte della signorina Mills mi incoraggiò a chiederle se, per amor di Dora, qualora avesse avuto l'opportunità di richiamare la sua attenzione su preparativi del genere per una vita più seria, se ne sarebbe valsa. La signorina Mills rispose di sì così prontamente che le chiesi inoltre se voleva incaricarsi del libro di cucina rendendomi questo estremo servigio se mai avesse potuto indurre Dora ad accettarlo senza atterrirla. La signorina Mills accettò anche questo, ma senza molta fiducia. Dora tornò, così minuta e gentile che davvero mi chiesi se doveva essere turbata da cose tanto volgari. E mi amò tanto, e fu così affascinante (in particolare quando fece stare Jip dritto sulle zampette posteriori per prendere un crostino, e quando finse di volergli schiacciare il naso contro la teiera calda perché si rifiutava all'esercizio) che io mi sentii una specie di mostro entrato nel pergolato delle fate al ricordo di averla spaventata e di averla fatta piangere. Dopo il tè venne la chitarra; e Dora cantò quelle stesse dolci e vecchie canzoni francesi circa l'impossibilità di smettere di ballare per qualsiasi ragione, La ra là, La ra là, finché mi sentii un mostro ancora più grande di prima. Vi fu solo una sosta nel nostro piacere, e questo avvenne poco prima che prendessi congedo, quando, avendo la signorina Mills fatto casualmente allusione al mattino dopo, mi lasciai disgraziatamente sfuggire che, costretto ormai a lavorare, dovevo alzarmi alle cinque. Non posso dire se Dora si facesse l'idea che fossi diventato una guardia notturna; certo è che ne ebbe una grande impressione, e smise di suonare e di cantare. Lo aveva ancora in mente quando la salutai; e mi disse, con quel suo grazioso modo carezzevole che mi faceva sempre pensare che si volgesse a una bambola: «E non alzarti alle cinque, cattivo ragazzo. È una cosa assurda!» «Amor mio,» dissi, «devo lavorare.» «E tu non lavorare!» rispose Dora. «Che bisogno ce n'è?» Mi fu impossibile dire a quella dolce faccetta meravigliata, se non in tono lieve e giocoso, che bisogna lavorare per vivere. «Oh! Che cosa ridicola!» esclamò Dora. «E come potremo vivere altrimenti, Dora?» chiesi. «Come? In qualsiasi altro modo!» rispose Dora. Sembrava pensare di avere risolto totalmente il problema, e mi diede un così trionfale bacetto dall'intimo del suo cuore innocente, che non avrei voluto disilluderla nemmeno per un patrimonio. Bene, l'amavo e continuai ad amarla nel modo più profondo, totale e completo. Ma, insistendo anche a lavorar duro e a tener caldi con grande affanno tutti i ferri che avevo sul fuoco, molto spesso, la sera, me ne stavo seduto davanti alla zia pensando a come avevo atterrito Dora quella volta, e a come avrei potuto aprirmi la strada, con un astuccio di chitarra, attraverso la foresta delle difficoltà, finché mi veniva la fantasia che i capelli mi diventassero grigi. XXXVIII • SCIOGLIMENTO DI UNA SOCIETÀ Non lasciai che la mia decisione relativa ai dibattiti parlamentari si raffreddasse. Fu uno dei ferri che cominciai immediatamente a scaldare, e uno di quelli che arroventai e martellai con una perseveranza che posso onestamente ammirare. Mi comprai un famoso trattato sulla nobile arte e i misteri della stenografia (che mi costò dieci scellini e sei pence); e mi sprofondai in un mare di perplessità che, in poche settimane, mi portarono sul limite della pazzia. Tutte le possibili varietà di puntini, che, in una posizione, significavano una cosa e, in un'altra posizione, un'altra cosa del tutto diversa; gli straordinari scherzi giocati dai circoli; le inesplicabili conseguenze che risultavano da segni simili a zampe di mosca; i tremendi effetti di una curva fuori posto, non solo turbavano le mie ore di veglia ma mi riapparivano in sogno. Quando mi fui fatto strada a tentoni, come un cieco, attraverso queste difficoltà e mi fui impadronito dell'alfabeto, che da solo era un tempio egiziano, apparve una processione di nuovi orrori chiamati caratteri arbitrari: i più dispotici caratteri che abbia mai conosciuto, i quali pretendevano, per esempio, che una cosa simile all'inizio di una ragnatela significasse aspettativa e che una specie di razzo tracciato a penna stesse per svantaggioso. Quando mi fui cacciato in testa tutte queste disgrazie, mi accorsi che esse ne avevano buttato fuori tutto il resto; allora, ricominciando da capo, le dimenticai; e, mentre andavo racimolandole una per una, persi gli altri frammenti del sistema: insomma era una cosa straziante. E sarebbe stata veramente straziante se non ci fosse stata Dora, che era l'appoggio e l'ancora della mia barca in piena tempesta. Ogni ghirigoro del trattato era una nodosa quercia nella foresta delle difficoltà, e io andavo avanti abbattendole l'una dopo l'altra con tale vigore che, dopo tre o quattro mesi fui in condizioni di fare un esperimento su uno dei nostri più famosi oratori del Commons. Mai dimenticherò come quel famoso oratore mi sfuggì di mano prima ancora che cominciassi, lasciando la mia matita rimbecillita a brancolare sulla carta come se avesse le convulsioni. Era evidente che non funzionava. Avevo volato troppo in alto e, in quel modo, non c'era possibilità di proseguire. Ricorsi a Traddles per avere un consiglio, ed egli mi propose di dettarmi dei discorsi con una velocità, e con eventuali pause, adeguate alla mia inesperienza. Gratissimo per questo amichevole aiuto, accettai la proposta; e sera per sera, quasi ogni sera, per lungo tempo, tenemmo una specie di parlamento privato in Buckingham Street, quando tornavo a casa dal dottore. Sarei lieto di vedere un parlamento simile dappertutto! La zia e il signor Dick rappresentavano il governo o l'opposizione (a seconda dei casi), e Traddles, con l'aiuto dell'Oratore di Elfield, o di un volume dei discorsi parlamentari, tuonava stupefacenti invettive contro di loro. In piedi presso la tavola, con un dito sulla pagina per tenere il segno e la destra levata sopra la testa, Traddles, nei panni del signor Pitt, o di Fox, di Sheridan, di Burke, di Lord Castlereagh, del visconte di Sidmouth, o di Canning, si lasciava trasportare ai più violenti entusiasmi e pronunciava le più fulminanti denuncie sugli sperperi e la corruzione di mia zia e del signor Dick; mentre io, seduto a breve distanza, col mio taccuino sul ginocchio, arrancavo dietro di lui con tutte le mie forze. L'inconsistenza e l'avventatezza di Traddles non erano inferiori a quelle di un vero uomo politico. Nel giro di una settimana abbracciò tutte le fedi politiche e issò bandiere di tutti i colori su pennoni di ogni sorta. La zia, vera personificazione di un impassibile Cancelliere dello Scacchiere, usciva ogni tanto in qualche interruzione come: «Udite!» o «No!» o «Oh!», quando il testo sembrava richiederlo, il che era sempre un segnale per il signor Dick (vero gentiluomo di campagna) di unirsi vigorosamente allo stesso grido. Ma il signor Dick fu soggetto a tali accuse, nel corso della sua carriera parlamentare, e fu tenuto responsabile di tali paurose conseguenze, che, a volte, si sentì profondamente a disagio. Credo che cominciasse a temere di avere realmente combinato qualche cosa intesa ad annichilire la costituzione britannica e a mandare in rovina il paese. Più e più volte prolungammo questi dibattiti finché la pendola segnava mezzanotte e le candele erano giunte all'estremo. Il risultato di tanti esercizi fu che a poco a poco riuscii a tener dietro a Traddles abbastanza bene, e avrei raggiunto un vero trionfo se avessi avuto la minima idea di quello che le mie note significavano. Ma, quanto a leggerle dopo averle scritte, avrei potuto, con lo stesso risultato, ricopiare le iscrizioni cinesi di un'immensa collezione di casse da tè o i caratteri dorati di tutti i bottiglioni rossi e verdi delle farmacie! Non c'era da fare altro che tornare indietro e ricominciare tutto da capo. Era dura, ma tornai indietro, pur col cuore oppresso, e ricominciai laboriosamente e metodicamente a ricalcare lo stesso noioso cammino a passo di lumaca, fermandomi per via a esaminare minutamente ogni macchiolina per tutti i versi e facendo i più disperati sforzi per riconoscere a prima vista quei caratteri elusivi dovunque li trovassi. Ero sempre puntuale all'ufficio e anche dal dottore: e in verità lavoravo, secondo l'espressione comune, come un cavallo da tiro. Un giorno, quando arrivai come al solito ai Commons, trovai il signor Spenlow sulla soglia, con un aspetto estremamente serio, che parlava fra sé. Poiché aveva l'abitudine di lamentarsi di mali di testa - il suo collo era per natura molto corto e credo seriamente che si inamidasse troppo - dapprima mi allarmò l'idea che non stesse bene per qualche cosa del genere; ma egli mi tolse subito dall'incertezza. Invece di rispondere al mio «Buon giorno» con la consueta affabilità, mi guardò in un modo ufficiale e distaccato e mi pregò freddamente di accompagnarlo a un certo caffè che, a quel tempo, aveva una porta che si apriva nei Commons, proprio sotto la piccola arcata del cimitero di San Paolo. Obbedii in uno stato di profondo disagio, con tante fitte calde per tutta la persona come se le mie apprensioni stessero esplodendo in foruncoli. Quando gli cedetti il passo lasciandolo andare un po' avanti per la strettezza del passaggio, notai che portava la testa eretta con un'aria fiera che non prometteva nulla di buono, ed ebbi il presagio che avesse scoperto qualche cosa a proposito della mia cara Dora. Anche se non lo avessi indovinato nell'andare al caffè, non avrei potuto fare a meno di capire di che si trattava quando lo seguii in una stanza del piano superiore e trovai lì la signorina Murdstone sullo sfondo di una credenza sulla quale v'erano alcuni bicchieri rovesciati che sostenevano dei limoni e due di quelle straordinarie scatole tutte angoli e scanalature per fissarvi forchette e coltelli, le quali, per fortuna dell'uman genere, sono adesso in disuso. La signorina Murdstone mi tese le sue fredde unghie e si sedette severamente rigida. Il signor Spenlow chiuse la porta, mi indicò una sedia e rimase in piedi sul tappeto di fronte al caminetto. «Abbiate la bontà di mostrare al signor Copperfield,» disse il signor Spenlow, «quello che avete nella borsetta, signorina Murdstone.» Credo che fosse la stessa vecchia borsetta dalla cerniera di acciaio della mia infanzia, che si chiudeva come un morso. Premendo le labbra in attesa del colpo secco, la signorina Murdstone la aprì - aprendo un poco la bocca in egual tempo - e ne trasse la mia ultima lettera a Dora, tutta brulicante di espressioni di devoto affetto. «Credo che sia la vostra scrittura, signor Copperfield,» disse il signor Spenlow. Io mi sentivo ardere, e la voce che udii quando dissi «Sì, signore,» non assomigliava affatto alla mia. «Se non mi sbaglio,» continuò il signor Spenlow mentre la signorina Murdstone estraeva dalla sua borsa un pacchetto di lettere legate con il più caro dei nastri azzurri, «anche queste sono di vostro pugno, signor Copperfield.» Le presi dalla mano di lei con la sensazione più desolata; e, adocchiando all'inizio di esse frasi come «Mia sempre carissima Dora,» «Angelo mio adorato,» «Benedetta per sempre,» e simili, arrossii ancor più e chinai la testa. «No, grazie!» disse freddamente il signor Spenlow mentre io meccanicamente gliele restituivo. «Non voglio privarvene. Signorina Murdstone, abbiate la bontà di continuare!» Quella gentile creatura, dopo avere osservato pensosamente, per un momento, il tappeto, si espresse con secca unzione come segue: «Devo confessare di avere avuto da tempo i miei sospetti sulla signorina Spenlow relativamente a David Copperfield. Osservai la signorina Spenlow e David Copperfield quando si incontrarono la prima volta; e l'impressione che ne ebbi allora non fu piacevole. La depravazione del cuore umano è tale...» «Vi sarò obbligato, signora,» la interruppe il signor Spenlow, «se vorrete limitarvi ai fatti.» La signorina Murdstone abbassò gli occhi, scosse la testa come per protestare contro questa interruzione sconveniente, e con un dignitoso cipiglio riprese: «Poiché devo limitarmi ai fatti, li enuncerò nel modo più asciutto possibile. Forse questo sarà considerato un procedimento più accettabile. Ho già detto, signore, che avevo da tempo sospetti sulla signorina Spenlow relativamente a David Copperfield. Ho spesso tentato di avere una conferma decisiva di questi sospetti, ma inutilmente. Mi sono dunque proibita di farne menzione al padre della signorina Spenlow,» e lo guardò severamente, «sapendo come, generalmente, si è poco disposti, in questi casi, a riconoscere il coscienzioso adempimento di un dovere.» Il signor Spenlow parve molto intimidito dall'altera severità di modi della signorina Murdstone, e scongiurò la sua rigidezza con un breve e conciliatorio ondeggiare della mano nell'aria. «Al mio ritorno a Norwood, dopo il periodo di assenza richiesto dal matrimonio di mio fratello,» continuò la signorina Murdstone con voce sdegnosa, «e al ritorno della signorina Spenlow dalla sua visita all'amica signorina Mills, mi parve che i modi della signorina Spenlow mi dessero un'ancor maggiore occasione di sospetto. Quindi vigilai più strettamente sulla signorina Spenlow.» Cara, tenera piccola Dora, così inconsapevole dell'occhio di quel dragone! «Tuttavia,» riprese la signorina Murdstone, «non trovai prove fino a ieri sera. Mi sembrava che la signorina Spenlow ricevesse troppe lettere dalla sua amica signorina Mills; ma poiché la signorina Mills era sua amica con la piena approvazione del padre,» altra frecciata al signor Spenlow, «non toccava a me interferire. Se non mi si permette di alludere alla naturale depravazione del cuore umano, posso almeno, e devo, permettermi di riferirmi a una fiducia mal riposta.» Il signor Spenlow mormorò un suo assenso in tono di scusa. «Ieri sera, dopo il tè,» continuò la signorina Murdstone, «notai che il cagnolino saltava, si rotolava e abbaiava nel salotto azzannando qualche cosa. Dissi alla signorina Spenlow: ‹Dora, che cosa ha in bocca il cane? Una carta.› La signorina Spenlow immediatamente si toccò l'abito, diede un grido improvviso e corse al cane. Mi frapposi dicendo: ‹Dora, amor mio, dovete lasciarmi fare.›» Oh Jip, miserabile spaniel, questa sciagura, dunque, era opera tua! «La signorina Spenlow tentò,» disse la signorina Murdstone, «di sedurmi con baci, scatole da lavoro e piccoli gioielli, che naturalmente rifiutai. Il cagnolino si rifugiò sotto il divano quando mi avvicinai a lui, e solo con grande difficoltà riuscii a farlo uscire servendomi delle molle. Ma anche sloggiato di lì continuava a tenere la lettera in bocca; e ai miei tentativi di togliergliela, a rischio di essere morsa da un momento all'altro, la stringeva fra i denti con tanta ostinazione da lasciarsi tirar su appeso al documento. Alla fine riuscii a impadronirmene. Dopo averlo letto, accusai la signorina Spenlow di avere molte altre lettere simili presso di sé; e infine ottenni da lei il pacchetto che è ora nelle mani di David Copperfield.» Qui tacque; e chiudendo di nuovo la sua borsa con uno scatto - e chiudendo in egual tempo la bocca - ebbe tutta l'aria di essere disposta a farsi spezzare, ma non mai piegare. «Avete udito la signorina Murdstone,» disse il signor Spenlow volgendosi a me. «Mi permetto di chiedervi, signor Copperfield, se avete qualche cosa da dire in risposta.» Il quadro che mi stava dinanzi, del mio bel tesoro singhiozzante e piangente per tutta la notte... della sua solitudine, atterrita e miseranda... delle sue pietose invocazioni e preghiere a quella donna dal cuore di pietra perché la perdonasse... delle sue vane offerte di baci, scatole da lavoro e ninnoli vari... della sua così angosciosa situazione, e tutto per causa mia... indebolì enormemente quel poco di dignità che ero riuscito a raccogliere. Temo di essere stato preso dal tremito per circa un minuto, sebbene facessi di tutto per dissimularlo. «Non c'è niente che possa dire, signore,» risposi, «se non che tutto il biasimo è mio. Dora...» «La signorina Spenlow, se non vi dispiace,» disse suo padre maestosamente. «...fu indotta e persuasa da me,» proseguii ingoiando questa gelida designazione, «a consentire a questo sotterfugio, e me ne rammarico amaramente.» «Siete quanto mai biasimevole, signore,» disse il signor Spenlow camminando su e giù sul tappeto e dando enfasi a quel che diceva con tutto il corpo, invece che con la sola testa a causa della rigidità della sua cravatta e della sua spina dorsale. «Avete compiuto un'azione furtiva e sconveniente, signor Copperfield. Quando invito un gentiluomo in casa mia, poco importa se abbia diciannove, ventinove o novant'anni, lo invito con piena fiducia. E se lui abusa della mia fiducia, commette un'azione disonorevole, signor Copperfield.» «Ne sono convinto, signore, ve lo assicuro,» risposi, «ma prima non ci avevo mai pensato. Proprio sinceramente, onestamente, signor Spenlow, prima non ci avevo mai pensato. Amo la signorina Spenlow in tal modo...» «Oh, sciocchezze!» esclamò il signor Spenlow arrossendo. «Vi prego di non dirmi in faccia che amate mia figlia, signor Copperfield!» «Posso forse difendere la mia condotta senza farlo, signore?» risposi con ogni umiltà. «Potete forse difendere la vostra condotta senza farlo, signore?» ripeté il signor Spenlow fermandosi di colpo sul tappeto. «Avete considerato la vostra età e l'età di mia figlia, signor Copperfield? Avete considerato che cosa significhi insidiare la fiducia che può sussistere tra mia figlia e me? Avete considerato la posizione di mia figlia nella società, i progetti che posso contemplare per un suo avanzamento, le intenzioni testamentarie che io posso avere a suo riguardo? Avete considerato qualcosa di tutto ciò, signor Copperfield?» «Molto poco, signore, temo,» risposi parlandogli con tutto il rispetto e l'amarezza che sentivo. «Ma vi prego di credere che ho considerato la mia posizione sociale. Quando ve ne ho parlato ci eravamo già fidanzati...» «Vi prego,» disse il signor Spenlow con uno scatto ancor più burattinesco di quelli che avevo già visto in lui e battendo energicamente una mano sull'altra: non potei fare a meno di notarlo pur nella mia disperazione, «di non parlarmi di fidanzamenti, signor Copperfield!» La altrimenti impassibile signorina Murdstone diede un riso di disprezzo in una breve sillaba. «Quando vi esposi la mia mutata condizione, signore,» ripresi sostituendo una nuova forma di espressione a quella che gli era sgradita, «questo sotterfugio nel quale ho infelicemente coinvolto la signorina Spenlow, era già cominciato. Dal momento in cui la mia condizione è cambiata ho teso ogni muscolo, ho impiegato ogni energia per migliorarla. Sono sicuro che col tempo la migliorerò. Volete concedermi del tempo... qualsiasi estensione di tempo? Siamo entrambi così giovani, signore...» «Avete ragione,» mi interruppe il signor Spenlow annuendo con la testa parecchie volte e accigliandosi quanto mai, «siete entrambi molto giovani. È tutta una sciocchezza. Facciamola finita. Portatevi via queste lettere e gettatele nel fuoco. Datemi le lettere della signorina Spenlow perché le getti nel fuoco; e, sebbene i nostri futuri rapporti dovranno, ve ne renderete conto, limitarsi qui ai Commons, saremo d'accordo nel non fare ulteriore menzione del passato. Andiamo, signor Copperfield, voi non mancate di buon senso, e questa è la soluzione più sensata.» No. Non potevo accettarlo. Ne ero molto spiacente ma vi erano considerazioni più alte del buon senso. L'amore era al di sopra di tutte le considerazioni terrene, io amavo Dora fino all'idolatria e Dora amava me. Non dissi esattamente così: lo mitigai per quanto potei, ma lo sottintesi e fui risoluto in questo. Non credo di essermi reso molto ridicolo, ma so di certo di essere stato risoluto. «Benissimo, signor Copperfield,» disse il signor Spenlow, «eserciterò la mia influenza su mia figlia.» La signorina Murdstone, con un suono espressivo, una lunga espirazione che non era né un sospiro né un gemito ma che assomigliava a entrambi, manifestò la sua opinione che avrebbe dovuto farlo fin da principio. «Eserciterò,» ripeté il signor Spenlow, sostenuto da questa approvazione, «la mia influenza su mia figlia. Rifiutate di prendere queste lettere, signor Copperfield?» Io le avevo infatti posate sul tavolo. Sì. Gli dissi di sperare che non me ne facesse un torto, ma non potevo prendere quelle lettere dalla signorina Murdstone. «Nemmeno da me?» chiese il signor Spenlow. No, risposi col più profondo rispetto; nemmeno da lui. «Benissimo,» disse il signor Spenlow. Seguì un silenzio, ed io ero indeciso se andarmene o restare. Alla fine mi stavo già movendo silenziosamente verso la porta con l'intenzione di dire che forse avrei meglio rispettato i suoi sentimenti ritirandomi, quando egli mi disse, con le mani nelle tasche della giacca - che era tutto quello che poteva farne - e con quello che, tutto considerato, potrei chiamare un tono decisamente pio: «Probabilmente vi renderete conto, signor Copperfield, che io non sono del tutto privo di beni terreni e che mia figlia è la mia più cara e più stretta parente.» Mi affrettai a dargli una risposta nel senso che speravo che l'errore in cui ero stato trascinato dalla natura disperata del mio amore non lo avesse indotto a considerarmi anche venale. «Non considero la cosa in questa luce,» rispose il signor Spenlow. «Sarebbe meglio per voi e per tutti noi se foste venale, signor Copperfield: voglio dire se foste più accorto e meno influenzato da tutta questa follia giovanile. No. Dico semplicemente, e con tutt'altra intenzione, che vi renderete probabilmente conto che ho qualche proprietà da lasciare a mia figlia.» Certo lo supponevo. «E non penserete certo,» continuò il signor Spenlow, «avendo esperienza di ciò che vediamo ogni giorno qui ai Commons, dei vari, inspiegabili e negligenti comportamenti degli uomini rispetto alle loro disposizioni testamentarie - quello forse, fra tutti i soggetti, in cui si possono incontrare le più strane manifestazioni dell'umana inconsistenza - non penserete certo che non abbia già steso le mie.» Inchinai la testa assentendo. «Non potrei ammettere,» disse il signor Spenlow con un evidente aumento di pii sentimenti e scuotendo lentamente la testa mentre andava bilanciandosi alternamente sulle punte e sui talloni, «che i miei opportuni provvedimenti per mia figlia venissero influenzati da una follia giovanile come questa. Pura follia. Pura insensatezza. Tra poco tempo sarà più leggera di una foglia. Ma potrei - potrei - se questa sciocca faccenda non fosse completamente e definitivamente messa da parte, essere indotto, in qualche momento di ansia, a difenderla e proteggerla dalle conseguenze di qualche avventato passo matrimoniale. Ora, signor Copperfield, spero che non vogliate mettermi nella necessità di riaprire, sia pure per un quarto d'ora, questa pagina chiusa nel libro della mia vita, e sconvolgere, sia pure per un quarto d'ora, importanti disposizioni già sistemate da tempo.» Vi erano in lui una serenità, una tranquillità, un'aria di calmo tramonto che mi commossero nell'intimo. Era così calmo e rassegnato - evidentemente i suoi affari erano in perfetto ordine e sistematicamente disposti - che non si poteva guardarlo senza esserne tocchi. Credo proprio di avergli visto delle lacrime negli occhi, sgorgate dal profondo dei suoi sentimenti. Ma che potevo fare? Non potevo rinnegare né Dora né il mio cuore. Quando mi suggerì che avrei fatto bene a prendere una settimana di tempo per riflettere su quello che mi aveva detto, come avrei potuto rifiutarmi? E tuttavia come potevo ignorare che nessun numero di settimane avrebbe potuto influire su di un amore come il mio? «Frattanto, consigliatevi con la signorina Trotwood o con qualche altra persona che abbia esperienza di vita,» disse il signor Spenlow aggiustandosi la cravatta a due mani. «Aspettate una settimana, signor Copperfield.» Mi arresi; e con il più espressivo contegno di abbattuta e disperata costanza che mi fu possibile assumere, uscii dalla stanza. Le pesanti sopracciglia della signorina Murdstone mi seguirono fino alla porta - dico le sue sopracciglia invece dei suoi occhi perché le sopracciglia avevano più importanza nel suo volto - ed ella mi apparve così identica a come mi appariva, circa la stessa ora del mattino, nel nostro salotto di Blunderstone, che avrei potuto immaginare di stare ancora esaurendomi nella mia lezione e che la causa della mia ambascia fosse ancora quell'orribile vecchio sillabario dalle vignette ovali, a forma, per la mia fantasia infantile, di lenti da occhiali. Quando giunsi all'ufficio e, dopo aver chiuso fuori il vecchio Tiffey e gli altri con le mie stesse mani, mi fui seduto alla scrivania, nel mio angolo particolare, pensando al terremoto che era avvenuto in modo così inatteso e maledicendo Jip nell'amarezza del mio cuore, caddi in tali tormentose apprensioni per Dora che mi meraviglio di non aver preso il cappello per precipitarmi come un pazzo a Norwood. L'idea che la impaurivano e la facevano piangere e che io non ero là a consolarla, era per me così straziante da spingermi a scrivere una folle lettera al signor Spenlow scongiurandolo di non far ricadere su di lei le conseguenze del mio terribile destino. Lo supplicavo di risparmiare la sua gentile natura - di non schiacciare il tenero fiore - e in generale mi rivolgevo a lui, per quanto ricordi, come se, invece che suo padre, fosse stato un orco o il drago di Wantley. Sigillai questa lettera e la misi sul suo scrittoio prima che tornasse, e, quando arrivò, lo vidi, dalla porta socchiusa della sua stanza, prenderla e leggerla. Non me ne disse nulla per tutto il mattino; ma, prima di andar via nel pomeriggio, mi chiamò e mi disse che non dovevo stare in apprensione per la felicità di sua figlia. L'aveva assicurata, disse, che era stata tutta una sciocchezza e non aveva altro da dirle in proposito. Credeva di essere un padre indulgente (e in realtà lo era) e io potevo risparmiarmi ogni preoccupazione sul conto di lei. «Potreste mettermi nella necessità, se continuerete a essere folle o ostinato, signor Copperfield,» mi fece notare, «di mandare ancora mia figlia all'estero per qualche tempo; ma ho di voi una migliore opinione. Spero che, entro pochi giorni, sarete molto più saggio. Quanto alla signorina Murdstone,» perché nella lettera avevo alluso anche a lei, «rispetto la vigilanza di questa signora e mi sento obbligato a lei; ma ha avuto ordini rigorosi di evitare questo argomento. Tutto quello che desidero, signor Copperfield, è che sia dimenticato. Tutto quello che avete da fare, signor Copperfield, è di dimenticarlo.» Tutto! In un biglietto che scrissi alla signorina Mills citai amaramente questa conclusione. Tutto quello che dovevo fare, dissi con cupo sarcasmo, era di dimenticare Dora. Questo era tutto, e che significava? Pregai la signorina Mills di ricevermi quella sera: se non poteva farlo con l'approvazione e il concorso del signor Mills, le chiedevo un'intervista clandestina nel retrocucina, dove era il mangano per stirare. La informai che la mia ragione stava vacillando sul suo trono e che solo lei, la signorina Mills, poteva impedire che venisse rovesciata. Mi firmai: il suo disperatamente; e non potei fare a meno di avere l'impressione, nel rileggere la mia prosa, che fosse un po' sullo stile del signor Micawber. Comunque la spedii. La sera mi recai nella strada della signorina Mills e passeggiai su e giù finché venne a chiamarmi in segreto la cameriera della signorina Mills stessa, la quale, attraverso il cortiletto laterale, mi introdusse nel retrocucina. Ho sempre avuto ragioni per credere, in seguito, che non vi era alcun motivo al mondo che mi impedisse di entrare dal portone ed essere ricevuto nel salotto, se non l'amore, proprio della signorina Mills, per tutto ciò che fosse romantico e misterioso. Nel retrocucina, insanii come mi si conveniva. Ero andato là, immagino, per rendermi ridicolo e non ho dubbi di esservi riuscito. La signorina Mills aveva ricevuto un frettoloso biglietto di Dora in cui la avvertiva che tutto era stato scoperto e diceva: «Oh, ti prego, vieni da me, Julia, vieni, vieni!» Ma la signorina Mills, giudicando poco gradita alle autorità la sua presenza, non era ancora andata; e tutti andavamo brancolando nel deserto del Sahara. La signorina Mills aveva sempre a disposizione un fiume di parole e le piaceva farle traboccare. Non potei fare a meno di pensare, per quanto unisse le sue lacrime alle mie, che le nostre afflizioni le davano un terribile godimento. Se le coccolava, per così dire, e se le esaltava al massimo. Un profondo abisso, notò, si era aperto fra Dora e me, e l'amore poteva solo attraversarlo con il suo arcobaleno. L'amore deve soffrire in questo triste mondo; è sempre stato così e sempre lo sarà. Poco importa, concluse la signorina Mills. I cuori legati da tele di ragno scoppieranno alfine e l'amore sarà vendicato. Era una magra consolazione, ma la signorina Mills non voleva incoraggiare speranze fallaci. Mi rese molto più infelice di quanto non fossi prima, e io sentii (e glielo dissi con la più profonda gratitudine) che era davvero un'amica. Decidemmo che sarebbe andata da Dora, come prima cosa, al mattino, e avrebbe trovato un qualche mezzo per assicurarla, con gli sguardi o con le parole, della mia devozione e del mio strazio. Ci separammo traboccanti di dolore; e credo che la signorina Mills se la sia goduta appieno. Confidai tutto alla zia quando tornai a casa; e nonostante tutto quello che mi poté dire, andai a letto disperato. Mi alzai disperato e uscii disperato. Era una mattina di sabato e andai direttamente ai Commons. Mi sorprese, quando fui in vista della porta dell'ufficio, vedere i fattorini fermi là fuori e intenti a parlare fra loro, e una mezza dozzina di sfaccendati che guardavano le finestre chiuse. Affrettai il passo e, attraversando il loro gruppo, stupito delle loro espressioni, entrai rapidamente. Gli scrivani erano lì, ma nessuno faceva nulla. Il vecchio Tiffey, per la prima volta in vita sua, direi, era seduto sullo sgabello di qualcun altro e non aveva ancora appeso il cappello all'attaccapanni. «È una terribile calamità, signor Copperfield,» disse mentre entravo. «Che cosa?» esclamai. «Che è successo?» «Non lo sapete?» gridarono Tiffey e tutti gli altri facendomisi attorno. «No!» risposi lasciando scorrere lo sguardo su ogni volto. «Il signor Spenlow,» disse Tiffey. «Ebbene?» «Morto!» Mi parve che non io, ma tutto l'ufficio traballasse, mentre uno degli scrivani mi sosteneva. Mi misero su di una sedia, mi slacciarono la cravatta, mi portarono dell'acqua. Non ho idea del tempo che passò. «Morto?» ripetei. «Ieri sera pranzò in città, e guidò lui stesso il phaeton al ritorno,» disse Tiffey, «dopo aver rimandato a casa l'uomo di stalla con la diligenza, come faceva spesso, lo sapete...» «Ebbene?» «Il phaeton tornò a casa senza di lui. I cavalli si fermarono alla porta della stalla. L'uomo uscì con una lanterna. Nella vettura non c'era nessuno.» «Gli avevano preso la mano?» «Non erano accaldati,» rispose Tiffey mettendosi gli occhiali; «voglio dire che non erano più accaldati di quello che sarebbero stati percorrendo la strada a passo normale. Le redini erano spezzate, ma avevano strascicato a terra. Tutta la servitù fu subito in piedi, e in tre ripercorsero la strada. Lo trovarono a un miglio di distanza.» «Più di un miglio, signor Tiffey,» intervenne uno dei giovani. «Dite? Forse avete ragione,» disse il signor Tiffey, «più di un miglio... non lontano dalla chiesa... giaceva in parte sulla strada e in parte sul sentiero pedonale, a faccia in giù. Se sia caduto per un attacco, o sia sceso sentendosi male prima che l'attacco lo colpisse... o addirittura se fosse già morto quando lo trovarono, sebbene fosse senza dubbio insensibile, nessuno sembra saperlo. Se respirava ancora, certo non parlò. L'assistenza medica giunse appena possibile, ma non servì a nulla.» Non posso descrivere lo stato mentale in cui caddi a questa notizia. Il colpo di un simile evento avvenuto così improvvisamente e a una persona con cui ero stato, sotto certi aspetti, in discordia... il terribile vuoto nella stanza da lui occupata fino a poco prima, dove la sua sedia e il suo tavolo sembravano attenderlo e i suoi scritti del giorno prima sembravano fantasmi... l'indefinibile impossibilità di separarlo da quel luogo e la sensazione, ogni volta che la porta si apriva, di vederlo entrare... il silenzio e l'immobilità che oziavano nell'ufficio, e l'insaziabile gusto con cui i nostri parlavano del fatto mentre altri continuarono ad andare e venire per tutto il giorno rimpinzandosi dell'avvenuto... tutto questo è comprensibile per chiunque. Quello che non posso descrivere è come, nei più intimi recessi del mio cuore, ero segretamente geloso della stessa morte. Come avessi l'impressione che il suo potere mi avrebbe scacciato dai pensieri di Dora. Come, per qualche gelosia per cui non ho parole, invidiassi il dolore di lei. Come mi rendesse inquieto l'idea che ella piangeva con altri e veniva consolata da altri. Come avessi il cupido e avaro desiderio di escludere da lei ogni altro se non me stesso e di essere per lei l'unico in quel momento più di ogni altro inopportuno. Nel turbamento di questo stato d'animo - non esclusivamente mio, spero, ma conosciuto anche da altri - quella sera andai a Norwood; e, avendo saputo da una domestica, quando m'informai alla porta, che la signorina Mills era là, indussi la zia a indirizzarle una lettera, che scrissi io. Deplorai molto sinceramente l'intempestiva morte del signor Spenlow, e versai lacrime nel farlo. La pregavo di dire a Dora, se Dora era in condizioni di ascoltarla, che egli mi aveva parlato con la massima affabilità e considerazione, e che aveva unito al suo nome niente altro che tenerezza, senza una sola parola di rimprovero. So di averlo fatto egoisticamente, perché le fosse presente il mio nome; ma tentai di credere che fosse un atto di giustizia alla sua memoria. E forse vi credetti. Il giorno dopo, la zia ricevette poche parole di risposta, indirizzate a lei ma scritte a me. Dora era sopraffatta dal dolore; e quando la sua amica le aveva chiesto se doveva mandarmi le espressioni del suo affetto, aveva solo gridato, come sempre gridava: «Oh, caro papà! Oh, povero papà!» Ma non aveva detto di no, e questo, per me, fu molto. Il signor Jorkins, che era stato a Norwood fin dal momento della sciagura, tornò in ufficio pochi giorni dopo. Lui e Tiffey vi si chiusero insieme per pochi momenti, e poi Tiffey, sporgendosi dalla porta, mi invitò a entrare. «Oh!» disse il signor Jorkins. «Il signor Tiffey e io, signor Copperfield, stiamo esaminando le scrivanie, i cassetti e gli altri ripostigli del defunto per sigillare le sue carte private e cercare un testamento. Non ne vediamo traccia in nessuna parte. Sarebbe bene che ci aiutaste, se non vi dispiace.» Avevo sofferto ogni angoscia nell'ansia di sapere in quali condizioni sarebbe venuta a trovarsi Dora - sotto la tutela di chi e così via - e questo giungeva proprio a proposito. Cominciammo subito la ricerca; il signor Jorkins apriva i cassetti e le scrivanie e poi tutti insieme raccoglievamo le carte. I documenti di ufficio venivano messi da una parte e i fogli privati (che non erano numerosi) da un'altra. Eravamo molto seri; e quando trovavamo qualche sigillo sperduto, o un portamatite, o un anello o qualsiasi altro oggettino del genere che associavamo alla personalità di lui, parlavamo a voce bassa. Avevamo già sigillato parecchi pacchetti, e continuavamo le ricerche tra la polvere e il silenzio, quando il signor Jorkins ci disse applicando al suo defunto socio esattamente le stesse parole che il defunto socio aveva applicato a lui: «Il signor Spenlow molto difficilmente si allontanava dal sentiero battuto. Voi lo conoscevate! Sono indotto a credere che non abbia fatto testamento.» «Oh, so che lo aveva fatto,» dissi io. Si fermarono entrambi guardandomi. «Il giorno stesso in cui lo vidi per l'ultima volta,» continuai, «mi disse di averlo fatto e che i suoi affari erano sistemati da molto tempo.» Il signor Jorkins e il vecchio Tiffey scossero le teste in perfetto accordo. «Mi sembra improbabile,» disse Tiffey. «Molto improbabile,» aggiunse il signor Jorkins. «Non vorrete certo mettere in dubbio...» cominciai. «Mio buon signor Copperfield!» disse Tiffey mettendomi una mano sul braccio e chiudendo entrambi gli occhi mentre riprendeva a scuotere la testa: «se foste stato ai Commons quanto ci sono stato io, sapreste che non vi è soggetto sul quale gli uomini siano così inconsistenti e così poco degni di fiducia.» «Eppure, il ciel mi benedica, mi ha detto proprio così!» insistei. «Per me, direi che la cosa è quasi conclusa,» osservò Tiffey. «La mia opinione è: nessun testamento.» Mi parve incredibile, ma risultò che non c'era alcun testamento. Non aveva nemmeno mai pensato a farne uno, almeno da quello che sembravano provare le sue carte, perché non vi era in esse alcun accenno, né abbozzo, né pro-memoria di una qualsiasi intenzione testamentaria. E ciò che mi stupì non meno fu che i suoi affari erano quanto mai in disordine. Sentii dire che era estremamente difficile fare il computo di quello che doveva ancora pagare, di quello che aveva pagato e di quello che aveva lasciato morendo. Risultò che molto probabilmente per anni interi non doveva avere avuto neppur lui un'idea chiara di tutto questo. A poco a poco saltò fuori che, nella gara su tutte le manifestazioni di sfoggio e di signorilità che si era scatenata allora nei Commons, aveva speso più di quanto glielo permettessero le sue entrate professionali, che non erano molto vaste, e aveva ridotto la sua proprietà privata, se pur era mai stata imponente (cosa molto dubbia) a un livello alquanto basso. Fu fatta a Norwood la vendita del mobilio e dell'immobile; e Tiffey mi disse, senza immaginare quanto fossi interessato in quella storia, che, pagati tutti i giusti debiti del defunto, e dedotta la sua parte di debiti in sospeso, cattivi o dubbi dovuti alla ditta, non avrebbe dato mille sterline per tutte le attività rimanenti. Questo avvenne dopo circa sei settimane. Per tutto questo tempo ero stato alla tortura; e pensavo davvero a compiere un atto violento contro me stesso, quando la signorina Mills mi riferì nuovamente che la mia piccola e angosciata Dora, quando le si parlava di me, non diceva altro che «Oh, povero papà! Oh, caro papà!» Mi disse anche che Dora non aveva altri parenti se non due zie zitelle, sorelle del signor Spenlow, che vivevano a Putney e che, per molti anni, avevano avuto col fratello solo rapporti casuali. Non che avessero litigato (mi informò la signorina Mills); ma perché, in occasione del battesimo di Dora, essendo state invitate solo al tè, mentre esse si consideravano in diritto di partecipare anche al pranzo, avevano espresso il loro parere scrivendo che era «meglio per la felicità di entrambe le parti» che se ne stessero per loro conto. Dopo di che, esse erano andate per la loro strada e il fratello per la sua. Queste due signore uscirono adesso dal loro ritiro proponendo di prendere con sé Dora a Putney. Dora, aggrappandosi a entrambe e piangendo, esclamò: «Oh, sì, zie! Vi prego, portate a Putney Julia Mills, me e Jip!» E così erano partite subito dopo il funerale. Come trovassi il tempo di frequentare Putney non lo so davvero; ma, in un modo o in un altro riuscii ad aggirarmi per quei paraggi abbastanza spesso. La signorina Mills, per compiere più scrupolosamente i suoi doveri di amicizia, tenne un diario; e soleva incontrarmi ogni tanto ai Commons e leggermelo, o (se non aveva tempo per questo) prestarmelo. Come feci tesoro di quelle note, di cui unisco un esempio! «Lunedì. La mia dolce D. ancora molto depressa. Mal di testa. Richiamata sua attenzione su J. tutto lustro. D. coccolato J. Ricordi così risvegliati, aperte cateratte di dolore. Via libera a ondate di strazio. (Le lacrime sono forse la rugiada del cuore? J.M.)» «Martedì. D. debole e nervosa. Bella nel pallore. (Non notiamo questo anche nella luna? J.M.) D., J.M. e J. preso aria in vettura. J., guardando dal finestrino e abbaiando violentemente a spazzino, provocò sorriso diffuso su lineamenti di D. (Di tali minuti anelli è composta la catena della vita! J.M.)» «Mercoledì. D. relativamente allegra. Cantatole, come melodia congeniale, Campane a sera. Effetto non calmante ma all'opposto. D. indicibilmente commossa. Trovata poi singhiozzante nella sua stanza. Citato versi relativi a lei e alla giovane gazzella. Inutilmente. Alluso anche al monumento della pazienza. (Ricercare: perché monumento? J.M.)» «Giovedì. D. certamente migliorata. Notte più calma. Leggera tinta rosa tornata sulle sue guance. Decisa fare il nome di D.C. Insinuato cautamente tale nome durante la passeggiata. D. immediatamente sopraffatta. ‹Oh, cara, cara Julia! Oh, io sono stata una figlia cattiva che ha mancato ai suoi doveri!› Calmata e accarezzata. Tracciato un quadro ideale di D.C. sul margine della tomba. D. ancora sopraffatta. ‹Oh, che cosa devo fare, che cosa devo fare? Oh, portami via in qualche parte!› Molto allarmata. D. sviene; un bicchier d'acqua da un'osteria. (Poetica affinità: decorazione variegata sullo stipite della porta; variegata è la vita umana. Ahimè! J.M.)» «Venerdì. Giorno di incidenti. Appare un uomo in cucina con borsa turchina ‹per scarpe della signora lasciate per rimettervi i tacchi.› Cuoca risponde: ‹Non ho ordini.› Uomo insiste. Cuoca si ritira per chiedere, lasciando uomo solo con J. Al ritorno della cuoca, uomo insiste ancora, ma infine se ne va. J. non si trova più. D. fuori di sé. Avvertita la polizia. Uomo identificabile da grosso naso e gambe come balaustrate di ponte. Fatte ricerche in ogni direzione. Niente J. D. piange amaramente e inconsolabile. Nuovo riferimento alla giovane gazzella. Appropriato ma inutile. Verso sera arriva strano ragazzo. Portato in salotto. Grosso naso ma non balaustrate. Dice che vuole una sterlina e conosce un cane. Rifiuta ulteriori spiegazioni sebbene scongiurato. Datagli sterlina da D., conduce cuoca a casetta dove J. è solo, legato a gamba di tavolo. Gioia di D. che balla intorno a J. mentre lui mangia la zuppa. Incoraggiata da questo felice mutamento, faccio il nome di D.C. sulle scale. D. piange di nuovo e grida pietosamente: ‹Oh, no, no, no! È così brutto pensare a qualche cosa che non sia il povero papà!› Abbraccia J. e singhiozza fino ad addormentarsi. (D.C. dovrà affidarsi alle vaste ali del tempo? J.M.)» La signorina Mills e il suo diario furono in quel periodo la mia unica consolazione. Vedere lei, che aveva visto Dora poco prima; rintracciare la lettera iniziale di Dora nelle sue simpatetiche pagine; essere reso da lei sempre più miserabile erano i miei soli conforti. Mi sembrava di essere vissuto in un castello di carte che era franato lasciando solo la signorina Mills e me fra le rovine; mi sembrava che qualche truce incantatore avesse tracciato un circolo magico attorno all'innocente dea del mio cuore e che nulla, se non quelle stesse forti ali del tempo, capaci di portare tanta gente oltre tanti ostacoli, mi avrebbe permesso di entrarvi! XXXIX • WICKFIELD E HEEP La zia, incominciando, credo, a essere seriamente impensierita dal mio prolungato abbattimento, finse di desiderare che andassi a Dover per vedere se tutto procedeva bene alla villa, che era stata affittata, e accordarmi con l'inquilino per un contratto di locazione a termine più lungo. Janet era passata al servizio della signora Strong, dove la vedevo ogni giorno. Lasciando Dover, era stata indecisa se dare o no il tocco finale a quella rinuncia al genere umano, nella quale era stata educata, sposando un pilota; ma si decise in senso contrario a questo rischio. Non tanto, credo, per amore del principio quanto perché il pilota non le piaceva. Sebbene dovessi fare uno sforzo per lasciare la signorina Mills, obbedii piuttosto volentieri alla richiesta della zia come un'occasione per passare qualche ora tranquilla con Agnes. Consultai il buon dottore relativamente a un'assenza di tre giorni; e, poiché il dottore desiderava che mi prendessi questo riposo - voleva anzi che me ne prendessi uno più lungo, ma la mia energia non poté consentirlo - decisi di partire. Quanto ai Commons, non avevo grandi occasioni di essere scrupoloso nei miei doveri in questo quartiere. A dire il vero, non eravamo affatto in buona luce fra i principali procuratori ecclesiastici e stavamo rapidamente scivolando in una posizione piuttosto dubbia. Gli affari erano stati mediocri sotto il signor Jorkins, prima del tempo del signor Spenlow; e sebbene fossero stati ravvivati dall'infusione di sangue nuovo e dagli sfoggi che il signor Spenlow faceva, non erano tuttavia fondati su basi abbastanza solide da sopportare senza scosse un colpo come quello dell'improvvisa scomparsa del loro attivo direttore. Calarono enormemente. Il signor Jorkins, nonostante la sua reputazione nella ditta, era un incapace posapiano la cui pubblica fama non era certo adatta a incrementarli. Adesso dipendevo da lui, e quando lo vidi fiutare le sue prese di tabacco lasciando che gli affari se ne andassero per loro conto, rimpiansi più che mai le mille sterline della zia. Ma questo non era il peggio. Attorno ai Commons v'era una quantità di parassiti e di improvvisati che, senza essere procuratori, si occupavano di affari di normale amministrazione facendoli passare come compiuti da veri procuratori che prestavano il loro nome in vista della divisione del bottino; e di tipi simili ce n'erano parecchi. Poiché adesso la nostra casa aveva bisogno di affari a ogni costo, ci alleammo a questa nobile banda; e gettammo esche ai parassiti e agli improvvisati per tirare a noi i loro affari. Licenze di matrimonio e piccole omologazioni eran quello a cui tutti noi miravamo e che rendeva di più; e la gara per ottenerle era quanto mai accesa. Adescatori e rapitori erano appostati in tutte le strade di ingresso ai Commons, con l'ordine di far di tutto per tagliar fuori ogni persona in lutto, ogni signore dall'aria un po' timida e attirarli negli uffici di coloro che li avevano ingaggiati; tali ordini erano osservati così scrupolosamente che io stesso, prima di essere conosciuto, fui trascinato due volte negli uffici del nostro principale concorrente. Poiché i contrastanti interessi di questi maneggioni erano tali da irritare i loro sentimenti, non mancavano le collisioni personali; e i Commons dovettero perfino subir lo scandalo di vedere il nostro principale adescatore (che era stato dapprima nel commercio dei vini e aveva fatto poi il mediatore giurato) andarsene in giro per qualche giorno con un occhio nero. Nessuno di tali esploratori dava la minima importanza al fatto di aiutare garbatamente una vecchia signora in lutto a scendere di vettura, ammazzare il procuratore ecclesiastico di cui chiedeva, presentarle il proprio ingaggiatore come il successore legale e rappresentante di quel procuratore stesso, e portare la vecchia signora (spesso molto impressionata) negli uffici del principale. Molti clienti catturati mi furono condotti in questo modo. Quanto alle licenze di matrimonio, la competizione giunse a tali estremi che un signore timido il quale ne avesse bisogno, non poteva far altro che sottomettersi al primo adescatore o divenire oggetto di furiose lotte e cadere in balìa del più forte. Uno dei nostri scrivani, membro della congrega, era solito, nei momenti culminanti di queste contese, starsene seduto al suo tavolo col cappello in testa per esser più pronto a precipitarsi fuori e riconoscere sotto giuramento davanti a un sostituto qualsiasi vittima che ci venisse portata. Il sistema degli adescamenti continua, credo, anche oggi. L'ultima volta che fui ai Commons, un tipo pieno di civiltà e di muscoli, in grembiule bianco, mi si avventò addosso uscendo da una porta sussurrandomi all'orecchio la parola «Licenza», e solo a gran pena potei impedirgli di prendermi fra le braccia e portarmi di peso da un procuratore. Dopo questa digressione, torniamo a Dover. Alla villa trovai tutto in uno stato soddisfacente; e potei compiacere enormemente la zia riferendole che il locatario aveva ereditato la sua aggressività e faceva continua guerra ai somari. Sistemata la faccenduola che dovevo trattare e dopo aver passato laggiù una notte, m'incamminai per Canterbury il mattino presto. Era di nuovo inverno, e l'aria frizzante e fredda di una giornata ventosa insieme alle ampie dune illuminarono un poco le mie speranze. Entrando in Canterbury, indugiai per le vecchie strade con un pacato compiacimento che mi calmò lo spirito e mi sollevò il cuore. Ecco le antiche insegne, gli antichi nomi sui negozi, l'antica gente che vi serviva. Sembrava essere passato tanto tempo da quando ero stato scolaro laggiù, che mi meravigliavo nel vedere il luogo così poco mutato, finché pensai a quanto poco fossi mutato io stesso. Strano a dirsi, quella pacata influenza che, nella mia mente, era inseparabile da Agnes, sembrava pervadere anche la città in cui ella viveva. Le venerabili torri della cattedrale, i vecchi corvi e le cornacchie le cui voci aeree sembravano isolarli nella lontananza più di quanto avrebbe potuto fare un perfetto silenzio; i cancelli cadenti, l'uno dei quali zeppo di statue da tempo cadute e andate in polvere come i reverenti pellegrini che le avevano contemplate; gli angoli tranquilli in cui edere secolari si arrampicavano su frontoni e mura in rovina; le vecchie case, il paesaggio pastorale di campi, orti e giardini; in ogni luogo - in ogni cosa - sentivo la stessa aria serena, lo stesso spirito calmo, pensoso, rassicurante. Arrivato alla casa del signor Wickfield, trovai, nella stanzetta a terreno, dove una volta soleva starsene Uriah Heep, il signor Micawber tutto intento a lavorar di penna con grande assiduità. Indossava un abito nero dall'aria legale e si profilava, grande e grosso, nel piccolo ufficio. Il signor Micawber fu felicissimo di vedermi, ma anche un po' confuso. Avrebbe voluto condurmi senz'altro alla presenza di Uriah, ma rifiutai. «Conosco la casa da tempo, ricordate,» dissi, «e saprò salire da solo. Che ve ne pare della legge, signor Micawber?» «Mio caro Copperfield,» rispose, «per un uomo dotato di grandi poteri di fantasia, il principale ostacolo degli studi legali consiste nella grande quantità di particolari che implicano. Anche nella nostra corrispondenza professionale,» disse il signor Micawber dando un'occhiata ad alcune lettere che stava scrivendo, «la mente non è libera di librarsi a volo in qualche elevata forma di espressione. Tuttavia è una grande attività. Una grande attività!» Mi disse poi di essere divenuto il locatario della vecchia casa di Uriah Heep, e che la signora Micawber sarebbe stata lieta di ricevermi ancora una volta sotto il suo tetto. «È umile,» disse il signor Micawber, «per valermi di un'espressione favorita del mio amico Heep; ma può essere il primo gradino verso più ambiziose sistemazioni domiciliari.» Gli domandai se, finora, aveva ragioni per esser contento del trattamento fattogli dal suo amico Heep. Lui si alzò per assicurarsi che la porta fosse chiusa prima di rispondere a bassa voce: «Mio caro Copperfield, un uomo che lavora sotto la pressione di imbarazzi pecuniari è in condizioni di svantaggio rispetto al resto della gente. E lo svantaggio non è diminuito dal fatto che questa pressione lo costringa a chiedere emolumenti stipendiari prima che questi emolumenti stessi siano strettamente dovuti e pagabili. Tutto quello che posso dire è che il mio amico Heep ha risposto agli appelli, ai quali non è necessario che mi riferisca più particolarmente, in modo tale da tornare egualmente a onore della sua testa e del suo cuore.» «Non avrei supposto che egli fosse molto liberale col suo denaro,» notai. «Scusatemi!» disse il signor Micawber con un'aria piuttosto forzata, «parlo del mio amico Heep secondo l'esperienza che ne ho avuto.» «Sono lieto che la vostra esperienza sia così favorevole,» risposi. «Siete molto gentile, mio caro Copperfield,» disse il signor Micawber; e mugolò un'arietta. «Vedete spesso il signor Wickfield?» chiesi. «Non molto,» rispose il signor Micawber con noncuranza. «Il signor Wickfield è, oserei dire, un uomo di eccellenti intenzioni; ma è... insomma è antiquato.» «Temo che il suo socio cerchi di metterlo in questa luce,» dissi. «Mio caro Copperfield!» rispose il signor Micawber dopo aver fatto alcune imbarazzate evoluzioni sul suo sgabello, «permettetemi di fare una osservazione. Io sono qui con funzioni di confidenza. Sono qui in una posizione di fiducia. Il discutere su certi argomenti, perfino con la stessa signora Micawber (compagna da tanto tempo delle mie varie vicissitudini e donna di notevole lucidità di intelletto) è, devo considerarlo, incompatibile con le funzioni che adempio. Mi prenderò dunque la libertà di suggerire che, nei nostri amichevoli rapporti - che spero non verranno turbati! - venga tracciata una linea. Da una parte di questa linea,» disse il signor Micawber rappresentandola sulla scrivania con il righello, «c'è tutto il campo dell'intelletto umano con una piccola eccezione; dall'altra c'è questa eccezione, vale a dire gli affari dei signor Wickfield e Heep con tutto ciò che vi si riconnette e vi appartiene. Spero di non far torto al compagno della mia gioventù se sottometto questa proposta al suo giudizio più spassionato.» Sebbene vedessi un cambiamento imbarazzato nel signor Micawber, che se ne stava chiuso in se stesso come se i suoi nuovi doveri fossero un abito troppo stretto, sentii che non avevo il diritto di essere offeso. L'averglielo detto parve sollevarlo, e ci stringemmo la mano. «Sono affascinato, Copperfield,» disse il signor Micawber, «permettetemi di assicurarvelo, dalla signorina Wickfield. È una giovinetta veramente superiore, piena delle più notevoli attrattive, grazie e virtù. Sul mio onore,» disse il signor Micawber baciandosi più volte la mano e inchinandosi con la sua aria più aristocratica, «rendo omaggio alla signorina Wickfield! Hem!» «Sono felice almeno di questo,» dissi. «Se voi non ci aveste assicurato, mio caro Copperfield, in occasione di un piacevole pomeriggio che avemmo la felicità di passare con voi, che D. era la vostra lettera favorita,» proseguì il signor Micawber, «avrei supposto senza il minimo dubbio che fosse A.» Tutti abbiamo avuto esperienza di una sensazione, percepita occasionalmente, che ciò che stiamo dicendo o facendo sia già stato detto o fatto in un tempo remoto... di essere stati circondati, in un oscuro passato, dagli stessi volti, dagli stessi oggetti, dalle stesse circostanze... di conoscere perfettamente quello che sarà detto fra un momento, come se lo ricordassimo! Non ebbi mai questa misteriosa impressione, nella mia vita, più nettamente di un istante prima che il signor Micawber pronunciasse queste parole. Presi congedo per il momento dal signor Micawber incaricandolo di presentare i miei migliori saluti a tutta la sua famiglia. Nel lasciarlo, mentre riprendeva il suo sgabello e la sua penna e girava il capo nel rigido colletto per metterlo in una posizione più adatta alla scrittura, vidi chiaramente che qualche cosa si era intromessa fra lui e me da quando era entrato nelle sue nuove funzioni, impedendoci di comunicare reciprocamente come un tempo e alterando totalmente il carattere delle nostre relazioni. Nel vecchio e bizzarro salottino non c'era alcuno, sebbene apparissero tracce della signora Heep, che doveva essere nelle vicinanze. Guardai nella stanza che ancora apparteneva ad Agnes, e la vidi seduta presso il fuoco, intenta a scrivere alla sua graziosa, antica scrivania. L'ombra che proiettai le fece alzare lo sguardo. Qual piacere sentirsi la causa di quel luminoso mutamento nel suo volto intento e l'oggetto del suo dolce sguardo di benvenuto. «Oh, Agnes!» dissi quando fummo seduti insieme, a fianco a fianco; «ho sentito tanto la tua mancanza in questi ultimi tempi!» «Davvero?» mi rispose. «Ancora? E così presto?» Scossi la testa. «Non so come sia, Agnes; mi sembra che mi manchi qualche facoltà mentale che dovrei avere. Avevi talmente preso l'abitudine di pensare per me, nei felici giorni di un tempo, e io venivo così naturalmente a te per consiglio e aiuto, che credo proprio di non essere riuscito ad acquistare questa facoltà.» «E qual è?» chiese Agnes allegramente. «Non so come chiamarla,» risposi. «Credo di essere serio e perseverante in quello che faccio.» «Certo,» disse Agnes. «E anche paziente, Agnes?» chiesi dopo una piccola esitazione. «Sì,» rispose Agnes ridendo. «Piuttosto.» «E tuttavia,» dissi, «mi sento così miserando e preoccupato, così instabile e irresoluto nel controllarmi, da capire che mi manca... come dire?... un qualche tipo di fiducia.» «Chiamala così, se vuoi,» disse Agnes. «Bene!» risposi. «Guarda qui! Tu vieni a Londra, io mi affido a te e subito trovo uno scopo e un orientamento. Ne sono sviato, vengo qui, e in un attimo mi sento un'altra persona. Le circostanze che mi angustiavano non sono cambiate, da quando sono entrato in questa stanza; ma in questo breve intervallo è scesa su di me un'influenza che mi ha mutato, e quanto in meglio! Che cosa è? Qual è il tuo segreto, Agnes?» Teneva la testa china, guardando il fuoco. «È la vecchia storia,» dissi. «Non ridere quando sostengo che è sempre lo stesso, nelle piccole cose come nelle grandi. I miei vecchi crucci erano sciocchezze, e adesso sono seri; ma ogni volta che mi sono allontanato dalla mia sorella adottiva...» Agnes alzò lo sguardo - con un volto così celestiale e mi tese la mano che baciai. «Tutte le volte che non ti ho avuta vicino, Agnes, per consigliarmi e approvarmi fin dal principio, mi è sembrato di andare a tentoni e di urtare in ogni sorta di difficoltà. Quando infine sono venuto a te (come ho sempre fatto) ho trovato la pace e la felicità. Adesso arrivo alla tua casa come un viaggiatore stanco e trovo un così benedetto senso di riposo!» Sentivo con tanta profondità quello che dicevo, ne ero così sinceramente commosso, che nascosi il volto fra le mani e ruppi in lacrime. Ignoravo completamente le contraddizioni e le inconsistenze che erano in me come in tanti altri di noi; ignoravo come avrei potuto essere molto diverso e molto migliore; ignoravo tutte le mie azioni in cui potevo essermi perversamente allontanato dalla voce del mio cuore. Sapevo solo che ero ferventemente sincero quando sentivo il riposo e la pace di avere Agnes al mio fianco. Con i suoi placidi modi fraterni, con i suoi occhi luminosi, con la tenera voce, con quella dolce compostezza che tanto tempo prima avevano resa sacra per me la casa in cui abitava, ella non tardò a trarmi dalla mia debolezza e mi indusse a narrarle tutto ciò che era avvenuto dopo il nostro ultimo incontro. «E adesso non ho una sola parola da aggiungere, Agnes,» dissi quando ebbi posto fine alla mia confidenza. «Ormai ogni mia fiducia è in te.» «Ma non deve essere in me, Trotwood,» rispose Agnes con un soave sorriso. «Deve essere in qualcun altro.» «In Dora?» chiesi. «Certamente.» «Ebbene, io non ti ho detto, Agnes,» risposi un po' imbarazzato, «che, con Dora, è piuttosto difficile... non vorrei dire per nulla al mondo: aver fiducia, perché è la purezza e la sincerità in persona... ma è piuttosto difficile... davvero, Agnes, non so come esprimermi. È una cosina timida, che si turba e si spaventa facilmente. Qualche tempo fa, prima della morte di suo padre, quando credetti mio dovere farle sapere... ma ti racconterò, se me lo permetti, come andò la cosa.» E così dissi ad Agnes della mia dichiarazione di povertà, del libro di cucina, dei conti di casa e tutto il resto. «Oh, Trotwood,» protestò lei sorridendo. «Proprio il tuo vecchio modo di lanciarti a capofitto! Potevi benissimo farti strada nel mondo con ogni più serio impegno senza essere cosi brusco con una fanciulla timida, innamorata e inesperta. Povera Dora.» Non udii mai esprimere da voce umana un così dolce e indulgente affetto come quello che espresse Agnes in questa sua risposta. Fu come se l'avessi vista abbracciare Dora, tenera e ammirata, e tacitamente rimproverarmi, con la sua riguardosa protezione, per la mia furia nello sconvolgere quel cuoricino. E fu come se avessi visto Dora, in tutta la sua affascinante semplicità, accarezzare Agnes, e ringraziarla, e chiamarla con le sue dolci moine in aiuto contro di me, e amarmi con tutta la Sua infantile innocenza. Fui così riconoscente ad Agnes, e l'ammirai tanto! Vidi quelle due fanciulle insieme, in una luminosa prospettiva, amiche così bene assortite che si completavano l'una con l'altra! «Che cosa dovrei fare, allora, Agnes?» domandai dopo aver guardato per un momento il fuoco. «Che cosa sarebbe giusto che facessi?» «Penso,» disse Agnes, «che la via onorevole da prendere sarebbe di scrivere a queste due signore. Non credi che un qualsiasi procedimento segreto sarebbe indegno?» «Sì. Se tu lo credi,» risposi. «Io non sono molto qualificata per giudicare in queste cose,» continuò Agnes con una modesta esitazione, «ma certo sento... insomma, sento che agire in modo segreto e clandestino non è degno di te.» «Di me nella troppo alta opinione che di me ti sei fatta, Agnes, temo,» dissi. «Di te nel candore della tua natura,» rispose; «e quindi scriverei a queste due signore. Esporrei, nel modo più semplice e chiaro possibile, tutto quello che è avvenuto; e chiederei il permesso di fare qualche visita alla loro casa. Considerando che sei giovane e che lotti per farti un posto nella vita, penso sarebbe bene aggiungere che sei pronto ad accettare tutte le condizioni che possano importi. Le pregherei di non respingere la tua richiesta senza averne parlato a Dora, e di discuterla con lei quando penseranno che sia il momento opportuno. Non sarei troppo veemente,» disse Agnes con dolcezza, «né chiederei troppo. Riporrei ogni fiducia nella mia fedeltà e nella mia costanza... e in Dora.» «Ma se, parlandole, la spaventassero ancora?» chiesi. «E se Dora si limitasse a piangere senza dir nulla di me?» «Lo credi probabile?» domandò Agnes con in volto la stessa dolce espressione di riguardo. «Dio la benedica, è facile a spaventarsi come un uccellino,» dissi. «Potrebbe avvenire! E se le due signorine Spenlow (spesso queste vecchie signore hanno strani caratteri) non fossero tali da essere avvicinate così.» «Non credo, Trotwood,» rispose Agnes alzando verso di me i suoi dolci occhi, «che penserei troppo a questo. Forse sarebbe meglio considerare solo quello che è giusto, e, se lo è, farlo.» Non ebbi più dubbi in proposito. Col cuore sollevato, sebbene col profondo senso di tutta l'importanza del mio compito, dedicai l'intero pomeriggio a stendere un abbozzo di questa lettera: impresa imponente per la quale Agnes mi lasciò la sua scrivania. Ma prima scesi al terreno per vedere il signor Wickfield e Uriah Heep. Trovai Uriah in possesso di un nuovo ufficio, che sapeva ancora di calcina, costruito nel giardino; appariva quanto mai meschino in mezzo a una quantità di libri e di carte. Mi accolse con il suo solito modo servile e finse di non aver saputo del mio arrivo dal signor Micawber cosa a cui mi presi la libertà di non credere. Mi accompagnò nella stanza del signor Wickfield, che sembrava l'ombra di se stessa - essendo stata spogliata di molti comodi per sistemare convenientemente il nuovo socio - e si fermò davanti al fuoco riscaldandosi la schiena e lisciandosi il mento con la mano ossuta mentre il signor Wickfield e io ci scambiavamo i saluti. «Ti fermerai da noi, Trotwood, durante il tuo soggiorno a Canterbury?» chiese il signor Wickfield non senza dare un'occhiata a Uriah per averne l'approvazione. «C'è una stanza per me?» dissi. «Ma certo, signorino Copperfield... dovrei dire signore, ma mi viene così naturale,» intervenne Uriah. «Vi restituirò con piacere la vostra vecchia stanza, se lo desiderate.» «No, no,» disse il signor Wickfield. «Perché dovreste essere voi a incomodarvi? C'è un'altra stanza. C'è un'altra stanza.» «Oh, ma, sapete,» ribatté Uriah con un ghigno, «io ne sarei proprio felice!» Per tagliar corto, dissi che volevo l'altra stanza o niente; così fu stabilito che l'avrei ottenuta e, congedatomi dalla ditta fino all'ora di pranzo, salii ancora di sopra. Avevo sperato di non avere altra compagnia che Agnes. Ma la signora Heep aveva chiesto il permesso di trasferire se stessa e il suo lavoro in quella stanza, presso il fuoco, sostenendo che, col vento che tirava, era molto più favorevole ai suoi reumatismi che non il salotto o la sala da pranzo. Io l'avrei abbandonata senza rimorsi alla mercé del vento sul più alto pinnacolo della cattedrale, ma feci di necessità virtù e la salutai cordialmente. «Ve ne sono umilmente grata, signore,» disse la signora Heep rispondendo alle mie domande sulla sua salute, «ma non sto troppo bene. Non ho molto da vantarmi. Se riuscirò a vedere Uriah ben sistemato, non chiederò altro, credo. Come vi è sembrato l'aspetto del mio Uriah, signore?» Pensai che aveva l'aspetto di un mascalzone come sempre, e risposi che non avevo visto in lui alcun cambiamento. «Oh, non credete che sia cambiato?» disse la signora Heep. «In questo devo chiedervi umilmente il permesso di dissentire. Non vi sembra che sia molto magro?» «Non più del solito,» risposi. «Pensate di no?» disse la signora Heep. «Ma voi non lo considerate con occhio materno.» Il suo occhio materno era un occhio diabolico per tutto il resto del mondo, pensai quando incontrò il mio, per quanto affezionato al figlio; e credo che lei e lui fossero legati a filo doppio. Mi lasciò e si rivolse ad Agnes. «E voi, non lo giudicate deperito e stanco, signorina Wickfield?» chiese la signora Heep. «No,» rispose Agnes continuando tranquillamente il lavoro in cui era occupata. «Vi date troppo pensiero per lui. Sta benissimo.» La signora Heep, aspirando rumorosamente col naso, riprese a sferruzzare. Non smise né ci lasciò soli per un attimo. Ero arrivato presto e mancavano ancora tre o quattro ore al pranzo, ma lei rimase seduta lì agitando i ferri con la monotonia con cui una clessidra versa la sabbia. Sedeva a un lato del caminetto; io ero alla scrivania di fronte a esso, e un po' più lungi, sull'altro lato, stava Agnes. Ogni volta che, meditando lentamente sulla mia lettera, alzavo gli occhi e, incontrando il volto pensoso di Agnes, lo vedevo rischiararsi e gettare su di me un incoraggiamento con la sua angelica espressione, subito ero conscio di quell'occhio diabolico che da me passava a lei e poi tornava a me ricadendo furtivamente sul lavoro. Che lavoro fosse non lo so, non conoscendo quell'arte; ma sembrava una rete; e mentre ci dava dentro con le bacchette cinesi dei suoi ferri, sembrava, nella luce del caminetto, una brutta maga tenuta a bada, per ora, dalla radiante bontà che le si opponeva, ma pronta a gettare la rete da un momento all'altro. A pranzo continuò la sua vigilanza con lo stesso occhio attento. Dopo pranzo, suo figlio le diede il cambio; e quando il signor Wickfield, lui e io rimanemmo soli insieme, mi sbirciò e si contorse fino a esasperarmi. In salotto, la madre continuò a sferruzzare e a sorvegliare: per tutto il tempo che Agnes suonò e cantò, rimase seduta presso il piano. Una volta chiese una particolare ballata che, secondo lei, il suo Ury (il quale sbadigliava in una poltrona) adorava; e ogni tanto ruotava gli occhi su di lui e diceva ad Agnes che la musica lo mandava in estasi. Ma assai di rado aprì bocca - se pur lo fece - senza alludere in qualche modo a lui. Non avevo dubbi che fosse questo il compito a lei assegnato. Durò così fino all'ora di andare a letto. L'aver visto madre e figlio come due grandi pipistrelli che pendevano sull'intera casa e la adombravano con le loro ignobili forme mi mise così a disagio che avrei preferito rimanere a terreno, sferruzzamento e tutto, piuttosto che andare a letto. Non chiusi quasi occhio. Il giorno dopo, lo sferruzzamento e la vigilanza ripresero e durarono fino a sera. Non ebbi la possibilità di parlare ad Agnes per dieci minuti. Riuscii appena a mostrarle la mia lettera. Le proposi di fare una passeggiata con me; ma poiché la signora Heep non faceva che lagnarsi di star peggio, Agnes rimase caritatevolmente in casa per farle compagnia. Verso sera uscii da solo, meditando su quello che volevo fare e se era giusto che tenessi ancora celato ad Agnes quello che Uriah Heep mi aveva detto a Londra: perché era una cosa che ricominciava a turbarmi profondamente. Non mi ero ancora allontanato abbastanza da trovarmi fuori della città, sulla strada di Ramsgate, dove c'era un bel sentiero, quando mi sentii chiamare, attraverso la polvere, da qualcuno dietro di me. La figura traballante e il cappotto striminzito non lasciavano dubbi. Mi fermai e Uriah Heep mi raggiunse. «Ebbene?» dissi. «Come camminate in fretta!» esclamò lui. «Ho le gambe lunghe ma voi le avete messe alla prova.» «Dove siete diretto?» chiesi. «Dove siete diretto voi, signorino Copperfield, se vorrete concedermi il piacere di andare a spasso con una vecchia conoscenza.» E così dicendo, con uno scatto di tutto il corpo che avrebbe potuto essere propiziatorio o di derisione, si mise al passo al mio fianco. «Uriah!» dissi civilmente, dopo un silenzio. «Signorino Copperfield!» rispose Uriah. «Per dirvi il vero (e spero che non ve ne offendiate) sono uscito per passeggiare da solo, perché di compagnia ne ho avuta anche troppa.» Mi guardò di traverso e disse col suo ghigno più duro: «Intendete mia madre?» «Ebbene, sì, intendevo proprio lei,» risposi. «Ah! Ma voi sapete che noi siamo umilissimi,» ribatté. «E avendo piena coscienza della nostra umiltà, noi dobbiamo badar bene a non essere chiusi in un angolo da quelli che non sono umili. Tutti gli stratagemmi sono buoni in amore, signore.» Alzò le grandi mani fino a toccarsi il mento, se le strofinò piano ed ebbe un riso basso, simile a un maligno babbuino per quanto può somigliarvi un essere umano. «Vedete,» disse, stringendosi ancora in se stesso al suo modo sgradevole e scuotendo la testa verso di me, «voi siete un rivale pericoloso, signorino Copperfield. Lo siete sempre stato, sapete?» «E fate sorvegliare la signorina Wickfield togliendo ogni intimità alla sua casa per causa mia?» chiesi. «Oh! signorino Copperfield! Queste sono parole molto aspre,» rispose. «Traducete quello che intendo nelle parole che più vi piacciono,» dissi. «Sapete al pari di me di che si tratta, Uriah.» «Oh no. Traducetelo voi in parole,» ribatté. «Io non potrei davvero.» «Supponete,» dissi, sforzandomi, per amor di Agnes, a essere controllato e calmo con lui, «che consideri la signorina Wickfield altrimenti che come una cara sorella?» «Bene, signor Copperfield,» rispose, «capite che non ho l'obbligo di rispondere a questa domanda. Può darsi di no, evidentemente. Ma, capite, può darsi anche di sì!» Non avevo mai visto nulla che somigliasse all'abbietta furberia del suo volto e di quei suoi occhi spogli, senza ombra di ciglia. «Ebbene,» dissi. «Per amore della signorina Wickfield...» «La mia Agnes!» esclamò con una molle e angolosa contorsione di tutta la sua persona. «Volete avere la bontà di chiamarla Agnes, signor Copperfield?» «Per amore di Agnes Wickfield... che Dio la benedica!...» «Grazie per questa benedizione, signor Copperfield,» mi interruppe. «Vi dirò quello che, in qualsiasi altra circostanza, avrei preferito raccontare a... Jack Ketch.» «A chi, signore?» chiese Uriah allungando il collo e portandosi una mano all'orecchio. «Al boia,» risposi, «all'ultima delle persone a cui possa pensare,» sebbene il suo volto mi avesse suggerito questa allusione come il collegamento più naturale. «Sono fidanzato con un'altra fanciulla. Spero che siate soddisfatto.» «Sulla vostra parola?» Stavo per dare, sdegnato, la conferma da lui richiesta a quanto avevo detto, quando egli mi afferrò la mano stringendola con forza. «Oh, signorino Copperfield,» disse. «Se solo vi foste degnato di rispondere alla confidenza che vi feci dal profondo del cuore la notte che vi diedi tanto disturbo dormendo davanti al fuoco nel vostro salotto, non avrei mai dubitato di voi. Stando così le cose, toglierò senz'altro di mezzo mia madre e ne sarò felicissimo. Sono certo che scuserete le precauzioni dell'affetto, non è vero? Che peccato, signorino Copperfield, che non vi siate degnato di corrispondere alla mia confidenza! Sono sicuro di avervene data ogni occasione. Ma voi non vi siete mai abbassato a me come avrei desiderato. So che non avete mai avuto per me quella simpatia che ho avuto per voi.» Frattanto continuava a stringermi la mano con le sue dita umide e viscide mentre io cercavo di liberarmi con ogni sforzo che potessi decentemente fare. Ma non ebbi alcun successo. Se la trasse sotto la manica del suo cappotto color mora, e io proseguii, quasi per forza, a braccetto con lui. «Torniamo?» disse Uriah dopo un poco facendomi voltare verso la città su cui brillava adesso la luna nuova inargentando le finestre lontane. «Prima di lasciare questo argomento, dovreste rendervi conto,» dissi rompendo un silenzio piuttosto lungo, «che io considero Agnes Wickfield al di sopra di voi e lontana da tutte le vostre aspirazioni come quella luna!» «Piena di pace! vero?» disse Uriah. «Proprio! E adesso confessate, signorino Copperfield, che non avete mai avuto per me la simpatia che io ho avuto per voi. Ma perché dovrei stupirmi se mi avete sempre ritenuto troppo umile?» «Non mi piacciono molto le professioni di umiltà,» risposi, «né le professioni di qualsiasi genere.» «Eccoci dunque!» disse Uriah, con un aspetto flaccido e plumbeo nel chiarore lunare. «Non lo sapevo, forse? Ma quanto poco pensate alla legittima umiltà di una persona nelle mie condizioni, signorino Copperfield! Mio padre e io siamo stati allevati in un asilo di carità; e anche mia madre è cresciuta in un istituto di beneficenza. Laggiù ci insegnavano montagne di umiltà, per quanto sappia, da mattina a sera. Dovevamo essere umili con questo e umili con quello, e toglierci il cappello qui e inchinarci là; e sempre stare al nostro posto e umiliarci davanti a quelli che erano da più! Mio padre ebbe la sua medaglia di capoclasse a forza di essere umile. E così io. Mio padre divenne sacrestano a forza di essere umile. Si creò la fama, tra la gente per bene, di essere un uomo così bene educato, che lo accettavano. ‹Sii umile, Uriah,› mi diceva mio padre, ‹e farai strada. A scuola non hanno fatto che cacciarcelo in testa, a me e a te; è quello che piace di più. Sii umile,› diceva mio padre, ‹e ti troverai bene.› E in realtà non mi sono trovato male.» Era la prima volta che mi veniva in mente che quella detestabile cantilena di falsa umiltà poteva avere le origini nella famiglia di Uriah. Avevo visto il frutto, ma non avevo mai pensato al seme. «Quando ero ancora un ragazzino,» proseguì Uriah, «cominciai a conoscere quello che poteva fare l'umiltà e mi attenni a essa. Mangiavo con appetito la mia umile focaccia. Mi fermai all'umile livello della mia cultura e dissi: ‹Tieni duro!› Quando mi proponeste di insegnarmi il latino, avevo in mente qualche cosa di meglio. ‹La gente vuole esserti superiore,› diceva mio padre, ‹e tu sii sottomesso.› Attualmente sono molto umile, signorino Copperfield, ma ho conquistato un certo potere!» Diceva tutto questo - lo sapevo guardandolo in faccia nel chiarore lunare - perché capissi che era deciso a concedersi un premio valendosi del suo potere. Non avevo mai avuto dubbi sulla sua bassezza, la sua astuzia, la sua malignità; ma adesso mi rendevo conto appieno, per la prima volta, di quale spirito abbietto, implacabile e vendicativo era sorto da quella precoce e prolungata costrizione. La sua confessione fu poco dopo seguita da un piacevole risultato: lo indusse a ritrarre la mano per potersi lisciare ancora sotto il mento. Una volta staccato da lui, decisi di starmene lontano; e tornammo a fianco a fianco dicendo ben poco d'altro lungo la strada. Se i suoi spiriti fossero eccitati dalla comunicazione che gli avevo fatto o dall'avere egli lasciato via libera ai suoi ricordi, non lo so; certo erano animati da una qualche influenza. A tavola parlò più del solito; chiese a sua madre (liberata dal suo compito fin da quando eravamo rientrati) se non stesse diventando troppo vecchio per rimanere scapolo, e una volta guardò Agnes in tal modo che avrei dato tutto ciò che possedevo per rompergli la faccia. Quando rimanemmo soli noi tre uomini, dopo pranzo, entrò in uno stato ancora più intraprendente. Aveva bevuto poco o nulla, e penso si trattasse della pura insolenza del trionfo che lo invadeva, accentuata forse dalla tentazione che la mia presenza offriva alla sua esibizione. Avevo notato, il giorno prima, che egli tentava di indurre il signor Wickfield a bere; e, interpretando lo sguardo che Agnes mi aveva dato nell'allontanarsi, mi ero limitato a un solo bicchiere proponendo poi di raggiungerla. Avrei voluto fare lo stesso anche oggi; ma Uriah fu più svelto. «Vediamo solo di rado il nostro attuale ospite, signore,» disse volgendosi al signor Wickfield che sedeva, in tale contrasto con lui, a capotavola, «e vorrei dargli il benvenuto con un altro paio di bicchieri, se non avete nulla in contrario. Signor Copperfield, alla vostra salute e alla vostra felicità!» Fui costretto a far mostra di stringere la mano che lui mi tendeva, e poi, con ben diversa emozione, strinsi quella di quell'ombra di gentiluomo, suo socio. «Su, collega,» riprese Uriah, «se posso prendermi questa libertà... adesso fate voi un brindisi in qualche modo appropriato a Copperfield!» Sorvolo i brindisi proposti dal signor Wickfield a mia zia, al signor Dick, ai Doctors' Commons, a Uriah, bevendo ogni volta due bicchieri; tralascio la consapevolezza che aveva della propria debolezza e gli inutili sforzi che faceva per opporvisi, la lotta tra la vergogna che provava per il comportamento di Uriah e il desiderio di conciliarselo, la manifesta esultanza con cui Uriah si contorceva, si girava, me lo esponeva in modo derisorio. Mi fece male al cuore vederlo, e la mia penna ha ripugnanza di scriverlo. «Su, collega!» disse Uriah alla fine. «Io farò adesso un altro brindisi, e chiedo umilmente che i bicchieri siano colmati fino all'orlo perché intendo farlo alla più divina del suo sesso.» Suo padre aveva in mano il bicchiere vuoto. Lo vidi posarlo, guardare il ritratto che le somigliava tanto, portarsi la mano alla fronte e rannicchiarsi nella sua poltrona. «Io sono troppo umile per brindare alla sua salute,» proseguì Uriah, «ma l'ammiro... l'adoro.» Credo che nessuna pena fisica che la grigia testa del padre suo avesse potuto sostenere, sarebbe stata più terribile per me della sofferenza mentale che lo vidi comprimersi ora con entrambe le mani strette alle tempie. «Agnes,» disse Uriah, sia che non lo guardasse sia che non capisse la natura del suo comportamento, «Agnes Wickfield è, non ho dubbi nel dirlo, la più divina del suo sesso. Posso parlare liberamente fra amici? Essere suo padre è un'alta distinzione, ma essere suo sposo...» Risparmiatemi di udire ancora un grido come quello con cui suo padre si alzò da tavola! «Che succede?» chiese Uriah divenendo di un pallore mortale. «Spero che, oltre il resto, non siate diventato matto, signor Wickfield. Se dico che ambisco a fare della vostra Agnes la mia Agnes, ne ho diritto quanto un altro. Ne ho più diritto di qualsiasi altro!» Io avevo gettato le braccia al collo del signor Wickfield implorandolo per tutto ciò che mi veniva in mente, e soprattutto per amore di Agnes, di calmarsi un poco. In quel momento era folle: si strappava i capelli, si colpiva la testa, cercava di allontanarmi e di allontanarsi da me, non rispondeva una parola, non guardava e non vedeva alcuno; lottava ciecamente senza sapere contro che cosa, aveva gli occhi vitrei e il volto contratto... uno spettacolo pauroso. Lo scongiurai, incoerentemente, ma nel modo più appassionato, di non abbandonarsi a quella dissennatezza e di ascoltarmi. Lo pregai di pensare ad Agnes, di ricordare che ero l'amico di Agnes, venuto su insieme con lei, che la onoravo e l'amavo, che lei era il suo orgoglio e la sua gioia. Tentai di portargli davanti l'immagine di lei sotto ogni forma; lo rimproverai perfino di non avere la forza di risparmiarle la vista di una simile scena. Forse raggiunsi qualche cosa, o forse la sua crisi si spense da sola; ma a poco a poco prese ad agitarsi di meno e a guardarmi: dapprima con lo sguardo stravolto, poi con qualche segno di riconoscimento. Alla fine disse: «Lo so, Trotwood! La mia cara figlia e voi... lo so! Ma guardatelo!» Indicava Uriah, pallido e torvo in un angolo, evidentemente sconcertato nei suoi calcoli e colto di sorpresa. «Guardate il mio aguzzino,» riprese, «davanti a lui ho a poco a poco abbandonato il mio nome, la mia reputazione, la pace, la quiete, la casa e la famiglia.» «Ho salvato per voi il nome e la reputazione, e anche la vostra pace, la vostra quiete, la vostra casa e la vostra famiglia,» disse Uriah con una cupa, precipitosa, sconfitta aria di compromesso. «Non fate lo sciocco, signor Wickfield. Se sono andato un po' oltre i limiti per i quali eravate preparato, posso tornare indietro, immagino. Non è avvenuto nulla di male.» «Io cercavo in ognuno motivi precisi,» disse il signor Wickfield, «ed ero contento di aver legato costui a me per motivi di interesse. Ma guardate quello che è... oh, guardate quello che è!» «Fareste bene a farlo smettere, Copperfield, se potete,» gridò Uriah puntando verso di me il lungo indice. «Fra poco dirà qualche cosa - capite? - che poi si rammaricherebbe di aver detto, e che voi vi rammarichereste di aver udito.» «Voglio dire tutto!» esclamò disperatamente il signor Wickfield. «Perché non dovrei mettermi in potere di tutti, dato che sono in vostro potere?» «State attento, vi dico!» ribatté Uriah continuando ad avvertirmi. «Se non gli chiudete la bocca non siete suo amico! Perché non dovreste mettervi in potere di tutti, signor Wickfield? Perché avete una figlia. Voi e io sappiamo quel che sappiamo, no? Lasciate stare i cani che dormono... chi vuole svegliarli? Io no certo. Non vedete che sono umile quanto è possibile? Vi ripeto, se mi sono spinto troppo in là, me ne dispiace. Che volete di più, signore?» «Oh, Trotwood, Trotwood!» esclamò il signor Wickfield torcendosi le mani. «A che cosa mi sono ridotto dal giorno in cui vi vidi per la prima volta in questa casa! Allora ero già sulla china, ma che terribile, che terribile strada ho percorso in seguito! Una debole indulgenza mi ha rovinato. Indulgenza al ricordo e indulgenza all'oblio. Il mio naturale dolore per aver perso la madre della mia bambina è divenuto una malattia; e una malattia è divenuto anche il mio naturale amore per mia figlia. Ho corrotto tutto ciò che ho toccato. Ho portato la sventura su tutto ciò che amavo più teneramente, lo so... voi lo sapete! Pensavo possibile amare sinceramente una sola creatura al mondo e non amare tutto il resto; pensavo possibile piangere sinceramente una sola creatura uscita da questo mondo e non prender parte al dolore di tutti coloro che piangono. E così tutto quello che ho imparato nella vita è stato pervertito! Ho distrutto il mio cuore malato e codardo, e il mio cuore ha distrutto me. Meschino nel dolore, meschino nell'amore, meschino nella mia miserabile fuga dall'aspetto più cupo di entrambi, oh, guardate quale rovina sono, e odiatemi e fuggitemi!» Si lasciò cadere su di una sedia e singhiozzò debolmente. L'eccitazione che lo aveva sostenuto lo stava lasciando. Uriah uscì dal suo angolo. «Non so tutto quello che ho fatto nella mia fatuità,» disse il signor Wickfield levando le mani come per difendersi da una mia condanna. «Lui lo sa benissimo,» e intendeva Uriah, «perché mi è sempre stato al fianco per suggerirmi. Eccola lì la macina da mulino che mi sta legata al collo. Lo vedete nella mia casa, lo vedete nei miei affari. Lo avete ascoltato solo un attimo fa. Che bisogno ho di dire di più?» «Non avete bisogno di dir questo e nemmeno la metà di questo: non avete bisogno di dir nulla,» osservò Uriah, in parte minaccioso e in parte strisciante. «Non l'avreste presa così alta se non fosse stato per il vino. Domani vedrete meglio le cose, signore. Se ho detto troppo, o più di quello che volevo dire, che importa? Non ho insistito su questo!» La porta si aprì, e Agnes, scivolando dentro, senza ombra di colore sul volto, gli mise un braccio attorno al collo e disse con voce ferma: «Papà, tu non stai bene. Vieni con me!» Lui abbandonò la testa sulla spalla di lei, come oppresso da una profonda vergogna, e si allontanò al suo fianco. Gli occhi di Agnes incontrarono i miei solo per un istante, tuttavia vidi che sapeva quello che era avvenuto. «Non mi aspettavo che scattasse con tanta violenza, signorino Copperfield,» disse Uriah. «Ma non è nulla. Domattina farò la pace con lui. È per il suo bene. Umilmente mi preoccupo del suo bene.» Non gli risposi e salii al piano di sopra, nella tranquilla stanza in cui Agnes si era seduta tante volte accanto a me, davanti ai miei libri. Nessuno venne fino a notte alta. Presi un libro e tentai di leggere. Udii la pendola battere le dodici, e stavo ancora leggendo senza capire quello che leggevo, quando Agnes mi toccò. «Domattina partirai presto, Trotwood! Salutiamoci adesso!» Aveva pianto, ma ora il suo volto era calmo e bello! «Dio ti benedica,» disse dandomi la mano. «Cara Agnes!» risposi, «vedo che non desideri parlare di quello che è avvenuto stasera... ma non c'è proprio niente da fare?» «C'è Dio, in cui aver fiducia!» rispose. «Ma io non posso far nulla?... Io, che sono venuto a te con i miei mediocri dolori?» «E per rendere i miei così lievi,» rispose. «Caro Trotwood, no!» «Cara Agnes,» dissi, «è presuntuoso per me, che sono così povero di tutto ciò di cui tu sei ricca - bontà, decisione, nobili qualità - dubitare di te o darti consiglio; ma tu sai quanto ti voglia bene e quanto ti debba. Non ti sacrificherai mai a un errato senso del dovere, Agnes?» Più agitata, per un attimo, di quanto l'avessi mai vista, staccò la mano da me e fece un passo indietro. «Dimmi che non hai un'idea simile, cara Agnes! Tu che sei per me più che una sorella. Pensa all'inestimabile dono di un cuore come il tuo e di un amore come il tuo!» Oh! per molto, molto tempo continuai a vedere quel volto sorgermi dinanzi, con quella sua momentanea espressione che non era né di meraviglia, né di accusa, né di rimpianto. Oh, per molto, molto tempo, vidi quell'espressione trasformarsi, come fece allora, in un affettuoso sorriso con il quale ella mi disse che non aveva paura per sé, ed io non dovevo averla per lei; poi mi lasciò chiamandomi fratello e scomparve. Il mattino dopo era ancora buio quando salii sulla diligenza alla porta della locanda. L'alba spuntava appena quando venne l'ora della partenza, e in quel momento, mentre me ne stavo seduto pensando a lei, vidi venir su lungo il fianco della diligenza, tra il giorno e la notte ancora frammisti, la testa di Uriah. «Copperfield!» mi disse con un sussurro rauco aggrappandosi alla ringhiera del tetto, «ho pensato che sareste stato felice di sapere, prima di partire, che non è avvenuta alcuna rottura fra noi. Sono già stato nella sua stanza e abbiamo appianato tutto. Diamine, per quanto umile, gli sono utile, lo sapete, e, quando non è alterato dal vino, capisce i suoi interessi! Che uomo piacevole è, dopo tutto, signorino Copperfield!» Mi feci forza per dirgli di essere lieto che avesse fatto le sue scuse. «Oh, naturalmente!» disse Uriah. «Quando si è umili, capite, che cosa è una scusa? Niente di più facile, dico io. Immagino,» aggiunse con una contorsione, «che qualche volta abbiate colto una pera prima che fosse matura, signorino Copperfield.» «Penso di sì,» risposi. «Io l'ho fatto ieri sera,» disse Uriah; «ma maturerà! Basta solo aspettare. E io posso aspettare.» Prodigandosi in saluti, scese di nuovo mentre il vetturino saliva a cassetta. Da quanto vidi, stava masticando qualche cosa per proteggersi dalla fredda aria del mattino; ma muoveva la bocca come se quella pera fosse già matura e lui schioccasse le labbra assaporandola. XL • L'ERRANTE Quella sera, in Buckingham Street, ci fu una conversazione molto seria sugli avvenimenti domestici che ho esposto nel capitolo precedente. Mia zia ne fu profondamente interessata e, in seguito, camminò su e giù per la stanza con le braccia conserte per più di due ore. Ogni volta che era particolarmente agitata, intraprendeva regolarmente una di queste imprese ambulatorie; e il grado della sua inquietudine poteva sempre essere giudicato dalla durata delle sue passeggiate. In questa occasione fu tanto inquieta da sentire la necessità di aprire la porta della stanza da letto e farsi così una strada per tutta l'estensione dell'appartamento da una parete all'altra; mentre il signor Dick e io ce ne stavamo tranquillamente seduti davanti al fuoco, lei continuò a passare su e giù per questo limitato sentiero, a passo uniforme, con la regolarità di un pendolo. Quando il signor Dick andò a letto, lasciandoci soli, la zia e io, mi sedetti a scrivere la lettera alle due vecchie signore. Frattanto ella si era stancata di passeggiare e si sedette davanti al fuoco con la veste rimboccata come al solito. Ma, invece di starsene al suo modo abituale, col bicchiere sul ginocchio, lo lasciò sulla mensola del camino; e, appoggiando il gomito sinistro sul braccio destro, e il mento sulla mano sinistra, rimase a guardarmi pensosa. Ogni volta che alzavo gli occhi dal mio lavoro, incontravo i suoi. «Ti voglio bene come non mai, mio caro,» mi assicurò con un cenno del capo, «ma sono preoccupata e triste!» Io ero troppo occupato per notare, prima che si fosse allontanata per andare a letto, che aveva lasciato intatta la sua miscela notturna, come soleva chiamarla, sulla mensola del camino. Quando bussai alla sua porta per avvertirla della mia scoperta, venne sulla soglia con un aspetto ancor più affettuoso del solito; ma disse solo: «Stasera, non sono di umore da prenderla, Trot,» e, scuotendo la testa, si ritirò nuovamente. Al mattino le lessi la mia lettera alle due vecchie signore, ed ella la approvò. La impostai, e non mi rimase altro da fare che attendere, con tutta la pazienza che potei, una risposta. Mi trovavo in questo stato di attesa, e c'ero da circa una settimana, quando, una sera nevosa, lasciai il dottore per tornare a casa. Era stata una giornataccia, e per qualche tempo aveva soffiato un tagliente vento di nord-est. Il vento era calato con le prime luci, ed era cominciata a cadere la neve. Ricordo che era una neve pesante, a grandi fiocchi, che aveva formato una spessa coltre. Il rumore delle ruote e dei passi era attutito come se sulle strade si fosse deposto uno strato di piume. La via più breve per arrivare a casa e, naturalmente, in una notte simile, scelsi la più breve era quella per il vicolo di San Martino. La chiesa che dà il nome a quel vicolo, a quel tempo, era in una posizione meno ariosa; non v'era alcuno spazio aperto davanti a essa e il vicolo andava serpeggiando fino allo Strand. Mentre passavo davanti ai gradini del portico, incontrai, a una svolta, un volto di donna. Mi fissò, attraversò lo stretto vicolo e scomparve. Lo conoscevo. Lo avevo visto in qualche parte. Ma non ricordavo dove. Lo ricollegavo ad alcuni ricordi che mi colpirono direttamente il cuore. Ma quando mi venne dinanzi pensavo a qualche altra cosa, e rimasi confuso. Sui gradini della chiesa c'era la figura china di un uomo che aveva posato un fardello sulla neve soffice per aggiustarlo; il vederlo e il riconoscerlo fu simultaneo. Non credo di essermi fermato per la sorpresa, ma, in ogni caso, mentre proseguivo egli si raddrizzò, si volse e venne verso di me. Ero a faccia a faccia con il signor Peggotty! Allora ricordai la donna. Era Martha, la stessa a cui Emily aveva dato il denaro quella notte, nella cucina. Martha Endell... al cui fianco, mi aveva detto Ham, egli non avrebbe voluto vedere la sua cara nipote per tutti i tesori affondati nel mare. Ci stringemmo la mano cordialmente. Dapprima nessuno di noi disse una parola. «Signorino Davy!» esclamò alfine lui stringendomi forte, «mi fa bene al cuore vedervi, signore. Bene incontrato, bene incontrato!» «Bene incontrato, mio caro vecchio amico!» dissi. «Avevo pensato di venire a trovarvi stasera, signore,» disse, «ma, avendo saputo che vostra zia vive con voi... perché sono stato laggiù... a Yarmouth... temevo che fosse troppo tardi. Sarei venuto domattina nelle prime ore, signore, prima di ripartire.» «Di nuovo?» chiesi. «Sì, signore,» rispose scuotendo pazientemente la testa, «me ne vado via domattina.» «E adesso dove stavate andando?» chiesi. «Be',» rispose scuotendosi la neve dai lunghi capelli, «andavo a dormire in qualche parte.» In quel tempo c'era un ingresso laterale che dava sul cortile delle stalle del Croce d'Oro, l'albergo così memorabile relativamente alla sua sventura, proprio di fronte al luogo in cui eravamo. Indicai la porta, misi il mio braccio sotto il suo e attraversammo la strada. Due o tre sale pubbliche si aprivano sul cortile; guardai in una di esse e, trovandola vuota, con un bel fuoco acceso, lo feci entrare. Nel vederlo alla luce, notai non solo che aveva i capelli lunghi e arruffati, ma che il suo volto era abbronzato dal sole. Era più grigio, le rughe del viso e della fronte erano più profonde, da tutto il suo aspetto era evidente che aveva faticato e vagato sotto ogni clima; ma appariva molto robusto, da uomo sostenuto da un proposito incrollabile, che nulla poteva stancare. Mentre notavo tutto questo entro di me, egli si scosse la neve dal cappello e dalle vesti e se la tolse dal volto. Poi sedette al tavolo di fronte a me, col dorso rivolto alla porta da cui eravamo entrati, tese ancora la ruvida mano e afferrò la mia con calore. «Vi racconterò, signorino Davy,» disse, «tutti i luoghi in cui sono andato e tutto quello che ho saputo. Sono andato lontano e ho saputo poco; ma vi racconterò!» Suonai il campanello perché ci portassero qualche cosa da bere. Non volle nulla di più forte di una birra; e, mentre ce la portavano e la mettevano a scaldare davanti al fuoco, rimase seduto, pensoso. V'era una bella, solida gravità sul suo volto, e io non mi arrischiai a turbarla. «Quando era bambina,» disse alzando la testa appena fummo lasciati soli, «lei mi parlava sempre del mare e di quelle coste dove il mare è di un azzurro cupo e si stende sempre più scintillante sotto il sole. Pensavo a volte che fosse il ricordo di suo padre annegato a farle pensare tanto al mare. Non so, vedete, ma forse credeva - o sperava - che fosse stato trascinato da quelle parti dove i fiori sbocciano continuamente e la campagna è sempre verde.» «Probabilmente era una fantasia infantile,» dissi. «Quando fu... perduta,» continuò il signor Peggotty, «pensai fra me che lui l'avrebbe condotta in quelle regioni. Ero sicuro che gliene aveva detto meraviglie, assicurandola che là sarebbe diventata una signora, e che era riuscito a farsi ascoltare dapprima con discorsi simili. Quando andammo da sua madre, ebbi la certezza che avevo ragione. Passai in Francia attraversando il Canale e sbarcai là come se piovessi dal cielo.» Vidi aprirsi la porta e la neve turbinare nell'interno. La vidi muoversi un poco di più e una mano interporsi lievemente per tenerla aperta. «Incontrai un signore inglese che aveva autorità,» disse il signor Peggotty, «e gli dissi che andavo errando per cercare mia nipote. Lui mi fece avere le carte che mi erano necessarie per entrare nel paese - non so bene come si chiamino - e voleva darmi anche del denaro, ma grazie a Dio non ne avevo bisogno. Gli sono molto riconoscente per quel che ha fatto, questo è certo! ‹Ho scritto nei luoghi in cui siete diretto,› mi disse, ‹e parlerò a parecchi che vanno per quella via così che molti vi riconosceranno, anche lontano da qui, quando sarete in viaggio da solo.› Gli espressi meglio che potei tutta la mia gratitudine, e me ne andai per la Francia.» «Solo e a piedi?» chiesi. «Per lo più a piedi,» rispose; «a volte su di un carro con gente che andava al mercato; a volte nelle vetture vuote. Molte miglia a piedi ogni giorno, spesso con qualche povero soldato che tornava a casa. Io non potevo parlargli,» disse il signor Peggotty, «né lui poteva parlare a me; ma ci facevamo compagnia a vicenda lo stesso, per le strade polverose.» Non mi era difficile capirlo, dato il suo carattere cordiale. «Quando arrivavo in una città,» proseguì, «cercavo la locanda e aspettavo nel cortile che arrivasse qualcuno (arrivava quasi sempre) che parlasse l'inglese. Allora gli raccontavo che ero in viaggio per cercare mia nipote, e loro mi dicevano che tipi di signori c'erano nella casa, e io aspettavo per vedere se entrava o usciva qualcuna che sembrava somigliarle. Quando mi accorgevo che non era Emily, mi mettevo ancora in cammino. A poco a poco, quando entravo in un nuovo villaggio, tra la povera gente, trovai che mi conoscevano. Mi facevano sedere alla porta delle loro casupole, mi davano una quantità di cose da mangiare e da bere e mi indicavano dove potevo dormire. E incontrai molte donne, signorino Davy, che avevano figlie suppergiù dell'età di Emily, ad aspettarmi alla Croce del Salvatore, fuori del villaggio, per farmi le stesse gentilezze. Alcune avevano figlie che erano morte. E Dio solo sa quanto fossero buone con me quelle madri.» Alla porta c'era Martha. Vidi distintamente il suo volto scarno e intento. La mia paura era che egli voltasse la testa e la vedesse. «Spesso mettevano i loro bambini, e in particolare le loro bambine,» proseguì il signor Peggotty, «sulle mie ginocchia; e molte volte avreste potuto vedermi seduto alla loro porta, quando si avvicinava la sera, quasi come se fossero stati i bambini della mia diletta. Oh, la mia povera cara!» Sopraffatto da un'improvvisa pena, singhiozzò forte. Io posi la mia mano tremante su quella con cui si era coperto il viso. «Grazie, signore,» disse, «non fateci caso.» Poco dopo si tolse la mano dal volto, se la mise sul petto e continuò la sua storia. «Spesso, al mattino, quei bambini mi accompagnavano per un miglio o due lungo la mia strada; e quando si separavamo dicevo ‹Vi sono molto riconoscente! Dio vi benedica!› e loro sempre sembravano capire e mi rispondevano con affabilità. Alla fine arrivai al mare. Non fu difficile, potete immaginarlo, per un marinaio come me, guadagnarsi il passaggio in Italia. Arrivato là, ripresi il mio vagabondaggio come sempre. La gente era egualmente buona con me, e io sarei andato da città a città, forse per tutto il paese, se non avessi avuto notizia che l'avevano vista lassù, tra quelle montagne della Svizzera. Uno che conosceva il servitore, li aveva visti là tutti e tre, e mi disse come viaggiavano e dove erano. Io mi misi in cammino verso quelle montagne, signorino Davy, giorno e notte. E più andavo avanti, più quelle montagne sembravano allontanarsi da me. Ma infine le raggiunsi e le attraversai. Quando arrivai presso il luogo che mi avevano detto, cominciai a pensar fra me: ‹Che cosa devo fare quando la vedo?›» Il volto intento, insensibile all'inclemenza della notte, era ancora chino alla porta, e le mani mi pregavano, mi imploravano, di non scacciarlo. «Non avevo mai dubitato di lei,» disse il signor Peggotty. «Mai, nemmeno un briciolo. Solo che vedesse la mia faccia... solo che udisse la mia voce... solo che le stessi fermo dinanzi ricordandole la casa da cui era fuggita e la bambina che era stata... e quand'anche fosse divenuta una principessa, sarebbe caduta ai miei piedi! Lo sapevo bene! Tante volte, nei miei sogni, l'avevo sentita gridare: ‹Zio!› e l'avevo vista cadere come morta dinanzi a me. Tante volte nei miei sogni l'avevo rialzata e le avevo sussurrato: ‹Emily, mia cara, sono venuto di lontano per portarti il perdono e ricondurti a casa!›» Si fermò scuotendo la testa e proseguì con un sospiro. «Lui, adesso, non era nulla per me. Emily era tutto. Comprai un abito campagnolo per metterglielo addosso; e sapevo che, una volta trovata, sarebbe venuta insieme a me per quelle strade sassose, seguendomi dove volessi e senza mai, mai più lasciarmi. Farle indossare quell'abito e gettar via quello che aveva... prenderla ancora fra le mie braccia e ricondurla a casa... fermarmi a volte lungo la strada per curarle i piedi feriti e il cuore più ferito ancora, era tutto quello che adesso pensavo. Credo che, lui, non lo avrei nemmeno guardato. Ma, signorino Davy, non doveva essere così... non ancora! Ero arrivato troppo tardi, loro erano già partiti. Per dove non potei saperlo. Alcuni dicevano qui, altri là. Andai qui e andai là, ma non trovai Emily, e allora tornai a casa.» «Quando tempo fa?» chiesi. «Questione di pochi giorni,» rispose il signor Peggotty. «Vidi la vecchia barca che era già buio, e la luce brillava alla finestra. Quando fui vicino e guardai attraverso i vetri, scorsi quella fedele creatura, la signora Gummidge, seduta presso il fuoco, come avevamo stabilito, sola. Chiamai: ‹Non abbiate paura! È Daniel!› ed entrai. Non avrei mai pensato che la vecchia barca mi sarebbe apparsa così strana!» Da una tasca che aveva sul petto trasse, con mano quanto mai cauta, un involtino di carta contenente due o tre lettere o pacchetti, che mise sul tavolo. «Questa prima arrivò,» disse scegliendola dal resto, «meno di una settimana dopo che ero partito. Un biglietto da cinquanta sterline diretto a me e passato sotto la porta durante la notte. Lei aveva cercato di alterare la calligrafia, ma a me non poteva nasconderla!» Ripiegò il biglietto, con gran cura e pazienza, esattamente nello stesso modo, e lo mise da parte. «Questa arrivò alla signora Gummidge,» disse aprendone un'altra, «due o tre mesi fa.» Dopo averla guardata per qualche momento, me la porse aggiungendo a bassa voce: «Abbiate la bontà di leggerla, signore.» Lessi quanto segue: «Oh, cosa proverete quando vedrete questo scritto e saprete che proviene dalla mia sciagurata mano! Ma tentate, tentate - non per amor mio, ma per il bene dello zio - tentate di mitigare il vostro cuore verso di me, solo per un momento! Tentate, vi prego, di essere indulgente verso una miserabile ragazza e scrivete su di un pezzetto di carta se sta bene e che cosa ha detto di me prima che abbiate smesso di nominarmi parlando fra voi... e se, la sera, nell'ora in cui un tempo tornavo a casa, gli avete visto in volto un'espressione come se pensasse a una che amava tanto. Oh, mi si spezza il cuore quando ci penso! Mi inginocchio davanti a voi pregandovi e scongiurandovi di non essere dura con me quanto merito - quanto so di meritare - ma di essere tanto buona e gentile da scrivermi qualche cosa di lui e da inviarmela. Non dovete chiamarmi Piccola, non dovete chiamarmi col nome che ho disonorato; ma oh, ascoltate la voce della mia angoscia e abbiate pietà di me tanto da scrivermi qualche parola dello zio che i miei occhi non rivedranno mai, mai, in questo mondo! «Cara, se il vostro cuore è severo verso di me - giustamente severo, lo so - ma ascoltate, se è severo, cara, consigliatevi con colui che ho maggiormente offeso - colui di cui avrei dovuto essere la moglie - prima di respingere la mia povera, povera preghiera! E se lui avrà tanta compassione da dirvi che potete scrivermi qualche cosa - credo che l'avrà, oh, credo che l'avrà, se solo glielo chiederete, perché è sempre stato così buono e pronto a perdonare - ditegli allora (ma non altrimenti) che quando sento il vento soffiare di notte, mi sembra che passi sdegnato dopo aver visto lui e lo zio e corra su, a Dio, per testimoniare contro di me. Ditegli che, se dovessi morir domani (e oh, se ne fossi degna, sarei così lieta di morire!) vorrei benedire lui e lo zio con le mie ultime parole e pregare per la felicità della sua casa col mio ultimo respiro!» Anche in questa lettera c'erano alcune monete. Cinque sterline. Al pari della somma precedente non erano state toccate, ed egli le ripiegò allo stesso modo. Seguivano particolareggiate istruzioni relative all'indirizzo della risposta, le quali, sebbene palesassero l'intervento di diverse mani e rendessero difficile giungere a una probabile conclusione relativa al suo nascondiglio, rendevano almeno probabile che avesse scritto dal luogo stesso in cui era stata vista. «Quale risposta è stata inviata?» chiesi al signor Peggotty. «La signora Gummidge,» rispose, «non è molto istruita, signore; Ham stese gentilmente la risposta e lei la ricopiò. Le dicevano che io ero andato a cercarla, e quali erano state le mie parole prima di partire.» «È un'altra lettera, quella che avete in mano?» dissi. «È denaro, signore,» rispose il signor Peggotty spiegandolo un poco. «Dieci sterline, vedete. E nell'interno c'è scritto ‹Da parte di un vero amico,› come nella prima. Ma la prima era stata passata sotto la porta, e questa è arrivata per posta, l'altro ieri. Io vado a cercarla nel paese del timbro.» Me lo mostrò. Era una città dell'alto Reno. Aveva trovato, a Yarmouth, dei commercianti stranieri che conoscevano la regione, ed essi gli avevano tracciato su di un foglio una rozza mappa che lui capiva benissimo. La pose fra noi, sul tavolo, e, col mento appoggiato a una mano, indicò con l'altra l'itinerario lungo di essa. Gli chiesi come stava Ham. Scosse la testa. «Lavora,» disse, «e di lena quanto è possibile. Si è fatto un nome in tutta la regione come nessun altro in ogni parte del mondo. Tutti sono pronti ad aiutarlo, capite, e lui è pronto ad aiutare tutti. Non l'hanno mai udito lamentarsi. Ma mia sorella crede (sia detto fra noi) che ha ricevuto un colpo duro.» «Lo credo anch'io, pover'uomo!» «Non si cura, signorino Davy,» disse il signor Peggotty con un solenne sussurro, «non si cura affatto della propria vita. Quando si cerca un uomo per un lavoro duro, col cattivo tempo, lui è lì. Quando c'è da compiere qualche cosa di pericoloso, lui si fa avanti prima degli altri. E tuttavia è mite come un fanciullo. Non c'è un bambino in tutta Yarmouth che non lo conosca.» Raccolse le lettere con aria pensosa, lisciandole con la mano; le ripose nel pacchetto e tornò a mettersele amorosamente in seno. Il volto era scomparso dalla porta. Vedevo ancora la neve turbinare nell'interno, ma là non c'era alcuno. «Bene!» disse guardando la sua sacca, «poiché vi ho visto stasera, signorino Davy (e mi ha fatto bene!), partirò domattina presto. Avete visto quello che ho qui,» e posò la mano là dove aveva messo il pacchetto, «mi turba solo il pensiero che mi possa capitare qualche disgrazia prima che abbia il tempo di restituire il denaro. Se dovessi morire, o perderlo, o se mi fosse rubato, o se mi sfuggisse in qualche modo, e lui dovesse restare con la convinzione che l'abbia preso, credo che l'altro mondo non riuscirebbe a trattenermi! Credo che tornerei indietro!» Si alzò e mi alzai anch'io; ci stringemmo nuovamente la mano prima di uscire. «Camminerei per diecimila miglia,» disse, «camminerei fino a cader morto pur di mettergli davanti questo denaro. Se riesco a farlo e a trovare la mia Emily, mi basta. Se non la troverò, forse lei verrà a sapere, una volta o l'altra, che il suo affezionato zio ha terminato di cercarla solo al termine della vita; e, se la conosco, anche solo questo basterà per farla tornare a casa!» Mentre uscivamo nella rigida notte, vidi la figura solitaria scivolar via davanti a noi. Mi affrettai a farlo voltare con una scusa, e lo tenni a parlare finché non fu scomparsa. Mi accennò a un rifugio per viandanti sulla strada di Dover, dove sapeva che avrebbe potuto trovare un alloggio semplice e pulito per passarvi la notte. Lo accompagnai fino al ponte di Westminster e mi separai da lui sulla riva del Surrey. Tutto, nella mia immaginazione, sembrava tacere per rispetto di lui, ed egli riprese il suo cammino solitario nella neve. Tornai al cortile della locanda e, sotto l'impressione del ricordo di quel volto, mi guardai attentamente attorno cercandolo. Non v'era. La neve aveva coperto le nostre impronte di prima; le mie recenti erano le sole che si potessero vedere; e anche queste cominciavano a scomparire, tanto nevicava, quando mi guardai alle spalle. XLI • LE ZIE DI DORA Alla fine giunse la risposta delle due vecchie signore. Presentavano i loro complimenti al signor Copperfield e lo informavano di avere preso in seria considerazione la sua lettera «in vista della felicità di entrambe le parti» - espressione questa che mi parve piuttosto allarmante, non solo perché era la stessa che avevano usato in occasione dell'attrito familiare già ricordato, ma anche perché avevo notato (e l'ho notato per tutta la mia vita) che le frasi convenzionali sono una sorta di fuochi d'artificio che si lanciano facilmente e assumono una grande varietà di forme e di colori che non hanno nulla a che fare con la loro forma originale. Le signorine Spenlow aggiungevano la preghiera di essere dispensate dall'esprimere «per il tramite di una corrispondenza» un'opinione sull'argomento comunicato dal signor Copperfield; ma che, se il signor Copperfield voleva favorirle di una visita, in un certo giorno (accompagnato, se lo credeva opportuno, da un amico di fiducia), sarebbero state felici di avere una conversazione in proposito. A questa pregiata lettera il signor Copperfield rispose immediatamente, con i suoi rispettosi omaggi, che avrebbe avuto l'onore di far visita alle signorine Spenlow nel giorno indicato, accompagnato, secondo la loro gentile concessione, dal suo amico signor Thomas Traddles dell'Inner Temple. Spedita questa missiva, il signor Copperfield cadde in uno stato di profonda agitazione nervosa e vi rimase finché il giorno arrivò. Aumentò di molto la mia inquietudine l'essere privato, in questo momento cruciale, degli inestimabili servigi della signorina Mills. Ma il signor Mills, che aveva sempre combinato qualche cosa per farmi disperare - o almeno così mi sembrava, il che era lo stesso - aveva oltrepassato ogni limite mettendosi in testa di andare in India. Per quale ragione doveva andare in India se non per mettermi nei guai? Evidentemente non aveva nulla a che fare con le altre parti del mondo ma ne aveva un bel po' con quella regione, occupandosi interamente di commerci con l'India, quali che fossero (mi passavano davanti fluttuanti immagini di scialli dorati e denti di elefante), essendo stato a Calcutta in gioventù e avendo progettato di tornare là e stabilirvi la sua residenza. Ma tutto questo per me non contava nulla. Comunque il fatto era che in India doveva andarci, e Julia con lui; e Julia andò in campagna per salutare i suoi parenti; e la casa si trasformò in un mucchio di cartelli annuncianti che era in vendita o da affittare e che il mobilio (mangano e tutto) si vendeva a prezzo di stima. Così ci fu un altro terremoto, di cui divenni il trastullo, prima ancora che mi fossi rimesso dal colpo del primo! Ero molto perplesso sul modo di vestirmi in quell'importante giornata, diviso fra il desiderio di mostrarmi nel modo più favorevole e il timore di mettermi addosso qualche cosa che avrebbe potuto menomare il mio carattere severamente pratico agli occhi delle signorine Spenlow. Cercai di seguire una felice via di mezzo fra questi due estremi; la zia approvò il risultato, e il signor Dick ci tirò dietro una delle sue scarpe, per buon augurio mentre Traddles e io scendevamo le scale. Eccellente ragazzo come sapevo che era Traddles, e fervidamente affezionato a lui come ero, non potei fare a meno di desiderare, in quella delicata occasione, che egli non avesse mai contratto l'abitudine di spazzolarsi i capelli così all'insù. Gli davano un'aria stupita - per non dire che lo facevano somigliare a una scopa - che, a quanto mi sussurravano i miei timori, avrebbe potuto esserci fatale. Mi presi la libertà di accennarlo a Traddles, mentre eravamo in marcia per Putney, dicendogli che, se avesse voluto spianarli un tantino... «Mio caro Copperfield,» rispose Traddles togliendosi il cappello e strofinandosi la chioma in tutti i sensi, «nulla mi farebbe più felice. Ma è impossibile.» «È impossibile spianarli?» chiesi. «Impossibile,» rispose Traddles. «Nulla può domarli. Se ci mettessi sopra un peso da cinquanta libbre da qui fino a Putney, si drizzerebbero di nuovo appena lo togliessi. Non hai idea di quanto siano ostinati i miei capelli, Copperfield. Sono un vero porcospino irritato.» Ero un po' spiacente, devo confessarlo, ma anche incantato dal suo buon carattere. Gli dissi quanto stimavo la sua bonarietà, e aggiunsi che i suoi capelli dovevano essersi portata via tutta l'ostinazione che era in lui, perché non glien'era rimasta nemmeno un po'. «Oh!» rispose Traddles ridendo. «Ti assicuro che questi miei disgraziati capelli sono una vecchia storia. La moglie di mio zio non poteva sopportarli. Diceva che la esasperavano. E mi sono stati di ostacolo anche quando m'innamorai di Sophy. Un grosso ostacolo!» «Ci trovò da ridire?» «Lei no,» rispose Traddles; «ma la sua sorella maggiore - quella che è una bellezza - se ne fece gran beffe, a quanto ho saputo. In realtà, tutte le sue sorelle ci ridono sopra.» «Un bel fatto!» dissi. «Sì,» rispose Traddles con perfetta innocenza, «per noi è un giuoco. Dicono che Sophy ha una mia ciocca nel suo scrittoio, e che è costretta a chiuderla in un libro col fermaglio per tenerla giù. E ci ridiamo.» «A proposito, caro Traddles,» dissi, «la tua esperienza può darmi qualche consiglio. Quando ti sei fidanzato con la damigella che hai appena nominato, hai fatto una richiesta regolare alla sua famiglia? Non ci fu niente di simile... a quello che andiamo a fare oggi, per esempio?» aggiunsi nervosamente. «Be',» rispose Traddles, sul cui volto attento era scivolata un'ombra pensosa, «nel mio caso, Copperfield, fu una faccenda piuttosto penosa. Vedi, Sophy è così utile in famiglia, che nessuno di loro poteva sopportare l'idea che si sposasse. In realtà avevano stabilito fra loro che non si sarebbe mai sposata, e la chiamavano già la vecchia zitella. Di conseguenza, quando ne feci parola, con la massima precauzione, alla signora Crewler...» «La mamma?» chiesi. «La mamma,» confermò Traddles, «- la moglie del reverendo Horace Crewler - quando ne feci parola con ogni possibile precauzione alla signora Crewler, l'effetto su di lei fu tale che diede uno strillo e andò in deliquio. Per mesi non potei riprendere quell'argomento.» «Tuttavia alla fine lo facesti,» dissi. «Be', lo fece il reverendo Horace» rispose Traddles. «È un uomo eccellente, quanto mai esemplare sotto ogni aspetto; le fece notare che, come cristiana, doveva riconciliarsi con l'idea del sacrificio (specialmente di un sacrificio così incerto) e non nutrire verso di me sentimenti poco caritatevoli. Quanto a me, Copperfield, ti do la mia parola che mi sentivo un perfetto uccello da preda nei riguardi della famiglia.» «Le sorelle, spero, avranno preso le tue parti, Traddles.» «Be', non posso dire che le abbiano prese,» rispose. «Quando avevamo fatto relativamente accettare l'idea alla signora Crewler, dovemmo vedercela con Sarah. Ricordi che ti ho parlato di Sarah, quella che ha qualche cosa alla spina dorsale?» «Perfettamente!» «Si torse le mani,» disse Traddles con un'espressione costernata; «chiuse gli occhi, divenne livida, si irrigidì tutta; e per due giorni non prese altro che pappe e cucchiaini.» «Una ragazza piuttosto sgradevole, Traddles,» notai. «Oh, scusami, Copperfield!» protestò Traddles. «È una ragazza affascinante, ma ha molto sentimento. In realtà ne hanno tutte. Sophy mi disse poi che i rimorsi che dovette sostenere mentre curava Sarah non si potevano descrivere. E so che fu una prova severa anche per i miei sentimenti, Copperfield: mi sentivo un criminale. Quando Sarah si fu ripresa, dovemmo affrontare le altre otto; e la cosa produsse su di loro vari effetti della natura più patetica. Le due piccole, quelle che Sophy sta educando, hanno appena finito di detestarmi.» «A ogni conto, adesso si sono riconciliate con l'idea, spero,» dissi. «S... sì, direi che nell'insieme si siano rassegnate,» rispose Traddles con aria dubitosa. «Il fatto è che evitiamo di parlare di questo argomento; e le mie incerte prospettive, le mie mediocri condizioni attuali sono per loro una grande consolazione. Sarà una scena deplorevole, quando ci sposeremo. Somiglierà piuttosto a un funerale che a un matrimonio. E tutte loro mi odieranno per avergliela portata via!» Il suo volto onesto, mentre mi guardava scuotendo la testa fra il serio e il comico, mi fece più impressione nel ricordo che nella realtà, perché in quel momento ero in uno stato di tale trepidazione e smarrimento mentale da essere assolutamente incapace di fissare la mia attenzione su qualsiasi cosa. Nell'avvicinarci alla casa in cui abitavano le signorine Spenlow, persi in tal modo ogni controllo della mia apparenza personale e della mia presenza di spirito, che Traddles mi propose un blando stimolante sotto forma di un bicchiere di birra. Dopo avermelo somministrato in una mescita vicina, mi condusse barcollante alla porta delle signorine Spenlow. Ebbi la vaga sensazione di essere, per così dire, in mostra quando la cameriera venne ad aprire; e di ondeggiare poi attraverso un'anticamera, in cui c'era un barometro, fino a un tranquillo salottino al terreno che dava su di un lindo giardino. Ebbi anche vagamente l'impressione di sedermi su di un sofà e di vedere i capelli di Traddles saltar su, ora che si era tolto il cappello, come una di quelle impertinenti figurine a molla che balzano fuori da finte tabacchiere appena si toglie il coperchio. E anche di udire il ticchettìo di una vecchia pendola sulla mensola del camino e di tentare di accordarvi i battiti del mio cuore... senza riuscirvi. E anche di guardarmi attorno per tutta la stanza cercando qualche traccia di Dora, senza trovarla. E di aver sentito Jip abbaiare una volta, in distanza, e subito qualcuno chiudergli la bocca. E infine mi trovai a indietreggiare spingendo Traddles nel caminetto, e a inchinarmi tutto confuso a due piccole signore anziane e asciutte, vestite di nero, e ognuna meravigliosamente simile a un'immagine del defunto signor Spenlow, fatta di trucioli o di corteccia. «Prego,» disse una delle due piccole signore, «accomodatevi.» Quando ebbi finito di cadere addosso a Traddles e mi fui seduto su qualche cosa che non era un gatto - il mio primo sedile lo fu - ripresi il senso della vista tanto da rendermi conto che il signor Spenlow era stato evidentemente il più giovane della famiglia; che fra le due sorelle c'era una differenza di sei o otto anni; e che la più giovane sembrava essere la direttrice del colloquio perché aveva in mano la mia lettera - così familiare, mi appariva, e tuttavia così strana! - e vi si riferiva ogni tanto attraverso un occhialino. Erano vestite in egual modo, ma questa sorella portava il suo abito con un'aria più giovanile dell'altra; e forse aveva un tantino più di trine, o un fisciù, o una spilla, o un braccialetto, o qualche cosuccia del genere che le dava un aspetto più vivace. Stavano tutte e due dritte sulle loro sedie, formali, precise, composte e tranquille. La sorella che non aveva la mia lettera teneva le braccia incrociate sul petto, ferme l'una sull'altra, come un idolo. «Il signor Copperfield, immagino,» disse la sorella con la lettera rivolgendosi a Traddles. Fu un inizio pauroso. Traddles dovette indicare che il signor Copperfield ero io, io dovetti rivendicare me stesso, loro dovettero rinunciare all'idea che Traddles fosse il signor Copperfield, e tutti ci trovavamo in una situazione stupenda. A migliorarla, tutti noi udimmo distintamente Jip dare altri due brevi latrati ed essere nuovamente soffocato. «Signor Copperfield!» disse la sorella con la lettera. Feci qualche cosa - suppongo che mi inchinai - ed ero tutto attenzione quando l'altra sorella intervenne. «Mia sorella Lavinia,» disse, «essendo esperta in cose di questo genere, esporrà ciò che consideriamo più conveniente per la felicità di entrambe le parti.» Scoprii in seguito che la signorina Lavinia era un'autorità in faccende di cuore perché, in passato, era esistito un certo signor Pidger, che giocava al short whist e che si supponeva essersi innamorato di lei. La mia opinione personale è che fosse una supposizione del tutto gratuita e che il signor Pidger fosse assolutamente innocente di tali sentimenti, ai quali, per quanto abbia saputo, non aveva mai dato alcuna forma di espressione. Comunque, tanto la signorina Lavinia quanto la signorina Clarissa avevano la superstiziosa convinzione che avrebbe dichiarato la sua passione se non fosse stato troncato nel fior degli anni (circa sessanta) dall'aver bevuto oltre le capacità della sua costituzione e dall'aver fatto un eccessivo tentativo di rimettere le cose a posto trangugiando acqua di Bath. Esse avevano anche un tacito sospetto che fosse morto del suo segreto amore; sebbene devo dire che vi era in casa un ritratto di lui con un naso porporino che non sembrava minimamente devastato da una passione segreta. «Non abbiamo intenzione,» disse la signorina Lavinia, «di tornare sul passato di questa vicenda. La morte del nostro povero fratello Francis ha cancellato tutto.» «Non avevamo l'abitudine,» aggiunse la signorina Clarissa, «di avere frequenti rapporti con nostro fratello Francis; ma non vi era fra noi una divisione o disunione precisa. Francis seguiva la sua strada e noi la nostra. Consideravamo questo opportuno per la felicità di entrambe le parti. E così fu.» Ognuna delle due sorelle si sporgeva un poco in avanti quando parlava, scuoteva la testa dopo aver parlato e tornava rigida dritta quando taceva. La signorina Clarissa non mosse mai le braccia. Ogni tanto tamburellava su di esse qualche motivo con le dita - minuetti o marce, direi - ma non le mosse mai. «La condizione, o supposta condizione, di nostra nipote è molto cambiata dopo la morte di nostro fratello Francis,» disse la signorina Lavinia; «e di conseguenza consideriamo le opinioni di nostro fratello relative a questa condizione stessa come egualmente cambiate. Non abbiamo ragione per dubitare, signor Copperfield, che voi siate un giovane in possesso di buone qualità e di un nobile carattere; né che voi abbiate un affetto - o che siate pienamente convinto di avere un affetto - per nostra nipote.» Risposi, come facevo tutte le volte che ne avevo occasione, che nessuno aveva mai amato qualcuno più di quanto io amassi Dora. Traddles venne in mio aiuto con un mormorio di conferma. La signorina Lavinia stava per rispondere qualche cosa, quando la signorina Clarissa, che appariva continuamente presa dal desiderio di riferirsi a suo fratello Francis, intervenne ancora: «Se la mamma di Dora,» disse, «quando sposò nostro fratello Francis, avesse detto subito che non vi era posto per la famiglia alla sua tavola, sarebbe stato meglio per la felicità di tutte le parti.» «Sorella Clarissa,» disse la signorina Lavinia, «forse sarebbe meglio che non si parlasse di questo, adesso.» «Sorella Lavinia,» disse la signorina Clarissa, «fa parte dell'argomento. Nel ramo dell'argomento sul quale tu sola sei competente, non penserei mai di interferire. Ma in questo ramo ho anch'io voce e opinione. Sarebbe stato meglio per la felicità di tutte le parti se la mamma di Dora, quando sposò nostro fratello Francis, avesse detto chiaramente quali erano le sue intenzioni. Allora avremmo saputo quello che dovevamo aspettarci. Avremmo detto: ‹Prego, non invitateci per nessuna ragione›; e sarebbe stata evitata ogni possibilità di malinteso.» Quando la signorina Clarissa ebbe scosso la testa, la signorina Lavinia riprese, riferendosi nuovamente alla mia lettera per mezzo dell'occhialino. Entrambe, sia detto di passaggio, avevano occhietti tondi, vivaci e scintillanti, come di uccello. E a due uccellini assomigliavano in tutto, con i loro gesti bruschi, improvvisi e scattanti, e un certo modo breve e contegnoso di aggiustarsi, come canarini. La signorina Lavinia, come ho detto, riprese: «Voi chiedete il permesso di mia sorella Clarissa e mio, signor Copperfield, di frequentare questa casa come aspirante accettato alla mano di nostra nipote.» «Se nostro fratello Francis,» disse la signorina Clarissa con una nuova irruzione, se posso chiamare irruzione la sua calma, «desiderava circondarsi da un ambiente di Doctors' Commons, e solo di Doctors' Commons, quale diritto o desiderio avevamo noi di opporci? Certamente nessuno. Siamo sempre state lontane dal volere imporci ad alcuno. Ma perché non dirlo? Nostro fratello Francis e sua moglie avessero pure la loro società. Mia sorella Lavinia e io avremmo avuto la nostra. Possiamo trovarcela da sole, spero.» Poiché queste parole sembravano rivolte a Traddles e a me, entrambi rispondemmo qualche cosa. La risposta di Traddles non si poté udire. Quanto a me, credo di avere osservato che questo era altamente onorevole per tutti gli interessati. Non ho la minima idea di quello che volessi dire. «Sorella Lavinia,» concluse la signorina Clarissa dopo essersi così alleggerito lo spirito, «puoi continuare, cara.» La signorina Lavinia continuò: «Signor Copperfield, mia sorella Clarissa e io abbiamo considerato molto attentamente questa lettera; e non lo abbiamo fatto senza mostrarla infine a nostra nipote e senza discuterla con lei. Non abbiamo dubbio che voi credete di amarla moltissimo.» «Credere, signora?» cominciai delirante; «Oh!...» Ma la signorina Clarissa mi lanciò un'occhiata (proprio da vivace canarino) imponendomi di non interrompere l'oracolo, e io chiesi scusa. «L'affetto,» disse la signorina Lavinia guardando sua sorella per averne una conferma che fu data sotto forma di piccoli assentimenti a ogni sentenza, «l'affetto maturo, l'omaggio, la devozione non riescono a esprimersi facilmente. La loro voce è sommessa. Sono modesti e schivi, rimangono all'agguato, aspettano e aspettano. E così pure è il frutto maturo. A volte un'intera vita scivola via e li trova che ancora maturano nell'ombra.» Naturalmente non capii, allora, che era un'allusione alla sua supposta esperienza con lo sciagurato Pidger; ma mi resi conto, dalla gravità con cui la signorina Clarissa chinava la testa assentendo, che a queste parole era attribuito gran peso. «Le leggere - perché così le definisco al confronto con questi sentimenti - le leggere inclinazioni dei giovani,» proseguì la signorina Lavinia, «sono polvere paragonata alla roccia. E proprio per la difficoltà di sapere se sono durevoli e hanno solide fondamenta, mia sorella Clarissa e io siamo state molto indecise sul modo di agire, signor Copperfield e signor...» «Traddles,» disse il mio amico vedendosi guardato. «Chiedo scusa. Dell'Inner Temple, credo,» disse la signorina Clarissa dando ancora un'occhiata alla mia lettera. Traddles disse: «Esattamente,» e divenne tutto rosso in viso. Ora, per quanto non avessi ancora ricevuto alcun esplicito incoraggiamento, mi parve di vedere nelle due piccole sorelle, e particolarmente nella signorina Lavinia, un intenso godimento per questo nuovo e fruttuoso soggetto di interesse domestico, una decisione di cavarne il massimo, una disposizione a coccolarselo, nella quale c'era un buon raggio di speranza. Mi parve capire che la signorina Lavinia avrebbe tratto una non comune soddisfazione dal sovrintendere a due giovani innamorati quali Dora e me; e che la signorina Clarissa sarebbe stata non meno soddisfatta nel vederla sovrintendere a noi intervenendo nel suo particolare settore ogni volta che l'impulso di farlo fosse stato irresistibile. Questo mi diede il coraggio di affermare con grande irruenza che amavo Dora più che non potessi dire o si potesse credere; che tutti i miei amici sapevano quanto l'amassi; che mia zia, Agnes, Traddles, tutti quelli che mi conoscevano sapevano come l'amavo e quanto questo amore mi aveva reso serio. E a prova di ciò mi appellai a Traddles. E Traddles, accendendosi come se si tuffasse in un dibattito parlamentare, se la cavò in modo veramente nobile confermando le mie affermazioni in termini chiarissimi e in un modo semplice e pratico che evidentemente fece una favorevole impressione. «Parlo, se mi è lecito dirlo, come uno che ha una certa esperienza di queste cose,» disse Traddles, «perché sono io stesso impegnato con una giovane dama - una di dieci, là nel Devonshire - e attualmente non vedo alcuna possibilità che il nostro impegno giunga a una conclusione.» «Voi potete allora confermare ciò che ho detto dell'affetto, signor Traddles,» chiese la signorina Lavinia prendendo evidentemente un nuovo interesse in lui, «che è modesto e schivo; che sa aspettare e aspettare?» «Interamente, signora,» rispose Traddles. La signorina Clarissa guardò la signorina Lavinia e scosse gravemente la testa. La signorina Lavinia guardò in modo consapevole la signorina Clarissa e trasse un breve sospiro. «Sorella Lavinia,» disse la signorina Clarissa, «prendi la mia bottiglietta di essenze.» La signorina Lavinia si rianimò con poche aspirazioni di aceto aromatico, mentre Traddles e io la guardavamo con gran sollecitudine, e poi riprese, piuttosto debolmente: «Mia sorella e io siamo state in gran dubbio, signor Traddles, sulla linea che avremmo dovuto seguire circa gli affetti, o immaginari affetti, di due creature così giovani come il vostro amico signor Copperfield e nostra nipote.» «La figlia di nostro fratello Francis,» precisò la signorina Clarissa. «Se la moglie di nostro fratello Francis avesse trovato conveniente, quando era in vita (sebbene avesse un indiscutibile diritto di agire come meglio credeva), invitare la famiglia alla sua tavola, avremmo potuto conoscere meglio, nel momento attuale, la figlia di nostro fratello Francis. Sorella Lavinia, continua.» La signorina Lavinia voltò la mia lettera così da portare la sovrascritta verso di sé e consultò, con l'occhialino, alcune note che aveva scritto in bell'ordine su questo lato del foglio. «Ci sembra prudente, signor Traddles,» disse, «mettere questi sentimenti alla prova della nostra osservazione. Attualmente non ne conosciamo nulla e non siamo in condizione di giudicare quanto di reale possa essere in essi. Siamo dunque inclini ad acconsentire alla proposta del signor Copperfield fino a permettergli di frequentare la nostra casa.» «Care signore,» esclamai sollevato da un immenso peso di apprensioni, «non dimenticherò mai la vostra bontà!» «Ma,» proseguì la signorina Lavinia, «ma, per il momento, preferiremmo considerare le sue visite, signor Traddles, come fatte a noi. Dobbiamo guardarci dal riconoscere qualsiasi effettivo impegno tra il signor Copperfield e nostra nipote, finché avremo avuto l'opportunità...» «Finché tu avrai avuto l'opportunità, sorella Lavinia,» disse la signorina Clarissa. «Sia pure,» assentì la signorina Lavinia con un sospiro, «finché avrò avuto l'opportunità di osservarli.» «Copperfield,» disse Traddles volgendosi a me, «sono sicuro che ti rendi conto che nulla potrebbe essere più ragionevole e sensato.» «Nulla!» esclamai. «Ne sono profondamente convinto.» «Stando così le cose,» continuò la signorina Lavinia sempre consultando le sue note, «e ammettendo le sue visite solo sulla base di questa intesa, dobbiamo chiedere al signor Copperfield una precisa assicurazione, sulla sua parola d'onore, che nessuna comunicazione di alcun genere avverrà fra lui e nostra nipote senza che ne siamo a conoscenza. Che nessun progetto di alcun genere relativamente a nostra nipote sarà da lui considerato senza averlo prima sottoposto a noi...» «A te, sorella Lavinia,» interruppe la signorina Clarissa. «Sia pure, Clarissa,» ammise rassegnata la signorina Lavinia, «a me, e averne avuto l'approvazione. Dobbiamo considerare questo come il patto più esplicito e più serio, da non trasgredirsi per alcuna ragione. Abbiamo desiderato che il signor Copperfield fosse accompagnato oggi da qualche amico di sua fiducia,» e inchinò il capo verso Traddles, che si inchinò a sua volta, «appunto perché non vi potesse essere alcun dubbio o malinteso su questo soggetto. Se il signor Copperfield, o voi, signor Traddles, avete il minimo scrupolo nel fare questa promessa, vi prego di prender tempo per ripensarci.» Esclamai, in uno stato di alto fervore estatico, che non era necessario ripensarci nemmeno un istante. Mi impegnai, nel modo più appassionato, alla promessa richiesta; chiamai Traddles a esserne testimone; e dichiarai che sarei stato l'essere più infame se avessi minimamente deviato da essa. «Basta!» disse la signorina Lavinia alzando la mano; «abbiamo deciso, prima di avere avuto il piacere di ricevervi entrambi, signori, di lasciarvi soli per un quarto d'ora per considerare questo punto. Permetteteci di ritirarci.» Invano protestai che nessuna considerazione era necessaria. Insistettero nel volersi ritirare per il tempo suddetto. E così quegli uccellini saltellarono via con grande dignità, lasciandomi a ricevere le congratulazioni di Traddles e a sentirmi come se fossi stato trasportato nelle regioni della più squisita felicità. Esattamente allo spirare del quarto d'ora riapparvero con non minore dignità di quando erano scomparse. Erano uscite frusciando come se i loro piccoli vestiti fossero fatti di foglie autunnali: e frusciando tornarono, nello stesso modo. Allora mi impegnai ancora una volta alle condizioni prescritte. «Sorella Clarissa,» disse la signorina Lavinia, «il resto tocca a te.» La signorina Clarissa, sciogliendo per la prima volta le braccia, prese le note e vi diede uno sguardo. «Saremo felici,» disse la signorina Clarissa, «di avere il signor Copperfield a pranzo ogni domenica, se non gli è di disturbo. Noi pranziamo alle tre.» Feci un inchino. «Nel corso della settimana,» continuò la signorina Clarissa, «saremo liete di avere il signor Copperfield al tè. Prendiamo il tè alle sei e mezzo.» Feci un altro inchino. «Due volte la settimana,» aggiunse la signorina Clarissa, «ma, come regola, non più spesso.» Feci ancora un inchino. «La signorina Trotwood,» disse la signorina Clarissa, «nominata nella lettera del signor Copperfield, vorrà forse farci visita. Quando le visite sono opportune per la felicità di tutte le parti, siamo felici di riceverle e di restituirle. Quando è meglio, per la felicità di tutte le parti, che non avvengano visite (come nel caso di nostro fratello Francis e della sua famiglia) la cosa è molto diversa.» Dichiarai che mia zia sarebbe stata orgogliosa e felice di fare la loro conoscenza, sebbene devo dire che non ero affatto sicuro che sarebbero andate d'accordo in modo soddisfacente. Stabiliti così i patti, espressi i miei ringraziamenti col massimo fervore e, presa la mano, prima della signorina Clarissa e poi della signorina Lavinia, vi premetti, in entrambi i casi, le labbra. Allora la signorina Lavinia si alzò e, pregando il signor Traddles di scusarci per un minuto, mi invitò a seguirla. Obbedii tremante e fui condotto in un'altra stanza. Là trovai il mio benedetto amore che si tappava le orecchie dietro la porta, col suo caro visino contro il muro; e Jip nello scaldapiatti con la testa avvolta in un asciugamano. Oh! Com'era bella nel suo abito nero, e come singhiozzò e pianse dapprima, rifiutandosi di uscire di dietro la porta! E quanta passione sentimmo l'uno per l'altro quando alla fine venne fuori; e in quale beatitudine mi trovai quando togliemmo Jip dallo scaldapiatti e lo riportammo alla luce, tutto starnuti, e fummo tutti e tre riuniti! «Dora carissima! Adesso sei proprio mia per sempre!» «Oh, no!» implorò Dora. «Ti prego!» «Non sei mia per sempre, Dora?» «Oh sì, naturalmente che lo sono!» esclamò Dora, «ma ho tanta paura!» «Paura, amor mio?» «Oh sì! Non mi piace quello là,» disse Dora. «Perché non se ne va?» «Chi, vita mia?» «Il tuo amico,» disse Dora. «Non c'entra per nulla. Che stupido dev'essere!» «Amor mio!» (Nulla faceva più tenerezza dei suoi modi infantili). «È il migliore degli uomini!» «Oh, ma noi non abbiamo bisogno di nessun migliore degli uomini!» rispose Dora imbronciandosi. «Cara,» insistei, «presto lo conoscerai bene e ti piacerà immensamente. E anche mia zia arriverà presto; e ti piacerà immensamente anche lei, quando la conoscerai.» «No, ti prego, non portarla qui!» disse Dora dandomi un bacetto inorridito e giungendo le mani. «Non farlo. So che è una vecchia cattiva e maldicente! Non farla venire qui, Doady!» che era una corruzione di David. Era inutile protestare, in quel momento; così risi, la ammirai e fui innamoratissimo e felicissimo; e lei mi mostrò il nuovo giuoco di Jip che era capace di stare in un angolo, dritto sulle zampe posteriori - cosa che fece per circa lo spazio di un lampo e poi ricadde giù - e non so quanto sarei rimasto lì, dimentico di Traddles, se la signorina Lavinia non fosse venuta a portarmi via. La signorina Lavinia era entusiasta di Dora (mi disse che Dora era esattamente come era stata lei alla sua età - doveva essere cambiata un bel po'), e trattava Dora come se fosse stata un giocattolo. Volevo indurre Dora a venire a vedere Traddles, ma alla mia proposta lei fuggì nella sua stanza e vi si chiuse a chiave; così tornai da Traddles senza di lei e me ne uscii con lui all'aria aperta. «Non poteva andare in modo più soddisfacente,» disse Traddles. «Sono due vecchie signore molto piacevoli, nessun dubbio. Non mi meraviglierei affatto se ti trovassi sposato parecchi anni prima di me, Copperfield.» «La tua Sophy suona qualche strumento, Traddles?» chiesi nell'orgoglio del mio cuore. «Conosce abbastanza il piano per insegnarlo alle sue sorelline,» rispose Traddles. «E canta?» chiesi ancora. «Be', a volte canta delle ballate per tener su le altre quando sono abbattute,» rispose Traddles. «Nulla che sia di scuola.» «Canta sulla chitarra?» insistei. «Oh diamine, no!» disse Traddles. «E dipinge?» «Niente affatto,» disse Traddles. Promisi a Traddles che avrebbe udito cantare Dora e veduto i suoi dipinti di fiori. Rispose che gli sarebbe piaciuto moltissimo, e tornammo a casa a braccetto, di ottimo umore e quanto mai soddisfatti. Lungo la strada lo incoraggiai a parlarmi di Sophy; ed egli lo fece, con un'affettuosa fiducia in lei che io ammirai molto. La confrontavo mentalmente con Dora, non senza un intimo compiacimento; ma riconoscevo anche candidamente, che per Traddles doveva essere proprio quello che ci voleva. Naturalmente la zia fu subito messa al corrente del favorevole esito del colloquio e di tutto ciò che era stato detto e fatto nel corso di esso. Fu felice nel vedermi così felice e promise che avrebbe fatto visita alle zie di Dora senza perdere tempo. Ma quella sera passeggiò tanto su e giù per le nostre stanze, mentre io scrivevo ad Agnes, da farmi pensare che avesse intenzione di continuare fino al mattino. La mia lettera ad Agnes era piena di fervore e di gratitudine, e le narrava tutti i buoni effetti che erano risultati dall'aver seguito il suo consiglio. Lei mi rispose a giro di posta con una lettera tutta speranza, zelo e gaiezza. Da quel momento ella fu sempre gaia. Adesso avevo più da fare che mai. Considerando le mie giornaliere gite a Highgate, Putney era molto lontana; e io naturalmente volevo andarvi più spesso che potevo. Poiché i tè proposti erano praticamente impossibili, concordai con la signorina Lavinia il permesso di fare una visita ogni sabato pomeriggio senza pregiudizio del privilegio domenicale. Così il fine settimana fu per me un periodo delizioso e trascorrevo tutto il resto del tempo pregustandolo. Fu per me un sollievo enorme vedere che la zia e le zie di Dora, tutto considerato, procedevano in modo molto più liscio che non mi aspettassi. La zia fece la promessa visita pochi giorni dopo il colloquio; e, dopo pochi altri giorni, le zie di Dora vennero a visitarla con la pompa e le formalità dovute. Simili e più amichevoli scambi avvennero in seguito, in genere a intervalli di tre o quattro settimane. So che la zia sconcertò alquanto le zie di Dora con la sua assoluta indifferenza per i rapidi mezzi di trasporto, e andando a piedi a Putney alle ore più impensate, come subito dopo colazione o un momento prima del tè; e così pure portando il cappello nel modo che trovava più comodo per la sua testa senza minimamente indulgere ai pregiudizi della civiltà in proposito. Ma le zie di Dora si accordarono presto nel considerare la zia come una signora eccentrica e un po' mascolina, dotata di gran discernimento; e, sebbene mia zia, ogni tanto, facesse arruffar le penne alle zie di Dora esprimendo eretiche opinioni su vari punti del cerimoniale, mi amava troppo per non sacrificare qualcuna delle sue piccole peculiarità all'armonia generale. L'unico membro della nostra modesta società che rifiutò decisamente di adattarsi alle circostanze fu Jip. Mai si vide davanti la zia senza immediatamente mettere in mostra tutta la dentatura che aveva in bocca, ficcarsi sotto una sedia e ringhiare senza tregua, inframettendovi ogni tanto un ululato dolente, come se davvero ella fosse troppo per i suoi sentimenti. Furono provati su di lui tutti i trattamenti possibili, le moine, le sgridate, gli sculaccioni, le gite a Buckingham Street (dove immediatamente si precipitò sui due gatti fra il terrore di tutti i presenti); ma mai riuscì a sopportare la vista della zia. Talora sembrava credere di aver dominato la sua ostilità e si comportava in modo amabile per qualche minuto; ma poi alzava il nasetto camuso e ululava in modo tale che non restava altro da fare se non bendargli gli occhi e metterlo nello scaldapiatti. Infine Dora lo avvolse regolarmente in un asciugamano e lo mise là dentro ogni volta che mia zia veniva annunciata alla porta. Una cosa mi turbò molto, quando ci fummo messi in questo tranquillo corso di vita. E cioè che Dora sembrava essere unanimemente considerata come un grazioso giocattolo o un trastullo. Mia zia, con cui a poco a poco fece amicizia, la chiamava sempre Fiorellino; e il massimo piacere della signorina Lavinia era di occuparsi di lei, arricciarle i capelli, prepararle dei fronzoli, trattarla come un bambino viziato. E quello che la signorina Lavinia faceva, sua sorella lo ripeteva come cosa naturale. Era per me stranissimo, ma tutti sembravano trattare Dora, sul suo piano, esattamente come Dora trattava Jip, sul suo. Mi decisi a parlarne a Dora; e un giorno in cui eravamo a passeggio (perché, dopo qualche tempo, fummo autorizzati dalla signorina Lavinia ad andare a passeggio insieme), le dissi che sarei stato lieto se fosse riuscita a indurle a trattarla diversamente. «Perché capisci, cara,» protestai, «non sei una bambina.» «Ecco!» disse Dora. «Adesso cominci a brontolare!» «Brontolare, amor mio?» «Loro mi trattano con molto affetto, tutto qui,» disse Dora, «e io ne sono felicissima.» «Va bene! Ma, vita mia,» insistei, «tu potresti essere felicissima ed essere trattata in modo più ragionevole.» Dora mi lanciò uno sguardo di rimprovero - il più delizioso degli sguardi - e poi si mise a singhiozzare, dicendo che, se non l'amavo, perché mai avevo voluto con tanta insistenza fidanzarmi con lei? E perché adesso non me ne andavo, se non potevo sopportarla? Che altro potevo fare, dopo questo, se non asciugarle le lacrime a forza di baci e dichiararle tutta la mia passione? «Sono sicura di essere piena di affetto,» disse Dora; «e tu non dovresti essere crudele con me, Doady!» «Crudele, amor mio? Come se volessi - o potessi - essere crudele con te per tutto l'oro del mondo!» «Allora non rimproverarmi,» disse Dora facendo la bocca a boccio di rosa; «e io sarò buona.» Fui incantato nel sentirmi subito chiedermi, di sua spontanea volontà, di darle il libro di cucina di cui le avevo parlato e di insegnarle a tenere i conti come le avevo promesso. Portai con me il volume alla mia successiva visita (dopo averlo fatto elegantemente rilegare per renderlo meno severo e più allettante); e, mentre andavamo gironzolando attorno ai Commons, le mostrai un vecchio libro di conti di mia zia, e le diedi una serie di tavolette, un grazioso portamatite e una scatola di mine perché si esercitasse a tenere i conti. Ma il libro di cucina diede il mal di testa a Dora e le cifre la fecero piangere. Diceva che non si volevano addizionare. Così le cancellò e disegnò mazzolini di fiori e ritratti miei e di Jip su tutte le tavolette. Allora tentai scherzosamente di darle qualche insegnamento orale di economia domestica mentre andavamo a passeggio nei pomeriggi del sabato. A volte, per esempio, passando davanti a un macellaio, dicevo: «Supponiamo adesso, piccola mia, di essere sposati e che tu voglia comprare una spalla di montone per il pranzo: sapresti come comprarla?» Il grazioso visino di Dora si allungava e lei atteggiava ancora la bocca a boccio di rosa come se avesse voluto molto più volentieri chiudere la mia con un bacio. «Sapresti come comprarla, cara?» ripetevo a volte se proprio ero inflessibile. Dora pensava un poco e poi rispondeva, talora con aria trionfale: «Diamine, il macellaio saprà bene come deve vendermelo, e che bisogno c'è che lo sappia io? Oh, sciocchino che non sei altro!» Così, quando una volta domandai a Dora, con un occhio sul libro di cucina, che cosa avrebbe fatto se fossimo già sposati e io le dicessi di desiderare un bello stufato irlandese, mi rispose che avrebbe ordinato alla cuoca di farlo; e poi batté le manine attorno al mio braccio e rise in un modo così incantevole da essere più attraente che mai. Di conseguenza il principale uso a cui il libro di cucina venne adibito fu di esser messo in un angolo perché Jip ci stesse dritto in piedi. Ma Dora fu così felice quando lo ebbe ammaestrato a starci senza tentare di scendere, tenendo in egual tempo in bocca la scatola delle matite, che io fui lietissimo di averla comprata. E noi tornammo alla chitarra, alle pitture di fiori, e alle canzoni sulla necessità di non smettere mai di ballare, ta ra là! e fummo felici per quanto è lunga la settimana. Ogni tanto pensavo di arrischiarmi ad accennare alla signorina Lavinia che trattava la mia amata un po' troppo come un giocattolo; e ogni tanto mi svegliavo, per così dire, con la meraviglia di esser caduto io stesso nella colpa comune e di trattarla a mia volta come un trastullo... ma non molto spesso. XLII • MALVAGITÀ Ho l'impressione che non spetti a me ricordare, anche se questo manoscritto non è dedicato ad altri occhi che i miei, quanto duramente lavorassi a quella tremenda stenografia e quali progressi vi facessi nel mio senso di responsabilità verso Dora e verso le sue zie. Aggiungerò solo a quanto ho già scritto sulla mia perseveranza in quel periodo della mia vita e sulla mia paziente e continua energia che cominciò allora a maturare in me e che so essere la parte più forte del mio carattere, se pur ve n'è alcuna, che là, volgendomi indietro, scorgo le origini del mio successo. Sono stato molto fortunato nelle cose terrene; molti hanno lavorato più duramente di me e hanno avuto una molto minore riuscita; ma non avrei mai potuto fare quello che ho fatto senza le abitudini di puntualità, ordine e diligenza, senza la decisione di concentrarmi su di un solo oggetto alla volta per quanto da vicino il successivo seguisse le sue orme, che mi formai allora. Il cielo sa che scrivo questo senza alcuna intenzione di lodarmi. Chi passa in rassegna la propria esistenza come faccio io qui, pagina per pagina, dev'essere stato proprio un brav'uomo se gli è risparmiata la pungente coscienza di tanti talenti trascurati, di tante occasioni sciupate, di tanti traviati e pervertiti sentimenti sempre in lotta nel suo cuore per sconfiggerlo. Oserei dire che non ho un solo dono naturale che non abbia forzato all'estremo. Intendo semplicemente che, qualsiasi cosa abbia tentato di fare nella vita, ho cercato di farla bene con tutto il cuore; che a qualunque cosa mi sia dedicato, mi ci sono dedicato completamente; che nelle grandi cose come nelle piccole ho sempre fatto in tutto e per tutto sul serio. Non ho mai creduto possibile che un'abilità naturale o acquisita possa fare a meno delle doti di fermezza, semplicità e perseveranza, e sperare di giungere egualmente al suo scopo. Successi simili non sono di questa terra. Qualche felice talento, qualche occasione fortunata possono formare i due montanti della scala su cui alcuni salgono, ma i pioli della scala devono essere fatti di una materia che non si logora; e nulla può sostituire uno zelo deciso, ardente e sincero. Non mai metter mano a una cosa a cui non possa dedicarmi interamente, e mai disprezzare il mio lavoro quale che sia: ecco quelle che oggi considero siano state le mie regole auree. Quanto della pratica che ho adesso tradotto in precetto io lo debba ad Agnes, non lo ripeterò qui. Il mio racconto torna ora ad Agnes con riconoscente amore. Ella venne in visita dal dottore per una quindicina di giorni. Il signor Wickfield era un vecchio amico del dottore, e questi desiderava parlargli e fargli del bene. La cosa era stata discussa con Agnes l'ultima volta che era venuta in città, e questa visita ne era il risultato. Lei e suo padre giunsero insieme. Non fui molto sorpreso di sapere da Agnes che si era impegnata di trovare nei paraggi un alloggio per la signora Heep, i cui reumatismi richiedevano un cambiamento d'aria e che sarebbe stata felice di trovarlo in tale compagnia. Né fui sorpreso quando, già il giorno dopo, Uriah, da figlio devoto, accompagnò la sua degna madre a prender possesso della casa. «Vedete, signorino Copperfield,» mi disse costringendomi a fare un giro con lui nel giardino del dottore, «quando si ama, si è un po' gelosi... o per lo meno ansiosi di tener d'occhio la persona amata.» «Di chi siete geloso, adesso?» chiesi. «Grazie a voi, signorino Copperfield,» rispose, «di nessuno in particolare, attualmente... per lo meno di nessuno di sesso maschile.» «Volete dire che siete geloso di una donna?» Mi diede uno sguardo di traverso con i suoi sinistri occhi rossi e rise. «Davvero, signorino Copperfield,» disse, «- dovrei dire signore, ma so che scuserete la mia abitudine - siete così penetrante che entrate in me come un cavatappi! Bene, a voi posso dirlo,» e posò la sua mano anguillesca sulla mia, «in generale, non sono galante, signore, e con la signora Strong non lo sono mai stato.» I suoi occhi, adesso, sembravano verdi e fissavano i miei con una furfantesca furberia. «Che intendete dire?» chiesi. «Be', sebbene sia un uomo di legge, signorino Copperfield,» rispose con un ghigno asciutto, «in questo momento voglio dire solo quello che dico.» «E che cosa intendete con il vostro sguardo?» ribattei tranquillo. «Con il mio sguardo? Povero me, Copperfield, questo significa essere troppo acuti. Che cosa intendo col mio sguardo?» «Sì,» dissi, «col vostro sguardo.» Parve molto divertito e rise di cuore per quanto la sua natura glielo permetteva. Dopo essersi grattato un po' il mento con la mano, proseguì a occhi bassi, e sempre grattandosi molto lentamente: «Quando ero solo un umile impiegato, lei mi guardava sempre dall'alto al basso. Non faceva che invitare la mia Agnes a casa sua, ed era anche vostra amica fedele, signorino Copperfield; ma io ero troppo al di sotto di lei per essere notato.» «Ebbene?» dissi; «ammettiamo che lo foste.» «E anche al di sotto di lui,» proseguì Uriah molto distintamente e in tono meditativo, mentre continuava a grattarsi il mento. «Conoscete così poco il dottore,» dissi, «da supporre che si rendesse conto della vostra esistenza quando non gli eravate davanti?» Volse di nuovo gli occhi verso di me con quel suo sguardo obliquo e sporse la mascella per grattarsela meglio, mentre rispondeva: «Oh, buon Dio, non mi riferisco al dottore! No davvero, pover'uomo! Intendo il signor Maldon!» Mi sentii venir meno il cuore. Tutti i miei antichi dubbi e le mie apprensioni a questo proposito, tutta la felicità e la pace del dottore, e le frammiste possibilità di innocenza e di compromesso che non riuscivo a sbrogliare, le vedevo in un attimo in balìa delle spire di quell'essere. «Non entrava mai nel mio studio senza darmi degli ordini e mandarmi in giro,» disse Uriah. «Proprio uno dei vostri distinti gentiluomini! Io ero molto mite e umile... e lo sono ancora. Ma non mi piacevano queste cose... e non mi piacciono!» Smise di grattarsi il mento e si succhiò le gote finché parvero toccarsi internamente; e frattanto continuava a guardarmi di traverso. «Lei è una delle vostre donne seducenti,» proseguì dopo avere lentamente riportato il volto alla sua forma naturale, «e per nulla disposta a essere amica di uno come me, lo so benissimo, io. È proprio la persona che potrebbe indurre la mia Agnes ad avere più ambiziose pretese. Ebbene, io non sono uno dei vostri damerini, signorino Copperfield; ma ho degli occhi in testa, e da un bel po' di tempo. Noi umili abbiamo occhi, generalmente parlando... e li sappiamo usare.» Tentai di fingere di non capire e di essere tranquillo, ma, glielo vidi in faccia, con scarso successo. «Ora, non ho alcuna intenzione di farmi buttare a terra, Copperfield,» continuò alzando quella parte del suo volto dove sarebbero state le sue rosse sopracciglia, se le avesse avute, con un'aria di maligno trionfo, «e dovrò fare tutto quello che posso per mettere fine a questa amicizia. Non mi piace. Con voi posso riconoscere di avere un carattere piuttosto rancoroso, e voglio togliere di mezzo gli intrusi. Non ho intenzione, se posso evitarlo, di correre il rischio che qualcuno brighi contro di me.» «Voi non fate che brigare, e vi illudete di credere che tutti facciano altrettanto con voi, penso,» risposi. «Forse è così, signorino Copperfield,» replicò. «Ma io ho un motivo, come diceva il mio socio; e lo difendo con le unghie e con i denti. Non devo essere troppo calpestato come persona umile. Non posso permettere che mi si attraversi la strada. Il fatto è che devono scendere dalla carrozza, signorino Copperfield!» «Non vi capisco,» dissi. «Davvero?» rispose con uno dei suoi guizzi. «Ne sono stupito, signorino Copperfield, perché in genere siete così acuto! Cercherò di essere più chiaro un'altra volta. - Non è il signor Maldon quell'uomo a cavallo che suona al cancello, signore?» «Sembra lui,» risposi con tutta la noncuranza che potei. Uriah si fermò bruscamente, si ficcò le mani tra i due grossi nodi dei ginocchi e si piegò in due ridendo. Una risata perfettamente silenziosa: non usciva da lui un solo suono. Era così repellente con questa odiosa condotta e in particolare con questo suo gesto conclusivo, che me ne andai senza cerimonie lasciandolo piegato in due in mezzo al giardino; come uno spaventapasseri privato del sostegno. Non fu quella sera ma, ricordo bene, due sere dopo, la domenica, che portai Agnes a conoscere Dora. Avevo combinato già da prima quella visita con la signorina Lavinia; e Agnes era attesa per il tè. Ondeggiavo fra l'orgoglio e l'ansietà: orgoglio per la mia cara piccola fidanzata, e ansia che piacesse ad Agnes. Per tutta la strada verso Putney, mentre Agnes era nell'interno della diligenza e io sull'imperiale, mi raffigurai Dora in tutti i suoi graziosi aspetti che conoscevo così bene, ora decidendo che mi sarebbe piaciuto che si mostrasse esattamente come si era mostrata in una data occasione e poi domandandomi se non avrei preferito che apparisse come era apparsa in un'altra; e tormentandomi così fin quasi a farmi venire la febbre. Non avevo alcun dubbio che, in ogni caso, sarebbe stata graziosissima; ma avvenne che lo fu come mai l'avevo vista. Non era nel salotto, quando presentai Agnes alle due piccole zie, ma si era tenuta timidamente da parte. Adesso sapevo dove cercarla, e a colpo sicuro la trovai che si tappava gli orecchi dietro la stessa vecchia e stupida porta. Dapprima non voleva venire a nessun costo; poi mi pregò di concederle cinque minuti di orologio. Quando infine infilò il braccio sotto il mio perché la conducessi in salotto, il suo delizioso visetto si imporporò, e mai era stata così bella. Ma quando entrò nella stanza e impallidì, fu ancora diecimila volte più bella. Dora aveva paura di Agnes. Mi aveva detto di sapere che Agnes era «troppo intelligente.» Ma, quando la vide, a un tempo così gaia e così seria, così pensosa e così buona, diede un lieve grido di lieta sorpresa e gettò affettuosamente le braccia al collo di Agnes posando la sua gota innocente su quella di lei. Non ero mai stato così felice. Né mai fui così contento come quando le vidi sedute insieme, a fianco a fianco; come quando vidi la mia piccola cara fissare con tanta naturalezza quegli occhi cordiali; come quando vidi il tenero, soave sguardo che Agnes volgeva su di lei. La signorina Lavinia e la signorina Clarissa parteciparono a loro modo alla mia gioia. Fu il più piacevole tè del mondo. La signorina Clarissa presiedeva. Io tagliai e distribuii la torta coi semi aromatici; le due piccole sorelle avevano una passione da uccellini per prender su i semi e becchettare lo zucchero; la signorina Lavinia ci guardava con benigna protezione come se il nostro felice amore fosse tutto opera sua; ed eravamo perfettamente contenti di noi stessi e l'uno degli altri. La dolce gaiezza di Agnes raggiunse tutti i cuori. Il suo tranquillo interesse per tutto ciò che interessava Dora; il suo modo di far conoscenza con Jip (che rispose immediatamente); la sua grazia, quando Dora si vergognò di prendere il suo posto consueto accanto a me; la sua gentile modestia e la sua disinvoltura che provocarono in Dora una quantità di rossori come piccoli segni di confidenza, parvero rendere del tutto completo il nostro circolo. «Sono così felice,» disse Dora dopo il tè, «di piacervi. Non lo speravo, e ne ho bisogno più che mai, ora che Julia Mills è partita.» A proposito, avevo dimenticato di accennarvi. La signorina Mills si era imbarcata, e Dora e io eravamo saliti a bordo di un gran bastimento delle Indie orientali, a Gravesend, per salutarla; e, a colazione, avevamo avuto conserve con lo zenzero, con la guaiava e altre delicatezze del genere; e avevamo lasciato la signorina Mills in lacrime, seduta su di uno sgabelletto da campo sul cassero, con un grande e nuovo diario sotto braccio, sul quale le riflessioni originali suggerite dalla contemplazione dell'oceano sarebbero state conservate sotto chiave. Agnes disse di temere che io avessi fatto di lei un ritratto poco attraente; ma Dora la corresse senz'altro. «Oh no!» disse scuotendo i riccioli verso di me; «non ho udito che lodi. Dà tanto peso alla vostra opinione che ne ero tutta spaventata.» «La mia buona opinione non può rafforzare il suo affetto per certe persone che sa lui,» disse Agnes con un sorriso; «e non c'è bisogno che la esprima.» «Ma vi prego di farmela sapere,» disse Dora con la sua grazietta, «se potete!» Ridemmo del bisogno di affetto che aveva Dora, e Dora disse che ero un'oca, e che non le piacevo assolutamente; e la breve serata volò via con ali leggere. Si avvicinava il momento in cui la diligenza sarebbe passata a prenderci. Io me ne stavo solo, davanti al fuoco, quando Dora venne lieve e furtiva per darmi il solito prezioso bacetto prima che me ne andassi. «Non credi, Doady, che se l'avessi avuta come amica molto tempo prima,» disse Dora con i suoi fulgidi occhi ancora più accesi e la piccola destra oziosamente indaffarata su di un bottone della mia giacca, «sarei divenuta forse più intelligente?» «Amor mio!» esclamai, «che sciocchezza!» «Credi che sia una sciocchezza?» rispose Dora senza guardarmi. «Ne sei sicuro?» «Certo che lo sono!» «Ho dimenticato,» riprese Dora sempre girando e rigirando il bottone, «quale grado di parentela ha Agnes con te, cattivaccio mio.» «Nessuna parentela,» risposi; «ma siamo cresciuti insieme come fratello e sorella.» «Mi domando perché ti sei innamorato di me,» disse Dora passando a un altro bottone. «Forse perché mi era impossibile vederti senza amarti, Dora!» «Supponiamo che tu non mi avessi mai vista,» disse Dora afferrando un terzo bottone. «Supponiamo che non fossimo mai nati!» dissi io allegramente. Mi domandavo che cosa pensasse, mentre, in ammirato silenzio, contemplavo la piccola mano delicata scorrere su tutta la fila dei bottoni della mia giacca e i capelli ricciuti abbandonati sul mio petto, e le ciglia dei suoi occhi chini alzarsi a poco a poco seguendo il movimento delle dita oziose. Alla fine il suo sguardo si levò sul mio, ed ella si tese sulla punta dei piedi per darmi, più pensosa del solito, il prezioso bacetto - una, due, tre volte - e uscì dalla stanza. Tornarono tutti insieme cinque minuti dopo, e l'inconsueta pensosità di Dora era scomparsa. Era allegramente decisa a fare eseguire a Jip tutta la serie dei suoi esercizi prima che arrivasse la diligenza. Ci volle un po' di tempo (non tanto per la loro varietà, quanto per la riluttanza di Jip) e non erano ancora terminati quando si udì la diligenza arrivare alla porta. Allora ci fu un affrettato ma affettuoso saluto fra Agnes e lei; e Dora avrebbe scritto ad Agnes (che non doveva badare se le sue lettere erano un po' scioccherelle, disse), e Agnes avrebbe scritto a Dora; e ci fu un secondo saluto allo sportello della vettura, e un terzo quando Dora, nonostante le proteste della signorina Lavinia, uscì di corsa ancora una volta per ricordare ad Agnes, dal finestrino, di scriverle, e per scuotere i suoi riccioli verso di me, che ero a cassetta. La diligenza doveva portarci nei pressi del Covent Garden, dove ne avremmo preso un'altra per Highgate. Io ero impaziente della breve passeggiata che avremmo fatto nell'intervallo perché Agnes potesse farmi le lodi di Dora. Ah! che lodi furono! Con quale affettuoso fervore, dispiegando tutta la sua grazia genuina, ella raccomandò alle mie più tenere cure la graziosa creatura che avevo conquistato! Con quanta attenzione mi ricordò, pur senza l'aria di farlo, i doveri che avevo verso quella piccola orfana! Mai, mai avevo amato Dora così profondamente e sinceramente come in quella sera. Quando fummo nuovamente scesi e ci avviammo al lume delle stelle lungo la tranquilla strada che portava alla casa del dottore, dissi ad Agnes che era opera sua. «Quando eri seduta al suo fianco,» dissi, «sembravi essere il suo angelo custode non meno che il mio; e lo sembri anche adesso, Agnes.» «Un povero angelo,» mi rispose, «ma fedele.» Il chiaro tono della sua voce mi andò al cuore tanto che trovai naturale dirle: «La gaiezza che è tua propria, Agnes (e di nessun altro che abbia mai conosciuto), si è così ristabilita, a quanto ho potuto osservare oggi, da farmi sperare che, a casa, tu sia più felice.» «Sono più felice entro di me,» mi rispose; «mi sento gaia e col cuore leggero.» Guardai quel volto sereno, rivolto al cielo, e pensai che fossero le stelle a renderlo così nobile. «Non vi sono stati cambiamenti, a casa,» disse Agnes dopo qualche momento. «Non vi sono state nuove allusioni,» chiesi, «a... non vorrei angustiarti, Agnes, ma non posso fare a meno di domandartelo... a quello di cui parlammo quando ci separammo ultimamente?» «No, nessuna,» mi rispose. «Ci ho ripensato tanto.» «Devi pensarci di meno. Ricordati che la mia estrema fiducia è nel semplice amore e nella verità. Non avere apprensioni per me, Trotwood,» aggiunse dopo un istante. «Il passo che tu temi che io faccia, non lo farò mai.» Sebbene creda di non averlo mai temuto, nei momenti di più fredda riflessione, fu per me un inesprimibile sollievo l'avere avuto dalle sue stesse labbra questa assicurazione. Glielo dissi con tutto il mio ardore. «E quando questa tua visita sarà finita,» aggiunsi, «...visto che potremmo non avere altra occasione di trovarci soli... quanto tempo passerà, mia cara Agnes, prima che tu torni a Londra?» «Probabilmente molto tempo,» rispose; «credo che, per amore di papà, sarà meglio che resti a casa. Non è probabile che ci si riveda spesso nell'immediato futuro. Ma scriverò molto a Dora, e per questa via potremo avere di frequente le nostre reciproche notizie.» Eravamo adesso nel cortiletto della villa del dottore. Si faceva tardi. Alla finestra della camera della signora Strong c'era una luce, e Agnes, additandomela, mi augurò la buona notte. «Non lasciarti turbare,» mi disse dandomi la mano, «dalle nostre disgrazie e dalle nostre ansietà. Di nulla posso essere più felice che della tua felicità. Se mai potrai essermi di aiuto, fa conto che te lo chiederò. Dio ti benedica sempre.» Nel suo radioso sorriso e in questi ultimi toni della sua gaia voce mi parve di nuovo vedere e udire la mia piccola Dora in sua compagnia. Rimasi lì un poco, guardando le stelle dal portico, col cuore pieno di amore e di gratitudine, e poi uscii lentamente. Avevo fissato un letto in una decente locanda vicina, e stavo uscendo dal cancello quando, voltando la testa per caso, vidi una luce alla finestra del dottore. Mi venne un mezzo rimorso all'idea che stesse lavorando al dizionario senza il mio aiuto. Per accertarmi di questo e, in ogni caso, per dargli la buona notte se era lì seduto fra i suoi libri, tornai indietro e, attraversata silenziosamente l'anticamera, aprii piano la porta e guardai nell'interno. La prima persona che vidi con mia sorpresa, alla fioca luce di una lampada velata, fu Uriah. Era in piedi presso la lampada, con una delle sue scheletriche mani sulla bocca e l'altra sul tavolo del dottore. Il dottore era seduto nella sua poltrona e si copriva il volto con le mani. Il signor Wickfield, pieno di turbamento e di angoscia, si chinava in avanti, toccando indeciso il braccio di lui. Per un attimo pensai che il dottore si sentisse male. Feci rapidamente un passo avanti sotto questa impressione quando incontrai gli occhi di Uriah e capii di che si trattava. Volevo ritrarmi, ma il dottore fece un gesto per trattenermi, e rimasi. «Comunque,» notò Uriah con un contorcimento della sua goffa persona, «possiamo tener chiusa la porta. Non c'è bisogno di farlo sapere a tutta la città.» Così dicendo andò in punta di piedi alla porta, che avevo lasciato aperta, e la chiuse con cura. Poi tornò e riprese la posizione di prima. C'era nella sua voce e nei suoi modi una inopportuna ostentazione di compassionevole zelo più insopportabile - almeno per me - di qualsiasi altro atteggiamento che avesse assunto. «Ho sentito mio dovere, signorino Copperfield,» disse Uriah, «far conoscere al dottor Strong ciò di cui voi e io abbiamo già parlato. Voi non mi avevate ben capito, tuttavia.» Gli lanciai uno sguardo ma non risposi; e, avvicinatomi al mio buon maestro, gli dissi qualche parola che volevo gli fosse di conforto e di incoraggiamento. Egli mi mise la mano sulla spalla, come era solito fare quando ero un ragazzino, ma non alzò il grigio capo. «Poiché non mi avevate capito, signorino Copperfield,» riprese Uriah con gli stessi modi ufficiosi, «posso prendermi la libertà di farvi umilmente sapere, poiché siamo fra amici, che ho richiamato l'attenzione del dottor Strong sulla condotta della signora Strong. È contro la mia natura, ve lo assicuro, Copperfield, interessarmi di faccende così spiacevoli. Ma in realtà, come stanno le cose, siamo tutti immischiati in faccende in cui non dovremmo immischiarci. Questo volevo intendere, signore, quando non mi avete capito.» Oggi mi meraviglio, nel ricordare il suo ghigno, di non averlo preso per il colletto fino a fargli uscire il fiato dal corpo. «Riconosco di non essere stato molto esplicito,» proseguì, «e non lo siete stato nemmeno voi. Naturalmente eravamo entrambi inclini a evitare il soggetto. Comunque mi sono infine deciso a parlar chiaro; e ho accennato al dottore che... avete parlato, signore?» Questo era rivolto al dottore che aveva emesso un lamento. Quel gemito, credo, avrebbe toccato ogni cuore, ma non ebbe alcun effetto su Uriah. «Ho accennato al dottor Strong,» continuò, «che tutti possono vedere come tra il signor Maldon e quella amabile e piacevole signora che è la moglie del dottor Strong, vi siano rapporti troppo teneri. In realtà è venuto il momento (poiché in questo istante ci immischiamo in faccende in cui non dovremmo immischiarci) nel quale dobbiamo dire al dottor Strong quello che era chiaro a tutti come la luce del sole già prima che il signor Maldon andasse in India; che solo per questa ragione il signor Maldon cercò di giustificare con varie scuse il suo ritorno; e solo per questo è sempre qui. Quando siete entrato, signore, io stavo giusto invitando il mio socio,» e si rivolse a lui, «a dire al dottor Strong, sulla sua parola d'onore, se già da tempo, o no, era stato di questa opinione. Orsù, signor Wickfield! Volete farci la finezza di dircelo? Sì o no, signore. Avanti, collega!» «Per amor di Dio, mio caro dottore,» disse il signor Wickfield tornando a porre la mano indecisa sul braccio del dottore, «non date troppo peso ai sospetti che ho potuto avere.» «Ecco!» esclamò Uriah scuotendo la testa. «Che malinconica conferma, no? Lui! Un così vecchio amico! Il ciel vi benedica, Copperfield, quando non ero altro che uno scrivano nel suo studio l'ho visto non una ma venti volte preoccupatissimo, addirittura fuori di sé, sapete (ed era più che naturale in lui, come padre; io non posso proprio biasimarlo) all'idea che la signorina Agnes avesse dell'intimità con chi non avrebbe dovuto.» «Mio caro Strong,» disse il signor Wickfield con voce tremula, «mio buon amico, non c'è bisogno che vi ripeta che è stato per il mio vizio di scorgere in ognuno un motivo principale e di giudicarne tutte le azioni secondo questo ristretto criterio. Per questo errore posso essere incorso in alcuni sospetti che ho avuto.» «Avete avuto dei sospetti, Wickfield,» disse il dottore senza alzare la testa. «Avete avuto dei sospetti.» «Parlate, collega,» incalzò Uriah. «Ne ho avuti, certo, a un dato momento,» proseguì il signor Wickfield. «E, Dio mi perdoni, pensavo che ne aveste anche voi.» «No, no, no!» rispose il dottore nel tono della più patetica angoscia. «Ho pensato, a un dato momento,» disse il signor Wickfield, «che voleste mandare Maldon all'estero per una desiderabile separazione.» «No, no, no!» ripeté il dottore. «Solo per compiacere Annie provvedendo in qualche modo al compagno della sua infanzia. Non per altro.» «Così mi risultò,» disse il signor Wickfield. «E non potei dubitarne quando me lo diceste. Ma pensavo - vi supplico di ricordare i ristretti criteri che sono stati la mia colpa dominante - che in un caso in cui vi era tanta disparità di anni...» «Questo è il punto, capite, signorino Copperfield!» osservò Uriah con una pietà strisciante e offensiva. «...una signora così giovane e così attraente, per quanto reale fosse il suo rispetto per voi, potesse essere stata influenzata nel matrimonio da sole considerazioni mondane. Non tenni nel debito conto innumerevoli sentimenti e circostanze che potevano tutti tendere al bene. Per amor del cielo, ricordatevi di questo.» «Come la mette giù delicatamente!» disse Uriah scuotendo la testa. «La osservavo sempre da un solo punto di vista,» continuò il signor Wickfield; «ma per tutto quello che vi è caro, mio vecchio amico, vi prego di considerare le cose come stavano. Devo confessarvi adesso, non avendo via di scampo...» «Non, non ci sono vie di scampo, signor Wickfield,» osservò Uriah, «quando si è arrivati a questo punto.» «...che in realtà,» proseguì il signor Wickfield fissando disperatamente e perdutamente il suo socio, «che in realtà ho dubitato di lei e ho pensato che venisse meno ai suoi doveri verso di voi; e che spesso, se devo dire tutto, sono stato contrario a che Agnes fosse con lei in tale familiarità da poter vedere quello che vedevo, o che, nella mia erronea concezione, credevo di vedere. Non ne ho mai parlato con alcuno. Non ho mai voluto che alcuno ne venisse a conoscenza. E per quanto terribile sia per voi l'udirlo,» concluse il signor Wickfield, completamente soggiogato, «se voi sapeste come sia terribile per me il dirlo, sentireste compassione di me.» Il dottore, nella profonda bontà della sua natura, gli tese la mano. Il signor Wickfield la tenne per qualche momento nella sua, a capo chino. «Non dubito,» disse Uriah contorcendosi nel silenzio come un'anguilla, «che questo è un argomento molto spiacente per tutti. Ma poiché ci siamo spinti così avanti, mi prenderò la libertà di aggiungere che anche Copperfield se n'era accorto.» Mi volsi verso di lui chiedendogli come osava riferirsi a me. «Oh! è molto generoso da parte vostra, Copperfield,» rispose Uriah continuando a guizzare, «e tutti conosciamo l'amabilità del vostro carattere; ma ammetterete che, quando ve ne parlai l'altra sera, sapevate quello che volevo dire. Voi sapete che sapevate quello che intendevo, Copperfield. Non negatelo. Voi lo negate con le migliori intenzioni, ma non fatelo Copperfield.» Vidi il mite occhio del buon vecchio volgersi per un attimo verso di me, e sentii che la confessione dei miei antichi sospetti e dei miei ricordi era troppo chiaramente scritta sul mio volto per passare inosservata. La collera non serviva a nulla. Non potevo annullare tutto questo. Qualunque cosa dicessi, non potevo negarlo. Cademmo ancora nel silenzio e restammo così finché il dottore si alzò e camminò due o tre volte attraverso la stanza. Poi tornò alla sua sedia, si appoggiò allo schienale e, portandosi ogni tanto il fazzoletto agli occhi, con una semplice onestà che gli fece più onore, ai miei occhi, di qualsiasi tentativo di dissimulazione, disse: «Sono stato molto da biasimare. Credo di essere stato molto da biasimare. Ho esposto una persona che tenevo nel cuore a giudizi e a calunnie - le chiamo calunnie anche quando sono rimaste celate nell'intimo di qualcuno - di cui ella non sarebbe mai stata oggetto se non per causa mia.» Uriah Heep tirò su rumorosamente col naso. Credo per esprimere solidarietà. «Di cui la mia Annie,» ripeté il dottore, «non sarebbe mai stata oggetto se non per causa mia. Signori, adesso sono vecchio e lo sapete; e stanotte non sento che mi rimanga molto per cui vivere. Ma impegno la mia vita - tutta la mia vita - sull'onestà e l'onore della dama a me cara, che è stato oggetto di questa conversazione!» Non credo che la migliore personificazione della cavalleria, l'incarnazione della più bella e più romantica figura mai immaginata da un pittore, avrebbero potuto dir questo con una più imponente e commovente dignità di quanto fece quel semplice vecchio. «Ma non sono preparato,» proseguì, «a negare - forse sono preparato, senza saperlo, in certo modo ad ammettere - di aver potuto involontariamente indurre questa dama a un matrimonio infelice. Io non sono uomo abituato a osservare; e non posso fare a meno di credere che l'osservazione di alcuni, di diversa età e condizione e tutti troppo facilmente rivolti in una sola direzione (e così naturale), sia migliore della mia.» Avevo già ammirato più volte, come ho detto altrove, i suoi modi benigni verso la giovane moglie; ma la rispettosa tenerezza che egli manifestò in questa occasione ogni volta che si rivolgeva a lei, e la maniera quasi reverenziale con cui allontanò da sé il minimo dubbio sulla sua integrità, lo elevò, ai miei occhi, al di sopra di ogni descrizione. «Ho sposato questa dama,» proseguì il dottore, «quando era ancora giovanissima. La legai a me quando il suo carattere non era ancora del tutto formato. E a quello che poteva essere allora il suo sviluppo era stata la mia gioia contribuire. Conoscevo bene suo padre. Conoscevo bene lei. Le avevo insegnato quello che avevo potuto per amore di tutte le sue belle e virtuose qualità. Se le ho fatto del male, come temo di aver fatto, avvantaggiandomi senza volerlo della sua gratitudine e del suo affetto, le chiedo perdono dal profondo del cuore!» Camminò ancora per la stanza e di nuovo tornò al suo posto afferrando la sedia in una stretta tremante, come lo era la sua voce sommessa, nel suo fervore. «Io mi consideravo per lei un rifugio dai pericoli e dalle vicissitudini della vita. Mi convinsi che, pur nella nostra disparità di anni, avrebbe potuto vivere serena e contenta con me. Non esclusi dalle mie considerazioni il momento in cui l'avrei lasciata libera, ancor giovane e bella e con una mentalità più matura... no, signori, non lo esclusi sul mio onore!» La sua figura modesta sembrava illuminata dalla sua fiducia e dalla sua generosità. Ogni parola che pronunciava aveva una forza che nessun'altra dote avrebbe potuto darle. «La mia vita con questa dama è stata molto felice. Fino a stasera ho avuto solo continui motivi per benedire il giorno in cui le ho fatto una così grande ingiustizia.» La sua voce, sempre più debole nel pronunciare queste parole, si arrestò per qualche momento; poi riprese: «Una volta destatomi dal mio sogno - sono stato un povero sognatore, in un modo o in un altro, per tutta la vita - vedo come sia naturale che ella possa avere avuto qualche senso di rimpianto per il suo antico compagno e coetaneo. È, temo, fin troppo vero che lo abbia considerato con qualche innocente rammarico, con qualche non colpevole pensiero di ciò che avrebbe potuto essere se non ci fossi stato io. Molte cose che ho visto senza notarle mi sono tornate alla memoria con nuovo significato, durante quest'ora penosa. Ma, eccettuato questo, signori, il nome di questa dama a me cara mai dovrà essere sfiorato da una parola, da un'ombra di dubbio.» Per un attimo il suo occhio si accese e la sua voce fu ferma; per un attimo rimase ancora in silenzio. Poi riprese come prima: «Adesso non mi resta altro che sopportare con ogni possibile rassegnazione la coscienza dell'infelicità che ho provocato. È lei che dovrebbe rimproverare, non io. Salvarla dai malintesi, crudeli malintesi che nemmeno i miei amici hanno potuto evitare, diviene il mio dovere. Quanto più vivremo appartati, tanto meglio potrò compierlo. E quando verrà il tempo - possa venir presto, se così piace alla misericordia divina - in cui la mia morte la lascerà libera da ogni vincolo, io chiuderò gli occhi davanti al suo volto onorato con amore e fiducia illimitati: e la lascerò, senza dolore, allora, a giorni più luminosi e felici.» Non potevo vederlo per le lacrime che la sua bontà e il suo fervore, che adornavano la sua perfetta semplicità e ne erano adornati, avevano tratto dai miei occhi. Si era già avvicinato alla porta quando aggiunse: «Signori, vi ho mostrato il mio cuore. Sono sicuro che lo rispetterete. Quello che abbiamo detto stanotte non dovrà mai più essere ripetuto. Wickfield, datemi il vostro braccio di vecchio amico per aiutarmi a salire!» Il signor Wickfield corse a lui. Senza scambiar parola uscirono insieme, lentamente, dalla stanza, mentre Uriah li seguiva con lo sguardo. «Bene, signorino Copperfield!» disse Uriah volgendosi sommesso verso di me. «La cosa non è andata esattamente come ci si sarebbe potuto aspettare, perché quel vecchio sapiente - che brav'uomo! - è cieco come un mattone; ma questa famiglia è scesa dalla carrozza, credo!» Mi mancava solo il suono della sua voce perché mi sentissi pazzamente furioso come non ero mai stato e mai più lo fui. «Cialtrone,» dissi, «a che cosa mirate intrappolandomi nelle vostre trame? Come osate rivolgervi a me anche adesso, vile mascalzone, come se fossimo stati d'accordo?» Così a fronte a fronte come eravamo, vidi chiaramente nella segreta esultanza della sua faccia quello che sapevo già bene: e cioè che mi imponeva le sue confidenze solo per rendermi infelice e che in questa occasione mi aveva deliberatamente teso una trappola. Non potei tollerarlo. Tutta la sua scarna guancia mi stava dinanzi invitante, e io la colpii a mano aperta con tanta forza che le dita mi formicolarono come se le avessi bruciate. Mi strinse la mano nella sua e restammo così legati fissandoci. Vi restammo a lungo; quanto bastò perché vedessi le impronte bianche delle mie dita svanire del rosso cupo della sua guancia e lasciarla ancora più rossa. «Copperfield,» disse alla fine con voce smorta, «avete lasciato perdere il vostro buon senso?» «Ho lasciato perdere voi,» risposi strappando la mano dalla sua stretta. «Non voglio più saperne di voi, miserabile.» «Non volete,» disse, costretto dal dolore a mettersi una mano sulla guancia. «Forse non riuscirete a farne a meno. E non è ingratitudine da parte vostra?» «Vi ho già mostrato abbastanza spesso,» risposi, «che vi disprezzo. E ve l'ho mostrato adesso molto chiaramente. Perché dovrei temere che possiate fare il peggio a tutti coloro che vi circondano? Cos'altro avete mai fatto?» Capì perfettamente questa allusione alle considerazioni che mi avevano trattenuto fin allora nei miei rapporti con lui. Penso che né lo schiaffo né questa allusione mi sarebbero sfuggiti senza l'assicurazione che avevo avuto da Agnes quella sera. Ma poco importa. Vi fu un'altra lunga pausa. I suoi occhi, mentre mi guardava, parvero assumere tutte le sfumature di colore che possono rendere ignobile uno sguardo. «Copperfield,» disse togliendosi la mano dalla gota, «voi siete sempre stato contro di me. So che siete sempre stato contro di me, in casa del signor Wickfield.» «Potete credere quello che volete,» risposi, sempre dominato dall'ira. «Se anche non è vero, ve lo sareste meritato.» «E tuttavia io vi ho sempre amato, Copperfield,» ribatté. Non mi degnai di rispondergli; e, preso il cappello, stavo per andarmene a dormire quando egli si mise fra me e la porta. «Copperfield,» disse, «per litigare bisogna essere in due, e io non voglio essere l'altro.» «Andate al diavolo!» esclamai. «Non dite così,» rispose. «So che poi ve ne pentirete. Come potete essere così inferiore a me da mostrare una tale cattiveria? Ma io vi perdono.» «Mi perdonate!» ripetei sdegnato. «Vi perdono, e voi non potete evitarlo,» rispose Uriah. «Pensare che avete percosso me, che sono sempre stato vostro amico! Ma non si può litigare se non si è in due, e io non voglio essere l'altro. Vi sarò amico a vostro dispetto. Così adesso sapete quello che potete aspettarvi.» La necessità di condurre questo dialogo (molto lentamente da parte sua e, da parte mia, con grande rapidità) a bassa voce, affinché la casa non ne fosse disturbata a un'ora così inopportuna, non migliorava il mio umore, sebbene la collera andasse raffreddandosi. Mi limitai a dirgli che mi aspettavo da lui quello che mi ero sempre aspettato senza essermi mai ingannato, aprii la porta contro di lui come se fosse stato una grossa noce messa lì per essere schiacciata e uscii dalla casa. Ma anche lui dormiva fuori di casa, nell'appartamento di sua madre; e prima che avessi fatto qualche centinaio di passi mi raggiunse. «Sapete bene, Copperfield,» mi disse all'orecchio (io non voltai la testa), «di essere in una posizione molto falsa,» sentivo che era vero e questo mi irritò ancor più. «Voi non potete considerare il vostro come un atto di coraggio, e non potete impedirmi di perdonarvi. Non intendo parlare di questo a mia madre né ad alcun altro. Ho deciso di perdonarvi. Ma mi meraviglio che abbiate alzato la mano contro una persona che sapete quanto sia umile!» Mi sentivo appena meno vile di lui. Quell'essere mi conosceva meglio di quanto mi conoscessi. Se avesse reagito o mi avesse apertamente esasperato, sarebbe stato un sollievo e una giustificazione; ma mi aveva messo a fuoco lento e vi rimasi tormentato per metà della notte. Al mattino, quando uscii, suonava la prima campana della chiesa, e lui passeggiava in su e in giù con sua madre. Si rivolse a me come se nulla fosse accaduto e io non potei fare a meno di rispondergli. Lo avevo colpito tanto da fargli venire il mal di denti, credo. Comunque il suo volto era fasciato da un fazzoletto di seta nera che, con il cappello appollaiato sopra, non migliorava certo il suo aspetto. Seppi che quel lunedì mattina andò da un dentista di Londra per farsi cavare un dente. Spero che sia stato un molare. Il dottore fece sapere di non stare bene; e rimase solo, per gran parte delle giornate, durante tutto il resto della visita. Agnes e suo padre eran già partiti da una settimana quando riprendemmo il nostro lavoro consueto. Il giorno prima che questo avvenisse, il dottore mi diede di sua mano un biglietto piegato ma non sigillato. Era indirizzato a me, e conteneva un'ingiunzione, in poche parole affettuose, di non riferirmi mai all'argomento di quella sera. Io l'avevo confidato alla zia, ma a nessun altro. Non era un soggetto che potessi discutere con Agnes, e Agnes, certamente, non ebbe il minimo sospetto di quello che era avvenuto. E neppure, ne sono convinto, lo ebbe allora la signora Strong. Trascorsero parecchie settimane prima che vedessi in lei il minimo cambiamento. Questo giunse molto lentamente, come una nube quando non c'è vento. Dapprima ella parve meravigliarsi del senso di delicata compassione con cui il dottore le parlava, e del suo desiderio di tenerle sempre vicina la madre per distrarla dalla cupa monotonia della sua vita. Spesso, quando eravamo a lavoro e lei ci sedeva vicino, la vedevo fermarsi e guardarlo con quell'espressione che non avevo mai dimenticato. In seguito notai a volte che si alzava con gli occhi pieni di lacrime e usciva dalla stanza. A poco a poco un'ombra di infelicità scese sulla sua bellezza divenendo ogni giorno più buia. La signora Markleham era allora una regolare abitatrice della villa; ma parlava e parlava senza veder niente. Mentre avveniva questo cambiamento in Annie, che era stata un tempo un raggio di sole nella casa del dottore, il dottore stesso parve farsi più vecchio e più grave; ma la dolcezza del suo carattere, la calma affettuosità dei suoi modi, la sua benevola sollecitudine per lei, aumentarono, se pur potevano aumentare. Lo vidi una volta, nel primo mattino del compleanno di lei, quando ella venne a sedersi alla finestra mentre noi eravamo al lavoro (cosa che aveva sempre fatto, ma che adesso cominciava a fare con un'aria timida e incerta, per me molto commovente), prenderle la fronte fra le mani, baciarla, e allontanarsi in fretta, troppo commosso per rimanere. La vidi restare ferma come una statua là dov'egli l'aveva lasciata; e poi chinare la testa, torcersi le mani e piangere, non posso esprimere con quanta pena. In seguito, a volte, mi parve che tentasse di parlare anche a me, nei momenti in cui ero solo. Ma non pronunciò mai parola. Il dottore aveva sempre qualche nuovo progetto per farla partecipare a svaghi fuori casa, con sua madre; e la signora Markleham, che era avida di divertimenti e si stancava presto di qualsiasi altra cosa, vi si abbandonava molto volentieri e si prodigava in elogi. Ma Annie, con aria stanca e infelice, si limitava ad andare dove la conducevano e sembrava non interessarsi di nulla. Non sapevo che pensare. E neppure la zia, che, nella sua incertezza, deve aver camminato su e giù, in varie riprese, per un centinaio di miglia. Ma più strano di tutto fu che il solo sollievo effettivo che parve aprirsi una via nelle segrete regioni di questa infelicità domestica, si presentò nella persona del signor Dick. Quali fossero le sue idee su questo soggetto o quali fossero le sue osservazioni, non sono capace di spiegarlo così come penso che egli non sarebbe stato capace di assistermi nel mio lavoro. Ma, come ho ricordato narrando i miei giorni di scuola, la sua venerazione per il dottore era illimitata; e in un vero attaccamento, anche quando esso nasce, verso l'uomo, in un animale inferiore, v'è un'intuizione sottile che si lascia indietro il più alto intelletto. A questa mente del cuore, se posso così chiamarla, che era nel signor Dick, qualche luminoso raggio di verità giunse direttamente. Egli aveva ripreso con orgoglio, in molte delle sue ore libere, il suo privilegio di passeggiare su e giù in giardino con il dottore, come era abituato a fare lungo la «Passeggiata del dottore» a Canterbury. Ma appena giunto a tanto, egli dedicò tutto il suo tempo libero (e si alzava presto al mattino per averne di più) a queste passeggiate. Non era mai stato così felice come quando il dottore gli leggeva brani di quella meravigliosa impresa che era il Dizionario; ma adesso si sentiva decisamente miserabile se il dottore non se li tirava fuori di tasca e cominciava la lettura. Quando il dottore e io eravamo occupati, egli prese ora l'abitudine di andar su e giù con la signora Strong aiutandola a potare le sue piante favorite e a sarchiare le aiuole. Credo che raramente dicesse una dozzina di parole in un'ora: ma il suo pacato interesse, il suo volto intento, trovavano immediata risposta nel cuore di entrambi; ed egli divenne quello che nessun altro avrebbe potuto divenire: un legame fra loro. Quando penso a lui, con la sua espressione di impenetrabile saggezza, andar su e giù a fianco del dottore, felice di essere mitragliato dalle parole difficili del Dizionario; quando lo rivedo portare enormi annaffiatoi dietro Annie, e inginocchiarsi con le mani immerse in guantoni a un microscopico lavoro di pazienza tra le foglioline, ed esprimere, come nessun filosofo potrebbe mai farlo, in tutto ciò che faceva, un delicato desiderio di esserle amico, e versare simpatia, fedeltà e affetto da ogni foro dell'annaffiatoio; quando ricordo come non mai deviasse da questo suo migliore stato mentale suggeritogli dalla sventura, senza portare l'infelice re Carlo nel giardino, senza esitare nei suoi riconoscenti servigi, senza dimenticare che c'era là qualche cosa che non andava e che doveva essere rimessa a posto, provo quasi vergogna di sapere che non aveva tutto il suo senno, calcolando quanto modeste siano state le massime affermazioni del mio. «Nessuno all'infuori di me, Trot, sa che cosa sia quest'uomo!» affermava fieramente la zia quando ne parlavamo. «Malgrado tutto, Dick si distinguerà!» Devo accennare a un altro argomento prima di chiudere il capitolo. Quando durava ancora la visita in casa del dottore, notai che il postino portava ogni mattina due o tre lettere per Uriah Heep, che rimase a Highgate finché gli altri non se ne andarono, essendo periodo di vacanza; e che queste lettere erano indirizzate in forma professionale dal signor Micawber, il quale aveva assunto una chiara scrittura legale. Da queste semplici premesse fui lieto di dedurre che il signor Micawber se la cavava bene, e di conseguenza fui molto sorpreso di ricevere, circa lo stesso periodo, la seguente lettera dalla sua amabile moglie: Canterbury, Lunedì sera. «Certo vi meraviglierete, mio caro signor Copperfield, di ricevere questa mia. E ancor più del suo contenuto. E più ancora per la promessa di assoluta segretezza che devo chiedervi. Ma i miei sentimenti di moglie e di madre esigono un sollievo, e, poiché non desidero consultare la mia famiglia (già ostile ai sentimenti del signor Micawber), non conosco alcuno a cui possa meglio chieder consiglio se non il mio amico e antico pensionante. «Forse sapete, mio caro signor Copperfield, che fra me e il signor Micawber (che non lascerò mai) c'è sempre stato uno spirito di reciproca confidenza. Il signor Micawber può avere a volte rilasciato una cambiale senza consultarmi, o può avermi ingannato circa il periodo di scadenza di tale obbligazione. Questo è effettivamente avvenuto. Ma, in generale, il signor Micawber non ha mai avuto segreti per il suo più intimo affetto - alludo a sua moglie - e invariabilmente, quando ci ritiravamo per il riposo, ricordava gli eventi della giornata. «Vi immaginerete, mio caro signor Copperfield, quale dev'essere la doglia lancinante dei miei sentimenti mentre vi dico che il signor Micawber è interamente cambiato. È riservato. È segreto. La sua vita è un mistero per la compagna delle sue gioie e delle sue pene - alludo ancora a sua moglie - e, se vi assicuro che, oltre a sapere che sta dalla mattina alla sera in ufficio, conosco di lui meno di quanto sappia dell'uomo del sud, relativamente alla cui bocca gli spensierati fanciulli ripetono una vecchia storia di zuppa di susine fredda, non faccio che servirmi di una fantasia popolare per esprimere un fatto reale. «Ma questo non è tutto. Il signor Micawber è cupo. È severo. Si è estraniato dai nostri due ragazzi maggiori, il figlio e la figlia, non è orgoglioso dei gemelli e guarda con occhio freddo perfino l'innocente straniero che è venuto per ultimo a far parte della nostra famiglia. I mezzi pecuniari per affrontare le nostre spese, ristrette fino all'ultimo quarto di penny, si ottengono da lui con grande difficoltà e perfino tra paurose minacce che si sistemerà per conto suo (è questa l'esatta espressione); e inesorabilmente rifiuta di dare una qualsiasi spiegazione di questa perturbante condotta. «Tutto ciò è duro da sopportare. È una cosa che spezza il cuore. Se vorrete consigliarmi, conoscendo le mie deboli forze per quello che sono, come potrei meglio usarle in un dilemma così insolito, aggiungerete un altro motivo di amichevole gratitudine ai molti che mi avete già dato. Affettuosità dai ragazzi, un sorriso dall'ultimo venuto felicemente inconsapevole, e rimango, caro signor Copperfield, la vostra afflitta Emma Micawber.» Non seppi fare altro che dare, a una moglie dell'esperienza della signora Micawber, la sola raccomandazione di tentare di riconquistarsi il signor Micawber a forza di pazienza e di affetto (come sapevo che avrebbe fatto in ogni caso); ma la lettera mi fece pensare moltissimo a lui. XLIII • UN ALTRO SGUARDO RETROSPETTIVO Ancora una volta lasciatemi sostare su di un memorabile periodo della mia vita. Lasciate che me ne stia da parte a osservare i fantasmi di quei giorni passarmi accanto, accompagnando la mia stessa ombra, in pallida processione. Le settimane, i mesi, le stagioni scorrono via. Sembrano poco più di un giorno d'estate o di una notte d'inverno. Ora le campagne dove passeggio con Dora sono tutte in fiore, campi di fulgido oro; e ora la brughiera invisibile giace in collinette e tumuli sotto una coltre di neve. In un attimo il fiume che scorre attraverso le nostre gite domenicali scintilla al sole estivo, è increspato dai venti invernali o si addensa in precipiti blocchi di ghiaccio. Più veloce di quanto qualsiasi altro fiume scorra verso il mare, abbaglia, si oscura e fugge via. Non un filo cambia nella casa delle due piccole dame simili a uccellini. L'orologio batte sulla mensola del camino, il barometro è appeso nell'anticamera. Né l'orologio né il barometro sono mai giusti, ma noi crediamo ciecamente in entrambi. Io sono divenuto legalmente un uomo. Ho raggiunto la dignità dei ventun anni. Ma questa è una dignità che può essere imposta a chiunque. Guardiamo quello che ho concluso io stesso. Ho domato il selvaggio mistero della stenografia. Ne traggo una rispettabile entrata. Sono molto reputato per tutto ciò che riguarda questa arte e mi unisco ad altri undici colleghi nel trascrivere i dibattiti parlamentari per un giornale del mattino. Sera per sera annoto predizioni che non si avverano mai, promesse che non vengono mai mantenute, spiegazioni intese solo a mistificare. Diguazzo nelle parole. La Britannia, disgraziata donna, è sempre davanti a me come un pollo legato per la cottura, infilata nello spiedo di penne ufficiali, stretta mani e piedi con nastri rossi. Sono abbastanza dietro le scene per sapere quel che vale la vita politica. Riguardo ad essa sono un vero pagano che non sarà mai convertito. Il mio caro vecchio Traddles ha tentato di metter mano allo stesso lavoro, ma non è cosa per Traddles. Ha mantenuto tutto il suo buon umore per quel che riguarda il suo fallimento e mi ricorda di essersi sempre considerato un po' tardo. Collabora ogni tanto al mio stesso giornale stendendo fatti nudi e crudi che saranno scritti e abbelliti da più fertili menti. Perora in tribunale e, con ammirevole attività e sacrificio, ha messo insieme altre cento sterline per essere accolto nello studio di un notaio. Alla sua assunzione fu consumata una grande quantità di vino di Porto bollente; e, considerata la cifra, direi che l'Inner Temple se ne sia avvantaggiato. Io sono riuscito in un altro campo. Ho tentato, con paura e trepidazione, la letteratura. Scrissi una cosetta in segreto, la mandai a una rivista, e la vidi pubblicata. Da allora mi son fatto coraggio per scrivere una quantità di brevi pezzi. Adesso me li pagano regolarmente. Nell'insieme me la cavo bene; quando calcolo le mie entrate sulle dita della sinistra, passo il medio e tocco l'anulare nella falange mediana. Abbiamo traslocato, da Buckingham Street, in un piacevole villino molto vicino a quello che avevo osservato al tempo dei miei primi entusiasmi. La zia, però (che ha venduto con buon profitto la sua casa a Dover), non rimarrà qui: intende trasferirsi in un villino ancora più piccolo quasi adiacente. Che cosa significa questo? Il mio matrimonio? Sì! Sì! Sto per sposare Dora! La signorina Lavinia e la signorina Clarissa hanno dato il loro consenso; e se mai dei canarini sono stati in trambusto, loro lo sono. La signorina Lavinia si è promossa alla carica di sovrintendente al guardaroba della mia amata e non fa che tagliare corrazze di carta scura e dissentire da un rispettabilissimo giovanotto che ha un lungo rotolo e un metro sotto braccio. Una sarta, con un ago infilato continuamente piantato nel petto, vive in pianta stabile nella casa; e mi sembra che non si tolga mai il ditale né per mangiare, né per bere, né per dormire. Hanno ridotto la mia amata a un manichino. La mandano continuamente a chiamare perché si provi qualche cosa. La sera non possiamo starcene felici insieme per cinque minuti: arriva sempre qualche donna importuna a battere alla porta e a dire: «Per favore, signorina Dora, volete venire di sopra?» La signorina Clarissa e mia zia vagano per tutta Londra in cerca di mobilio che poi Dora e io dobbiamo andare a vedere. Sarebbe meglio che comprassero subito i vari articoli senza la cerimonia della nostra approvazione; perché, quando andiamo a osservare un parafuoco da cucina con la graticola, Dora si lascia sedurre da una pagoda cinese per Jip, con campanellini sulla sommità, e la preferisce. E, dopo averla comprata, ci vuole un mucchio di tempo per abituare Jip alla sua nuova residenza; ogni volta che entra o esce fa suonare i campanelli e si prende terribili spaventi. Peggotty arriva per rendersi utile e sprofonda immediatamente nel lavoro. Il suo compito sembra essere quello di pulire e ripulire ogni cosa. Strofina tutto ciò che può essere strofinato fino a renderlo lucido, a forza di frizioni, come la sua onesta fronte. E adesso comincio a vedere il suo solitario fratello passare la notte per le strade buie e fissare, camminando, i volti erranti. In queste ore non gli parlo mai; so troppo bene, mentre la sua grave figura si allontana, quello che cerca e quello che teme. Perché Traddles ha un'aria così importante quando viene da me, questo pomeriggio ai Commons, dove vado ogni tanto, quando ho tempo, più per la forma che per altro? Si stanno avverando i miei sogni giovanili. Vado a prendere la licenza di matrimonio. È un documento assai piccolo per una cosa di tanto peso; e Traddles lo contempla, sulla mia scrivania, metà ammirato e metà atterrito. Ci sono i nomi nella dolce connessione sognata da tempo: David Copperfield e Dora Spenlow; e qui, in un angolo, c'è quell'istituzione paterna, l'Ufficio del Bollo, così benignamente interessata in tutte le varie circostanze della vita umana, che sorveglia la nostra unione; e c'è l'arcivescovo di Canterbury che invoca su di noi una benedizione a stampa e lo fa al minor prezzo che ci si possa aspettare. Tuttavia vivo in sogno: un sogno agitato, felice, precipitoso. Non posso credere che tutto stia per avverarsi; eppure non posso nemmeno credere che quelli che passano per strada non abbiano una qualche percezione del fatto che mi sposerò dopodomani. Il sostituto mi conosce, quando scendo a prestare giuramento; e sbriga tutto in un attimo come se ci fosse fra di noi un'intesa massonica. Di Traddles non c'è alcun bisogno, ma è lì in attesa come mio sostenitore in ogni evenienza. «Spero che la prossima volta che verrai qui, mio caro,» dico a Traddles, «sarà per compiere la stessa cerimonia per tuo conto. E mi auguro che avvenga presto.» «Grazie per l'augurio, caro Copperfield,» risponde. «Lo spero anch'io. È una soddisfazione sapere che lei mi aspetterà per un tempo indefinito e che è davvero la più cara ragazza...» «Quando dovrai andare a prenderla alla diligenza?» chiedo. «Alle sette,» risponde Traddles consultando il suo semplice orologio d'argento: lo stesso a cui una volta, a scuola, aveva tolto una rotella per costruire un mulino. «Circa la stessa ora della signorina Wickfield, no?» «Un po' prima. Lei arriverà alle otto e mezzo.» «Ti assicuro, mio caro,» dice Traddles, «che sono quasi contento come se dovessi sposarmi io, all'idea che questo evento sta giungendo a una così felice conclusione. E davvero questa tua prova di amicizia e di considerazione nell'associare personalmente Sophy con la lieta vicenda e nell'invitarla come damigella d'onore insieme con la signorina Wickfield, richiede i miei più fervidi ringraziamenti. Te ne sono molto grato.» Lo ascolto e gli stringo la mano; e parliamo, e passeggiamo, e pranziamo e così via; ma non ci credo. Nulla è reale. Sophy arriva in casa delle zie di Dora al tempo debito. Ha un volto quanto mai gradevole - non del tutto bello, ma piacente fuor del comune - ed è una delle più simpatiche, genuine, franche e seducenti creature che abbia mai visto. Traddles ce la presenta con grande orgoglio; e, quando lo tiro in un angolo per congratularmi con lui della sua scelta, si strofina le mani per dieci minuti di orologio con ogni singolo capello dritto sulla testa in punta di piedi. Io sono andato a prendere Agnes alla diligenza di Canterbury, e il suo gaio e bel volto è fra noi per la seconda volta. Agnes ha una grande simpatia per Traddles ed è un piacere vederli insieme e osservare la gloria di Traddles mentre elogia davanti alla sua nuova conoscenza la più cara ragazza del mondo. E tuttavia non ci credo. Passiamo una serata deliziosa e siamo supremamente felici; ma ancora non ci credo. Non riesco a raccogliermi. Non riesco a rendermi conto della mia felicità nel momento in cui si realizza. Mi sento in uno stato nebbioso e confuso, come se mi fossi alzato molto presto al mattino, una settimana o due fa, e da allora non fossi più andato a letto. Non riesco a farmi un'idea di quando è stato ieri. Mi sembra di avere in tasca la licenza da mesi. Anche il giorno dopo, quando andiamo in massa a vedere la casa - la nostra casa, di Dora e mia - sono incapace di considerarmi il suo padrone. Mi sembra di essere lì per concessione di qualcun altro. Quasi mi aspetto che il vero padrone torni da un momento all'altro e dica che è lieto di fare la mia conoscenza. Che bella casetta è, con ogni cosa brillante e nuova; con i fiori dei tappeti che sembrano appena colti e le verdi foglie delle tappezzerie che sembrano appena spuntate; con le linde tendine di mussolina e il fiammante mobilio color rosa, e il cappello di paglia di Dora, col suo nastro turchino - ricordo adesso quanto mi piacque con un cappello simile quando la vidi per la prima volta! - già appeso al suo piccolo piolo; con l'astuccio della chitarra già pronto e in piedi in un angolo; e tutti che urtavano contro la pagoda di Jip, troppo grande per l'appartamento. Un'altra sera felice, quasi irreale come tutto il resto, e poi scivolo nella solita stanza prima di andar via. Dora non c'è. Penso che non abbiano ancora finito di provare. La signorina Lavinia fa capolino e mi dice misteriosamente che non tarderà molto. Tuttavia tarda un bel po'; ma infine sento un fruscìo alla porta e qualcuno bussa. Dico: «Avanti!» ma qualcuno bussa ancora. Vado alla porta domandandomi chi può essere; e lì trovo un paio di occhi brillanti e un visino acceso; sono gli occhi di Dora e il volto di Dora: la signorina Lavinia l'ha vestita con l'abito di domani, cappellino e tutto, perché la veda. Stringo al cuore la mia mogliettina; e la signorina Lavinia dà un piccolo grido perché le metto in disordine il cappellino, e Dora ride e piange a un tempo perché sono così contento; e io ci credo meno che mai. «Ti piace, Doady?» chiede Dora. «Se mi piace? Credo proprio di sì.» «E sei sicuro di amarmi tanto?» chiede ancora Dora. L'argomento è carico di tali pericoli per il cappellino che la signorina Lavinia dà un altro gridolino e mi prega di rendermi conto che Dora è solo da guardare e non deve essere toccata per nessuna ragione. Così Dora mi rimane davanti in un delizioso stato di confusione per un minuto o due, per farsi ammirare; e poi si toglie il cappellino - appare così naturale senza di esso! - e corre via tenendolo in mano; e torna a passo di danza nel suo abito consueto, e domanda a Jip se ho conquistato una bella mogliettina, e se la perdona perché sta per sposarsi, e si inginocchia per farlo star dritto sul libro di cucina per l'ultima volta nella sua vita di ragazza. Me ne vado, più incredulo che mai, a una stanza di albergo che ho preso lì vicino; e al mattino mi alzo prestissimo per galoppare sulla strada di Highgate e prendere la zia. Non ho mai visto la zia in tale stato. Ha un abito di seta color lavanda e un cappellino bianco, ed è meravigliosa. Janet l'ha abbigliata ed è lì che mi guarda. Peggotty è pronta per andare in chiesa, intendendo assistere alla cerimonia dalla galleria. Il signor Dick, che deve consegnarmi la mia diletta all'altare, si è fatto arricciare i capelli. Traddles, che ho preso su alla barriera secondo l'appuntamento, presenta una smagliante combinazione di color crema e azzurro pallido; e tanto lui che il signor Dick hanno l'apparenza complessiva di essere tutti guanti. Senza dubbio vedo tutto questo perché so che è così; ma sono disorientato e mi sembra di non vedere nulla. E non credo a nulla di ciò che mi è intorno. Tuttavia, mentre corriamo in una carrozza aperta, questo magico matrimonio è abbastanza reale per empirmi di una sorta di stupita pietà per quegli sventurati che non vi prendono parte e stanno spazzando le botteghe o vanno alle loro occupazioni quotidiane. La zia siede tenendomi una mano fra le sue per tutta la strada. Quando ci fermiamo un poco prima della chiesa per far scendere Peggotty, che abbiamo portato a cassetta, la zia dà una stretta alla mia mano e un bacio a me. «Dio ti benedica, Trot! Un figlio mio non potrebbe essermi più caro. Stamane penso alla povera cara bambina.» «Anch'io. E a tutto quello che ti devo, cara zia.» «Zitto, ragazzo!» dice la zia; e in uno slancio di cordialità dà la mano a Traddles, che la dà al signor Dick, che la dà a me, che la do a Traddles, e poi ci avviamo alla porta della chiesa. La chiesa è calma, certo; ma quanto all'effetto sedativo che ha su di me, potrebbe essere un telaio a vapore in piena attività. Sono troppo partito per calmarmi. Il resto è tutto un sogno più o meno incoerente. È un sogno che vengano con Dora; che la scaccina ci disponga, come un sergente istruttore, davanti alla balaustrata dell'altare; che io mi domandi, anche in quel momento, perché le scaccine debbano essere sempre le più brutte donne rintracciabili e se è per qualche religioso terrore di una disastrosa infezione di buon umore, che appare indispensabile disporre questi vasi di aceto lungo la strada del paradiso. Che compaia il sacerdote col chierico; che entrino in chiesa alcuni barcaioli e altra gente; che un vecchio marinaio dietro di me impregni fortemente di rum tutta la chiesa; che la funzione cominci con voce profonda e che tutti noi si sia attentissimi. Che la signorina Lavinia, in qualità di damigella semiausiliaria, sia la prima a mettersi a piangere rendendo omaggio (credo) alla memoria di Pidger con i suoi singhiozzi; che la signorina Clarissa le metta sotto il naso una bottiglietta di essenze; che Agnes si prenda cura di Dora; che mia zia tenti di presentarsi come un modello di rigidezza con le lacrime che le rotolano giù per le gote; che la piccola Dora tremi tutta e dia le risposte in deboli sussurri. Che ci si inginocchi insieme, a fianco a fianco; che Dora tremi sempre meno ma continui a stringere la mano di Agnes; che la funzione vada avanti tranquilla e grave; che tutti ci si guardi, quando è finita, con un alternarsi di sorrisi e di lacrime da mese di aprile; che mia moglie diventi isterica in sacrestia e pianga invocando il povero papà, il caro papà. Che subito torni gaia e che tutti firmiamo a turno il registro. Che io salga in galleria da Peggotty per portarla a firmare anche lei; che Peggotty mi abbracci in un angolo e mi dica di avere assistito al matrimonio di mia madre; che tutto sia finito e che ce ne andiamo. Che io proceda tutto orgoglio e amore lungo la navata con la mia dolce moglie al braccio, tra una nebbia di gente che vedo appena, di pulpiti, di monumenti, di banchi, di fonti battesimali, di organi, di vetrate in cui fluttuano in lievi vapori i ricordi infantili della nostra chiesa, tanto tempo fa. Che tutti sussurrino, mentre passiamo, quale giovane coppia noi siamo e quale graziosa mogliettina sia lei. Che si sia tutti così allegri e comunicativi nel tornare in carrozza. Che Sophy ci dica che, quando sentì chiedere a Traddles la licenza (l'avevo affidata a lui) era quasi venuta meno convinta com'era che l'avesse persa o se la fosse fatta rubare. Che Agnes rida gaiamente, e che Dora abbia tanto affetto per Agnes da non volersi separare da lei e continui a stringerle la mano. Che vi sia una colazione con abbondanza di cibi e bevande eccellenti e sostanziosi, a cui partecipo, come potrei fare in qualsiasi altro sogno, senza minimamente percepirne il sapore, mangiando e bevendo, per così dire, solo amore e matrimonio, e senza credere di più alle vivande che a qualsiasi altra cosa. Che io faccia un discorso nello stesso stato sognante, senza avere altra idea di quello che voglio dire se non la piena convinzione di non averlo detto. Che si sia felici nel modo più semplice e socievole (sempre in sogno, tuttavia), e che Jip abbia la sua parte di torta nuziale, che però non gli piace. Che i due cavalli di posta presi a nolo siano pronti e che Dora si allontani per cambiar abito. Che la zia e la signorina Clarissa rimangano con noi; e che si passeggi in giardino; e che la zia, la quale a colazione ha fatto un vero e proprio discorso sulle zie di Dora, rida altamente di sé, non senza un certo orgoglio. Che Dora sia pronta e che la signorina Lavinia le svolazzi attorno, riluttante a perdere il bel giocattolo che le ha dato così piacevoli occupazioni. Che Dora faccia una serie di sorprendenti scoperte su una quantità di cosette che ha dimenticato, e che tutti corrano dappertutto a cercargliele. Che tutte si raccolgano attorno a Dora, quando finalmente comincia a fare i suoi addii, simili, con i loro brillanti colori e i loro nastri, a un'aiuola fiorita. Che la mia cara sia quasi soffocata tra quei fiori e ne esca, ridendo e piangendo insieme, per gettarsi nelle mie braccia gelose. Che io tenti di portare Jip (che verrà con noi) e che Dora dica di no, che deve portarlo lei, altrimenti lui penserà che, adesso che è sposata, non gli vuole più bene e ne avrà il cuore spezzato. Che ce ne andiamo a braccetto e Dora si fermi guardandosi indietro e dica: «Se sono stata cattiva o ingrata con qualcuno, dimenticatelo!» e scoppi in lacrime. Che agiti la piccola mano e che ce ne andiamo di nuovo. Che lei si fermi ancora guardandosi ancora indietro e corra da Agnes, e dia ad Agnes, su tutte le altre, i suoi ultimi baci e addii. Partiamo insieme, e io mi sveglio dal sogno. Alla fine ci credo. Accanto a me c'è la mia cara, cara mogliettina che amo tanto! «Sei felice, adesso, sciocchino?» dice Dora, «e sei sicuro che non ti pentirai?» Mi sono messo da parte per vedere i fantasmi di quei giorni passarmi accanto. Adesso si sono allontanati e io riprendo il cammino del mio racconto. XLIV • LA NOSTRA VITA DI CASA Fu una cosa strana, finita la luna di miele e partite le damigelle d'onore, trovarmi seduto nella mia casetta con Dora, libero da ogni occupazione, se posso dir così, relativa all'antico e delizioso compito di fare all'amore. Mi sembrava così straordinario avere Dora sempre con me. Era così inesplicabile non essere costretto a uscire per vederla, non avere ragioni di tormentarmi per lei, non doverle scrivere né inventare ed escogitare occasioni per essere solo con lei. A volte, la sera, quando alzavo gli occhi dai miei scritti e la vedevo seduta davanti a me, mi addossavo alla sedia e pensavo alla stranezza di essere lì, soli e insieme, come cosa naturalissima - senza che alcuno si occupasse più di noi - tutto il romanzo del nostro fidanzamento messo da parte ad arrugginire - non dover badare ad altri che a noi - farci reciprocamente felici per tutta la vita. Quando c'era un dibattito e io ero trattenuto fuori fino a tardi, mi sembrava così strano, tornando a casa, pensare che Dora mi aspettava! Era una cosa così meravigliosa, nei primi tempi, sentirla scendere piano e parlarmi mentre cenavo. Era così stupendo sapere per certo che si metteva i diavoletti nei capelli. Era un avvenimento così assolutamente sbalorditivo vederglielo fare! Non credo che due uccellini abbiano mai saputo di meno, intorno al governo della casa, di quanto ne sapessimo io e la mia graziosa Dora. Avevamo una domestica, naturalmente. Teneva la casa per noi. Ho un segreto sospetto che fosse una figlia della signora Crupp travestita, tanto fu terribile il tempo che passammo con Mary Anne. Il suo cognome era Paragon. La sua indole ci fu presentata, quando la ingaggiammo, come solo debolmente espressa da quel cognome. Aveva un benservito grande come un proclama; e, secondo questo documento, sapeva fare tutte le cose di ordine domestico di cui avevo sentito parlare e una gran quantità di cui non avevo mai avuto notizia. Era una donna nel fiore degli anni, di aspetto severo e soggetta (specialmente sulle braccia) a una sorta di rosolia cronica o violenta eruzione. Aveva un cugino nella Guardia del Corpo, con gambe così lunghe da sembrare l'ombra pomeridiana di qualche altro. La giacca della sua uniforme era troppo piccola per lui come lui era troppo grande per l'ambiente. Rendeva la nostra villa più piccola di quanto avrebbe dovuto, essendo tanto fuori di proporzione con essa. Inoltre le mura non erano molto spesse, e quando lui passava la sera in casa nostra ne eravamo regolarmente avvertiti da un continuo grugnito che veniva dalla cucina. Il nostro tesoro ci era stato garantito come astemio e onesto. Sono dunque incline a credere che sia stata colpita da un attacco quando la trovai distesa sotto il bollitore, e che la sparizione di cucchiaini da tè dovesse essere attribuita allo spazzino. Ma, moralmente, spadroneggiava su di noi in modo pauroso. Eravamo consapevoli della nostra inesperienza e incapaci di difenderci. Ci saremmo trovati alla sua mercé se ne avesse avuta alcuna; ma era una donna priva di rimorsi e non aveva mercé. Fu la causa del nostro primo piccolo litigio. «Vita mia,» dissi un giorno a Dora, «credi che Mary Anne abbia una qualsiasi idea del tempo?» «Perché, Doady?» chiese Dora alzando innocentemente gli occhi dal suo disegno. «Amore, perché sono le cinque, e noi avremmo dovuto pranzare alle quattro.» Dora guardò la pendola con aria pensosa e insinuò che doveva andare molto avanti. «Al contrario, amor mio,» dissi consultando il mio orologio, «è di qualche minuto indietro.» La mia mogliettina venne a sedermisi sulle ginocchia per farmi star quieto a forza di moine e mi tracciò con la matita una linea sul dorso del naso; ma, sebbene fosse molto piacevole, non potevo pranzare con questo. «Non credi, mia cara,» dissi, «che sarebbe meglio se tu protestassi con Mary Anne?» «Oh, no, ti prego! Non posso farlo, Doady!» rispose Dora. «E perché no, amor mio?» chiesi gentilmente. «Oh, perché sono una tale ochetta,» disse Dora, «e lei lo sa!» Considerai questo sentimento così incompatibile con ogni sistema di dominio su Mary Anne, che aggrottai un poco le sopracciglia. «Oh, che brutte rughe sulla fronte del mio cattivo ragazzo!» esclamò Dora, e, sempre sulle mie ginocchia, le marcò con la matita, portandosela alle rosee labbra perché segnasse più nero, e lavorando sulla mia fronte con una buffa contraffazione di attenta serietà che mi deliziò mio malgrado. «Ecco un bravo bambino,» disse Dora; «la sua faccia è tanto più carina, quando ride.» «Ma amor mio,» protestai. «No, no, ti prego!» esclamò Dora baciandomi, «non essere un cattivo Barbablù! Non fare la faccia seria!» «Tesoro mio,» dissi, «qualche volta bisogna essere seri. Andiamo! Mettiti su questa sedia, accanto a me! Dammi la matita! Così! E adesso parliamo sensatamente. Tu sai, cara,» - com'era piccola quella mano, a tenerla, e come era sottile a vedersi, il suo anellino nuziale! - «Tu sai, amor mio, che non è esattamente piacevole dovere uscire senza desinare. O lo è?» «N... n... no!» rispose Dora debolmente. «Amor mio, come tremi!» «Perché so che stai per sgridarmi,» esclamò Dora con voce pietosa. «Dolcezza mia, sto solo ragionando.» «Oh, ma ragionare è peggio che sgridare!» esclamò Dora disperata. «Io non mi sono sposata per ragionare. Se tu volevi ragionare con una povera cosina come me, dovevi dirmelo, brutto cattivo!» Tentai di calmare Dora, ma lei volgeva la faccia e scuoteva i riccioli da un lato all'altro dicendo: «Brutto, brutto cattivo!» tante volte che io non sapevo davvero che cosa fare; così, nella mia incertezza, andai più volte su e giù per la stanza e poi tornai a lei. «Dora, mia cara!» «No, non sono la tua cara. Perché tu devi esserti pentito di avermi sposato, altrimenti non ragioneresti con me!» ribatté Dora. Mi sentii così offeso dall'incoerenza di questa accusa che ebbi il coraggio di essere grave. «Su, Dora mia,» dissi, «sei proprio una bambina e dici delle assurdità. Ti ricorderai senza dubbio che ieri dovetti uscire lasciando il pranzo a metà, e che l'altro ieri mi sentii male per essere stato costretto a mangiare in fretta e furia del vitello quasi crudo; oggi non desino affatto... e sono spiacente di ricordarti quanto a lungo abbiamo aspettato la colazione... perché, allora, c'era l'acqua che non bolliva. Non intendo rimproverarti, cara, ma tutto questo non è piacevole.» «Oh cattivo, cattivo ragazzo! Dirmi che sono una moglie sgradevole!» esclamò Dora. «Su, mia cara Dora, sai bene che non l'ho mai detto!» «Hai detto che non sono piacevole!» gridò Dora. «Ho detto che non è piacevole l'andamento della casa!» «È esattamente la stessa cosa!» ribatté Dora. Ed evidentemente lo credeva perché si mise a piangere a calde lacrime. Feci un altro giro per la stanza, pieno d'amore per la mia mogliettina e agitato da rimorsi tali che avrei battuto la testa nel muro. Tornai a sedermi e dissi: «Non ti sto biasimando, Dora. Tutti e due abbiamo molto da imparare. Cerco solo di mostrarti, cara, che dovresti - proprio dovresti» (ero deciso a non cedere su questo) «- abituarti a tener d'occhio Mary Anne. E anche a fare qualche cosa per te e per me.» «Mi meraviglio, mi meraviglio davvero, che tu dica cose così ingrate,» singhiozzò Dora. «Quando sai che fin l'altro giorno, quando mi dicesti che ti sarebbe piaciuto un po' di pesce, uscii io stessa e camminai per miglia e miglia per ordinarlo e farti una sorpresa.» «E fu molto gentile da parte tua, mia diletta,» dissi. «Te ne fui tanto grato che per nulla al mondo avrei fatto il minimo accenno al fatto che avevi comprato un salmone... troppo grande per noi due. Né che costava una sterlina e sei scellini... che è più di quanto possiamo permetterci.» «Ne sei stato felicissimo,» singhiozzò Dora. «E mi hai detto che ero un topolino.» «E lo dirò ancora, amor mio,» risposi, «lo ripeterò mille volte.» Ma avevo ferito il delicato cuoricino di Dora, e lei non aveva conforto. Era così patetica nei suoi singhiozzi e nei suoi lamenti che mi sentii come se le avessi detto non so quale offesa. Fui costretto a fuggir via; fui trattenuto fuori fino a tardi; e provai per tutta la sera tali angosce di rimorso da cadere nella disperazione. Mi sembrava di essere un assassino ed ero ossessionato da un vago senso di malvagità senza limiti. Erano le due o le tre dopo mezzanotte quando rincasai. Trovai da noi la zia, che se ne stava seduta aspettandomi. «È successo qualche cosa, zia?» chiesi allarmato. «Nulla, Trot,» rispose. «Siediti, siediti. Fiorellino era un po' inquieta e io le ho fatto compagnia. Tutto qui.» Appoggiai la testa sulla mano; e, rimanendo seduto a contemplare il fuoco, mi sentii più triste e abbattuto di quanto avessi mai supposto possibile, così presto, dopo il compimento delle mie più fulgide speranze. Mentre stavo così pensoso, mi avvenne di incontrare lo sguardo della zia, fisso sul mio volto. V'era in esso un'espressione di ansia, ma subito scomparve. «Ti assicuro, zia,» dissi, «che sono stato infelice per tutta la sera pensando che Dora era in questo stato. Ma non avevo avuto altra intenzione che parlarle con tenerezza e amore delle nostre faccende di casa.» La zia assentì in modo incoraggiante. «Devi avere pazienza, Trot,» disse. «Naturalmente. Il cielo sa che non voglio essere irragionevole, zia!» «No, no,» rispose la zia. «Ma Fiorellino è un piccolo fiore molto delicato, e il vento deve essere gentile con lei.» Ringraziai in cuor mio la buona zia per la tenerezza che aveva verso mia moglie; e sono sicuro che se ne accorse. «Non credi, zia,» dissi dopo avere contemplato ancora il fuoco per qualche momento, «che tu potresti consigliare e guidare un poco Dora, ogni tanto, per nostro comune vantaggio?» «Trot,» rispose la zia con una certa commozione, «no! Non chiedermi una cosa simile.» Il suo tono era così serio che alzai gli occhi sorpreso. «Considero la mia vita trascorsa, bambino mio,» disse la zia, «e penso ad alcuni che sono nella tomba e con i quali avrei potuto essere in rapporti più affettuosi. Se ho giudicato severamente gli errori nei matrimoni degli altri è stato forse perché ho avuto amare ragioni per giudicare severamente il mio. Lasciamo andare. Io sono stata una donna irritabile, intrattabile e capricciosa per molti anni. Lo sono ancora e lo sarò sempre. Ma tu e io ci siamo fatti del bene a vicenda, Trot... per lo meno, mio caro, tu mi hai fatto del bene; e, a questo punto, non devono avvenire contrasti fra noi.» «Contrasti fra noi?» esclamai. «Bambino, bambino!» disse la zia lisciandosi il vestito, «quanto presto potrebbero avvenire, e quanto potrei rendere infelice il nostro Fiorellino, se mi mischiassi in qualche cosa, nessun profeta saprebbe dirlo. Chiedo solo che la mia piccola mi voglia bene e sia felice come una farfalla. Ricordati la tua casa in quel secondo matrimonio; e non fare né a me né a lei il torto a cui hai accennato.» Mi resi subito conto che la zia aveva ragione, e compresi tutta la portata dei suoi generosi sentimenti verso la mia cara moglie. «Questi sono i primi giorni, Trot,» proseguì, «e Roma non è stata costruita in un giorno né in un anno. Tu hai fatto liberamente la tua scelta,» mi parve che per un momento una nube passasse sul suo volto; «e hai scelto una creatura molto graziosa e molto affettuosa. Sarà tuo dovere, e sarà anche tuo piacere - lo so; non ti sto facendo una predica - stimarla (poiché l'hai scelta) per le qualità che ha e non per quelle che può non avere. Queste puoi svilupparle in lei, se ci riesci. E se non ci riesci, bambino,» e qui la zia si grattò il naso, «devi abituarti a farne a meno. Ma ricordati, caro, che il vostro futuro dipende da voi. Nessuno può aiutarvi; dovete sbrigarvela da soli. Questo è il matrimonio, Trot; e il cielo vi benedica in esso per quei due bamberottoli che siete!» La zia disse tutto questo con vivacità e mi diede un bacio a ratifica della benedizione. «Adesso,» concluse, «accendi la mia lanternetta e accompagnami nella mia scatola per il sentiero del giardino;» v'era infatti una comunicazione da quella parte fra le nostre due ville. «Quando tornerai, porta a Fiorellino tutto l'affetto di Betsey Trotwood; e qualunque cosa tu faccia, Trot, non sognarti mai di servirti di Betsey come spaventapasseri, perché, se mai la guardo nello specchio, la trovo abbastanza truce e abbastanza spettrale così com'è.» Così dicendo la zia si annodò la testa in un fazzoletto nel quale era solita infagottarsi in occasioni simili, e io la accompagnai a casa. Mentre rimaneva in piedi nel suo giardino tenendo alta la lanterna per illuminarmi il ritorno, mi parve che il suo sguardo verso di me fosse ancora ansioso; ma ero troppo occupato a meditare su ciò che mi aveva detto, e troppo colpito - invero per la prima volta - dalla convinzione che dovevamo realmente badare da soli al nostro futuro, senza che alcuno potesse aiutarci, che non vi diedi molta importanza. Dora scese furtiva, nelle sue piccole pantofole, per venirmi incontro adesso che ero solo; e pianse sulla mia spalla, e disse che io ero stato spietato e lei era stata cattiva; e io credo di avere detto all'incirca le stesse cose; e ci riconciliammo, e fummo d'accordo che il nostro primo litigio sarebbe stato anche l'ultimo, e che non ne avremmo mai avuto un altro dovessimo campare cent'anni. La seconda prova domestica che ci toccò superare fu il cimento della servitù. Il cugino di Mary Anne disertò nascondendosi nella nostra carbonaia, e, con nostro enorme sbigottimento, fu portato via ammanettato da un picchetto di suoi commilitoni in una processione che coprì di ignominia il nostro giardino davanti alla casa. Questo mi diede il coraggio di sbarazzarmi di Mary Anne, la quale se ne andò così cheta, dopo avere ricevuto il suo stipendio, che ne fui sorpreso, finché non venne fuori la faccenda dei cucchiaini da tè nonché il fatto di piccole somme che si era fatta prestare a mio nome dai fornitori senza averne avuta l'autorizzazione. Dopo un intervallo della signora Kidgerbury - la più vecchia abitatrice di Kentish Town, credo, che andava saltuariamente a giornata ma era troppo debole per mettere in atto le idee che aveva sulla sua arte - trovammo un altro tesoro, che era una delle donne più piacevoli ma si faceva regolarmente un dovere di ruzzolare scendendo o salendo dalle scale della cucina con un vassoio in mano, e di tuffarsi a capofitto in salotto, come in un bagno, con il servizio del tè. Le rovine compiute da questa disgraziata resero necessario il suo licenziamento, e ad essa seguì (con intervalli della signora Kidgerbury) una lunga serie di incapaci, che si concluse con una giovane di bella apparenza la quale andò alla fiera di Greenwich con il cappellino di Dora. Dopo di che ricordo solo un'uniforme sequela di fallimenti. Tutti coloro con cui avevamo a che fare sembravano essersi messi d'accordo per truffarci. Il nostro ingresso in un negozio era il segnale per far venir fuori immediatamente tutto ciò che c'era di guasto. Se compravamo un'aragosta, era piena d'acqua. Tutta la carne era dura, e difficilmente le pagnotte avevano un po' di crosta. Alla ricerca del principio secondo il quale il filetto deve essere arrostito, arrostito a sufficienza ma non troppo, consultai io stesso il libro di cucina, e vi trovai stabilita la durata di un quarto d'ora per ogni oncia, più un altro quarto d'ora circa. Ma questo criterio ci venne sempre meno, per qualche strana fatalità, e non riuscimmo mai a centrare un termine medio tra la carne cruda e la carbonizzata. Ho ragioni per credere che questi fallimenti ci costarono molto più che se avessimo ottenuto una serie di successi trionfali. Nel guardare i conti dei fornitori ebbi l'impressione che avremmo potuto pavimentare di burro tutto il pianterreno, tanto ne avevamo consumato. Ignoro se la rendita dell'imposta di consumo in quel periodo abbia rivelato un aumento nella richiesta del pepe; ma se le nostre imprese non turbarono il mercato direi che parecchie famiglie dovettero cessare di usarlo. E la cosa più meravigliosa di tutte era che non avevamo mai nulla in casa. Quanto alla lavandaia che ci impegnava gli abiti e veniva a chieder scusa in stato di penitente ubriachezza, suppongo che possa essere capitato più volte a chiunque. E così pure l'incendio del camino, le malizie dei parrocchiani e lo spergiuro del sacrestano. Ma temo che sia stata un'avventura tutta personale l'avere assunto una domestica a cui piacevano tanto gli aperitivi da estendere il nostro conto corrente presso il fornitore di birra a inesplicabili voci quali «Un quarto di rum aromatizzato (Signora C.)»; «Mezzo quarto di gin e chiodi di garofano (Signora C.)»; «Un bicchiere di rum e menta piperita (Signora C.)»: parentesi che si riferivano a Dora considerata responsabile, come risultò dalla spiegazione, di essersi bevuti tutti questi rinfreschi. Una delle nostre prime iniziative casalinghe fu un pranzetto offerto a Traddles. Lo incontrai in città e lo invitai a venire con me nel pomeriggio. Lui fu pronto ad accettare e io scrissi a Dora avvertendola che lo avrei portato a casa. Il tempo era bello e, lungo la strada, la mia felicità domestica fu l'argomento della nostra conversazione. Traddles ne era tutto pieno e disse che, se si immaginava in una casa come la mia con la sua Sophy ad aspettarlo e a far preparativi per lui, non poteva pensare a nulla che mancasse a una completa felicità. Non avrei potuto desiderare una più graziosa mogliettina a capotavola, ma certo, quando ci fummo seduti, avrei potuto desiderare un po' più di spazio. Non so come fosse, ma, sebbene fossimo solo in due, non avevamo mai modo di rigirarci, anche se c'era regolarmente spazio bastante per smarrirci dentro qualsiasi cosa. Sospetto che sia stato perché nulla era al suo posto, eccetto la pagoda di Jip, che invariabilmente bloccava il passaggio principale. Nella presente occasione, Traddles era così circondato dalla pagoda, dall'astuccio della chitarra, dai fiori disegnati da Dora e dalla mia scrivania, che ebbi seri dubbi sulla sua possibilità di usare il coltello e la forchetta; ma lui protestava col suo tipico buon umore: «Oceani di spazio, Copperfield! Te lo assicuro, oceani!» C'era un'altra cosa che avrei desiderato, e precisamente che Jip non fosse mai stato incoraggiato a camminare sulla tovaglia durante il pranzo. Cominciai a pensare che ci fosse qualche cosa che non andava nel suo trovarsi lì, anche se non avesse avuto l'abitudine di mettere le zampe nel sale e nel burro fuso. In questa occasione egli sembrava convinto di essere stato invitato apposta per tenere a bada Traddles; e abbaiava al mio vecchio amico e faceva incursioni sul suo piatto con tale indomita pertinacia che si può dire avesse monopolizzato la conversazione. Comunque, conoscendo quanto fosse di cuor tenero la mia Dora, e quanto sensibile ai minimi sgarbi fatti al suo favorito, non accennai ad alcuna obiezione. Per la stessa ragione non feci allusione alla battaglia dei piatti messi sul pavimento, né allo sconveniente aspetto delle saliere e delle pepaiole che erano tutte in disordine e sembravano ubriache, né al lungo assedio subito da Traddles da parte di erranti piatti di verdura e caraffe. Non potei fare a meno di domandarmi mentalmente, nel contemplare la coscia di montone bollita che avevo davanti, prima di tagliarla, come poteva avvenire che i nostri pezzi di carne avessero sempre forme così straordinarie, e se il nostro macellaio acquistasse tutti gli ovini storpi che venivano al mondo; ma tenni per me queste riflessioni. «Amore,» dissi a Dora, «che c'è in quel piatto?» Non riuscivo a immaginare perché Dora mi facesse tante seducenti smorfiette, come se volesse darmi un bacio. «Ostriche, caro,» disse Dora timidamente. «È stato un tuo pensiero?» chiesi pieno di gioia. «S... sì, Doady,» rispose Dora. «Non poteva essere più felice!» esclamai posando il trinciante e la forchetta. «Traddles ne va pazzo!» «S... sì, Doady,» ripeté Dora. «Per questo ne ho acquistato un bel bariletto, e l'uomo mi ha detto che erano buonissime. Ma io... io temo che abbiano qualche cosa. Ho l'impressione che non vadano.» E qui Dora scosse la testa e tanti brillanti scintillarono nei suoi occhi. «Basta solo aprire il guscio,» dissi. «Togli la parte superiore, amor mio.» «Ma non viene,» disse Dora tentando con tutte le sue forze, piena di confusione. «Sai Copperfield,» disse Traddles esaminando allegramente il piatto, «credo che sia conseguenza... sono ostriche magnifiche, ma credo che sia conseguenza... del fatto che non sono state aperte.» Non erano state aperte; non avevamo coltelli da ostriche... e anche se li avessimo avuti non avremmo saputo usarli; così guardammo le ostriche e mangiammo il montone. Almeno mangiammo la parte cotta e rimediammo con i capperi. Se glielo avessi permesso, sono certo che Traddles si sarebbe trasformato in un perfetto selvaggio e avrebbe mangiato un'intera portata di carne cruda per mostrare quanto il pasto gli fosse gradito; ma io non volli sentir parlare di un tale sacrificio sull'altare dell'amicizia, e ripiegammo invece su una distribuzione di pancetta affumicata, visto che, per fortuna, ne avevamo nella dispensa. La mia povera mogliettina era così afflitta all'idea che fossi arrabbiato, e divenne così piena di gioia quando si accorse che non lo ero, che la sconfitta subita scomparve presto e passammo una felice serata. Dora si sedette col braccio sulla mia sedia mentre Traddles e io assaporavamo un bicchiere di vino, e coglieva ogni occasione per sussurrarmi all'orecchio che ero proprio buono a non mostrarmi un ragazzo crudele e corrucciato. Poco dopo ci preparo il tè, e fu così grazioso vederla affaccendarsi come una bambina col suo servizio da bambole, che non mi mostrai esigente sulla qualità della bevanda. Infine Traddles e io facemmo un paio di partite a carte, e, poiché Dora cantò frattanto sulla chitarra, mi parve che il mio fidanzamento e il mio matrimonio fossero solo un tenero sogno, e che la sera in cui avevo ascoltato la sua voce per la prima volta non fosse ancora terminata. Quando Traddles se ne fu andato e io tornai in salotto dopo averlo accompagnato alla porta, mia moglie portò la sua sedia presso la mia e si sedette al mio fianco. «Sono tanto spiacente,» disse. «Vuoi provare a insegnarmi, Doady?» «Dovrei prima imparare io, Dora,» risposi. «Sono incapace come te, amor mio.» «Ah! Ma tu puoi imparare,» ribatté; «tu sei tanto, tanto intelligente!» «Sciocchezze, topolino,» dissi. «Vorrei,» riprese mia moglie dopo un lungo silenzio, «aver potuto andare per un anno in campagna a vivere con Agnes!» Aveva le mani riunite sulla mia spalla e vi posava sopra il mento fissandomi silenziosa con i suoi occhi azzurri. «Perché?» chiesi. «Credo che lei avrebbe potuto migliorarmi, e credo che da lei avrei potuto imparare,» disse Dora. «Tutto a suo tempo, amor mio. Agnes ha dovuto prendersi cura di suo padre in questi ultimi anni, lo ricorderai. Anche quando era ancora bambina, era l'Agnes che conosciamo,» risposi. «Mi darai un nome con cui vorrei essere chiamata?» chiese Dora senza muoversi. «Quale nome?» domandai sorridendo. «È un nome stupido,» rispose scuotendo per un momento i riccioli. «Moglie-bambina.» Chiesi ridendo alla mia moglie-bambina qual fantasia le fosse venuta in testa da voler essere così chiamata. Mi rispose senza muoversi, solo che il mio braccio, cingendola, poté portare i suoi occhi azzurri un poco più vicino a me: «Non intendo, sciocchino, che tu debba usare questo nome invece di Dora. Voglio solo che tu pensi a me così. Quando stai per arrabbiarti con me, di' fra di te: ‹È soltanto la mia moglie-bambina!› Quando ti deludo un po' troppo, di': ‹Lo sapevo da un pezzo che sarebbe stata solo una mogliebambina!› Quando non sono come vorrei, e come credo che non riuscirò mai a essere, di': ‹E tuttavia la mia sciocca moglie-bambina mi ama!› Perché ti amo davvero.» Non ero stato serio con lei, perché fino a questo momento non avevo sospettato che parlasse sul serio lei stessa. Ma il suo carattere affettuoso fu così felice di quello che adesso le dissi con tutto il cuore, che il suo viso divenne ridente prima ancora che i suoi occhi brillanti fossero asciutti. E in realtà fu subito la mia moglie-bambina; si sedette a terra presso la pagoda cinese e fece suonare tutti i campanellini l'uno dopo l'altro per punire Jip della sua recente cattiva condotta, mentre Jip se ne stava sdraiato sulla soglia socchiudendo gli occhi, con la testa fuori, troppo pigro per irritarsi dei dispetti. Questa richiesta di Dora fece su di me un'impressione profonda. Rievoco il tempo di cui scrivo; invoco l'innocente figura che teneramente amavo perché esca dalle nebbie e dalle ombre del passato e volga verso di me ancora una volta la sua testa gentile; e posso ancora affermare che quelle sue brevi parolette mi rimasero sempre nella memoria. Può darsi che non ne abbia fatto il miglior uso; ero giovane e senza esperienza; ma non fui mai sordo al loro semplice appello. Dora mi disse, poco dopo, che sarebbe divenuta una meravigliosa donna di casa. Di conseguenza ripulì le tavolette, temperò la matita, acquistò un immenso libro di conti, ricucì accuratamente con ago e filo tutte le pagine del libro di cucina che Jip aveva strappato e fece un disperato, infantile tentativo di «essere buona», come diceva. Ma le cifre mantenevano l'antica, ostinata inclinazione: non volevano lasciarsi addizionare. Quando aveva annotato due o tre laboriose voci nel libro di conti, Jip zampettava sulla pagina agitando la coda e macchiava tutto. Il ditino medio della destra di Dora finiva con l'immergersi fino all'osso nell'inchiostro, e credo che fosse quello l'unico preciso risultato ottenuto. A volte, di sera, quando ero a casa dal lavoro - perché adesso scrivevo parecchio e cominciavo a essere modestamente noto come scrittore - posavo la penna e contemplavo la mia moglie-bambina che tentava di essere buona. Anzitutto tirava fuori l'immenso libro di conti e lo deponeva sul tavolo con un profondo sospiro. Poi lo apriva alla pagina resa illeggibile da Jip la sera prima e chiamava Jip perché osservasse i suoi misfatti. Questo dava l'avvio a una diversione in favore di Jip e, magari, a un'inchiostratura del suo naso come castigo. Ordinava poi a Jip di coricarsi subito sul tavolo «come un leone» - che era uno dei suoi esercizi sebbene non possa dire che la somiglianza fosse impressionante - e lui, se era in vena di obbedienza, obbediva. Poi prendeva una penna, cominciava a scrivere e ci trovava un capello. Allora ne prendeva un'altra, cominciava a scrivere e si accorgeva che schizzava. Infine ne prendeva una terza, cominciava a scrivere e diceva a bassa voce: «Oh, questa stride e disturberà Doady!» e allora abbandonava tutto come impresa disperata e metteva via il libro di conti dopo aver fatto finta di schiacciare con esso il leone. Oppure, se era in uno stato d'animo molto calmo e serio, si metteva a sedere con le tavolette e un cestino pieno di biglietti e altri documenti che assomigliavano più che altro a diavoletti per capelli, e tentava di cavarne qualche risultato. Dopo averli confrontati più volte l'uno con l'altro e aver fatto annotazioni sulle tavolette, e averle cancellate, e aver contato e ricontato su tutte le dita della sinistra in un senso e nell'altro, diveniva così afflitta e scoraggiata, e prendeva un aspetto così infelice, che mi faceva pena vedere oscurato il suo fulgido volto - e per causa mia! - e mi avvicinavo chetamente a lei dicendo: «Che c'è, Dora?» Dora alzava verso di me uno sguardo disperato e rispondeva: «Non tornano. Mi danno un tale mal di testa! Non mi risulta niente di quello che dovrebbe!» Allora dicevo: «Adesso proviamo insieme. Ti farò vedere io, Dora.» Cominciavo una dimostrazione pratica a cui Dora prestava una profonda attenzione per forse cinque minuti; dopo di che cominciava a essere mortalmente stanca e tentava di alleviare l'argomento arricciandomi i capelli o cercando di vedere che effetto faceva la mia faccia col colletto della camicia rovesciato. Se tacitamente resistevo a questi giuochi e insistevo, appariva così sgomenta e sconsolata, confondendosi sempre più, che il ricordo della sua naturale gaiezza quando ero capitato per la prima volta sul suo cammino, e del suo essere la mia moglie-bambina, si abbatteva su di me pieno di rampogna; e io lasciavo cadere la matita e cercavo la chitarra. Avevo molto lavoro e non poche ansietà, ma, per le stesse considerazioni, tenevo chiuso tutto in me. Sono tutt'altro che sicuro, adesso, che fosse bene farlo, ma lo facevo per amore della mia mogliebambina. Scruto nel mio cuore e affido senza riserva i suoi segreti, se giungo a conoscerli, a queste carte. L'antico, penoso senso di vuoto, di qualche cosa che mi mancasse, aveva, lo so, un certo posto nel mio cuore; ma non fino ad amareggiarmi la vita. Quando passeggiavo solo nei giorni di bel tempo e pensavo a quella primaverile stagione in cui tutta l'atmosfera era piena dei miei incanti di ragazzo, sentivo che mancava qualche cosa alla realizzazione dei miei sogni; ma pensavo che fosse una spenta gloria del passato che nulla poteva prolungare fino al presente. Sentivo a volte, per pochi attimi, che avrei desiderato avere in mia moglie un consigliere; trovare in lei più carattere e decisione per sostenermi e migliorarmi; vederla dotata del potere di riempire il vuoto che talora sembrava circondarmi: ma mi sembrava che tutto ciò fosse un irreale coronamento della mia felicità, che non avevo mai preteso e che mai avrebbe potuto essere. Quanto agli anni, ero un marito ancora ragazzo. Non avevo conosciuto la mitigante influenza di altri dolori e di altre esperienze se non di quelli ricordati in queste pagine. Se commisi qualche cosa di male, e può darsi che ne abbia commesse parecchie, lo feci per errore di amore e per mancanza di saggezza. Scrivo l'esatta verità. Non mi servirebbe a nulla l'attenuarla adesso. Avvenne così che presi su di me tutte le fatiche e tutte le preoccupazioni della nostra vita senza avere in esse un compagno. Quanto al nostro tentennante andamento domestico, vivevamo all'incirca come prima; ma mi ci ero ormai abituato, ed ero lieto di vedere che, adesso, Dora molto raramente era in angustie. Appariva radiosa e allegra al suo antico modo infantile, mi amava teneramente ed era felice con le sue antiche inezie. Quando i dibattiti in Parlamento erano pesanti - intendo quanto a lunghezza, non quanto a qualità, perché sotto questo ultimo rispetto era difficile che non lo fossero - e tornavo a casa tardi, Dora non restava mai a letto nell'udire i miei passi, ma scendeva sempre per venirmi incontro. Quando le mie sere erano libere dal lavoro nel quale mi ero qualificato con tanta fatica, e rimanevo a casa a scrivere, lei mi stava seduta chetamente accanto, per quanto facessi tardi, e rimaneva così silenziosa che spesso pensavo si fosse addormentata. Ma in genere, quando alzavo lo sguardo, scorgevo i suoi occhi azzurri che mi fissavano con la stessa calma attenzione di cui ho già parlato. «Oh, che ragazzo stanco!» disse Dora una notte, quando incontrai il suo sguardo nel chiudere la scrivania. «Che ragazzina stanca!» dissi io. «Cade più a proposito. Un'altra volta devi andare a letto, amor mio. È davvero troppo tardi per te.» «No, non mandarmi a letto,» implorò Dora venendomi al fianco. «Ti prego, non farlo!» «Dora!» Con mio stupore, mi singhiozzava sulla spalla. «Non stai bene, cara? Non sei felice?» «Sì! sto benissimo e sono felicissima!» rispose Dora. «Ma dimmi che mi lascerai qui a guardarti mentre scrivi.» «Diamine, che bello spettacolo per occhi così brillanti, a mezzanotte!» ribattei. «Sono davvero brillanti?» chiese Dora ridendo. «Sono così contenta che lo siano.» «Piccola vanitosa!» dissi. Ma non era vanità; era solo innocente piacere della mia ammirazione. Lo sapevo benissimo prima che me lo dicesse. «Se ti sembrano belli, dimmi che potrò sempre restare a vederti scrivere!» insisté Dora. «Credi davvero che siano belli?» «Bellissimi.» «Allora lasciami restare a vederti scrivere.» «Temo che questo non aumenterà il loro splendore, Dora.» «Sì, invece! Perché allora tu, mio intelligentone, non ti dimenticherai di me quando sarai assorto nelle tue silenziose fantasie. Ti arrabbierai se ti dico qualche cosa di molto, molto sciocco?... più sciocco del solito?» chiese Dora volgendomi un'occhiata furtiva di sopra la mia spalla. «Di che cosa straordinaria si tratta?» dissi. «Ti prego, lascia che ti tenga le penne,» implorò Dora. «Ho bisogno di partecipare anch'io in qualche modo a queste ore in cui lavori tanto. Posso tenerti le penne?» Il ricordo della sua gioia infantile quando acconsentii mi porta ancora le lacrime agli occhi. La volta successiva che mi sedetti a scrivere, e poi sempre, lei si sedette al solito posto con un mazzetto di penne accanto. Il suo trionfo nel partecipare al mio lavoro e il suo piacere quando le chiedevo una penna nuova - di cui spesso fingevo aver bisogno - mi suggerirono un nuovo modo per compiacere la mia moglie-bambina. Ogni tanto simulavo che una pagina o due del manoscritto dovevano essere ricopiate. Allora Dora era in tutta la sua gloria. I preparativi che faceva per questa grande impresa, i grembiuli che si metteva, i bavaglini che portava dalla cucina per proteggersi dall'inchiostro, il tempo che impiegava, le innumerevoli soste che faceva per ridere con Jip come se lui capisse tutto, la sua convinzione che il lavoro sarebbe stato incompleto se non vi avesse scritto il suo nome in calce, e il modo con cui me lo portava, come un compito di scuola, e poi, quando la lodavo, il suo aggrapparmisi al collo, sono per me ricordi commoventi per quanto semplici possano apparire ad altri. Subito dopo prese possesso delle chiavi, e andò tintinnando per la casa con l'intero mazzo in un cestino legato alla sua vita sottile. Raramente trovai chiusi le porte e gli sportelli a cui le chiavi appartenevano, né mi accorsi che esse avessero altra utilità che di essere un giocattolo per Jip... ma Dora era contenta ed ero contento anch'io. Ella fu perfettamente soddisfatta di aver compiuto un bel passo avanti con questa apparenza di direzione della casa; e se ne rallegrò come se tenessimo, per giuoco, una casa da bambole. Così andavamo avanti. Dora si era affezionata alla zia poco meno che a me, e spesso le parlava del tempo in cui aveva temuto che fosse una «vecchia bisbetica». Non vidi mai la zia più sistematicamente indulgente verso altri. Corteggiava Jip sebbene Jip non la ricambiasse in alcun modo; ascoltava giorno per giorno la chitarra, sebbene temo che non avesse gusto per la musica; non criticava mai le «incapaci» per quanto la tentazione dovesse essere forte; percorreva a piedi distanze senza termine per procurarsi, come sorpresa, qualsiasi sciocchezzuola che Dora avesse fatto capire di desiderare; e mai arrivava dal giardino senza gridare dal piede delle scale, se non trovava Dora in salotto, con una voce che risuonava allegramente per tutta la casa: «Dov'è Fiorellino?» XLV • IL SIGNOR DICK RISPONDE ALLE PREDIZIONI DELLA ZIA Già da parecchio tempo avevo lasciato il dottore. Vivendo nelle sue vicinanze, lo vedevo spesso; e in due o tre occasioni eravamo andati tutti da lui a pranzo o a prendere il tè. Il Vecchio Soldato era acquartierato in permanenza sotto il tetto del dottore. Era esattamente la stessa di sempre, e le stesse immortali farfalle ondeggiavano sul suo cappello. Al pari di altre madri che ho conosciuto nel corso della mia vita, la signora Markleham era appassionata dei divertimenti molto più di sua figlia. Aveva bisogno di una gran quantità di svaghi e, da astuto vecchio soldato, pretendeva, seguendo le proprie inclinazioni, di dedicarsi alla figlia. Il desiderio del dottore, che Annie si divertisse, era dunque particolarmente accetto a questa eccellente genitrice, che esprimeva illimitata approvazione per l'avvedutezza di lui. In realtà son certo che inasprisse senza saperlo la ferita del dottore. Pur abbandonandosi solo a una certa matura frivolezza e a un certo egoismo, non sempre inseparabili dalla piena fioritura degli anni, credo che, a forza di lodare quanto egli faceva per alleggerirle il peso della vita, lo confermasse nella sua paura di essere una costrizione per la giovane moglie e che non vi fosse fra loro congenialità di sentimenti. «Anima mia,» gli disse un giorno che ero presente, «sapete bene che, per Annie, rimanersene sempre chiusa qui sarebbe un po' come essere in prigione.» Il dottore annuì benevolmente. «Quando avrà l'età di sua madre,» continuò la signora Markleham facendo svolazzare il ventaglio, «sarà un'altra cosa. Me, potreste chiudermi in una prigione, con gente per bene e un giuoco di carte, e mai mi curerei di uscirne. Ma io non sono Annie, capite, e Annie non è sua madre.» «Certo, certo,» disse il dottore. «Voi siete la migliore delle creature... no, scusatemi.» perché il dottore aveva fatto un gesto di protesta. «Devo dirvi in faccia, come vi ho sempre detto alle spalle, che siete la migliore delle creature; ma naturalmente non potete - non è vero? - avere gli stessi interessi e le stesse fantasie di Annie!» «No,» disse il dottore in tono addolorato. «No, naturalmente no,» ribatté il Vecchio Soldato. «Prendete per esempio il vostro Dizionario. Che opera utile è un dizionario! Che opera necessaria! Il significato delle parole! Senza il dottor Johnson, o qualcuno come lui, noi potremmo oggi chiamare telaio da letto un ferro per arricciare le trine. Ma non potete pretendere che un dizionario - specialmente quando lo si sta facendo - interessi Annie, non è vero?» Il dottore scosse la testa. «E per questo approvo tanto,» disse la signora Markleham battendogli sulla spalla col ventaglio chiuso, «le vostre premure. Mostrano che non volete, come tante persone anziane, teste vecchie su spalle giovani. Avete studiato il carattere di Annie e lo potete capire. È questo che trovo così affascinante in voi!» Perfino il calmo e paziente volto del dottor Strong espresse, mi parve, un lieve senso di pena sotto l'imposizione di questi complimenti. «Dunque, mio caro dottore,» concluse il Vecchio Soldato con tanti colpettini affettuosi, «potete darmi i vostri ordini in ogni tempo e stagione. State sicuro che sono interamente al vostro servizio. Sono pronta ad andare con Annie all'opera, ai concerti, alle esposizioni, dappertutto; e non mi vedrete mai stanca. Il dovere, mio caro dottore, il dovere innanzi tutto!» E manteneva la parola. Era una di quelle donne che possono sostenere una gran quantità di divertimenti senza che mai la loro perseveranza indietreggi davanti alla giusta causa. Raramente prendeva in mano un giornale (si sistemava sulla più morbida poltrona della casa per leggerselo un paio di ore al giorno attraverso l'occhialino) senza trovare qualche cosa che, certamente, Annie avrebbe visto con piacere. E invano Annie protestava che era stanca di cose simili. Sua madre controbatteva regolarmente: «Annie, sono sicura che ci ripenserai meglio; e devo dirti, amor mio, che non ricambi come si conviene la bontà del dottor Strong.» Questo veniva detto, di solito, alla presenza del dottore, e mi sembrava costituire per Annie, il principale argomento che la induceva a ritirare le sue obiezioni quando ne aveva fatte. Ma in genere si rassegnava alla volontà della madre e andava dove il Vecchio Soldato voleva. Adesso accadeva di rado che il signor Maldon le accompagnasse. A volte mia zia e Dora erano invitate a farlo, e accettavano l'invito. Talora era invitata soltanto Dora. Un tempo l'avrei lasciata andare con un certo disagio; ma le riflessioni fatte su quello che era avvenuto quella notte nello studio del dottore avevano portato un cambiamento nella mia diffidenza. Pensavo che il dottore avesse ragione e non nutrivo sospetti peggiori. A volte la zia, quando era sola con me, si grattava il naso e diceva che non riusciva a capirci nulla; avrebbe voluto che fossero più felici; non credeva affatto che la nostra militaresca amica (come chiamava sempre il Vecchio Soldato) giovasse a migliorar le cose. La zia espresse inoltre l'opinione che «se la nostra militaresca amica si tagliasse via quelle farfalle e le regalasse agli spazzacamini per la festa del primo di maggio, sarebbe il principio di qualche cosa di sensato da parte sua.» Ma la sua costante fiducia era riposta nel signor Dick. Quell'uomo aveva evidentemente un'idea in testa, diceva; e se solo una volta riuscisse a chiuderla in un angolo e acchiapparla, cosa che era la sua principale difficoltà, si sarebbe distinto in qualche modo straordinario. Inconsapevole di tale predizione, il signor Dick continuava a occupare esattamente lo stesso posto nei suoi rapporti col dottore e con la signora Strong. Non sembrava né avanzare né recedere. Appariva fissato sulle sue fondamenta originarie come un edificio; e devo confessare che la mia fiducia sulle sue possibilità di muoversi non era molto superiore a quella che avrei avuto se fosse stato una casa. Ma una sera, quando ero sposato da alcuni mesi, il signor Dick sporse la testa nel salotto in cui stavo scrivendo da solo (poiché Dora era andata con la zia a prendere il tè dai due uccellini) e disse con un colpetto di tosse significativo: «Temo che non possiate scambiare due parole con me senza vostro disturbo, Trotwood.» «Tutt'altro, signor Dick,» dissi; «entrate.» «Trotwood,» disse il signor Dick portandosi un dito sul lato del naso dopo avermi stretto la mano. «Prima di sedermi, desidero fare un'osservazione. Conoscete vostra zia?» «Un poco,» risposi. «È la più meravigliosa donna del mondo, signore.» Dopo avere pronunciato questa comunicazione sparandola fuori di sé come se gli pesasse, il signor Dick si sedette con maggior gravità del solito e mi guardò. «Adesso, ragazzo,» disse, «vi farò una domanda.» «Quante volete,» risposi. «Che cosa pensate che io sia, signore?» chiese il signor Dick incrociando le braccia. «Un caro vecchio amico,» dissi. «Grazie, Trotwood,» esclamò il signor Dick ridendo e tendendosi verso di me nella sua gioia per stringermi la mano. «Ma intendo, ragazzo,» e riprese la sua gravità, «che cosa pensate che io sia sotto questo rispetto?» e si toccò la fronte. Non sapevo che rispondere, ma lui mi aiutò con una parola. «Debole?» disse. «Be',» risposi incerto. «Piuttosto.» «Esattamente!» gridò il signor Dick, che sembrava tutto estasiato della mia risposta. «Cioè, Trotwood, quando tolsero certi crucci dalla testa di chi sapete e li misero dove sapete, ci fu un...» il signor Dick girò in fretta le mani l'una intorno all'altra più volte e poi le fece urtare volgendole e rivolgendole fra loro per esprimere confusione. «Ci fu in me qualche cosa di simile. Eh?» Assentii, e lui mi rispose assentendo a sua volta. «Insomma,» disse il signor Dick riducendo la sua voce a un bisbiglio, «sono un semplicione.» Avrei voluto rettificare questa conclusione, ma lui mi arrestò. «Sì, lo sono! Lei sostiene di no. Non vuole sentirlo dire, ma lo sono. So di esserlo. Se non mi avesse sostenuto come amica, signore, mi avrebbero rinchiuso e io avrei condotto per questi anni una vita orribile. Ma provvederò a lei! Non spendo mai il denaro delle mie copie. Lo metto in una scatola. Ho fatto testamento. Le lascerò tutto. Sarà ricca... nobile!» Il signor Dick cavò il fazzoletto e si asciugò gli occhi. Poi lo ripiegò con gran cura, lo premette fra le mani lisciandolo, se lo mise in tasca e parve mettere da parte la zia insieme a esso. «Voi siete uno studioso, Trotwood,» disse il signor Dick. «Siete un grande studioso. Sapete che uomo dotto, che grand'uomo sia il dottore. Sapete quale onore mi abbia sempre fatto. Nessun orgoglio nella sua sapienza. È umile, umile... condiscendente perfino col povero Dick, che è un semplicione e non sa niente. Ho levato in alto il suo nome su di un foglio di carta legato alla fune dell'aquilone, che è salito in cielo, fra le allodole. E l'aquilone è stato felice di riceverlo, signore, e il cielo è divenuto più luminoso.» Lo allietai dicendogli, molto cordialmente, che il dottore meritava tutto il nostro rispetto e la più alta stima. «E la sua bella moglie è una stella,» disse il signor Dick. «Una fulgida stella. L'ho vista brillare, signore. Ma,» avvicinò ancor più la sua sedia alla mia e mi pose una mano sul ginocchio... «Nuvole, signore... nuvole.» Risposi alla preoccupazione che vedevo nel suo volto atteggiando il mio alla stessa espressione e scuotendo la testa. «Quali nuvole?» chiese il signor Dick. Mi guardava in volto così intensamente ed era così ansioso di capire, che misi tutto il mio impegno nel rispondergli piano e con chiarezza, come se avessi dovuto dare una spiegazione a un fanciullo. «C'è una disgraziata divisione, fra loro,» risposi. «Qualche malaugurata causa di distacco. Un segreto. Forse è collegata con il divario della loro età. Può essere venuta su quasi dal niente.» Il signor Dick, che aveva sottolineato ogni frase con un assentimento pensoso, rimase zitto quando ebbi finito e se ne stette seduto meditando, con gli occhi su di me e la mano sul mio ginocchio. «Il dottore non è arrabbiato con lei, Trotwood?» chiese dopo un poco. «No, le è devoto.» «Allora ho capito, ragazzo!» disse il signor Dick. L'improvvisa esaltazione con cui mi batté il ginocchio e si addossò alla sedia, con le sopracciglia alzate per quanto le poteva alzare, mi fecero pensare che fosse fuori di sé più che mai. Ma tornò grave d'un tratto e, chinandosi in avanti come prima, dopo aver tirato fuori dispettosamente il fazzoletto, quasi rappresentasse realmente la zia, disse: «La donna più meravigliosa del mondo, Trotwood. Perché lei non ha fatto nulla per aggiustare le cose?» «Un soggetto troppo delicato e difficile per interferirvi,» risposi. «Un grande studioso,» disse il signor Dick toccandomi col dito. «Perché lui non ha fatto nulla?» «Per la stessa ragione,» risposi. «Allora ho capito, ragazzo!» ripeté il signor Dick. E mi si levò di fronte, più esultante di prima, assentendo col capo e battendosi ripetutamente sul petto fino a far supporre che a forza di assentire e di battersi non avesse più fiato in corpo. «Un povero diavolo maniaco, signore,» disse il signor Dick, «un semplicione, una persona debole di mente quella che vi sta davanti, capite?» e riprese a battersi sul petto, «può fare quello che persone straordinarie non possono fare. Io li riconcilierò, ragazzo mio. Tenterò. Me, non mi biasimeranno. A me non potranno fare rimproveri. Non baderanno a quello che faccio io, se sbaglio. Io sono soltanto il signor Dick. E chi dà importanza a Dick? Dick è nessuno! Vuuuh!» e diede un breve soffio sprezzante, come se volesse soffiar via se stesso. Fu una fortuna che avesse rivelato tanto del suo segreto perché udimmo fermarsi al cancello del giardinetto la vettura che riportava la zia e Dora. «Non una parola, ragazzo!» proseguì in un sussurro; «lasciate tutto il biasimo a Dick... al semplicione Dick... al folle Dick. Già da tempo, signore, pensavo di stare per capire, e adesso ho capito. Dopo quello che mi avete detto sono sicuro di aver capito. Benissimo!» Il signor Dick non pronunciò altra parola sul soggetto; ma per la mezz'ora successiva si trasformò in un vero telegrafo (con grande turbamento della zia) per ingiungermi l'inviolabile segreto. Con mia sorpresa non seppi altro al riguardo per due o tre settimane sebbene fossi abbastanza interessato al risultato dei suoi tentativi, notando uno strano bagliore di buon senso - non parlo dei suoi buoni sentimenti, perché questi li aveva sempre mostrati - nella conclusione a cui era giunto. Infine cominciai a credere che, nel suo labile e disordinato stato mentale, avesse dimenticato o abbandonato il proposito. Una bella sera, in cui Dora non aveva voglia di uscire, la zia e io giungemmo vagabondando alla villa del dottore. Si era di autunno, stagione in cui non vi erano dibattiti a turbare l'atmosfera serale; e ricordo che le foglie odoravano sotto i nostri passi come nel nostro giardino di Blunderstone e che l'antico sentimento di infelicità sembrava dileguarsi con l'alito del vento. Quando giungemmo alla villa era sceso il crepuscolo. La signora Strong usciva in quel momento dal giardino dove il signor Dick indugiava ancora, intento ad aiutare col suo coltello il giardiniere che faceva la punta a certi pali. Il dottore era occupato con qualcuno nel suo studio, ma il visitatore se ne sarebbe andato presto, disse la signora Strong pregandoci di restare per salutarlo. Entrammo con lei nel salotto e ci sedemmo presso la finestra che si oscurava. Non si facevano mai cerimonie per la visita di vecchi amici e vicini come eravamo. Eravamo lì da pochi minuti quando la signora Markleham, che soleva sempre far baccano per qualche cosa, irruppe tutta agitata con un giornale in mano esclamando trafelata: «Buon Dio, Annie, perché non mi hai detto che c'era gente nello studio?» «Cara mamma,» rispose lei calma, «come potevo immaginare che desideravi saperlo?» «Desideravo saperlo!» disse la signora Markleham sprofondandosi nel divano. «Non mi è mai capitato nulla di simile in tutta la mia vita!» «Sei dunque entrata nello studio, mamma?» chiese Annie. «Entrata nello studio, cara?» rispose lei con enfasi. «Certo che ci sono entrata! E trovo quel caro uomo - se poteste immaginare i miei sentimenti, signorina Trotwood e David - mentre stava dettando il testamento.» Sua figlia si volse di scatto dalla finestra. «Mentre stava dettando, cara Annie,» ripeté la signora Markleham, stendendosi il giornale sul grembo come una tovaglia e battendovi sopra le mano, «le sue ultime volontà testamentarie. La previdenza e l'affetto di quel caro uomo! Devo dirti come è andata. Devo proprio, per rendere giustizia a quella perla di uomo - poiché non è nulla di meno, - dirti come è andata. Forse saprete, signorina Trotwood, che in questa casa non c'è mai una candela accesa finché gli occhi non ci cadono letteralmente dalla testa nello sforzo di leggere il giornale. E che in questa casa non c'è una poltrona su cui si possa fare quello che io chiamo leggere un giornale se non nello studio. Per questo mi ero avviata allo studio, dove vedevo una luce. Aprii la porta. V'erano, col dottore, due professionisti, evidentemente gente di legge, tutti e tre seduti attorno al tavolo: il caro dottore aveva la penna in mano. ‹Questo significa dunque esplicitamente,› disse il dottore - Annie, amor mio, ascolta le parole esatte - ‹questo significa dunque esplicitamente, signori, la fiducia che ho nella signora Strong, e la lascia incondizionatamente erede universale!› Uno dei professionisti ripeté: ‹E la lascia incondizionatamente erede universale.› A questo punto, con i naturali sentimenti di una madre, io dissi: ‹Buon Dio, vi chiedo scusa!› inciampai nella soglia e filai via per il piccolo corridoio sul retro, dove c'è la dispensa.» La signora Strong aprì la porta-finestra e uscì sulla veranda, dove rimase appoggiata a un pilastro. «Ma non è rassicurante, signorina Trotwood e David,» proseguì la signora Markleham seguendola automaticamente con gli occhi, «trovare un uomo dell'età del dottor Strong con la forza d'animo di fare una cosa del genere? Questo dimostra solo quanto avessi ragione. Io dissi ad Annie, quando il dottor Strong mi fece una visita lusinghiera e ne fece occasione di una dichiarazione e di un'offerta, dissi: ‹Mia cara, a parer mio non c'è dubbio, quanto a una conveniente sistemazione per te, che il dottor Strong farà più di quello che si è impegnato di fare.›» In quel momento squillò il campanello e udimmo il suono dei passi dei visitatori che se ne andavano. «Certamente tutto è finito,» disse il Vecchio Soldato dopo aver teso l'orecchio; «quel caro uomo ha firmato, sigillato e consegnato, e la sua mente è in pace. Così sia! Che mente! Annie, amor mio, io vado nello studio con il mio giornale, perché, se non ho notizie, mi sento perduta. Signorina Trotwood, David, prego, venite dal dottore.» Mentre la seguivamo nello studio, mi accorsi che il signor Dick era nell'ombra della stanza intento a chiudere il suo coltello, e che la zia, lungo il tragitto, si strofinava violentemente il naso come blando sfogo alla sua intolleranza per la nostra militaresca amica; ma chi entrò per primo nello studio, o come la signora Markleham andò subito a sedersi sulla sua poltrona, o come avvenne che la zia e io restassimo insieme presso la porta (a meno che gli occhi di lei siano stati più pronti dei miei ed ella mi abbia tenuto indietro), l'ho dimenticato seppur l'ho mai saputo. Ma so questo: che vedemmo il dottore prima che lui ci vedesse, seduto al suo tavolo, tra i volumi in-folio che gli erano cari, con la testa pacatamente posata sulla mano. Che nello stesso momento vedemmo la signora Strong scivolar dentro, pallida e tremante. Che il signor Dick la sosteneva con una mano. Che posò l'altra mano sul braccio del dottore facendogli alzare lo sguardo con aria assorta. Che, mentre il dottore muoveva la testa, sua moglie cadde in ginocchio ai suoi piedi e, alzando le mani imploranti, fissò sul suo volto quel memorabile sguardo che non ho mai dimenticato. Che a quella vista la signora Markleham fece cadere il giornale e sbarrò gli occhi, in tutto simile, fuor di ogni altro paragone, alla polena di una nave il cui nome fosse Lo Sbigottimento. La meravigliata gentilezza del dottore, la dignità che si univa all'atteggiamento supplicante di sua moglie, la delicata attenzione del signor Dick, e il fervore con cui mia zia mormorò fra sé: «Quell'uomo un pazzo!» (trionfalmente espressivo della miseria da cui lo aveva salvato), tutto ciò lo vedo e lo ascolto, più che non lo ricordi, mentre scrivo queste righe. «Dottore!» disse il signor Dick. «Che cosa c'è che non torna? Guardate qui.» «Annie!» esclamò il dottore. «Non ai miei piedi, cara!» «Sì!» rispose lei. «Chiedo e prego che nessuno lasci questa stanza! Oh, mio marito e padre, spezza questo lungo silenzio. Cerchiamo di capire che cosa si è messo fra noi!» La signora Markleham, che frattanto aveva ripreso la facoltà di parlare e sembrava gonfiarsi tutta di orgoglio familiare e di materno sdegno, esclamò a questo punto: «Annie, alzati immediatamente e non disonorare nessuno dei tuoi umiliandoti così, se non vuoi che vada senz'altro fuori di me!» «Mamma,» rispose Annie, «non sprecare parole con me, perché mi rivolgo a mio marito, e qui nemmeno tu conti nulla.» «Nulla!» esclamò la signora Markleham. «Io nulla? Questa ragazza ha perso la ragione. Per favore datemi un bicchier d'acqua.» Io ero troppo attento al dottore e a sua moglie per prestarle una qualsiasi attenzione, e nessun altro badò alla sua richiesta; così la signora Markleham ansimò, sbarrò gli occhi e si sventolò col ventaglio. «Annie,» disse il dottore tenendola teneramente fra le mani, «mia cara! Se un inevitabile mutamento è avvenuto col tempo, nella nostra vita coniugale, non sei tu da biasimare. La colpa è mia e soltanto mia. Nulla è cambiato nel mio affetto, nella mia ammirazione e nel mio rispetto. Desidero solo farti felice. Ti amo e ti onoro sinceramente. Alzati, Annie, ti prego!» Ma lei non si alzò. Dopo averlo guardato per un momento, si abbandonò ancor più vicina a lui, posò un braccio sul suo ginocchio e, lasciandovi cadere la testa, disse: «Se ho qui un amico che possa dire una parola per me o per mio marito in questa vicenda; se ho qui un amico che possa dar voce ai sospetti che il mio cuore mi ha talora sussurrato; se ho qui un amico che onori mio marito o abbia mai avuto simpatia per me, e sappia qualche cosa, quale che sia, tale da aiutarci a comprenderci, supplico questo amico di parlare!» Vi fu un profondo silenzio. Dopo qualche istante di penosa esitazione, lo ruppi. «Signora Strong,» dissi, «c'è qualche cosa che so, che il dottor Strong mi ha rigorosamente pregato di tener segreta e che ho tenuto segreta fino a stasera. Ma credo sia venuto il momento in cui sarebbero fedeltà e delicatezza male intese celarla ancora, e in cui la vostra preghiera mi libera da ogni ingiunzione.» Volse per un attimo il viso verso di me, e mi accorsi di avere ragione. Non avrei potuto cedere alla sua supplica se la sicurezza che essa mi dava fosse stata meno convincente. «La nostra pace futura,» disse, «è forse nelle vostre mani. La affido fiduciosa alla vostra franchezza. So già che nulla di quanto voi o chiunque altro potrete dire riuscirà a mostrare in una luce diversa il nobile cuore di mio marito. Comunque vi possa sembrare di colpirmi, non badateci. Io parlerò per me stessa dinanzi a lui e poi dinanzi a Dio.» Implorato con tanto fervore, non mi rivolsi al dottore per chiedergli il permesso, ma, senz'altro compromesso con la verità se non mitigando un poco la brutalità di Uriah Heep, riferii semplicemente quello che era avvenuto quella notte in quella stessa stanza. Lo sgranar d'occhi della signora Markleham durante tutta la narrazione, le inopportune e acute interiezioni con cui la interruppe ogni tanto, sfidano ogni descrizione. Quando ebbi finito, Annie rimase per qualche momento silenziosa, con la testa china come ho descritto. Poi, prese la mano del dottore (che stava seduto nella stessa attitudine di quando eravamo entrati nella stanza), se la premette sul cuore e la baciò. Il signor Dick la fece dolcemente alzare; ed ella, quando cominciò a parlare, rimase in piedi appoggiandosi a lui e chinando lo sguardo verso il marito, dal quale non volse mai gli occhi. «Ti metterò davanti senza veli,» disse con una tenera voce, bassa e sottomessa, «tutto ciò che mi è passato per la mente da quando ci siamo sposati. Sapendo quello che ho saputo adesso, non potrei vivere con qualche segreto in cuore.» «No, Annie,» disse il dottore dolcemente, «io non ho mai dubitato di te, bambina mia. Non ce n'è bisogno, non ce n'è davvero bisogno, cara.» «C'è assoluto bisogno,» rispose lei con lo stesso tono, «che apra interamente il mio cuore davanti a quello spirito di generosità e di franchezza che anno per anno, giorno per giorno ho amato e venerato sempre più, come il cielo sa!» «Davvero,» la interruppe la signora Markleham, «se mi è rimasto un po' di buon senso...» («Ma non ti è rimasto, seccatrice,» notò la zia con un brontolìo sdegnato.) «...mi sia permesso osservare che non è indispensabile entrare in questi particolari.» «Nessuno se non mio marito può giudicare di questo, mamma,» disse Annie senza muovere gli occhi dal volto di lui, «e mi ascolterà. Se dirò qualche cosa che potrà affliggerti, mamma, perdonami. Ho già sofferto, e per tanto tempo, io stessa.» «Parola mia!» ansimò la signora Markleham. «Quando ero molto giovane,» riprese Annie, «solo una bambina, ogni mio apprendimento, di qualsiasi genere, era inseparabilmente collegato a un paziente amico e insegnante - l'amico del mio povero padre - che mi fu sempre caro. Non posso ricordare nulla di ciò che so senza ricordare lui. Egli arricchì la mia mente dei primi tesori e impresse su ognuno di essi il suo carattere. Credo che non sarebbero mai stati così importanti per me se li avessi ricevuti da altre mani.» «Sua madre non è più nulla!» esclamò la signora Markleham. «Non è questo, mamma,» rispose Annie, «ma riconosco quello che egli è stato per me. Devo farlo. Via via che crebbi, egli occupò sempre lo stesso posto. Ero orgogliosa del suo interessamento: mi sentivo legata a lui profondamente, appassionatamente, con riconoscenza. Mi è difficile dire come lo considerassi... come un padre, come una guida, come uno la cui lode era per me diversa dalla lode di qualsiasi altro, come uno in cui avrei potuto avere fiducia e confidenza anche se avessi dubitato del mondo intero. Tu sai, mamma, quanto fossi giovane e inesperta quando tu me lo presentasti, improvvisamente, come un uomo che mi amava.» «Ho ricordato questo fatto almeno cinquanta volte a tutti quelli che sono qui!» disse la signora Markleham. («Sta' zitta, dunque, per amor del cielo, e non ricordarlo più!» brontolò la zia.) «Fu un così grande cambiamento, e, dapprima, mi apparve una così grande perdita,» continuò Annie sempre con lo stesso sguardo e lo stesso tono, «che ne fui agitata e angustiata. Ero solo una ragazzina; e quando l'aspetto sotto il quale lo avevo così a lungo considerato mutò, credo che ne fui addolorata. Ma nulla avrebbe potuto renderlo nuovamente quello che era stato un tempo; fui fiera che egli mi considerasse degna di sé, e ci sposammo.» «A Saint Alphage in Canterbury,» notò la signora Markleham. («Al diavolo quella donna!» disse la zia, «non starà mai zitta!») «Non ho mai pensato,» proseguì Annie arrossendo, «a un qualsiasi vantaggio materiale che potesse provenirmi da mio marito. Il mio giovane cuore, nella sua dedizione, non aveva posto per così povere considerazioni. Mamma, perdonami se dico che sei stata tu a mettermi per prima in mente l'idea che qualcuno potesse farmi torto, e fargli torto, con un sospetto così crudele.» «Io?» gridò la signora Markleham. («Ah! Tu certo,» commentò la zia, «e non potrai sventagliartelo via, mia militaresca amica!») «Fu il primo dolore della mia nuova vita,» disse Annie. «Fu la prima occasione di tutti i momenti penosi che ho conosciuto poi. Questi momenti, negli ultimi tempi, sono stati così numerosi da non poterli contare; ma non, mio generoso marito, non per la ragione che tu supponi; perché nel mio cuore non c'è un pensiero, un ricordo o una speranza che alcuna forza possa separare da te!» Alzò gli occhi, gli afferrò le mani, e apparve così bella e sincera da sembrarmi un puro spirito. Da questo momento il dottore la guardò fisso come ella fissava lui. «Non si può accusare la mamma,» proseguì, «di aver fatto pressioni su di te per egoismo, e sono sicura che non la si può accusare per qualsiasi intenzione... ma quando vidi quante richieste importune ti venivano fatte in nome mio; quanto, in nome mio, si abusava di te; quanto tu eri generoso, e quanto il signor Wickfield, che aveva molto a cuore il tuo benessere, ne risentiva, la prima impressione di essere esposta al sospetto che la mia tenerezza fosse comprata - e venduta proprio a te fra tutti - cadde su di me come una sventura non meritata alla quale ti costringevo a partecipare. Non posso dire che cosa fosse - la mamma non può immaginarlo - avere sempre in mente questa paura e questo assillo, pur sapendo in cuor mio che nel giorno delle mie nozze avevo coronato l'amore e la devozione di tutta la mia vita!» «Ecco la gratitudine che ci guadagniamo,» esclamò la signora Markleham in lacrime, «per avere avuto cura della nostra famiglia! Vorrei essere turca!» («Vorrei di tutto cuore che lo fossi... e che fossi nel tuo paese nativo!» commentò la zia.) «In quel tempo la mamma si mostrò particolarmente sollecita per mio cugino Maldon. Io gli avevo voluto bene,» parlava con voce sommessa, ma senza esitazione, «molto bene. Un tempo eravamo stati piccoli innamorati. Se le circostanze non si fossero volte altrimenti, avrei potuto convincermi di amarlo realmente, avrei potuto sposarlo ed essere quanto mai infelice. Non vi è maggior disparità nel matrimonio della differenza di mente e di propositi.» Meditai su queste parole pur seguendo attentamente quello che seguì, come se avessero un particolare interesse o una qualche strana applicazione che non riuscivo a indovinare. «Non vi è maggior disparità nel matrimonio della differenza di mente e di propositi»... «non maggior disparità nel matrimonio della differenza di mente e di propositi.» «Non abbiamo nulla in comune,» continuò Annie. «So da molto tempo che non vi è nulla. Se non fossi grata a mio marito per altro, invece che per tante cose, gli sarei grata per avermi salvata dall'errore del primo impulso del mio cuore indisciplinato.» Era immobile davanti al dottore e parlava con un fervore che mi dava i brividi. Tuttavia la sua voce era calma come prima. «Nel vedere che non cercava altro che di essere l'oggetto della tua munificenza, così liberamente accordata per amor mio, nel sentirmi infelice per il carattere mercenario che ero costretta ad assumere, pensavo che sarebbe stato molto meglio se si fosse fatto strada da solo. Pensavo che se fossi stata in lui, avrei tentato di farlo a costo di ogni privazione. Ma non formulai su di lui giudizi peggiori fino alla notte in cui partì per l'India. Quella notte seppi che aveva un cuore falso e ingrato. E vidi allora un secondo significato nel modo in cui il signor Wickfield mi scrutava. Per la prima volta compresi il cupo sospetto che doveva adombrare la mia vita.» «Sospetto, Annie!» esclamò il dottore. «No, no, no!» «Nella tua mente non ve n'era, lo so, marito mio,» rispose. «E quando venni a te quella notte per deporre tutto il mio peso di vergogna e di pena, e mi resi conto di doverti dire come, sotto il tuo tetto, uno dei miei, di cui eri stato il benefattore per amor mio, mi aveva detto parole che non avrebbero dovuto essere pronunciate nemmeno se fossi stata quell'essere debole e mercenario che egli mi considerava... il mio animo si ribellò alla vergogna che quel racconto stesso portava con sé. Mi morì sulle labbra e, da allora fino a questo momento, non ne è più uscito.» La signora Markleham, con un breve lamento, si addossò alla poltrona e si nascose dietro il ventaglio come se non dovesse più venirne fuori. «Da allora non ho mai scambiato una parola con lui se non in tua presenza, e solo quando è stato necessario per evitare questa spiegazione. Sono passati anni da quando egli ha saputo da me quale fosse la sua posizione in questa casa. Le bontà che hai segretamente avuto per il suo avanzamento e che poi mi hai rivelato per sorprendermi e rallegrarmi, sono state, puoi crederlo, solo un aggravio per la pena e il peso del mio segreto.» Cadde dolcemente ai piedi del dottore sebbene egli facesse di tutto per impedirglielo; e, alzando gli occhi pieni di lacrime verso il suo volto, proseguì: «Non parlarmi ancora! Lascia che dica ancora qualche cosa! A ragione o a torto, se dovessi rifarlo credo che lo rifarei. Non potrai mai sapere che cosa fosse per me esserti devota col peso di questi vecchi ricordi; sapere che chiunque avrebbe potuto essere tanto crudele da supporre che la sincerità del mio cuore fosse stata venduta e sentirmi circondata da apparenze che confermavano questo giudizio. Ero molto giovane e non avevo alcuno per consigliarmi. Tra la mamma e me, in tutto ciò che ti si riferiva, c'era un abisso. Se mi sono chiusa in me, nascondendo l'offesa che avevo subito, fu perché ti onoravo tanto e altrettanto desideravo che tu mi onorassi!» «Annie, cuore puro!» esclamò il dottore, «mia cara fanciulla!» «Ancora una cosa! poche parole ancora! Pensavo sempre che avresti potuto sposare tante altre che non ti avrebbero portato tanti pesi e tanti crucci e che avrebbero fatto della tua casa una casa più degna. Temevo sempre che sarebbe stato meglio per me rimanere tua scolara e quasi tua figlia. Temevo di essere inadeguata alla tua dottrina e alla tua saggezza. Se tutto questo mi costrinse a chiudermi in me (come infatti feci) nel momento in cui avrei dovuto parlarti, fu sempre perché ti onoravo tanto e speravo che tu potessi onorarmi un giorno.» «Quel giorno è brillato per tutto questo lungo tempo, Annie,» disse il dottore, «e terminerà solo in una lunga notte, mia cara.» «Ancora una parola! In seguito volevo - volevo fermamente e me ne feci un impegno - portare da sola tutto il peso di conoscere l'indegnità di uno col quale eri stato così buono. E adesso un'ultima parola, tu che sei il migliore e il più caro degli amici! La causa di questo tuo recente cambiamento, che ho visto con tanta pena e tristezza e ho talora riferito alle mie antiche apprensioni, e altre volte a vaghe supposizioni più vicine alla verità, mi è stata chiarita stasera; e per caso sono venuta a conoscere, stasera, la piena misura di quella nobile fiducia che hai avuto in me anche in questo malinteso. Non spero che tutto l'amore e tutta la devozione con cui potrò ricambiarti mi renderanno mai degna di questa tua fiducia preziosa; ma, con tutto ciò che ho saputo or ora, posso alzare gli occhi sul tuo caro volto, venerato come quello di un padre, amato come quello di un marito, sacro alla mia infanzia come quello di un amico, e dichiarare solennemente che non ti ho mai fatto torto nel minimo dei miei pensieri, che non ho mai oscillato nell'amore e nella fedeltà che ti devo.» Aveva le braccia al collo del dottore, ed egli chinava la testa verso di lei mischiando i grigi capelli alle sue scure trecce brune. «Oh, stringimi al cuore, marito mio! Non respingermi più! Non parlare o pensare di disparità fra noi perché non ve n'è alcuna, eccetto nei miei molti difetti. Anno per anno me ne son convinta sempre di più, e sempre, sempre di più ti ho stimato. Oh, stringimi al cuore, marito mio, perché il mio amore era fondato sulla roccia e perdura.» Nel silenzio che seguì, la zia si avvicinò gravemente al signor Dick, senza alcuna fretta, lo abbracciò e gli diede un bacio sonoro. E fu una fortuna, per la reputazione di lui, che lo facesse; perché mi sembra di averlo scorto, proprio in quel momento, nell'atto di prepararsi a stare in equilibrio su di una gamba sola come appropriata espressione di gioia. «Siete un uomo molto notevole, Dick!» disse la zia con aria di categorica ammirazione; «e non insistete a dire di non esserlo perché io lo so perfettamente!» Così dicendo la zia lo tirò per la manica e mi fece un cenno; tutti e tre scivolammo silenziosamente fuori della stanza e ce ne andammo. «A ogni buon conto, la nostra militaresca amica è stata messa a posto,» disse la zia al ritorno. «Se anche non avessimo altro per rallegrarci, ci dormirei più di gusto.» «Temo proprio che sia disfatta,» commentò il signor Dick con grande commiserazione. «Che? Avete mai visto un coccodrillo disfatto?» chiese la zia. «Non credo di aver mai visto un coccodrillo,» rispose mitemente il signor Dick. «Dunque non sarebbe successo nulla se non fosse stato per quel vecchio animale,» disse la zia con grande enfasi. «Ci sarebbe proprio da desiderare che certe madri lasciassero tranquille le figlie dopo il matrimonio invece di imporre loro un affetto così violento. Sembrano convinte che il solo contraccambio che possa essere reso loro per aver messo al mondo una disgraziata ragazza - la quale, Dio mi benedica, non aveva mai chiesto di esserci portata né aveva sentito il bisogno di venirci - consista nella piena libertà di tormentarla fino a farla andar via nuovamente di lì. Che ne pensi, Trot?» Io stavo pensando a tutto quello che era stato detto. La mia mente andava ancora correndo lungo alcune delle espressioni pronunciate. «Non vi è maggior disparità nel matrimonio della differenza di mente e di propositi.» «L'errore del primo impulso del mio cuore indisciplinato.» «Il mio amore era fondato sulla roccia.» Ma eravamo giunti a casa; e le foglie calpestate giacevano sotto i nostri piedi, e il vento d'autunno soffiava. XLVI • NOTIZIE Dovevo essere sposato, se posso fidarmi della mia incerta memoria in fatto di date, da circa un anno, quando una sera, mentre tornavo da una passeggiata solitaria pensando al libro che stavo allora scrivendo - perché il mio successo era costantemente aumentato con la mia costante applicazione, ed ero impegnato allora nel mio primo romanzo - passai accanto alla casa della signora Steerforth. V'ero già passato spesso durante la mia residenza nelle vicinanze, sebbene non mai quando potevo scegliere un'altra strada. Comunque era capitato spesso che non fosse agevole sceglierne un'altra senza dover fare un lungo giro, e così ero passato di lì, nell'insieme, parecchie volte. Non avevo fatto altro che dare un'occhiata alla casa nel costeggiarla a passo svelto. Era sempre stata tetra e triste. Nessuna delle stanze migliori si affacciava sulla strada, e le strette finestre di vecchia foggia, dalle pesanti intelaiature, non mai allegre, apparivano molto tetre, sempre chiuse e con le persiane abbassate. V'era un passaggio coperto, che attraversava un piccolo cortile pavimentato, e un ingresso che non veniva mai usato; e v'era una finestra rotonda, da scala, in disarmonia con tutto il resto, l'unica senza persiane, che aveva la stessa aria vuota e deserta. Non ricordo di aver visto una luce in tutta la casa. Se fossi stato un passante casuale, avrei probabilmente supposto che giacesse là qualcuno morto senza discendenza. Se non avessi avuto, fortunatamente, alcuna conoscenza del luogo e lo avessi visto più volte in quello stato immutabile, credo che avrei abbandonato la mia fantasia a molte congetture ingegnose. Così come stavano le cose, ci pensavo il meno che potessi. Ma la mia mente non poteva passarci accanto e trascurarla come faceva il mio corpo; quella casa risvegliava di norma in me una lunga serie di meditazioni. E in quella particolare sera di cui parlo esse passarono dinanzi a me frammiste con ricordi infantili e fantasie di poi, con fantasmi di speranze ancora informi, con ombre spezzate di delusioni vagamente viste e capite, con una confusione di esperienza e di immaginazione, casualmente collegati con l'andamento attuale dei miei pensieri e insolitamente suggestivi. Ero tutto assorto mentre proseguivo, quando una voce al mio fianco mi fece sussultare. Era una voce di donna. Non tardai a ricordare la piccola cameriera della signora Steerforth, che un tempo portava nastri azzurri sulla cuffia. Adesso non li aveva più, per conformarsi, penso, al nuovo stato della casa, e mostrava solo uno o due sconsolati fiocchetti sobriamente bruni. «Vi prego, signore, vorreste avere la bontà di entrare per parlare con la signorina Dartle?» «La signorina Dartle vi ha mandato a chiamarmi?» chiesi. «Non questa sera, signore, ma è lo stesso. La signorina Dartle vi ha visto passare una o due sere fa; e mi ha ordinato di sedermi sulla scala e, quando vi avessi visto passare nuovamente, pregarvi di entrare per parlarle.» Tornai indietro e, via facendo, chiesi alla mia guida come stava la signora Steerforth. Mi disse che la sua padrona non stava molto bene e rimaneva quasi sempre in camera sua. Quando arrivammo alla casa, mi diresse alla signorina Dartle, in giardino, lasciando che mi presentassi da solo. Era seduta su di una panchina all'estremo di una specie di terrazza che dava sulla grande città. Era una sera buia, con una luce sinistra nel cielo; e nel vedere il panorama, accigliato nella lontananza, con qualche oggetto più grande qua e là che spuntava nel livido bagliore, pensai che non era una cornice inadatta al ricordo che avevo di quella fiera donna. Mi vide mentre mi avvicinavo e si alzò un momento per ricevermi. Mi parve ancor più pallida e sottile di quando l'avevo vista l'ultima volta. Gli occhi ardenti brillavano ancor più, e la cicatrice era ancora più netta. Il nostro incontro non fu cordiale. Ci eravamo lasciati irritati nell'ultima occasione, e v'era in lei un'aria sprezzante che non si curò di dissimulare. «Mi hanno detto che desiderate parlarmi, signorina Dartle,» dissi fermandomi presso di lei con la mano sullo schienale della panchina e senza rispondere al gesto con cui mi invitava a sedermi. «Se me lo permettete,» rispose. «Vi prego, è stata trovata quella ragazza?» «No.» «E tuttavia è fuggita!» Vidi contrarsi le sue labbra sottili mentre mi guardava, come se fossero impazienti di caricare di rimproveri la fuggitiva. «Fuggita?» ripetei. «Sì! Da lui,» confermò ridendo. «Se non l'hanno trovata, forse non la troveranno più. Può essere morta.» La trionfante crudeltà con cui rispose al mio sguardo non la vidi mai espressa in alcun altro volto. «Augurarle la morte,» dissi, «è forse l'augurio più benigno che una del suo sesso possa rivolgerle. Sono lieto che il tempo vi abbia resa così mite, signorina Dartle.» Non si degnò di rispondermi, ma, volgendosi a me con un'altra risata di scherno, disse: «Gli amici di questa eccellente e maltrattata signorina sono amici vostri. Voi siete il loro difensore e sostenete i loro diritti. Desiderate sapere quello che si sa di lei?» «Sì,» dissi. Si alzò con un sorriso maligno e, facendo qualche passo verso una parete di agrifoglio lì vicina, che divideva il prato dall'orto, ordinò a voce alta: «Venite qua!» come se chiamasse un qualche animale immondo. «Naturalmente, in questo luogo, vi tratterrete dall'atteggiarvi a difensore in modo caloroso o vendicativo, signor Copperfield,» mi disse guardandomi al di sopra della spalla con la stessa espressione. Inchinai la testa senza capire che cosa intendesse; e lei ripeté: «Venite qua!» Poi tornò seguita dal rispettabile signor Littimer, che, con non diminuita rispettabilità, mi fece un inchino e si pose dietro di lei. La grazia perfida e trionfale, in cui, strano a dirsi, v'era qualche cosa di femminile e di attraente, e con la quale si inchinò sulla panchina fra di noi e mi guardò, era degna di una principessa crudele da leggenda. «Adesso,» disse imperiosamente senza guardarlo e toccandosi la vecchia cicatrice che palpitava forse, in questo caso, più per il piacere che per la pena, «parlate della fuga al signor Copperfield.» «Il signor James e io, signorina...» «Non rivolgetevi a me!» lo interruppe aggrottando le sopracciglia. «Il signor James e io, signore...» «Nemmeno a me, vi prego,» dissi. Il signor Littimer, senza minimamente scomporsi, fece capire, con un leggero inchino, che tutto ciò che piaceva a noi piaceva anche a lui, e riprese. «Il signor James e io siamo stati all'estero con la giovane fin da quando ella lasciò Yarmouth sotto la protezione del signor James. Siamo stati in molti posti e abbiamo visto molti paesi stranieri. Siamo stati in Francia, in Svizzera, in Italia, insomma, quasi dappertutto.» Guardava lo schienale della panchina come se si rivolgesse a quello, e vi batteva leggermente con le dita come se colpisse le corde di un pianoforte muto. «Il signor James si affezionò insolitamente alla giovane; e per molto tempo fu più tranquillo di quanto lo avessi mai visto da quando ero al suo servizio. La giovane era capace di fare molti progressi e imparò le lingue; non si sarebbe più riconosciuta per la campagnola che era. Mi accorsi che, dovunque si andasse, era molto ammirata.» La signorina Dartle si mise una mano sul fianco. Lo vidi lanciarle un'occhiata e sorridere appena fra sé. «In realtà era molto ammirata, quella giovane. Sia per l'abbigliamento, sia per l'aria e il sole, sia per essere stata così bene educata, sia per una ragione o per l'altra, il fatto è che le sue doti richiamavano l'attenzione generale.» Fece una breve pausa. Gli occhi della signorina vagavano senza riposo lungo il panorama lontano, ed ella si morse il labbro inferiore per fermare quella sua bocca inquieta. Togliendo le mani dalla panchina, raccogliendole una nell'altra e appoggiandosi su di una gamba, il signor Littimer proseguì con gli occhi bassi e la rispettabile testa un po' tesa in avanti e un po' piegata di fianco. «La giovane continuò così per qualche tempo, mostrandosi ogni tanto depressa, finché credo che cominciò a stancare il signor James a forza di abbandonarsi a scoramenti e malumori di questo genere; e non fu cosa allegra. Il signor James tornò a mostrarsi irrequieto. E, più lui diveniva irrequieto, più lei diveniva peggiore; e devo dire, per parte mia, che fu per me un periodo particolarmente difficile, fra loro due. Tuttavia le cose ora si rappezzavano, ora si rimettevano a posto e così si tirava avanti senza sosta; nel complesso sono sicuro che durarono più di quanto nessuno si sarebbe mai aspettato.» La signorina Dartle distolse gli occhi dalla lontananza e tornò a guardarmi con la stessa aria di prima. Il signor Littimer, schiaritasi la gola con un rispettabile colpetto di tosse dietro la mano, cambiò gamba e proseguì: «Alla fine, dopo, tutto sommato, una gran quantità di parole e di rimproveri, il signor James partì un mattino dalle vicinanze di Napoli dove abitavamo in una villa (la giovane era appassionata del mare) e, fingendo che sarebbe tornato fra un giorno o due, mi lasciò l'incarico di spiegarle che, per la felicità di tutti, egli se n'era...» qui un'interruzione e un colpetto di tosse, «...andato per sempre. Ma il signor James, devo dire, si comportò molto onorevolmente, perché propose che la giovane sposasse una persona rispettabilissima che era pronta a dimenticare il passato e che andava bene per lo meno quanto qualsiasi altra a cui la giovane potesse aspirare per un'unione regolare, data la sua molto bassa estrazione.» Cambiò nuovamente gamba e si inumidì le labbra. Ero sicuro che quel furfante parlava di se stesso, e vidi la mia convinzione riflessa nel volto della signorina Dartle. «Ebbi l'incarico di comunicare anche questo. Ero pronto a far qualunque cosa per togliere il signor James dalle sue difficoltà e riportare l'armonia fra lui e un'affettuosa genitrice che aveva sofferto tanto per questo. Quindi presi su di me la commissione. La violenza a cui giunse la giovane, dopo che le ebbi rivelato la sua partenza, andò oltre ogni aspettativa. Sembrava del tutto impazzita e dovetti trattenerla con la forza; altrimenti, se anche non fosse riuscita a procurarsi un coltello o a raggiungere il mare, si sarebbe spezzata la testa contro il pavimento di marmo.» La signorina Dartle, addossandosi alla panchina con una luce di esultanza in faccia, parve quasi accarezzare le parole da lui pronunciate. «Ma, quando passai alla seconda parte del mio incarico,» continuò il signor Littimer strofinandosi le mani con un certo disagio, «che chiunque avrebbe considerato apprezzabile, se non altro, come generosa intenzione, allora la giovane dimostrò il suo vero carattere. Non ho mai visto un essere più violento. La sua condotta fu ostile in modo sorprendente. Non apparvero in lei maggior gratitudine, maggior sentimento, maggior pazienza, maggior buon senso che in un legno o in un sasso. Se non fossi stato in guardia, sono sicuro che avrebbe voluto il mio sangue.» «La stimo tanto più per questo,» dissi sdegnato. Il signor Littimer chinò la testa come per dire: «Davvero signore? Ma voi siete giovane!» e riprese la narrazione. «Insomma, per qualche tempo fu necessario portarle via tutto ciò con cui potesse far danno a se stessa o agli altri e tenerla chiusa. Tuttavia riuscì a fuggire di notte; forzò l'intelaiatura di una finestra che avevo inchiodato io stesso; si lasciò scivolare lungo un rampicante che cresceva lì sotto, e da allora, per quanto sappia, non fu più vista né si udì parlare di lei.» «Forse è morta,» disse la signorina Dartle con un sorriso, come se avesse potuto calpestare il corpo della fanciulla perduta. «Potrebbe essersi annegata, signorina,» rispose il signor Littimer cogliendo l'occasione per rivolgersi a qualcuno. «È possibilissimo. O può essere stata aiutata dai barcaioli o dalle mogli dei barcaioli e dai loro figli. Portata com'era alle basse compagnie, soleva sempre parlare con loro sulla spiaggia, signorina Dartle, e starsene seduta sulle loro barche. L'ho vista farlo per giornate intere, quando il signor James era via. Una volta il signor James fu tutt'altro che soddisfatto nel sapere che aveva detto ai ragazzi di essere figlia di un uomo di mare e che, tanto tempo fa, al suo paese, aveva vagabondato per la spiaggia al pari di loro.» Oh, Emily! Disgraziata bellezza! Come mi sorse dinanzi il quadro di lei seduta in quella spiaggia lontana tra ragazzi simili a lei quando era innocente, ad ascoltare quelle loro vocette che avrebbero potuto chiamarla mamma se fosse stata la moglie di un povero; e la gran voce del mare con il suo eterno «mai più!» «Quando fu palese che non si poteva far nulla, signorina Dartle...» «Vi ho detto di non rivolgervi a me!» gridò lei con cupo disprezzo. «Voi mi avevate parlato, signorina,» rispose. «Vi chiedo scusa. Ma il mio dovere è di obbedire.» «Fate il vostro dovere,» ribatté lei. «Finite la vostra storia e andatevene!» «Quando fu palese,» proseguì con infinita rispettabilità e con un inchino ossequioso, «che non si poteva trovare, andai dal signor James, nel luogo in cui c'eravamo accordati che gli avrei scritto, e lo informai di tutto quello che era avvenuto. Di conseguenza ci fu tra noi uno scambio di parole, e io sentii verso me stesso il dovere di lasciarlo. Potevo sopportare, e ho sopportato, molte cose dal signor James; ma mi insultò troppo a fondo. Mi ferì. Conoscendo la disgraziata divergenza fra lui e sua madre, e in quale ansia ella probabilmente fosse, mi sono preso la libertà di tornare in Inghilterra e riferire...» «Per del denaro che gli ho versato,» disse la signorina Dartle rivolgendosi a me. «Proprio così, signorina... e riferire quello che sapevo. Non mi pare,» concluse il signor Littimer dopo un momento di riflessione, «che ci sia altro. Attualmente sono senza impiego e sarei felice di trovare un posto rispettabile.» La signorina Dartle mi lanciò un'occhiata come per chiedermi se ci fosse qualche cosa che desiderassi sapere. E, poiché me ne era venuta in mente una, dissi in risposta: «Desidererei sapere da questo... individuo,» non riuscii a pronunciare una parola più benevola, «se fu intercettata una lettera che le fu scritta da casa, o se suppone che ella l'abbia ricevuta.» Rimase calmo e silenzioso, con gli occhi fissi a terra e l'estremità di ogni dito della destra delicatamente appoggiata all'estremità di ogni dito della sinistra. La signorina Dartle volse sdegnosamente la testa verso di lui. «Vi chiedo scusa, signorina,» disse lui svegliandosi dalla sua astrazione, «ma, per quanto sottomesso a voi, ho una dignità, sebbene sia un servitore. Il signor Copperfield e voi, signorina, siete persone diverse. Se il signor Copperfield desidera sapere qualche cosa da me, mi prendo la libertà di ricordare al signor Copperfield che può rivolgermi la domanda. Ho una dignità da difendere.» Dopo aver lottato per qualche istante con me stesso, volsi gli occhi verso di lui dicendo: «Avete udito la mia domanda. Consideratela rivolta a voi, se vi fa piacere. Che cosa mi rispondete?» «Signore,» mi disse, separando e riunendo per un attimo le delicate punte delle sue dita, «la mia risposta deve avere delle riserve; perché una cosa è tradire la fiducia del signor James con sua madre, altra cosa è tradirla con voi. Credo poco probabile che il signor James favorisse l'arrivo di lettere che avrebbero aumentato depressioni e scontenti. Ma oltre a questo, signore, non vorrei spingermi.» «È tutto?» mi domandò la signorina Dartle. Accennai che non avevo altro da dire. «Eccetto,» aggiunsi nel vederlo muoversi per andare, «che io sono convinto che questo individuo abbia avuto una parte in questa indegna vicenda e che, poiché dovrò farlo sapere a quell'onest'uomo che le ha fatto da padre fin dalla sua infanzia, vorrei consigliargli di non farsi vedere troppo in pubblico.» Si era fermato appena avevo cominciato a parlare, ascoltando con la sua solita compostezza di modi. «Grazie signore. Ma vorrete scusarmi, signore, se dico che in questo paese non ci sono né schiavi né padroni di schiavi, e che non è concesso alla gente farsi giustizia con le proprie mani. Se lo fanno, credo che sia più a loro rischio che a quello di altri. Di conseguenza non ho alcuna paura di andare dove meglio creda, signore.» Detto questo fece un rispettoso inchino a me, un altro alla signorina Dartle, e si allontanò passando sotto l'arco della parete di agrifoglio da cui era venuto. La signorina Dartle e io ci guardammo a vicenda, in silenzio, per qualche momento; il suo contegno era esattamente lo stesso di quando aveva fatto venire quell'uomo. «Dice inoltre,» notò contraendo lievemente il labbro, «che il suo padrone, a quanto ha sentito, sta costeggiando la Spagna; dopo di che si allontanerà per appagare le sue passioni marinare finché non sarà stanco. Ma questo non ha per voi alcun interesse. Tra questi due spiriti orgogliosi, madre e figlio, c'è ora un abisso più vasto di prima, e poca speranza che possa essere superato, perché nel cuore sono un essere solo e il tempo rende ognuno di loro più ostinato e imperioso. Neanche questo può interessarvi, ma introduce quello che desidero dirvi. Quel demonio che voi considerate un angelo, voglio dire quella volgare ragazza che egli ha raccolto dal fango della marea,» e spalancava su di me i neri occhi alzando il dito fremente, «può essere viva... perché credo che certi esseri vili siano duri a morire. Se lo è, voi desidererete ritrovare e difendere una perla di tal prezzo. Lo desideriamo anche noi: affinché non vi sia possibilità che egli ne sia ancora la preda. In questo siamo uniti da un comune interesse; e solo per questo io, che vorrei farle tutto il male che un essere così basso sia capace di sopportare, vi ho mandato a chiamare e vi ho fatto ascoltare quello che avete ascoltato.» Vidi, da un mutamento del suo viso, che qualcuno si stava avvicinando dietro di me. Era la signora Steerforth, che mi diede la mano più freddamente di un tempo e con un'ancor maggiore imponenza di modi; ma anche, me ne accorsi - e ne fui commosso - con un incancellabile ricordo del mio antico amore per suo figlio. Era molto cambiata. La sua figura sottile era meno eretta; il suo bel volto, profondamente segnato; e i suoi capelli quasi bianchi. Ma, quando si sedette sulla panchina, era ancora una bellissima dama; e riconobbi in lei quell'occhio brillante e quello sguardo altero che erano stati la luce degli stessi miei sogni ai tempi di scuola. «Il signor Copperfield è stato informato di tutto, Rosa?» «Sì.» «Ha udito direttamente Littimer?» «Sì; e gli ho detto perché lo desideravate.» «Siete una brava ragazza.» Poi, volgendosi a me: «Ho avuto qualche breve corrispondenza col vostro amico di un tempo, signore, ma questo non lo ha riportato al senso del dovere e degli obblighi naturali. Di conseguenza, in tutto questo, non ho altro scopo che quello di cui Rosa vi ha parlato. Se, per le stesse vie per cui si può dare sollievo a quel brav'uomo che avete portato qui (e per il quale sono spiacente... non posso dire di più) mio figlio sarà salvato dal pericolo di cadere ancora nelle reti di un'intrigante, tanto meglio!» Si raddrizzò e rimase seduta con lo sguardo fisso davanti a sé, nella lontananza. «Signora,» dissi rispettosamente, «capisco. Vi assicuro che non vi è pericolo che dia false interpretazioni ai vostri motivi. Ma posso dire, anche a voi, avendo conosciuto fin dall'infanzia questa famiglia offesa, che se supponete che quella fanciulla, così duramente trattata, non abbia subito una delusione crudele e non preferisca morire cento volte piuttosto di ricevere un bicchier d'acqua dalla mano di vostro figlio, cadete in un terribile errore.» «Bene, Rosa, bene!» disse la signora Steerforth poiché l'altra stava per intervenire, «non è il caso. Lasciate andare. Ho sentito dire che vi siete sposato, signore.» Risposi che ero sposato da qualche tempo. «E va tutto bene? Ricevo poche notizie, nella vita appartata che conduco, ma ho saputo che state diventando famoso.» «Ho avuto molta fortuna,» dissi, «e il mio nome ottiene qualche approvazione.» «Non avete più madre?» la sua voce si era mitigata. «No.» «È un peccato,» rispose. «Sarebbe stata orgogliosa di voi. Buona notte!» Presi la mano che ella mi porse con aria dignitosa e rigida, e la sentii calma nella mia come se il suo cuore fosse in pace. Sembrava che il suo orgoglio potesse frenarne le pulsazioni e stendere sul suo volto un velo di calma attraverso il quale guardava dritto davanti a sé nella distanza. Mentre mi allontanavo da loro lungo la terrazza, non potei fare a meno di osservare con quanta fissità entrambe guardavano il panorama, rimanendo lì sedute, e quanto esso si addensava e si chiudeva intorno a loro. Qua e là alcune prime luci si vedevano occhieggiare nella città distante; e nella zona orientale del cielo si librava ancora quella livida luce. Ma, dalla maggior parte della vasta vallata interposta, sorgeva una nebbia simile a un mare, la quale, frammista con l'ombra, dava l'impressione che le acque raccolte le avvolgessero entrambe. Ho ragione di ricordarlo e di ripensarvi con terrore; perché, prima che rivolgessi ancora uno sguardo a quelle due donne, un mare in tempesta si era gonfiato ai loro piedi. Nel riflettere a quanto mi era stato detto, mi parve giusto comunicarlo al signor Peggotty. La sera dopo mi recai a Londra in cerca di lui. Andava sempre vagabondando da un luogo all'altro con l'unico scopo dinanzi a sé di rintracciare la nipote; ma stava più a Londra che altrove. Di recente lo avevo visto molto spesso, nel cuore della notte, andare per le strade e cercare, fra i pochi che indugiavano fuori casa in quelle ore inconsuete, quello che temeva di trovare. Alloggiava sulla piccola drogheria nel mercato di Hungerford, che ho avuto occasione di menzionare più volte, e dal quale era partito la prima volta per la sua spedizione di carità. Là volsi i miei passi. Chiedendo di lui, seppi dagli inquilini della casa che non era ancora uscito e che lo avrei trovato nella sua stanza al piano di sopra. Era seduto a leggere presso la finestra sulla quale teneva alcune piante. La stanza era pulitissima e in ordine. Vidi subito che era sempre pronta ad accoglierla, e che egli non ne usciva mai senza pensare alla possibilità di ricondurla a casa. Non mi aveva sentito bussare alla porta e alzò gli occhi solo quando gli posai la mano sulla spalla. «Signorino Davy! Grazie, signore! Grazie di cuore per questa visita! Sedetevi. Siate il benvenuto, signore!» «Signor Peggotty,» dissi prendendo la sedia, «non aspettatevi molto! Ma ho saputo qualche notizia.» «Di Emily?» Si portò nervosamente la mano alla bocca e impallidì fissando gli occhi nei miei. «Non si hanno indizi di dove sia; ma non è più con lui.» Si sedette guardandomi attentamente, e ascoltò in profondo silenzio tutto quello che avevo da dirgli. Ricordo bene il senso di dignità, addirittura di bellezza, che il suo volto grave e paziente impresse su di me quando, distogliendo a poco a poco i suoi occhi dai miei, rimase seduto con lo sguardo chino, posando la fronte sulla mano. Non fece interruzioni, e rimase perfettamente immobile finché parlai. Sembrava seguire l'immagine di lei per tutta la narrazione e lasciar cadere ogni altra immagine come se non esistesse. Quando ebbi finito, si nascose il volto fra le mani e rimase in silenzio. Guardai fuori della finestra per qualche momento e considerai le piante. «Che cosa ne pensate, signorino Davy?» mi domandò. «Credo che sia viva,» risposi. «Non so. Forse il primo colpo è stato troppo rude e nell'impeto del suo cuore...! Quell'acqua azzurra, come soleva dire. Forse ci ha pensato per tanti anni perché doveva essere la sua tomba.» Disse questo meditabondo, con una voce bassa e atterrita; e andò su e giù per la stanzetta. «E tuttavia,» aggiunse, «signorino Davy, mi sono sempre sentito così sicuro che fosse in vita... ho sempre saputo, da sveglio e in sogno, con tanta certezza che l'avrei ritrovata... ne sono stato sempre così incoraggiato, così sostenuto... che non posso credere di essermi ingannato. No! Emily è viva!» Pose con fermezza la mano sul tavolo e atteggiò il volto bruciato dal sole a un'espressione decisa. «Mia nipote Emily, è viva, signore,» disse con sicurezza. «Non so di dove mi viene questa certezza, o come sia, ma qualche cosa mi dice che è viva!» Sembrava quasi ispirato nel dire così. Attesi qualche momento perché potesse prestarmi un'intera attenzione, e poi cominciai a spiegargli l'idea, venutami la notte precedente, che sarebbe stato saggio seguire. «Mio caro amico,» cominciai. «Grazie, grazie, buon signore,» esclamò stringendomi la mano in entrambe le sue. «Se ella venisse a Londra, come è probabile... perché dove potrebbe meglio perdersi che in questa grande città? e cos'altro potrebbe desiderare se non nascondersi e smarrirsi, qualora non torni a casa?...» «Non tornerà a casa,» mi interruppe scuotendo cupamente la testa. «Se lo avesse lasciato di sua volontà, avrebbe potuto; ma così no, signore.» «Se venisse qui,» continuai, «credo che vi sia qui una persona che saprebbe rintracciarla meglio di ogni altra. Vi ricordate - fatevi forza per ascoltare quello che dico... pensate a quello che è il vostro scopo - vi ricordate di Martha?» «Quella della nostra città?» Non ebbi bisogno di altra risposta che del suo volto. «Lo sapete che è a Londra?» «L'ho vista per le strade,» mi rispose rabbrividendo. «Ma non sapete che Emily, con l'aiuto di Ham, fu caritatevole con lei, molto prima di fuggire di casa. E non sapete che, quando ci incontrammo una notte e parlammo insieme laggiù, in quella stanza sulla strada, lei ascoltava alla porta.» «Signorino Davy!» esclamò stupito. «Quella notte quando nevicava tanto?» «Quella notte. In seguito non l'ho più veduta. Dopo essermi separato da voi tornai per parlarle, ma se n'era andata. Non volli parlarvene allora, e non vorrei adesso; ma è la persona a cui mi riferisco, e con cui dovremmo metterci in comunicazione. Mi capite?» «Fin troppo bene, signore,» rispose. Avevamo abbassato la voce fin quasi a un sussurro, e continuammo a parlare in quel tono. «Dite di averla vista. Credete di poterla trovare? Io potrei sperare di incontrarla solo per caso.» «Credo di sapere dove cercarla, signorino Davy.» «È già buio? Poiché siamo insieme, vogliamo uscire adesso e tentare di trovarla stanotte?» Assentì e si preparò ad accompagnarmi. Senza aver l'aria di osservare quello che stava facendo, vidi con quanta cura riordinasse la stanzetta, preparando una candela e i mezzi per accenderla e aggiustando il letto; infine trasse da un cassetto uno dei vestiti di lei (mi ricordavo di averglielo visto indosso), ben ripiegato con altri indumenti, e un cappellino, che posò su di una sedia. Non fece allusione a questi abiti, e neppure io. Senza dubbio erano rimasti ad aspettarla per più e più notti. «Un tempo, signorino Davy,» disse mentre scendevamo le scale, «consideravo questa ragazza, Martha, quasi come la polvere sotto i piedi della mia Emily. Dio mi perdoni, come tutto è cambiato, adesso.» Mentre c'incamminavamo, un po' per distrarlo con la conversazione e un po' per curiosità, gli chiesi di Ham. Mi disse, quasi con le stesse parole di un tempo, che Ham non era mutato, «tirava avanti la vita senza minimamente curarsene, ma senza mai lamentarsi e benvoluto da tutti». Gli domandai quali credeva che fossero i sentimenti di Ham verso la causa delle loro sventure; se pensava che fosse pericoloso; che cosa supponeva, ad esempio, che Ham avrebbe fatto se si fosse incontrato con Steerforth. «Non lo so, signore,» mi rispose. «Ci ho pensato molte volte, ma non saprei dir nulla di sicuro.» Gli ricordai il mattino, dopo la fuga di lei, quando ci trovammo tutti e tre sulla spiaggia. «Vi ricordate,» dissi, «quell'aria stravolta con cui guardò il mare e parlò della ‹fine di tutto›?» «Sicuro che me lo ricordo,» rispose. «Che cosa credete che volesse dire?» «Signorino Davy,» disse, «mi sono fatto questa domanda un mucchio di volte e non ho mai trovato una risposta. E c'è una cosa strana: che, sebbene sia così mite, mi sentirei a disagio nel ricordarglielo. Non mi ha mai detto una parola che non fosse rispettosa quanto potesse esserlo, e non è probabile che comincerebbe adesso a parlarmi in altro modo; ma là dove si formano questi pensieri, nel suo cervello, non è certo acqua corrente. È troppo profondo, signore, e io non riesco a vederci.» «Avete ragione,» dissi, «e questo mi ha qualche volta preoccupato.» «E anche me, signorino Davy,» rispose. «E anche più, ve lo assicuro, di tutti i suoi sfoghi, sebbene siano due modi per esprimere il suo sconvolgimento. Non so se potrebbe essere violento in qualche occasione, ma spero che quei due restino sempre lontani fra loro.» Eravamo entrati nel centro della città per Temple Bar. Senza più parlare, adesso, e camminandomi a lato, si abbandonò tutto all'unico scopo a cui aveva dedicato la vita e tirò avanti con quella muta concentrazione di tutte le sue attività che lo avrebbe reso solitario in mezzo a una folla. Non eravamo lontani dal Ponte dei Blackfriars, quando volse la testa e mi indicò una figura femminile isolata che passava lungo il lato opposto della strada. Riconobbi subito colei che stavamo cercando. Attraversammo la via e ci stavamo affrettando verso di lei quando mi venne in mente che sarebbe stata forse più disposta a provare un femminile interesse per la fanciulla scomparsa se le avessimo parlato in un luogo più tranquillo, lungi dalla folla, e nel quale fossimo meno osservati. Dissi dunque al mio compagno che non dovevamo ancora rivolgerci a lei, ma era meglio seguirla; e in questo obbedivo anche a un vago desiderio di sapere dove ella fosse diretta. Lui fu d'accordo e la seguimmo a distanza, senza mai perderla di vista ma senza avvicinarci troppo, perché spesso si guardava attorno. Si fermò una volta per ascoltare la musica di una banda; e allora ci fermammo anche noi. Proseguì per un lungo tratto. Era evidente, dal modo in cui teneva il passo, che andava in qualche luogo stabilito; e questo, e il fatto che seguiva strade affollate, e, credo, la strana attrattiva della segretezza e del mistero di andare così dietro a qualcuno, mi tennero fermo nel mio primo proposito. Infine voltò in una via buia e tetra dove si perdevano il rumore e la ressa; io dissi: «Ora possiamo parlarle;» e, affrettando il passo, la seguimmo. XLVII • MARTHA Eravamo adesso in Westminster. Eravamo tornati indietro per seguirla avendola incontrata che veniva verso di noi; e l'abbazia di Westminster era il punto esatto in cui ella aveva lasciato le luci e il frastuono delle vie principali. Camminava così in fretta, dopo essersi liberata delle due correnti di passanti che andavano verso il ponte o ne venivano, che, sia per questo, sia per il vantaggio che aveva su di noi quando era svoltata, arrivammo alla stretta via che costeggia il fiume presso Millbank prima di aver potuto raggiungerla. In quel momento attraversò la strada come per fuggire ai passi che si sentiva così vicini alle spalle, e, senza guardarsi indietro, tirò avanti ancor più veloce. Una rapida visione del fiume attraverso una fosca cancellata dove alcuni carri erano posteggiati per la notte, parve paralizzarmi. Toccai il mio compagno senza parlare, ed entrambi rinunciammo ad attraversare dietro di lei, entrambi la seguimmo sul lato opposto, tenendoci nell'ombra delle case quanto più silenziosamente potessimo, ma molto vicini a lei. V'era allora, e v'è ancora nel momento in cui scrivo, al termine di quella bassa via, una piccola costruzione di legno in rovina, probabilmente la vecchia e non più usata abitazione del custode di un traghetto. Sorge proprio nel punto in cui la strada finisce e ha inizio un passaggio tra una fila di case e il fiume. Appena giunse là e vide l'acqua, ella si fermò come se fosse giunta a destinazione; e poco dopo proseguì lentamente lungo la riva del fiume guardandolo fissa. Per tutta la strada avevo pensato che fosse diretta a qualche casa; avevo anzi vagamente sperato che questa casa potesse essere in qualche modo collegata con la fanciulla smarrita. Ma quel cupo apparire del fiume attraverso la cancellata mi aveva dato l'istintiva certezza che non sarebbe andata oltre. Il luogo, a quell'epoca, era quanto mai tetro; opprimente, triste e solitario, di notte, quanto nessun altro a Londra. Non v'erano né banchine né case sul malinconico e deserto passaggio presso le grandi e nude prigioni. Un lento rigagnolo depositava il suo fango al piede delle mura del carcere. Un rozzo prato ed erbacce rigogliose ricoprivano tutto il terreno acquitrinoso nelle vicinanze. Da un lato imputridivano carcasse di case malauguratamente cominciate e non mai finite. Dall'altro il terreno era ingombro di rugginosi mostri di ferro, caldaie a vapore, ruote, leve, tubi, fornaci, ruote a pale, ancore, campane subacquee, pale di mulini e non so quali altri strani oggetti accumulati da qualche speculatore, immersi nella polvere sotto la quale - essendo affondati nel suolo per il loro peso durante le piogge - sembravano tentare vanamente di nascondersi. Lo strepito e il bagliore di varie fabbriche fiammeggianti lungo la riva si levavano nella notte per turbare ogni cosa eccetto il fumo pesante e compatto che usciva dalle ciminiere. Viscide breccie e passaggi, serpeggianti fra vecchie cataste di legna da cui pendeva qualche cosa di putrido, come una verde capigliatura, insieme ai brandelli dei manifesti dell'anno prima, in cui si offrivano ricompense per cadaveri di annegati e che svolazzavano sopra il livello dell'alta marea, scendevano tra il fango e il liquame fino al limite del riflusso. Si diceva che fosse da quelle parti una delle fosse scavate per i cadaveri al tempo della Grande Peste, e un influsso nefasto sembrava essersi diffuso di là su tutta la zona. Oppure si aveva l'impressione che il luogo si fosse gradualmente decomposto in quell'atmosfera da incubo per il traboccare dell'acqua corrotta. Come se fosse una parte dei rifiuti gettati e abbandonati all'imputridimento e alla distruzione, la ragazza che avevamo seguito scese sul margine del fiume e rimase lì, in mezzo a quello scenario notturno, sola e immobile, guardando l'acqua. C'erano delle barche e delle chiatte tirate a secco sulla mota, e ci permisero di avvicinarci fino a poche iarde senza essere visti. Allora feci segno al signor Peggotty di restare dove era e uscii dalla loro ombra per parlarle. Non senza tremare mi accostai alla sua figura solitaria, perché questa lugubre meta del suo così deciso cammino, e il modo con cui stava lì ferma, quasi sotto la fosca ombra del ponte di ferro, fissando le luci che si riflettevano distorte nella forte corrente, mi facevano paura. Credo che parlasse fra sé. Sono sicuro che, sebbene assorta nella contemplazione dell'acqua, lo scialle le era scivolato dalle spalle ed ella se ne avvolgeva le mani con un'aria perplessa e stordita più simile al gesto di una sonnambula che a quello di una persona sveglia. So, e non dimenticherò mai, che nel suo aspetto stravolto c'era qualcosa tale da darmi la certezza che l'avrei vista sprofondarsi davanti ai miei occhi se non le avessi afferrato il braccio. Nello stesso momento dissi: «Martha!» Lei diede un grido di paura e lottò con me con tal forza che non credo avrei potuto tenerla se fossi stato solo. Ma una mano più valida della mia si posò su di lei; e quando ella alzò gli occhi atterriti e vide chi era, fece solo un ultimo sforzo e cadde fra noi. La portammo lontano dall'acqua, dov'erano alcune pietre asciutte, e lei si abbandonò lì piangendo e gemendo. Poco dopo era seduta sulle pietre stringendosi fra le mani la testa smarrita. «Oh, il fiume!» gridò appassionatamente. «Oh, il fiume!» «Zitta, zitta,» dissi. «Calmatevi.» Ma lei ripeteva le stesse parole, continuando a esclamare «Oh, il fiume!» senza tregua. «Lo so che è come me!» gridò poi. «Lo so che gli appartengo. Lo so che è la naturale compagnia di una come me! Viene dalle campagne, dove un tempo non vi era in lui nulla di male... e adesso striscia per strade lugubri, sporche e miserabili... e se ne va, come la mia vita, verso un grande mare sempre inquieto... e io sento che devo andare con lui!» Non ho mai saputo che cosa fosse la disperazione se non nel tono di quelle parole. «Non posso tenermene lontana. Non posso dimenticarlo. Mi ossessiona notte e giorno. È la sola cosa al mondo per cui sono adatta o che sia adatta a me. Oh, il terribile fiume!» Mi passò per la mente l'idea che sul volto del mio compagno, mentre la guardava immobile e senza parole, avrei potuto leggere la storia di sua nipote anche se non ne avessi saputo nulla. Non ho mai visto, nella realtà o nell'arte, orrore e compassione così intimamente frammisti. Vacillava come se stesse per cadere; e la sua mano - che toccai con la mia perché il suo aspetto mi allarmava - aveva un gelo di morte. «È fuori di sé,» gli sussurrai. «Fra poco parlerà diversamente.» Non so che cosa avrebbe voluto dire in risposta. Fece qualche movimento con le labbra e parve credere di aver parlato; ma si limitò a indicare la donna con la mano tesa. Lei ebbe un'altra crisi di pianto, durante la quale nascose ancora una volta il viso fra le pietre, e si abbandonò davanti a noi, prostrata immagine di umiliazione e di rovina. Sapendo che questo stato doveva passare prima che potessimo parlarle con qualche speranza, mi arrischiai a trattenerlo quando tentò di farla rialzare, e le restammo vicini in silenzio finché non fu più tranquilla. «Martha,» dissi allora chinandomi su di lei e aiutandola ad alzarsi: sembrava volesse farlo, con l'intenzione di andarsene, ma era troppo debole e si appoggiò a una barca. «Conoscete quest'uomo che è con me?» Rispose debolmente: «Sì.» «Sapete che stasera vi abbiamo seguito a lungo?» Scosse la testa. Non guardava né lui né me, ma restava in atteggiamento umile stringendo in una mano il cappellino e lo scialle senza rendersene conto, e premendosi l'altra mano, rattratta, contro la fronte. «Siete abbastanza calma,» continuai, «per parlare dell'argomento che vi interessava - e spero che il cielo ne tenga conto! - in quella notte di neve?» Ruppe in nuovi singhiozzi, e mormorò qualche inarticolato ringraziamento perché allora non l'avevo fatta allontanare dalla porta. «Non voglio dire nulla per me,» rispose dopo qualche momento. «Sono cattiva, sono perduta. Non ho più speranze. Ma ditegli, signore,» si era scostata da lui, «se non mi giudicate troppo duramente per farlo, che non sono mai stata, in nessun modo, la causa della sua disgrazia.» «Non è mai stata attribuita a voi,» la assicurai rispondendo con fervore al suo fervore. «Siete voi, se non m'inganno,» disse con voce rotta, «che entraste nella cucina quella notte in cui lei ebbe tanta pietà di me; che fu così gentile con me; che non si ritrasse da me come tutti gli altri e mi diede un così benevolo aiuto! Siete voi, signore?» «Sono io,» dissi. «Sarei nel fiume da un pezzo,» proseguì guardando l'acqua con una terribile espressione, «se avessi in mente di averle fatto un male qualsiasi. Non avrei potuto sfuggirlo in nemmeno una di queste notti d'inverno se non mi fossi sentita libera da ogni responsabilità in questo!» «La causa della sua fuga ci è nota anche troppo,» dissi. «Voi ne siete del tutto innocente, ne siamo pienamente convinti... lo sappiamo.» «Oh, avrei potuto fare molto di più e di meglio per lei, se avessi avuto un cuore migliore!» esclamò la ragazza con disperato rimpianto; «perché lei è sempre stata buona con me! Non mi ha mai detto una parola che non fosse affabile e giusta. Possibile che io cercassi di renderla simile a me, sapendo bene chi sono? Quando persi tutto ciò che rende cara la vita, il più doloroso dei miei pensieri fu che ero divisa per sempre da lei!» Il signor Peggotty, con una mano appoggiata al bordo di una barca e gli occhi bassi, si portò al volto la mano libera. «E quando seppi, prima di quella notte di neve, quel che le era successo da alcuni del nostro paese,» esclamò Martha, «il più amaro fra tutti i miei pensieri fu che la gente si sarebbe ricordata che un tempo eravamo amiche e avrebbe detto che io l'avevo corrotta! Mentre il cielo sa che sarei morta per restituirle il buon nome!» Disavvezza da tempo a controllarsi, manifestava terribilmente la lancinante angoscia del suo rimorso e della sua pena. «Dire che sarei morta è dir poco... Che posso dire?... Sarei vissuta!» gridò. «Sarei vissuta fino alla vecchiaia, per le vie miserabili... sarei andata vagando nell'ombra, evitata da tutti... avrei visto il sole sorgere sulla linea spettrale delle case ricordando come quello stesso sole soleva un tempo illuminare la mia stanza e svegliarmi... avrei fatto anche questo per salvarla!» Abbandonata sulle pietre, ne prendeva in mano alcune e le stringeva come se volesse stritolarle. Si torceva in sempre nuovi atteggiamenti: irrigidendo le braccia, incrociandosele sul volto quasi per escludersi dagli occhi quel po' di luce che avevano, e abbandonando la testa come se fosse troppo greve di insopportabili ricordi. «Che potrò mai fare?» disse lottando con la disperazione. «Come posso andare avanti così, solitaria maledizione per me stessa e vergogna vivente per chiunque mi avvicini?» Improvvisamente si volse al mio compagno. «Calpestatemi, uccidetemi! Quando lei era il vostro orgoglio, avreste giudicato un'offesa per lei se solo l'avessi sfiorata per via. Potete non credere - e perché dovreste? - nemmeno a una sillaba che esce dalle mie labbra. Sarebbe una scottante vergogna per voi, anche adesso, se lei e io ci scambiassimo una parola. Non mi lamento. Non dico che lei e io siamo eguali... so che tra noi c'è una lunga, lunga distanza. Dico solo, con tutta la colpa e la miseria che mi opprimono, che le sono grata dal profondo dell'anima e le voglio bene. Oh, non crediate che tutte le mie capacità di amare qualcuno siano andate distrutte! Scacciatemi come fanno tutti. Uccidetemi per essere quello che sono e averla conosciuta; ma non pensate questo di me!» Lui la guardava, mentre ella si abbandonava a questa supplica, con un'aria turbata e sconvolta; e, quando tacque, la rialzò gentilmente. «Martha,» disse il signor Peggotty, «Dio non voglia che vi giudichi. Non voglia che proprio io, fra tutti, faccia questo, ragazza mia. Voi non conoscete nemmeno la metà del cambiamento che è avvenuto in me in questo tempo, se lo pensate. Bene...» si arrestò un momento e poi proseguì. «Voi non sapete perché questo signore e io abbiamo voluto parlarvi. Non sapete le nostre intenzioni. Adesso ascoltate.» La sua influenza su di lei fu completa. Rimase, timida, davanti a lui, come se avesse paura di incontrare i suoi occhi; ma il suo appassionato dolore restò soffocato e muto. «Se avete udito,» disse il signor Peggotty, «quello che ci siamo detti, il signorino Davy e io, quella notte che nevicava tanto, sapete che io son stato dappertutto per cercare la mia cara nipote. La mia cara nipote,» ripeté con fermezza, «perché, Martha, mi è adesso ancor più cara di prima.» Lei si mise le mani sul volto, ma per altro rimase tranquilla. «Le ho sentito dire,» continuò il signor Peggotty, «che siete rimasta presto orfana di padre e di madre e senza amici che prendessero, al nostro rude modo marinaro, il loro posto. Forse potete immaginare che, se aveste avuto un tale amico, col tempo vi sareste molto affezionata a lui, e che mia nipote era per me cara come una figlia.» Poiché lei tremava in silenzio, egli l'avvolse con cura nello scialle dopo averlo preso apposta da terra. «Quindi,» disse, «so due cose: che lei verrebbe in capo al mondo con me, se potesse rivedermi, e che fuggirebbe in capo al mondo per evitare di vedermi. Perché, sebbene non possa dubitare del mio amore, e non ne dubita, non ne dubita,» ripeté tranquillamente sicuro della verità di quel che diceva, «la vergogna si intromette e ci tiene lontani.» Lessi, in ogni parola del suo semplice e grave modo di esprimersi, una nuova prova che aveva meditato su questo argomento sotto tutti gli aspetti che presentava. «Secondo i nostri calcoli,» continuò, «del signorino Davy qui presente e miei, è probabile che, un giorno o l'altro, volga verso Londra il suo povero e solitario vagabondaggio. Siamo convinti - il signorino Davy, io e tutti noi - che voi siate innocente di tutto ciò che le è accaduto come un bambino appena nato. Ci avete detto che lei è stata buona, amorosa e gentile con voi. Dio la benedica, so che lo era! So che lo è sempre stata con tutti. Le siete riconoscente e le volete bene. Aiutateci per quanto potete a ritrovarla, e il cielo ve ne renderà merito.» Gli diede una rapida occhiata, e per la prima volta, come se dubitasse di ciò che le aveva detto. «Avrete fiducia in me?» chiese con una voce bassa di stupore. «Piena e libera!» rispose il signor Peggotty. «Potrò parlarle, se mai riesca a trovarla; darle un rifugio, se avrò un rifugio da condividere con lei; e poi, senza che lo sappia, venire da voi e condurvi a lei?» domandò. Rispondemmo insieme: «Sì!» Alzò gli occhi e dichiarò solennemente che si sarebbe dedicata a questa impresa con fervore e con fede. Che non avrebbe mai vacillato in essa, che non se ne sarebbe mai distolta; mai l'avrebbe lasciata finché ci fosse stata una speranza. Se non diceva il vero, potesse quello scopo che aveva adesso nella vita, che la legava a qualche cosa priva di ogni male, lasciarla, nell'allontanarsi da lei, ancor più perduta e disperata, se era possibile, di quanto era stata quella notte sulla riva del fiume; e potesse allora ogni aiuto umano e divino abbandonarla per sempre! Non alzò mai la voce al di sopra del suo respiro né si rivolse a noi, ma disse tutto questo al cielo notturno; poi rimase in piedi, in profonda calma, guardando le acque buie. Adesso giudicammo opportuno dirle tutto quello che sapevamo; glielo esposi minutamente. Mi ascoltò con grande attenzione e con un volto che spesso mutava, ma che mantenne la stessa decisione in tutte le sue varie espressioni. Ogni tanto gli occhi le si empivano di lacrime, ma le reprimeva. Sembrava che il suo animo fosse totalmente mutato e che ella si imponesse la calma. Quando tutto fu detto, chiese dove avrebbe potuto comunicare con noi se si presentava qualche occasione. Sotto una fioca lampada della strada scrissi i nostri due indirizzi su di un foglio del mio taccuino che strappai e le porsi, e che ella nascose nel suo povero seno. Le chiesi dove abitava. Mi rispose, dopo una pausa, che non si fermava mai a lungo in un luogo. Era meglio che non lo sapessimo. Poiché il signor Peggotty mi suggeriva con un bisbiglio quello a cui avevo già pensato, trassi la borsa; ma non riuscii a farle accettare denaro né la promessa che lo avrebbe accettato in futuro. Le spiegai che il signor Peggotty non poteva essere considerato povero, per uno della sua condizione; e che l'idea che ella si dedicasse a questa ricerca ricorrendo alle sue sole risorse ci metteva entrambi a disagio. Ma fu risoluta. In questo l'influenza del signor Peggotty su di lei apparve incapace come la mia. Lo ringraziò con gratitudine, ma rimase irremovibile. «Posso trovare del lavoro,» disse. «Tenterò.» «Accettate almeno un aiuto,» ribattei, «finché non l'avrete trovato.» «Non posso fare per denaro quello che ho promesso,» rispose. «Non potrei accettarlo nemmeno se morissi di fame. Darmi del denaro significherebbe togliermi la vostra fiducia, togliermi lo scopo che mi avete dato, togliermi l'unica cosa certa che può salvarmi dal fiume.» «In nome del grande Giudice,» dissi, «dinanzi al quale voi e noi tutti dovremo comparire nel tremendo giorno da Lui segnato, abbandonate questa orribile idea. Possiamo sempre fare del bene, se vogliamo.» Ebbe un brivido, e le sue labbra tremavano, e il suo volto era ancora più pallido mentre diceva: «Forse è stato ispirato ai vostri cuori di salvare una creatura disgraziata perché si penta. Ho paura nel pensarlo: mi sembra troppo ardito. Se da me può provenire qualche bene, posso cominciare a sperare; perché finora da tutto quello che ho fatto non è venuto che male. Devo sentire che si ha fiducia in me, per la prima volta in tanto tempo, pur nella mia miserabile vita, per fare il tentativo che mi avete offerto. Non so altro e non posso dire altro.» Di nuovo represse le lacrime che avevano ripreso a scorrere; e, tendendo la mano tremante per sfiorare il signor Peggotty, come se vi fosse in lui qualche virtù risanatrice, si allontanò lungo la via desolata. Era stata malata, probabilmente per un lungo tempo. Notai, potendo osservarla più da vicino, che era consunta e scarna, e che i suoi occhi infossati rivelavano privazioni e sofferenze. La seguimmo a breve distanza poiché eravamo avviati nella stessa direzione, finché tornammo nelle vie piene di luci e di folla. Avevo una così intima fiducia in quel che aveva detto, che chiesi al signor Peggotty se non sarebbe sembrato un diffidare di lei fin dal principio il seguirla ancora. Poiché era del mio parere e non meno fiducioso in lei, lasciammo che prendesse la sua via e prendemmo la nostra verso Highgate. Mi accompagnò per un buon tratto di strada; e, quando ci separammo, v'era in lui, oltre al desiderio del buon successo di questo nostro recente tentativo, una nuova e pensosa compassione che non feci fatica a interpretare. Era mezzanotte quando arrivai a casa. Indugiavo sulla soglia del mio cancello ascoltando la grave campana di San Paolo, il cui suono sembrava giungermi tra una moltitudine di orologi squillanti, quando fui alquanto sorpreso nel vedere che la porta del villino della zia era aperta e che una debole luce nell'ingresso si rifletteva attraverso la strada. Pensando che la zia fosse ricaduta in uno dei suoi antichi allarmi e stesse osservando i progressi di qualche immaginario incendio lontano, mi feci avanti per parlarle. E con grande stupore vidi un uomo in piedi nel suo giardinetto. Aveva in mano un bicchiere e una bottiglia e stava bevendo. Mi fermai di colpo nascondendomi dietro il folto fogliame della siepe di cinta, perché vi era la luna, sebbene velata; e riconobbi l'uomo che avevo supposto un tempo una fantasia del signor Dick e che avevo incontrato una volta con la zia nelle strade della città. Oltre a bere, mangiava, e, a quanto sembrava, con avidità famelica. Pareva guardare incuriosito il villino, come se lo vedesse per la prima volta. Dopo essersi chinato per mettere a terra la bottiglia, alzò lo sguardo verso le finestre e poi lo volse intorno, con un'aria, tuttavia, guardinga e impaziente, come se fosse ansioso di andarsene. La luce nell'ingresso fu oscurata per un momento, e la zia uscì. Era inquieta e gli mise in mano delle monete. Le udii tintinnare. «Che vuoi che me ne faccia?» domandò lui. «Non posso darti di più,» rispose la zia. «Allora non posso andarmene,» disse. «Ecco! Puoi riprenderteli.» «Indegno,» replicò la zia con grande emozione; «come puoi trattarmi così? Ma perché te lo domando? È solo perché conosci la mia debolezza! Cos'altro devo fare, per liberarmi per sempre dalle tue visite, se non abbandonarti al tuo destino?» «E perché non mi abbandoni al mio destino?» chiese. «Proprio tu mi domandi perché?» esclamò la zia. «Che cuore, devi avere!» L'altro rimase lì cupo, facendo risuonare le monete e scuotendo la testa, finché disse: «Allora è tutto qui quello che intendi darmi?» «È tutto quello che posso darti,» rispose la zia. «Sai pure che ho avuto delle perdite e sono più povera di un tempo. Te l'ho detto. E adesso che l'hai avuto, perché mi costringi a guardarti ancora per vedere come ti sei ridotto?» «Mi sono ridotto piuttosto in cenci, se vuoi dir questo,» disse l'altro. «Vivo come un gufo.» «Mi hai spogliata della maggior parte di ciò che avevo,» ribatté la zia. «Hai chiuso il mio cuore davanti al mondo intero per anni e anni. Mi hai trattata in modo falso, ingrato e crudele. Va' e pentiti. Non aggiungere altre offese alla lunghissima lista di offese che mi hai fatto.» «Sì,» rispose lui. «Molto bello... Bene! Immagino che, per ora, dovrò accontentarmi di questo.» Suo malgrado appariva mortificato dalle lacrime di sdegno della zia, e, lento e curvo, uscì dal giardino. Feci due o tre passi in fretta, come se stessi appena arrivando, lo incontrai al cancello ed entrai mentre lui usciva. Ci guardammo fissi nel passare, e senza simpatia. «Zia,» dissi in fretta. «Quell'uomo ti spaventa ancora! Lascia che gli parli. Chi è?» «Bambino,» rispose la zia prendendomi il braccio, «entra e non parlarmi per dieci minuti.» Ci sedemmo nel suo salottino. La zia si ritirò dietro il verde schermo rotondo di un tempo, che era avvitato sullo schienale di una sedia, e vi rimase per quasi un quarto d'ora asciugandosi gli occhi ogni tanto. Poi uscì e prese una sedia accanto a me. «Trot,» disse calma, «è mio marito.» «Tuo marito, zia? Credevo che fosse morto.» «Morto per me,» rispose la zia, «ma ancora vivo.» Rimasi seduto in silenzioso sbigottimento. «Betsey Trotwood non sembra essere soggetta alle tenere passioni,» disse la zia con tranquilla compostezza, «ma ci fu un tempo, Trot, in cui ella credeva in quell'uomo in modo assoluto. In cui lo amava, Trot, con tutta l'anima. In cui non vi era prova di attaccamento e di affetto che si sarebbe rifiutata di dargli. E lui la contraccambiò rovinandole il patrimonio e quasi rovinandole il cuore. Così lei mise tutti questi sentimenti in una tomba, una volta per sempre, la riempì e ci mise una pietra sopra.» «Mia cara, buona zia!» «Lo lasciai,» proseguì la zia mettendo la sua mano sulla mia, come era solita, «generosamente. Posso dire, dopo tutto questo tempo, che lo lasciai generosamente. Era stato così crudele con me, che avrei potuto fare una separazione molto vantaggiosa; ma non volli. Sperperò subito quel che gli avevo dato, cadde sempre più in basso, sposò un'altra donna credo, divenne un avventuriero, un giocatore e un baro. E hai visto quello che è adesso. Ma era molto bello, quando lo sposai,» disse la zia con un eco dell'antico orgoglio e dell'antica ammirazione nella voce, «e io lo credevo - pazza che ero - l'onorabilità in persona!» Mi diede una stretta alla mano e scosse la testa. «Adesso non è più nulla per me, Trot... meno che nulla. Ma, piuttosto che vederlo condannare per le sue malefatte (come certo avverrebbe se andasse rubacchiando per il paese) gli do più denaro che non possa, quando appare ogni tanto, purché se ne vada. Quando lo sposai ero pazza, e la mia pazzia a questo proposito è così incurabile che, per amore di quello che un tempo l'avevo creduto, non vorrei che nemmeno questa ombra della mia stanca fantasia fosse giudicata severamente. Perché io facevo sul serio, Trot, se mai una donna lo ha fatto.» La zia lasciò cadere l'argomento con un profondo sospiro e si lisciò l'abito. «Ecco qui, mio caro!» concluse. «Adesso sai il principio e la fine di tutta la faccenda. Non ne parleremo mai più fra noi, e naturalmente non ne parlerai ad alcun altro. Questa è la mia scombiccherata storia, e la terremo per noi, Trot!» XLVIII • VICENDE DOMESTICHE Lavorai intensamente al mio libro senza permettere che ostacolasse il puntuale disbrigo dei miei lavori giornalistici; fu pubblicato ed ebbe grande successo. Non mi lasciai stordire dalle lodi che risuonavano ai miei orecchi, sebbene fossi molto sensibile ad esse e sebbene avessi della mia opera, non ne ho dubbi, un'opinione migliore di chiunque altro. Ho sempre notato nell'umana natura che un uomo che abbia qualche ragione per credere in se stesso non si esalta mai davanti agli altri perché credono in lui. Per questo mantenni la mia modestia con un senso di dignità; e quanto più venivo lodato tanto più cercavo di meritarlo. Non è mia intenzione, in questo racconto, per quanto esso sia, nell'essenziale, la stesura delle mie memorie, seguire la storia dei miei romanzi. Essi si esprimono da soli e li lascio a se stessi. Se vi accenno incidentalmente è solo perché fanno parte della mia vita. Avevo ormai qualche fondata ragione per credere che la natura e il caso avevano fatto di me uno scrittore, e seguii con fiducia la mia vocazione. Senza questa certezza l'avrei lasciata da parte per dedicare le mie energie a qualche altra attività. Avrei cercato di scoprire che cosa la natura e il caso avevano fatto di me e avrei voluto essere quello e niente altro. Avevo scritto, sui giornali e altrove, in modo così fortunato che, quando si delineò il mio nuovo successo, mi considerai ragionevolmente autorizzato a liberarmi dai tetri dibattiti. Una gioconda notte, dunque, annotai per l'ultima volta la musica delle cornamuse parlamentari e in seguito non l'ho più sentita, sebbene riconosca ancora sui giornali l'antico brusìo senza alcuna variante sostanziale (eccetto, forse, che è più abbondante) per tutta la durata della sessione. Adesso scrivo del tempo in cui ero sposato, suppongo, da circa un anno e mezzo. Dopo parecchi e svariati esperimenti avevamo lasciato perdere l'economia domestica come impresa disperata. La casa andava avanti da sé e noi avevamo un ragazzo di fatica. La principale funzione di questo nostro dipendente consisteva nell'attaccar lite con la cuoca; sotto questo rispetto era un perfetto Whittington, senza il gatto e senza la minima speranza di essere eletto Lord Mayor. Ho l'impressione che sia vissuto sotto una continua grandine di coperchi di casseruola. La sua intera esistenza fu una battaglia. Urlava aiuto nelle occasioni meno opportune - ad esempio quando avevamo gente a pranzo o pochi amici a passar con noi la serata - e scappava capitombolando dalla cucina, seguito da una folata di proiettili di ferro. Volevamo liberarcene, ma lui era molto attaccato a noi e non intendeva andarsene. Era un ragazzo piagnucoloso e dava in così deplorevoli lamentele se appena si accennava alla cessazione dei nostri rapporti, che eravamo costretti a tenercelo. Non aveva madre, né potei scovare altri che assomigliasse a un suo parente eccetto una sorella che era filata in America nel momento stesso in cui glielo avevamo tolto dalle mani; e si era acquartierato presso di noi come un orribile bambino portato dalle fate. Aveva una vivissima coscienza della sua condizione disgraziata, ed era sempre ad asciugarsi gli occhi con la manica della giacchetta o a chinarsi per soffiarsi il naso con l'angolino di un fazzoletto che non si traeva mai completamente di tasca, sempre facendone economia e tenendolo segreto. Questo sciagurato garzoncello, ingaggiato in un'ora malaugurata per sei sterline e dieci scellini l'anno, fu per me una fonte di continui crucci. Lo guardavo crescere - e cresceva come un fagiolo rosso - pensando con penosa ansia al tempo in cui avrebbe cominciato a radersi, e addirittura a quando sarebbe stato calvo o grigio. Non vedevo possibilità di sbarazzarmene, e, proiettandomi nel futuro, mi raffiguravo di quale peso ci sarebbe stato nella sua vecchiaia. Nulla poteva giungermi più inaspettato del modo con cui questo disgraziato mi trasse dalle mie difficoltà. Rubò l'orologio di Dora, che, come tutto quello che ci apparteneva, non aveva un posto fisso; e, cambiatolo in denaro, spese il ricavato (era sempre stato un ragazzo di mente limitata) in continue scarrozzate su e giù fra Londra e Uxbridge sull'imperiale della diligenza. Fu preso a Bow Street, se ben ricordo, alla fine del suo quindicesimo viaggio, quando gli trovarono addosso quattro scellini e sei pence, e un piffero usato che non sapeva suonare. La sorpresa e le conseguenze sarebbero state molto meno sgradevoli per me se non si fosse pentito. Ma si pentì tremendamente in un modo tutto suo: non in blocco ma a rate. Per esempio: il giorno dopo quello in cui fui costretto a presentarmi contro di lui, egli fece certe rivelazioni relative a una cesta in cantina che credevamo piena di vini ma che non conteneva altro che bottiglie e turaccioli. Supponevamo che si fosse ormai alleggerito lo spirito avendoci detto il peggio di quel che sapeva sulla cuoca; ma uno o due giorni dopo, la sua coscienza ebbe un'altra crisi di rimorsi, ed egli ci rivelò che la cuoca aveva una ragazzina la quale ogni mattino, sul presto, ci portava via il pane, e che lui stesso era stato subornato a rifornire il lattaio col nostro carbone. Dopo altri due o tre giorni, fui informato dalle autorità che egli aveva portato alla scoperta di lombate di manzo fra le batterie da cucina e di lenzuola nella sacca degli stracci. Poco dopo prese un'altra direzione totalmente nuova e confessò di essere a conoscenza di un piano ladresco in casa nostra da parte del garzone dell'osteria, che fu immediatamente arrestato. Finii col vergognarmi tanto di essere una tale vittima, che gli avrei dato qualsiasi somma per farlo tacere o offerto un grosso premio perché gli si permettesse di evadere. Era poi una circostanza aggravante il fatto che egli non aveva alcuna idea di tutto questo, ma era convinto di fare ammenda con ogni rivelazione, per non dire che voleva rendermi a lui obbligato. Alla fine evasi io, ogni volta che vedevo un funzionario di polizia avvicinarsi con qualche nuova notizia; e vissi nascosto finché fu processato e condannato alla deportazione. Neppure allora rimase tranquillo, ma non fece che scriverci lettere; e insistette tanto per vedere Dora prima di partire, che Dora andò a trovarlo e cadde in deliquio quando si trovò dietro le sbarre di ferro. Insomma non ebbi pace finché non fu espatriato e mandato (come seppi in seguito) a fare il pastore «in campagna», in qualche parte di cui non avevo geograficamente alcuna idea. Tutto questo mi portò ad alcune serie riflessioni presentandomi i nostri errori sotto un nuovo aspetto; e non potei fare a meno di comunicarlo a Dora, una sera, nonostante la tenerezza che avevo per lei. «Amore,» dissi, «è molto penoso per me pensare che la nostra mancanza di sistema e di ordine domestico coinvolge non soltanto noi (che ormai ci siamo abituati), ma anche gli altri.» «Sei stato zitto per tanto tempo, e adesso riprendi a fare il noioso!» disse Dora. «No, cara, davvero! Lascia che ti spieghi quello che intendo.» «Credo di non avere alcun desiderio di saperlo,» disse Dora. «Ma io desidero che tu lo sappia, amore. Metti giù Jip.» Dora avvicinò il suo naso al mio gridando «Boh!» per dissipare la mia serietà; ma, non riuscendovi, mandò Jip nella sua pagoda e si sedette a guardarmi con le mani intrecciate e, in volto, una smorfietta di rassegnazione. «Il fatto è, cara,» cominciai, «che vi è in noi qualche cosa di contagioso. Infettiamo tutti quelli che ci stanno attorno.» E avrei continuato con questo linguaggio figurato se l'espressione di Dora non mi avesse fatto capire che ella si stava domandando con tutta la serietà che poteva se stavo per proporle un qualche nuovo genere di vaccinazione o altro rimedio di ordine medico per il nostro stato morboso. Mi arrestai dunque, e presi a esprimermi più chiaramente. «Non si tratta solo, gioia mia,» dissi, «che noi perdiamo denaro, comodi e a volte anche la serenità per non volere imparare a essere più attenti; ma che incorriamo nella seria responsabilità di viziare tutti coloro che vengono al nostro servizio o che hanno a che fare con noi. Comincio a temere che la colpa non sia tutta da un lato ma che questa gente volga al male perché noi stessi non volgiamo gran ché al bene.» «Oh, che accusa!» esclamò Dora spalancando gli occhi; «affermare che mi hai vista rubare orologi d'oro! Oh!» «Carissima,» protestai, «non dire assurde sciocchezze! Chi ha fatto la minima allusione a orologi d'oro?» «Tu,» rispose Dora, «e sai di averla fatta. Hai detto che io non volgo al bene e mi hai paragonata a lui.» «A chi?» chiesi. «Al ragazzo,» singhiozzò Dora. «Oh, crudele, confrontare la tua affezionata moglie a un galoppino deportato! Perché non mi hai detto come mi giudicavi prima che ci sposassimo? Perché non mi hai detto, cuore di pietra, che eri convinto che io fossi peggiore di un galoppino deportato? Oh, che terribile opinione hai di me! Oh, bontà divina!» «Andiamo, Dora, amor mio,» risposi tentando delicatamente di spostare il fazzoletto che si premeva sugli occhi, «questo è non solo ridicolo da parte tua, ma ingiusto. Prima di tutto non è vero.» «Hai sempre detto che era un contafrottole,» singhiozzò Dora, «e adesso dici lo stesso di me! Oh, che cosa devo fare? Che cosa devo fare?» «Bambina mia,» replicai, «devo davvero scongiurarti di essere ragionevole e di prestare ascolto a quello che ho detto e che dico. Mia cara Dora, se non impariamo a fare il nostro dovere con coloro che dipendono da noi, essi non impareranno mai a fare verso di noi il loro dovere. Temo che offriamo loro delle occasioni di fare il male, che mai avrebbero dovuto essere offerte. Se anche noi fossimo negligenti, come siamo in tutte le nostre cose, per nostra scelta - il che non è - se anche ci piacesse e trovassimo gradevole essere così - il che non è - sono convinto che non avremmo il diritto di proseguire in questa direzione. Noi stiamo di fatto corrompendo la gente. Dobbiamo pensare a questo. Non posso fare a meno di pensarci, Dora. È una riflessione che non posso togliermi di testa e che a volte mi fa star male. È tutto qui, cara. Andiamo. Non essere sciocchina.» Per un pezzo Dora non mi permise di toglierle il fazzoletto dal volto. Se ne stava seduta singhiozzando e mormorando dietro di esso che, se mi trovavo male, perché l'avevo sposata? Perché non avevo detto, magari il giorno prima di andare in chiesa, che sapevo che mi sarei trovato male e che avevo cambiato idea? Se non potevo sopportarla perché non la mandavo dalle sue zie a Putney o da Julia Mills in India? Julia sarebbe stata felice di vederla e non l'avrebbe mai chiamata galoppino deportato; Julia non le aveva mai detto nulla di simile. Insomma Dora fu così afflitta, e tanto afflisse me con la sua afflizione, da farmi capire che non serviva a nulla insistere in tentativi di questo genere, neppure con tutta la dolcezza possibile, e che dovevo orientarmi altrimenti. Ma quale altro orientamento mi restava? «Formarle la mente?» Era una frase comune che aveva un bel suono promettente, e decisi di formare la mente di Dora. Cominciai senz'altro. Quando Dora si mostrava molto infantile, e avrei infinitamente preferito secondarla, cercavo di essere grave: e disorientavo lei non meno di me. Le parlavo degli argomenti che occupavano i miei pensieri, le leggevo Shakespeare... e la stancavo mortalmente. Mi abituai a darle, come per caso, piccoli frammenti di informazioni utili o di sane opinioni: ed ella trasaliva, quando li esprimevo, come se fossero stati dei razzi. Per quanto incidentalmente e naturalmente io cercassi di formare la mente di quella mia moglie infantile, non potevo fare a meno di accorgermi che lei aveva sempre un'istintiva percezione di quello che mi proponevo di fare e cadeva in preda alle più profonde apprensioni. In particolare mi era evidente che considerava Shakespeare un essere pauroso. E la formazione andava avanti molto lentamente. Coinvolsi Traddles nella mia impresa senza che lo sapesse; e ogni volta che veniva da noi facevo esplodere le mie mine su di lui a indiretta edificazione di Dora. Il quantitativo di saggezza pratica che elargii a Traddles in questo modo fu immenso, e della migliore qualità; ma non ebbe su Dora altro effetto che di deprimerla e renderla nervosa per il timore che venisse poi il suo turno. Mi trovai nella condizione di un maestro di scuola, di una trappola, di un trabocchetto: di dover fare la parte di un ragno per quella mosca che era Dora, e di dover sempre balzar fuori dalla mia tana con suo infinito sgomento. Tuttavia, guardando avanti da questo stadio intermedio verso il tempo in cui ci sarebbe stata una perfetta intesa fra Dora e me e io sarei riuscito a «formare la sua mente» a mia completa soddisfazione, perseverai addirittura per mesi. Ma accorgendomi infine che, sebbene fossi stato per tutto questo tempo un vero porcospino, o un riccio, tutto irto di decisioni, non ero riuscito a nulla, cominciai a pensare che forse la mente di Dora era già formata. In seguito a ulteriori considerazioni, ciò mi parve tanto probabile che abbandonai il mio piano, più promettente nelle parole che nei fatti, e stabilii di essere soddisfatto, nel futuro, della mia moglie-bambina e di non tentare di mutarla in niente altro con nessun sistema. Ero cordialmente stanco di essere sagace e prudente per me stesso e di vedere oppressa la mia cara; così comprai un bel paio di orecchini per lei e un collare per Jip, e un giorno tornai a casa deciso a rendermi gradito. Dora fu felice di quei regalucci e mi baciò piena di gioia; ma vi era un'ombra fra noi, per quanto leggera, e io mi ero proposto che non vi fosse. Se doveva esserci un'ombra in qualche parte, l'avrei tenuta in avvenire nel mio cuore. Mi sedetti sul divano accanto a mia moglie e le misi gli orecchini agli orecchi; e poi le dissi di temere che, negli ultimi tempi, non ci fossimo fatti buona compagnia come un tempo e che la colpa era mia. Cosa che sentivo sinceramente e che tale era in realtà. «La verità è, Dora, vita mia,» confessai, «che ho cercato di essere saggio.» «E di rendere saggia anche me,» disse Dora timidamente. «Non è vero, Doady?» Assentii alla dolce domanda che era nelle sue sopracciglia inarcate e baciai le sue labbra dischiuse. «Non serve nemmeno un po',» disse Dora scuotendo la testa fino a far tintinnare gli orecchini. «Tu sai che piccola cosa sono io e come volevo che mi chiamassi fino dal principio. Se non puoi farlo, temo che non riuscirai mai ad amarmi. Sei sicuro di non pensare, a volte, che sarebbe stato meglio aver...» «Aver fatto che cosa, cara?» Perché non faceva alcun tentativo di continuare. «Niente!» disse Dora. «Niente?» ripetei. Mi gettò le braccia al collo, rise, si chiamò col nome favorito di ochetta e nascose il volto nella mia spalla con una tale profusione di riccioli che fu un'impresa scostarli per poterla vedere. «Non penso che sarebbe stato meglio non far nulla che cercar di formare la mente della mia mogliettina?» dissi ridendo di me. «Era questa la domanda? Sì, in realtà lo penso.» «Era questo che hai tentato?» esclamò Dora. «Oh, che cattivo ragazzo!» «Ma non lo tenterò più,» dissi. «Perché l'amo teneramente così com'è.» «Senza altre storie... davvero?» domandò Dora stringendosi ancor più a me. «Perché dovrei cercar di cambiare,» risposi, «ciò che mi è stato così prezioso per tanto tempo? Non potrai mai apparire meglio di quello che sei naturalmente, mia dolce Dora; e non tenteremo più presuntuosi esperimenti, ma torneremo alla nostra vecchia strada e saremo felici.» «E saremo felici,» ripeté Dora. «Sì! Dalla mattina alla sera! E tu non ci farai caso se qualche volta le cose andranno un tantino male?» «No, no,» dissi. «Faremo il meglio che potremo.» «E non mi dirai più che rendiamo cattiva la gente?» mi chiese Dora con la sua grazietta; «prometti? Perché lo sai che è terribilmente penoso!» «No, no,» ripetei. «È meglio per me essere stupida che infelice, non è vero?» disse Dora. «Meglio essere naturalmente Dora che qualsiasi altra cosa al mondo.» «Al mondo! Ah, Doady, il mondo è grande!» Scosse la testa, volse verso di me gli occhi felici e brillanti, mi baciò, diede un'allegra risata e saltò via per mettere a Jip il collare nuovo. Così finì l'ultimo mio tentativo di far cambiare Dora. Ero stato infelice durante la prova; non potevo sopportare la mia solitaria saggezza; non potevo conciliarla con il fascino che ella aveva avuto per me come moglie-bambina. Decisi di fare quello che potevo silenziosamente, di migliorare da solo il nostro modo di vita; ma prevedevo che tutto quello che potevo dare sarebbe stato assai poco, se non volevo degenerare nuovamente in un ragno sempre all'agguato. E l'ombra di cui ho detto, che non era più fra noi ma doveva restare interamente nel mio cuore? Come sostenerla? L'antico senso di scontento pervadeva la mia vita. Se mai qualche cambiamento era avvenuto, si era approfondito; ma era indefinito come sempre, mi giungeva come l'eco di una musica malinconica, debolmente udita nella notte. Amavo teneramente mia moglie ed ero felice; ma la felicità che avevo vagamente pregustato un tempo non era quella di cui godevo, e c'era sempre qualche cosa che mi mancava. Per adempiere al patto, che ho fatto con me stesso, di riflettere il mio animo su queste carte, torno a esaminarlo da vicino e porta alla luce i suoi segreti. Quello che non avevo raggiunto lo consideravo ancora - insistevo a considerarlo - come qualche cosa che era stato un sogno delle mie fantasie giovanili, che non era possibile realizzare, che scoprivo adesso essere tale, con qualche naturale pena, al pari di tutti gli uomini. Ma capivo che sarebbe stato meglio per me se mia moglie mi fosse stata più di aiuto e avesse condiviso i tanti pensieri nei quali non avevo un compagno; e capivo che questo avrebbe potuto essere. Fra queste due conclusioni inconciliabili - l'una, che quello che sentivo era universale e inevitabile; l'altra che era mio particolare e avrebbe potuto essere diverso - ondeggiavo curiosamente senza avere il senso netto della loro reciproca opposizione. Quando pensavo agli aerei sogni di gioventù, impossibili ad attuarsi, mi veniva in mente il felice stato che precede l'età adulta e che avevo superato; e allora i giorni lieti trascorsi con Agnes nella cara vecchia casa, mi sorgevano dinanzi come spettri di ciò che è morto e che può avere un certo rinnovamento in un altro mondo ma non potrà mai essere riportato alla vita in questo. A volte mi veniva in mente una domanda: che cosa avrebbe potuto avvenire, o sarebbe avvenuto, se Dora e io non ci fossimo mai conosciuti? Ma ella era così incorporata nella mia esistenza, che quella appariva la più vana delle fantasie e presto si elevava fuori della mia portata e della mia vista come una ragnatela fluttuante nell'aria. La amavo sempre. Quello che ho descritto sonnecchiava, si svegliava a metà e tornava ad assopirsi nei più intimi recessi del mio animo. In me non ve n'era alcuna evidenza; non mi risulta che abbia mai influito su qualche cosa che abbia detto o fatto. Io portavo il peso di tutte le nostre piccole preoccupazioni e di tutti i miei progetti; Dora teneva le penne; ed entrambi eravamo convinti che le nostre parti si adeguassero a quel che il caso richiedeva. Ella mi amava appassionatamente ed era orgogliosa di me; e quando Agnes, nelle sue lettere a Dora, diceva qualche fervida parola sull'orgoglio e l'interesse con cui i miei vecchi amici ascoltavano le notizie della mia crescente popolarità, e leggevano i miei libri come se ne sentissero narrare le vicende dalla mia viva voce, Dora me le recitava con lacrime di gioia nei suoi fulgidi occhi e diceva che ero un caro ragazzo, intelligente e famoso. «L'errore del primo impulso di un cuore indisciplinato.» Queste parole della signora Strong, in quel tempo, mi tornavano continuamente alla memoria; erano quasi sempre presenti alla mia mente. Spesso mi svegliavo di notte sentendomele pronunciare; ricordo di averle anche lette, in sogno, scritte sui muri delle case. Perché adesso sapevo che il mio cuore era indisciplinato quando avevo amato Dora per la prima volta; e che, se fosse stato disciplinato, non avrebbe mai provato, dopo il nostro matrimonio, quello che aveva provato nella sua segreta esperienza. «Non vi è maggior disparità nel matrimonio della differenza di mente e di propositi.» Ricordavo anche queste parole. Avevo tentato di adattare Dora a me e lo avevo trovato impossibile. Non mi rimaneva che adattare me stesso a Dora: condividere con lei quello che potevo ed essere felice; portare sulle mie sole spalle quello che dovevo, ed essere ancora felice. Era questa la disciplina a cui tentai di indurre il mio cuore quando cominciai a pensare. In tal modo il mio secondo anno di matrimonio fu molto più felice del primo; e, cosa anche migliore, la vita di Dora fu tutto sole. Ma, verso la fine di quest'anno, Dora cominciò a indebolirsi. Avevo sperato che mani più leggere delle mie avrebbero aiutato a modellare il suo carattere, e che il riso di un bambino al suo seno avrebbe potuto cambiare la mia moglie-bambina in una donna. Quello spirito fluttuò un momento sulla soglia della sua piccola prigione e, inconsapevole della cattività, prese il volo. «Quando potrò correre ancora come un tempo, zia,» disse Dora, «farò correre Jip. Sta diventando lento e pigro.» «Sospetto, cara,» disse la zia lavorando tranquilla al suo fianco, «che abbia un inconveniente più grave di questo. L'età, Dora.» «Credi che sia vecchio?» disse Dora sbigottita. «Oh, come sembra strano che Jip possa essere vecchio!» «È un guaio a cui siamo tutti soggetti, piccola mia, via via che avanziamo negli anni,» rispose allegramente la zia; «io non me ne sento oggi più libera di quanto me ne sentissi un tempo, te lo assicuro.» «Ma Jip,» disse Dora guardandolo con compassione, «anche il piccolo Jip! Oh, poverino!» «Direi che durerà ancora un pezzo, Fiorellino,» la consolò la zia carezzandole la guancia, mentre Dora si chinava fuori dal divano per guardare Jip che le rispose stando dritto sulle zampe posteriori e sforzandosi invano con ripetuti e asmatici tentativi di saltar su con la testa e le spalle. «Quest'inverno gli metteremo un pezzo di flanella nella sua casa, e non mi meraviglierei se ne uscisse ringiovanito con i fiori primaverili. Benedetto cagnolino!» esclamò la zia, «se avesse tutte le vite che ha un gatto e fosse sul punto di perderle in blocco, credo mi abbaierebbe col suo ultimo respiro!» Dora lo aveva aiutato a salire sul divano; e di lì egli stava veramente sfidando la zia con tal furia che non riuscì a tenersi in piedi e si rovesciò di fianco a forza di latrare. Quanto più la zia lo guardava tanto più lui le lanciava i suoi improperi; perché negli ultimi tempi ella si era messa gli occhiali, e, per qualche imperscrutabile ragione, Jip considerava le lenti come un fatto personale. Dora lo fece sdraiare al suo fianco con molta persuasione; e, quando fu tranquillo, si passò una delle sue lunghe orecchie su e giù per la mano ripetendo pensosa: «Anche il piccolo Jip! Oh, poverino!» «I suoi polmoni sono ancora abbastanza buoni,» disse gaiamente la zia, «e le sue antipatie non si sono indebolite. Senza dubbio ha ancora parecchi anni davanti a sé. Ma se vuoi un cane con cui correre, Fiorellino, lui ha già vissuto troppo per questo, e io te ne regalerò uno.» «Grazie, zia,» disse Dora debolmente. «Ma non farlo, ti prego.» «No?» esclamò la zia togliendosi gli occhiali. «Non posso avere altri cani che Jip,» disse Dora. «Sarebbe così crudele per Jip! Inoltre non potrei affezionarmi a nessun altro cane come a Jip; perché nessuno mi avrebbe conosciuta prima che mi sposassi e avrebbe abbaiato a Doady quando venne per la prima volta in casa nostra. Temo che non potrei aver cura di nessun altro cane che non fosse Jip, zia.» «Naturalmente!» disse la zia accarezzandole ancora la guancia. «Hai ragione.» «Non sei offesa,» mormorò Dora, «non è vero?» «Oh, che coccolina sensibile è questa!» esclamò la zia chinandosi affettuosamente su di lei. «Pensare che possa essere offesa!» «No, no, in realtà non lo pensavo,» rispose Dora; «ma sono un poco stanca, e parlare di Jip mi ha reso per un momento stupidella: io sono sempre stupidella, lo sai, ma questo mi ha spinto a esserlo ancora di più. Lui ha conosciuto tutto quello che mi è successo, non è vero, Jip? E non potrei trascurarlo solo perché è un po' mutato... non è vero, Jip?» Jip si rannicchiò ancor più vicino alla sua padrona leccandole pigramente la mano. «Non sei ancora tanto vecchio, non è vero Jip, da dover lasciare la tua padrona,» disse Dora. «Potremo farci compagnia ancora per un poco.» Mia cara Dora! Quando scese a pranzo la domenica seguente e fu così contenta di vedere il vecchio Traddles (che la domenica pranzava sempre con noi) pensavamo che avrebbe «ripreso a correre come un tempo» entro pochi giorni. Invece mi dissero: «Aspettate ancora qualche giorno»; e poi: «Aspettate ancora qualche giorno»; e tuttavia lei non correva né camminava. Appariva molto graziosa ed era allegra; ma quei piedini che erano così agili quando ella ballava intorno a Jip, rimanevano stanchi e immobili. Cominciai a trasportarla giù, in braccio, ogni mattino e su ogni sera. Lei si aggrappava al mio collo e rideva per tutto il tragitto, come se lo facessi per scommessa. Jip abbaiava e ci saltellava attorno, e ci precedeva, guardandosi indietro sul pianerottolo, col fiato corto, per vedere se stavamo arrivando. La zia, la migliore e la più gaia delle infermiere, ci seguiva faticosamente, mobile massa di scialli e di cuscini. Il signor Dick non avrebbe lasciato ad altro vivente il suo incarico di portatore di candela. Traddles era spesso in fondo alle scale, guardando in su e incaricandosi di portare giocosi messaggi da parte di Dora alla più cara ragazza del mondo. Facevamo della cosa un'allegra processione, e la mia moglie-bambina era la più allegra di tutti. Ma a volte, quando la prendevo su e la sentivo più leggera fra le mie braccia, un sentimento di vuoto mortale mi aggrediva, e io sentivo di avvicinarmi a qualche gelida regione ancora sconosciuta che mi agghiacciava l'animo. Evitavo di riconoscere questo sentimento dandogli un nome o confessandolo a me stesso; finché una notte in cui era pesante su di me e la zia ci aveva lasciati con il suo augurio di congedo «Buona notte, Fiorellino,» mi sedetti, solo, alla scrivania e piansi pensando, oh, quale nome fatale era quello e come il fiore appassiva in boccio sul ramo. XLIX • SONO COINVOLTO IN UN MISTERO Un mattino ricevetti per posta la seguente lettera, datata da Canterbury e indirizzata a me ai Doctor's Commons; la lessi con una certa sorpresa. «Mio caro signore, «circostanze indipendenti dal mio personale controllo hanno interrotto, per un notevole lasso di tempo, quell'intimità che, nelle limitate opportunità a me concesse, nel mezzo dei miei doveri professionali, di contemplare scene ed eventi del passato tinti nei colori del prisma della memoria, mi ha sempre procurato, come sempre continuerà a procurarmi, piacevoli emozioni non facilmente descrivibili. Questo fatto, mio caro signore, unito alla non comune altezza a cui i vostri talenti vi hanno elevato, mi trattiene dal presumere di potere aspirare alla libertà di rivolgermi al compagno della mia gioventù con il familiare appellativo di Copperfield! Basti sapere che il nome a cui mi faccio l'onore di riferirmi sarà sempre gelosamente custodito tra i documenti della nostra casa (alludo agli archivi che si riferiscono ai nostri antichi inquilini, tenuti dalla signora Micawber), con sentimenti di personale stima che giunge all'affetto. «Non si addice a uno che, per suoi propri errori e per fortuite combinazioni di infausti eventi, si trova nelle condizioni di una barca naufragata (se gli è concesso valersi di una denominazione così marinara), come vi si trova colui che prende adesso la penna per rivolgersi a voi, non si addice, ripeto, a una tal persona adottare il linguaggio del complimento o della congratulazione. Essa lo lascia a mani più abili e più pure. «Se le vostre più importanti occupazioni vi hanno concesso di decifrare fin qui questi imperfetti caratteri - cosa che può essere come può non essere, a seconda delle circostanze - vi chiederete naturalmente quale ragione mi abbia allora indotto a indirizzarvi questa missiva. Permettetemi di dichiarare che ho piena deferenza per la legittimità di questa domanda, e procedo a rispondervi, premettendo che non è una ragione di natura pecuniaria. «Senza fare più precisi riferimenti a una qualsiasi capacità latente che possa esistere in me di brandire fulmini o dirigere in qualche direzione la fiamma divorante e vendicatrice, mi sia permesso di osservare, di passo, che le mie più fulgide visioni sono state per sempre disperse... che la mia pace è infranta e ogni mia possibilità di gaudio distrutta... che il mio cuore non è più al suo giusto posto... e che io non cammino più a fronte alta davanti ai miei simili. Il cancro è nel fiore. La coppa è colma di amarezza fino all'orlo. Il verme è all'opera e presto avrà in propria balìa la sua vittima. Tanto prima, tanto meglio. Ma non farò digressioni. «Caduto in una condizione mentale particolarmente angosciosa, oltre la portata mitigatrice dell'influenza della stessa signora Micawber, sebbene esercitata nel suo triplice carattere di donna, di moglie e di madre, è mia intenzione evadere da me stesso per un breve periodo, e dedicare una pausa di quarantotto ore a rivedere le scene metropolitane di momenti felici trascorsi. Tra gli altri rifugi di tranquillità domestica e di pace mentale, il mio piede si volge naturalmente alla prigione di King's Bench. Con la comunicazione che mi troverò (Dio volendo) all'esterno del muro meridionale di questo luogo di cattività, per un processo civile, dopodomani, esattamente alle sette di sera, il mio scopo in questa comunicazione epistolare è raggiunto. «Non mi sento giustificato nel sollecitare il mio antico amico signor Copperfield, o il mio antico amico signor Thomas Traddles dell'Inner Temple, se questo signore è ancora in vista e disponibile, a condiscendere a incontrarmi e rinnovare (per quanto è possibile) le nostre passate relazioni dei vecchi tempi. Mi limito a esprimere l'osservazione che, nell'ora e nel posto indicati, si potranno trovare le vestigia in rovina che ancora Rimangono Di Una Torre franata; Wilkins Micawber. «P.S. Può essere opportuno aggiungere a quanto detto la comunicazione che la signora Micawber non ha avuto confidenziale notizia delle mie intenzioni.» Rilessi questa lettera parecchie volte. Pur tenendo in debito conto l'elevato stile letterario del signor Micawber e lo straordinario piacere con cui si metteva a scrivere lunghe lettere in tutte le occasioni possibili e impossibili, pensavo tuttavia che qualche cosa di importante si nascondesse in fondo a questa ridondante comunicazione. La posai per pensarci; la ripresi per leggerla ancora una volta; e stavo ancora esaminandola quando Traddles mi trovò nel pieno delle mie perplessità. «Caro mio,» dissi, «non ho mai avuto tanto piacere di vederti. Arrivi a darmi il beneficio del tuo chiaro giudizio nel momento più opportuno. Ho ricevuto una singolarissima lettera dal signor Micawber.» «No!» esclamò Traddles. «Non me lo dire! E io ne ho ricevuta una dalla signora Micawber!» Così dicendo, Traddles, che era ancora accaldato per la camminata, e i cui capelli, sotto l'effetto combinato del moto e dell'eccitazione, stavano dritti come se vedesse un allegro fantasma, tirò fuori la sua lettera e la scambiò con la mia. Io lo guardai sprofondarsi nell'intimo della lettera del signor Micawber e gli restituii l'alzata di sopracciglia con cui disse: «‹Brandire fulmini o dirigere in qualche direzione la fiamma divorante e vendicatrice!› Dio mi benedica, Copperfield!» Dopo di che mi misi a leggere l'epistola della signora Micawber. Diceva così: «I miei migliori rispetti al signor Thomas Traddles, e, se egli ricorda ancora una che un tempo ebbe la felicità di conoscerlo da vicino, posso chiedergli alcuni momenti del suo tempo libero? Assicuro il signor T.T. che non mi imporrei alla sua bontà se mi trovassi in una condizione diversa da quella che confina con la disperazione. «Per quanto sia per me straziante parlarne, il distacco del signor Micawber (un tempo così casalingo) da sua moglie e dalla sua famiglia è la ragione che mi fa rivolgere questo desolato appello al signor Traddles sollecitando la sua più profonda indulgenza. Il signor T. non può farsi un'idea adeguata del cambiamento avvenuto nella condotta del signor Micawber, della sua estrosità, della sua violenza. Questo mutamento è gradualmente aumentato fino ad assumere le apparenze di un'aberrazione mentale. Non passa giorno, ne assicuro il signor Traddles, senza che avvenga qualche crisi. Il signor T. non mi chiederà di descrivergli i miei sentimenti quando gli dico che sono solita udire il signor Micawber affermare di essersi venduto al D... Da tempo il mistero e il segreto sono divenuti la sua principale caratteristica rimpiazzando la sconfinata confidenza che aveva in me. La minima provocazione, come il chiedergli se preferisce qualche cosa a pranzo, lo spinge a esprimere il desiderio di una separazione. Ieri sera, fanciullescamente richiesto di due pence per comprare delle ‹delizie al limone› - un dolce locale - minacciò i gemelli con un coltello da ostriche. «Prego il signor Traddles di essere paziente se entro in questi particolari. Senza di essi il signor T. troverebbe certo difficoltà nel formarsi una sia pur pallida idea della mia condizione straziante. «Posso adesso arrischiarmi a confidare al signor T. lo scopo della mia lettera? Mi concederà egli di abbandonarmi alla sua amichevole considerazione? Oh, sì, poiché conosco il suo cuore! «Il solerte occhio dell'affetto non è facilmente accecato, quando si tratta di un affetto femminile. Il signor Micawber sta per recarsi a Londra. Sebbene, stamane prima di colazione, abbia cercato accuratamente di nascondere la sua mano nello scrivere l'indirizzo sul cartellino attaccato alla valigetta marrone dei giorni felici, l'occhio d'aquila dell'ansietà coniugale scoprì distintamente tracciate le lettere d, r, a. La destinazione della diligenza nel West End è il Croce d'Oro. Posso osare di implorare ferventemente il signor T. di incontrare il mio sviato marito e ragionare con lui? Posso osare di chiedere al signor T. di intervenire tra il signor Micawber e la sua angosciata famiglia? Oh no, perché sarebbe troppo! «Se il signor Copperfield ricorda ancora una che è sconosciuta alla fama, vuole il signor T. incaricarsi di presentargli i miei immutabili ossequi e simili rispetti? In ogni caso egli avrà la bontà di considerare questa comunicazione come strettamente privata, e di non alludervi per alcuna ragione, sia pure lontanamente, in presenza del signor Micawber. Se il signor T. volesse mai darmi una risposta (cosa che non posso considerare se non molto improbabile), una lettera indirizzata a M.E., fermo posta, Canterbury, sarà carica di meno pensose conseguenze di una direttamente indirizzata a colei che si firma, nell'estrema angoscia, la rispettosa e supplice amica del signor Traddles, Emma Micawber.» «Che ne pensi di questa lettera?» chiese Traddles fissandomi gli occhi addosso quando la ebbi letta due volte. «E tu che ne pensi dell'altra?» dissi io. Perché la stava ancora leggendo con le sopracciglia aggrottate. «Caro Copperfield,» rispose Traddles, «credo che tutte e due insieme significhino più di quanto il signore e la signora Micawber siano soliti significare nella loro corrispondenza... ma non capisco che cosa. Sono state scritte entrambe in buona fede, non ne ho dubbio, e senza alcun accordo. Poveraccia!» Alludeva adesso alla lettera della signora Micawber, e noi stavamo a fianco a fianco confrontandole. «In ogni caso sarebbe un'opera buona scriverle e dirle che non mancheremo di incontrarci con il signor Micawber.» Consentii a questo con tanta maggior prontezza in quanto mi rimproveravo di aver trattato piuttosto leggermente la prima lettera di lei. A suo tempo quella lettera mi aveva fatto molto pensare, come ho detto a suo luogo; ma, tutto assorto nei miei affari, nelle mie esperienze familiari, e incapace di ascoltare altro, avevo finito a poco a poco col dimenticarmene. Avevo spesso pensato ai Micawber, ma soprattutto per domandarmi quali «impegni pecuniari» avessero assunto a Canterbury, e per rievocare quanto il signor Micawber era stato riservato con me dopo essere divenuto impiegato di Uriah Heep. Comunque scrissi una lettera di conforto alla signora Micawber a nome di entrambi, e tutti e due la firmammo. Mentre andavamo in città per impostarla, Traddles e io tenemmo una lunga conversazione facendo una quantità di supposizioni che è inutile riferire. Nel pomeriggio mettemmo la zia a parte delle nostre congetture; ma l'unica conclusione precisa fu che dovevamo essere puntuali all'appuntamento del signor Micawber. Sebbene arrivassimo al luogo stabilito con un quarto d'ora di anticipo, trovammo il signor Micawber già lì. Era in piedi, a braccia conserte, di fronte al muro, guardandone le punte di ferro sul ciglio con espressione sentimentale, come se fossero le fronde intrecciate degli alberi che gli avevano fatto ombra in gioventù. Quando ci avvicinammo, i suoi modi apparvero un po' confusi e un po' meno signorili di un tempo. Aveva rinunciato, per la sua escursione, al nero abito legale e indossava il soprabito e i calzoni di allora, ma non proprio con l'antica aria. La riprese un po' per volta conversando con noi, ma perfino il suo occhialino sembrava pendere con minor disinvoltura, e il colletto della camicia, sebbene delle vecchie formidabili dimensioni, era piuttosto floscio. «Signori,» disse il signor Micawber dopo i primi saluti, «voi siete amici nel bisogno e veri amici. Permettetemi di informarmi sul benessere fisico della signora Copperfield in esse, e della signora Traddles in posse... presumendo cioè che il mio amico signor Traddles non sia ancora unito, nella buona e nella cattiva sorte, con l'oggetto del suo affetto.» Lo ringraziammo della sua cortesia e gli demmo le risposte appropriate. Allora richiamò la nostra attenzione sul muro, e stava cominciando: «Vi assicuro, signori...» quando mi arrischiai a oppormi a queste forme cerimoniose pregandolo di parlarci al modo di un tempo. «Mio caro Copperfield,» mi rispose stringendomi la mano, «la vostra cordialità mi soverchia. Il modo con cui accogliete un diruto frammento del tempio una volta chiamato uomo - se mi è permesso di esprimermi così - rivela un cuore che fa onore alla nostra comune natura. Stavo per osservare che di nuovo contemplo il luogo sereno dove sono trascorse alcune delle ore più felici della mia esistenza.» «Rese tali, ne sono sicuro, dalla signora Micawber,» dissi. «Spero che stia bene.» «Grazie,» rispose il signor Micawber, il cui volto si rannuvolò all'accenno, «sta così così. E questo,» riprese accennando pensosamente con la testa, «è il Bench! Dove per la prima volta, in tanto volger d'anni, la soverchiante pressione degli impegni pecuniari non era proclamata, giorno per giorno, da importune voci che si rifiutavano di lasciar libero il passaggio; dove non c'era battente sulla porta perché ogni creditore potesse ricorrervi; non era richiesta la notificazione personale del processo e gli ordini di detenzione erano semplicemente presentati al cancello! Signori,» disse il signor Micawber, «quando l'ombra di questi ghirigori di ferro sul sommo di questo muro di mattoni si proiettava sulla ghiaia del viale, ho visto i miei figli alternare i passi lungo le volute dell'intricato tracciato evitando i tratti scuri. Ogni pietra del luogo mi è stata familiare. Se mostro qualche debolezza, saprete scusarmi.» «Abbiamo fatto tutti della strada, da allora, signor Micawber,» dissi. «Signor Copperfield,» rispose amaramente il signor Micawber, «quando ero un inquilino di questo ricovero, potevo guardare in faccia i miei simili e, se qualcuno mi offendeva, rompergli la testa. I miei simili e io non siamo più in questi gloriosi termini!» Distogliendosi dall'edificio con aria abbattuta, il signor Micawber accettò da un lato il braccio che gli offrivo io e dall'altro quello che gli offriva Traddles e si allontanò in mezzo a noi. «Vi sono alcune pietre miliari,» osservò il signor Micawber guardandosi nostalgicamente alle spalle, «lungo la strada che porta alla tomba, che, se non fosse per l'empietà del desiderio, non vorremmo mai avere superato. Tale è il Bench nella mia movimentata carriera.» «Oh, siete un po' giù di morale, signor Micawber,» disse Traddles. «Lo sono, signore,» confermò il signor Micawber. «Spero,» disse Traddles, «che non sia perché la legge vi abbia disgustato... perché io stesso sono uomo di legge, come sapete.» Il signor Micawber non rispose parola. «Come sta il vostro amico Heep, signor Micawber?» chiesi dopo un silenzio. «Mio caro Copperfield,» rispose il signor Micawber cadendo in uno stato di estrema agitazione e impallidendo, «se mi chiedete del mio principale come vostro amico, ne sono spiacente; se mi chiedete di lui come mio amico, non posso che sorridere di sarcasmo. Sotto qualsiasi riguardo mi chiediate notizie del mio principale, vi prego, senza offesa, di poter limitare la mia risposta a questo: che quale che sia il suo stato di salute, il suo aspetto è volpino, per non dire diabolico. Vorrete concedermi, come privato, di evitare un argomento che mi ha spinto a frustate sull'estremo limite della disperazione nella mia attività professionale.» Espressi il mio rincrescimento per avere innocentemente toccato un tema che lo agitava tanto. «Posso chiedere,» dissi, «senza rischio di ripetere lo stesso errore, come stanno i miei vecchi amici, il signore e la signorina Wickfield?» «La signorina Wickfield,» rispose il signor Micawber riprendendo il colore, «è, come è sempre stata, un modello, un fulgido esempio. Mio caro Copperfield, è l'unica zona stellata in un'esistenza miserabile. Il mio rispetto per questa damigella, la mia ammirazione per il suo carattere, la mia devozione a lei per il suo amore, la sua lealtà e la sua bontà...! Portatemi a una svolta,» disse il signor Micawber, «perché sull'anima mia, nel mio presente stato mentale, tutto questo è più forte di me!» Lo spingemmo in una viuzza, dove trasse il fazzoletto e si addossò al muro. Se io lo guardavo con la stessa gravità di Traddles, deve aver pensato che la nostra compagnia non era affatto rianimante. «È mio destino,» disse il signor Micawber singhiozzando schiettamente e tuttavia con un'ombra della sua antica espressione signorile, «è il mio destino, signori, che i migliori sentimenti della nostra natura siano divenuti per me altrettanti rimproveri. Il mio omaggio alla signorina Wickfield è un nugolo di dardi nel mio petto. Fareste meglio a lasciarmi andare come un vagabondo per questa terra. Il verme metterà a posto i miei affari in un attimo.» Senza badare a questa invocazione, restammo lì finché non si rimise in tasca il fazzoletto, si tirò su il colletto e, per ingannare chiunque nelle vicinanze avesse potuto osservarlo, si mise a fischiettare un'arietta con il cappello tutto da una parte. Dissi allora - ignorando che cosa avremmo potuto perdere se avessimo perso di vista anche lui - che sarei stato molto lieto di presentarlo alla zia se voleva venire in diligenza a Highgate, dove c'era un letto pronto per lui. «Ci preparerete un bicchiere del vostro ponce, signor Micawber,» aggiunsi, «e dimenticherete tutto ciò che vi opprime lo spirito in più piacevoli ricordi.» «O, se il confidarvi con amici vi sollevasse di più, potrete farlo con noi, signor Micawber,» disse prudentemente Traddles. «Signori,» rispose il signor Micawber, «fate di me quello che volete! Io sono un filo di paglia sulla superficie dell'alto mare e sono sospinto in ogni direzione dagli elefanti... vi chiedo scusa, volevo dire dagli elementi.» Riprendemmo a camminare a braccetto; trovammo la diligenza che stava per partire, e arrivammo a Highgate senza incontrare ostacoli per via. Io mi sentivo molto a disagio e molto incerto su quello che avrei potuto dire o fare per il meglio. E così pure Traddles, evidentemente. Il signor Micawber, per la maggior parte del viaggio, rimase immerso in un umor tetro. Ogni tanto faceva qualche tentativo di rianimarsi mugolando un rimasuglio di canzone; ma le sue ricadute nella profonda malinconia erano sottolineate dall'ironia di un cappello troppo da una parte e di un colletto tirato su fino agli occhi. Andammo alla casa della zia, piuttosto che alla mia, perché Dora non stava bene. La zia apparve appena fu chiamata e salutò il signor Micawber con gentile cordialità. Il signor Micawber le baciò la mano, si ritirò nel vano della finestra e, cavato il fazzoletto, si abbandonò a una lotta interiore. Il signor Dick era in casa. Per natura era così sensibile alla compassione per chiunque sembrasse trovarsi a disagio, ed era così pronto a scoprire queste persone, che strinse la mano al signor Micawber almeno mezza dozzina di volte in cinque minuti. Questo calore da parte di un estraneo commosse tanto il signor Micawber nel suo cruccio, che, a ogni successiva stretta di mano, riusciva solo a dire: «Mio caro signore, voi mi confondete!» Cosa che allietava tanto il signor Dick da farlo ricominciare con maggior vigore di prima. «La cordialità di questo signore,» disse il signor Micawber a mia zia, «se volete permettermi, signora, di scegliere un'espressione nel dizionario del nostro più rude sport nazionale, mi mette a terra. Per un uomo che lotta con un complesso fardello di perplessità e di inquietudini, una tale accoglienza è una vera prova, ve lo assicuro.» «Il mio amico signor Dick,» disse orgogliosamente la zia, «non è un uomo comune.» «Ne sono convinto,» rispose il signor Micawber. «Mio caro signore!» poiché il signor Dick gli stava stringendo ancora la mano; «sono profondamente sensibile alla vostra cordialità!» «Come state?» chiese il signor Dick con uno sguardo ansioso. «In modo indifferente, mio caro signore,» rispose il signor Micawber sospirando. «Dovete farvi animo,» disse il signor Dick, «e cercare di star comodo per quanto è possibile.» Il signor Micawber era decisamente soverchiato da queste parole amichevoli e dal trovarsi ancora la mano del signor Dick nella sua. «È stato mio destino,» osservò, «incontrare, nel vario panorama dell'umana esistenza, alcune oasi occasionali, ma mai ne ho trovata una così verde e zampillante di acque come questa!» In un'altra occasione, tutto ciò mi avrebbe divertito; ma mi rendevo conto che tutti noi eravamo tesi e a disagio, e osservavo così ansiosamente il signor Micawber nel suo ondeggiare tra un'evidente disposizione a rivelare qualche cosa e una disposizione contraria a non rivelare niente, da sentirmi in un vero stato febbrile. Traddles, seduto sul bordo della sua sedia con gli occhi spalancati e i capelli enfaticamente dritti più che mai, fissava a turno il pavimento e il signor Micawber senza osare dir parola. La zia, sebbene vedessi che la sua più acuta osservazione era concentrata sul suo nuovo ospite, aveva maggior presenza di spirito di tutti noi; perché lo teneva in conversazione e lo costringeva a parlare, gli piacesse o no. «Voi siete da gran tempo amico di mio nipote, signor Micawber,» disse. «Vorrei avere avuto il piacere di conoscervi molto prima.» «Signora,» rispose il signor Micawber, «vorrei avere avuto l'onore di conoscervi in un periodo precedente. Non sono sempre stato il rottame che adesso vedete.» «Spero che la signora Micawber e la vostra famiglia stiano bene, signore,» disse la zia. Il signor Micawber inclinò la testa. «Stanno bene,» rispose disperatamente dopo una pausa, «quanto degli stranieri e dei reietti possono sperare di stare su questa terra.» «Dio vi benedica, signore!» esclamò la zia col suo modo brusco. «Di che parlate?» «La sussistenza della mia famiglia,» rispose il signor Micawber, «trema sulla bilancia. Il mio principale...» Qui il signor Micawber si interruppe lasciandoci delusi, e cominciò a sbucciare i limoni che, secondo le mie indicazioni, gli erano stati messi davanti insieme a tutti gli altri ingredienti che egli usava per fare il ponce. «Il vostro principale, avete detto,» ripeté il signor Dick toccandogli un braccio per fargli riprendere gentilmente il filo del discorso. «Mio buon signore,» rispose il signor Micawber, «mi richiamate a me e ve ne sono obbligato.» Si strinsero ancora la mano. «Il mio principale, signora, una volta ebbe la bontà di dirmi che, se non avessi ricevuto gli emolumenti mensili dovutimi per il mio impiego presso di lui, sarei stato probabilmente un saltimbanco di campagna ingoiando sciabole e mangiando l'elemento divoratore. E, se considero le scarse probabilità contrarie, è molto probabile che i miei figli siano ridotti a guadagnarsi il pane con le contorsioni del loro corpo mentre la signora Micawber favorirà le loro innaturali esibizioni suonando l'organetto.» Il signor Micawber, con un casuale ma espressivo svolazzo del suo colletto, fece intendere che ci si poteva aspettare l'esecuzione di simili spettacoli quando egli non sarebbe stato più in vita; poi riprese a sbucciar limoni con aria disperata. La zia posò il gomito sul tavolino rotondo che teneva sempre presso di sé e lo osservò attentamente. Nonostante la ripugnanza con cui consideravo l'idea di intrappolarlo perché rivelasse cose che non era pronto a rivelare volontariamente, lo avrei portato a questo adesso, se non fosse stato per lo strano modo di procedere in cui lo vedevo avviato; in particolare il fatto che metteva le bucce di limone nel bollitore, lo zucchero nel piattino dello smoccolatoio, l'acquavite nella caraffa vuota, e fiduciosamente tentava di versare acqua bollente da un candeliere. Vedevo che una crisi era imminente, e difatti arrivò. Ammucchiò insieme con gran fracasso tutti i suoi strumenti e i suoi ingredienti, si alzò dalla sedia, tirò fuori il fazzoletto e scoppiò in lacrime. «Mio caro Copperfield,» disse il signor Micawber di dietro il fazzoletto, «questa è un'occupazione che, fra tutte, richiede una mente serena e rispetto di sé. Io non posso portarla in fondo. È fuori questione.» «Signor Micawber,» dissi, «di che si tratta? Parlate, vi prego: siete fra amici.» «Fra amici, signore!» ripeté il signor Micawber; e tutto quello che aveva chiuso in sé esplose a un tratto. «Buon Dio, è proprio perché sono fra amici che il mio stato mentale è quello che è. Di che si tratta, signori? Di che non si tratta? Si tratta di bricconeria; si tratta di bassezza; di inganno, di frode, di cospirazione, si tratta; e il nome di questo infame cumulo è... HEEP!» La zia batté le mani e noi balzammo su come se avessimo il diavolo in corpo. «La battaglia è finita!» gridò il signor Micawber gesticolando violentemente col fazzoletto e spalancando di tanto in tanto entrambe le braccia come se stesse nuotando tra difficoltà più che umane. «Non sopporterò più a lungo questa vita. Sono un miserabile tagliato fuori da tutto ciò che rende tollerabile l'esistenza. Al servizio di questo infernale furfante mi sono trovato sotto il giogo di un tabù. Restituitemi mia moglie, restituitemi la mia famiglia, sostituite il vero Micawber a quello sciagurato che attualmente va in giro nelle scarpe che ho ai piedi, e ordinatemi di ingoiare domani stesso una spada: lo farò. E con buon appetito!» Non ho mai visto un uomo così infiammato in vita mia. Cercai di calmarlo perché potessimo arrivare a qualche cosa di ragionevole; ma lui si scaldava sempre più e non voleva udir parola. «Non metterò più la mano nella mano di alcuno,» disse il signor Micawber ansando, soffiando e singhiozzando a tal punto da sembrare un uomo che lottasse con le acque gelide, «finché non avrò... ridotto in minuzzoli... quel... eh... detestabile... serpente... che è HEEP! Non accetterò l'ospitalità di alcuno, finché non avrò... eh... rovesciato un'eruzione... del Vesuvio... addosso... eh... a quel depravato mascalzone... che è HEEP! Dei rinfreschi... eh... sotto questo tetto... e in particolare il ponce... mi... eh... soffocherebbero... se non... avessi... prima... fatto schizzare gli occhi... fuori della testa... eh... di... quello... smisurato imbroglione e bugiardo... che è HEEP! Io... eh... non riconoscerò nessuno... e... eh... non dirò nulla... e... eh... non vivrò in nessun luogo... finché non avrò frantumato... in... eh... atomi impalpabili... quel... trascendente e immortale ipocrita e spergiuro... che è HEEP!» Avevo davvero qualche timore che il signor Micawber schiantasse sul posto. Il modo con cui si dibatteva fra queste frasi inarticolate e, ogni volta che si avvicinava al nome di Heep, si apriva a forza la strada verso di esso, vi si precipitava quasi venendo meno e lo proferiva con una veemenza poco meno che prodigiosa, faceva paura; ma adesso, quando si abbandonò fumante sulla sedia e ci guardò con in faccia tutti i colori possibili e meno adatti, e, in gola, un'infinita processione di nodi che si seguivano in ardente furia e di lì sembravano scoppiargli nella fronte, aveva tutta l'apparenza di essere agli estremi. Volevo correre in suo aiuto, ma mi allontanò con un cenno ondeggiante della mano e non volle udir parola. «No, Copperfield!... Nessuna comunicazione... eh... finché... la signorina Wickfield... eh... sia compensata dei torti a lei inflitti da questo consumato ribaldo... HEEP!» (sono convinto che non avrebbe potuto pronunciare tre parole di seguito se non fosse stato per la stupefacente energia che questo nome gli ispirava quando egli lo sentiva venire.) «Inviolabile segreto... eh... per tutto il mondo... eh... nessuna eccezione... fra una settimana... eh... all'ora di colazione... eh... tutti presenti... compresa la zia... eh... e quel signore così gentile... all'albergo di Canterbury... eh... dove... la signora Micawber e io... canteremo in coro Tanto tempo fa... e... eh... smaschereremo quell'intollerabile canaglia... che è HEEP! Niente altro da dire... eh... nessun consiglio da ascoltare... vado immediatamente... incapace... eh... sopportare compagnia... sulle tracce di quel maledetto e condannato traditore... che è HEEP!» E ripetendo per l'ultima volta la magica parola che lo aveva sostenuto per tutta la tirata, con una vigoria che superò tutti i suoi precedenti sforzi, il signor Micawber si precipitò fuori della casa, lasciandoci in uno stato di eccitazione, di speranza, di meraviglia che ci ridusse in condizioni poco migliori delle sue. Ma anche allora la sua mania di scriver lettere fu troppo forte perché potesse resistervi; mentre eravamo ancora nel pieno dell'eccitazione, della speranza e della meraviglia, mi fu portata la seguente pastorale da un'osteria delle vicinanze, dove egli era andato a scriverla: «Segretissima e confidenzialissima. «Mio caro signore, «prego che mi sia concesso presentare, per mezzo vostro, le mie scuse alla vostra eccellente zia per la mia crisi di poco fa. L'esplosione di un vulcano che covava il suo fuoco a lungo soppresso è stata il risultato di una battaglia interna più facilmente immaginabile che descrivibile. «Spero di avere reso tollerabilmente chiaro il mio appuntamento per la mattina di oggi a otto nell'edificio dei pubblici trattenimenti a Canterbury, dove la signora Micawber e io abbiamo avuto una volta l'onore di unire le nostre voci alla vostra, nella ben nota canzone dell'immortale doganiere allevato oltre il Tweed. «Compiuto il dovere, portato a termine l'atto di riparazione che solo può permettermi di guardare in faccia i mortali miei simili, non si saprà più nulla di me. Chiederò semplicemente di essere deposto in quel luogo di universale quiete dove «‹Ognun per sempre steso in breve cella, «‹dormono i rudi avi del villaggio,› «Con la semplice iscrizione Wilkins Micawber.» L • SI AVVERA IL SOGNO DEL SIGNOR PEGGOTTY Frattanto erano trascorsi alcuni mesi dal nostro incontro con Martha sulla riva del fiume. Non l'avevo più vista, ma lei aveva comunicato col signor Peggotty in diverse occasioni. Nulla era sorto dai suoi zelanti interventi; né, da quanto egli mi aveva detto, potevo inferire che si fosse raggiunta, per il momento, alcuna traccia del destino di Emily. Confesso che cominciavo a disperare che l'avremmo ritrovata e a cadere sempre più nella convinzione che fosse morta. La sicurezza del signor Peggotty rimaneva immutata. Per quanto sappia - e credo che il suo onesto cuore fosse per me trasparente - non vacillò mai nella sua solenne certezza di ritrovarla. Mai la sua pazienza venne meno. E, sebbene tremassi per l'angoscia che avrebbe potuto portargli un giorno l'improvvisa rovina della sua più solida fede, vi era in essa qualche cosa di così religioso, e tale da esprimere in modo così commovente che la sua àncora scendeva nelle più pure profondità del suo bel carattere, che il rispetto e l'onore in cui lo tenevo ne erano esaltati sempre più. La sua non era una fiducia oziosa che si limitasse a sperare senza fare altro. Era stato un solido uomo di azione per tutta la vita, e sapeva che in tutto ciò in cui aveva bisogno di aiuto doveva fare fedelmente la sua parte e aiutarsi da sé. Ho saputo che talora si alzava di notte, col sospetto che, per qualche ragione, non fosse stata messa la candela sulla finestra della vecchia barca, e andava a piedi fino a Yarmouth. Ho saputo che, leggendo sul giornale qualche notizia che potesse applicarsi a lei, prendeva il suo bastone e partiva per viaggi di tre o quattro ventine di miglia. Andò per mare fino a Napoli e ne tornò, dopo avere udito il racconto a cui la signorina Dartle mi aveva fatto assistere. Tutti i suoi viaggi erano faticosamente compiuti: perché si atteneva sempre all'impegno di risparmiar denaro per Emily, quando l'avesse ritrovata. In tutta questa lunga ricerca, non lo udii mai lamentarsi; mai lo sentii dichiararsi stanco o scoraggiato. Dora lo aveva veduto più volte dopo il nostro matrimonio, e gli voleva molto bene. Rivedo adesso dinanzi a me la sua figura, in piedi presso il divano su cui ella sedeva, col suo rozzo cappello in mano, mentre gli occhi azzurri della mia moglie-bambina si alzavano, con timida meraviglia, verso il suo volto. Talora, di sera, verso il crepuscolo, quando veniva a parlarmi, lo inducevo a fumar la pipa in giardino, passeggiando in su e in giù insieme a me; e allora l'immagine della sua casa abbandonata, e l'aspetto accogliente che aveva sempre la sera, per i miei occhi di fanciullo, quando ardeva il fuoco e attorno gemeva il vento, mi tornava alla memoria vivissimo. Una sera, in quest'ora, mi disse che la notte precedente, nell'uscire, aveva incontrato Martha che lo aspettava nei pressi di casa sua, e che ella gli aveva detto di non lasciare Londra per nessuna ragione prima di averla rivista. «Vi ha spiegato perché?» domandai. «Gliel'ho chiesto, signorino Davy,» rispose, «ma mi disse solo poche parole come fa sempre, e appena avuta la mia promessa andò via.» «Vi ha detto quando potevate sperare di rivederla?» mi informai. «No, signorino Davy,» rispose, passandosi pensosamente la mano sul volto. «Ho chiesto anche questo; ma era più (mi disse) di quanto potesse farmi sapere.» Poiché per molto tempo mi ero astenuto dall'incoraggiarlo a speranze che pendevano da un filo, non feci altro commento se non che immaginavo l'avrebbe rivista presto. Le supposizioni che questa notizia aveva fatto sorgere nel mio animo le tenni per me, ed erano tutte piuttosto deboli. Una sera stavo passeggiando, solo, in giardino, circa quindici giorni dopo. Ricordo bene quella sera. Era la seconda della settimana di attesa richiestaci dal signor Micawber. Era piovuto tutto il giorno e nell'aria c'era un sentore di bagnato. Le foglie erano folte sugli alberi e pesanti di umidità; ma la pioggia era cessata, sebbene il cielo fosse ancora scuro; e gli uccelli gorgheggiavano allegramente, pieni di speranza. Mentre andavo su e giù per il giardino e il crepuscolo si addensava intorno a me, le loro vocette si chetarono; e dominò quel particolare silenzio che è proprio di queste serate di campagna quando anche i più sottili arboscelli sono immobili, se non per qualche occasionale gocciare dai loro rami. Al fianco della nostra villa v'era un piccolo belvedere verdeggiante, di graticci e di edera, attraverso il quale potevo scorgere, dal giardino in cui passeggiavo, la strada che passava davanti alla casa. Mi accadde di volgere gli occhi in quella direzione, mentre pensavo a una quantità di cose; e vidi là una figura avvolta in un modesto mantello. Si chinava ansiosa verso di me e mi faceva cenno. «Martha!» dissi avvicinandomi. «Potete venire con me?» mi domandò in un sussurro inquieto. «Sono stata da lui, ma non è in casa. Ho scritto dove doveva andare e gli ho lasciato il biglietto sul tavolo. Mi hanno detto che non sarebbe stato fuori molto. Ho notizie per lui. Potete venire subito?» Risposi uscendo immediatamente dal cancello. Fece un rapido gesto con la mano, come per chiedere la mia pazienza e il mio silenzio, e si volse verso Londra da cui, come il suo abito faceva capire, era venuta frettolosamente a piedi. Le chiesi se dovevamo andare là. Avendomi accennato di sì con lo stesso gesto frettoloso di prima, fermai una carrozza vuota che passava e vi salimmo. Quando le chiesi dove il cocchiere doveva dirigersi, rispose: «In qualche parte presso Golden Square! Ma presto!» Poi si rannicchiò in un angolo con una mano tremante davanti al volto e facendo con l'altra il gesto di poc'anzi come se non potesse sopportare una voce. Molto inquieto, adesso, abbagliato da lampi contrastanti di speranza e di timore, la guardai per avere qualche spiegazione. Ma, vedendo quanto desiderasse rimanere tranquilla, e sentendo che, in quel momento, avevo anch'io la stessa naturale inclinazione, non tentai di rompere il silenzio. Andammo avanti senza dire una parola. Ogni tanto lei guardava dal finestrino come se pensasse che andavamo troppo piano, sebbene in realtà corressimo in fretta; ma per altro rimase esattamente come prima. Scendemmo a una delle entrate della piazza che aveva detto, dove dissi al vetturino di attendere, pensando che avremmo potuto averne bisogno. Lei mi appoggiò la mano sul braccio e mi fece affrettare per uno dei vicoli scuri che sono numerosi da quelle parti e dove le case erano state una volta belle dimore per singole famiglie degenerando poi, già da molto tempo, in poveri alloggi affittati per stanze. Entrata per il portone aperto di una di quelle case, mi lasciò il braccio e mi accennò di seguirla su per la scala comune che era come un canale tributario della strada. L'edificio pullulava di inquilini. Mentre salivamo, porte di stanze si aprivano e gente sporgeva la testa; incontrammo altra gente che scendeva. Nel guardare in su dall'esterno, prima di salire, avevo visto donne e bambini oziosamente affacciati alle finestre, sopra vasi di fiori; e, a quanto pareva, avevamo attratto la loro curiosità perché soprattutto questi erano gli osservatori che si sporgevano dalle porte. Era una scala a grandi pannelli, con massicce balaustrate di qualche legno scuro; cornici alle porte, ornate con fiori e frutta intagliati, e vasti sedili nei vani delle finestre. Ma tutte queste tracce di una grandezza passata erano miserabilmente sporche e decadute; la corruzione, l'umidità e il tempo avevano indebolito il pavimento che in molti punti era guasto e perfino insicuro. Notai che erano stati fatti alcuni tentativi per infondere nuovo sangue in quella deperita struttura riparando qua e là con materiale vile i vecchi lavori di legno prezioso; ma era come il matrimonio di un vecchio nobile decaduto con una plebea indigente, e ogni parte di quell'unione male assortita si ritraeva dall'altra. Parecchie finestre delle scale, che davano sul retro, erano state oscurate o addirittura accecate. Quelle che rimanevano non avevano quasi più vetri; e, dalle intelaiature rotte da cui sembrava sempre entrare aria cattiva e non mai uscirne, vedevo, attraverso altre finestre senza vetri, altre case in simili condizioni e, con un senso di vertigine, guardavo in giù, in uno squallido cortile che era l'immondezzaio comune di tutto l'edificio. Continuavamo a salire verso l'ultimo piano. Due o tre volte, per le scale, mi parve di vedere, nella fioca luce, la gonna di una figura femminile che ci precedeva. Nel voltarci per affrontare l'ultima rampa fra noi e il tetto, la potemmo vedere in pieno mentre sostava un momento davanti a una porta. Poi girò la maniglia ed entrò. «Che succede?» mormorò Martha. «È entrata nella mia stanza. Non la conosco.» Ma io la conoscevo. Avevo riconosciuto in lei con stupore la signorina Dartle. Spiegai in poche parole alla mia guida che era una dama già a me nota, e lo avevo appena fatto quando udii la sua voce nella stanza, sebbene, dal punto in cui eravamo, non potevo capire che cosa dicesse. Martha, con uno sguardo attonito, riprese a salire conducendomi silenziosamente su per la scala; poi, per una porticina secondaria che sembrava non avesse serratura e che ella aprì solo toccandola, mi fece entrare in un abbaino vuoto con un basso tetto inclinato: poco più di un armadio. Tra questo e la stanza che aveva detto essere la sua, v'era una piccola porta di comunicazione, parzialmente aperta. Ci fermammo qui, senza fiato per la salita, ed ella posò leggermente la mano sulle mie labbra. Dell'altra stanza potevo vedere solo che era piuttosto vasta, che vi era un letto e che alcune stampe popolari di navi erano appese alle pareti. Non potevo vedere la signorina Dartle né la persona a cui l'avevamo udita rivolgersi. Certo non lo poteva nemmeno la mia compagna, perché io ero in posizione migliore. Un silenzio di morte dominò per qualche momento. Martha continuava a tenermi una mano sulle labbra e alzava l'altra come chi ascolti. «Poco mi importa se lei non è in casa,» disse altezzosamente Rosa Dartle. «Non so nulla di lei. Io sono venuta per voi.» «Per me?» ripeté una voce dolce. Al suono di essa mi sentii percorso da un brivido. Era la voce di Emily. «Sì,» rispose la signorina Dartle, «sono venuta per vedervi. Come? Non vi vergognate di questa faccia che ha fatto tanto male?» L'odio deciso e implacabile della sua voce, la sua fredda e tagliente durezza, la sua rabbia controllata me la raffigurarono come se me la fossi vista dinanzi in piena luce. Vidi i suoi neri occhi fiammeggianti e il suo volto devastato dalla passione; e vidi la cicatrice, con la sua linea bianca che le tagliava le labbra, tremante e palpitante mentre parlava. «Sono venuta a vedere,» disse, «il capriccio di James Steerforth, la ragazza che è fuggita con lui e che è la favola della gente comune del suo paese; l'audace, ambiziosa e astuta compagna di persone come James Steerforth. Voglio vedere come è fatto un essere simile.» Ci fu un fruscìo, come se l'infelice fanciulla su cui rovesciava questi insulti fosse corsa verso la porta ed ella si fosse prontamente interposta. Seguì una momentanea pausa. Quando la signorina Dartle parlò ancora, lo fece a denti stretti e battendo il piede sul pavimento. «Restate lì!» esclamò, «o vi svergognerò davanti a tutta la casa e a tutta la via! Se tentate di sfuggire a me, vi fermerò, dovessi afferrarvi per i capelli, e solleverò contro di voi perfino i sassi!» Un mormorìo di terrore fu l'unica risposta che giunse al mio orecchio. Seguì un silenzio. Non sapevo che fare. Per quanto desiderassi metter fine a questo colloquio, sentivo di non avere il diritto di presentarmi; spettava al solo signor Peggotty vederla e confortarla. Non sarebbe mai venuto? pensavo con impazienza. «Così,» disse Rosa con una risata sprezzante, «la vedo, finalmente! Oh, è stato davvero un pover'uomo a lasciarsi prendere da questa delicata finta modestia e da questa fronte china!» «Per amor del cielo, risparmiatemi!» esclamò Emily. «Chiunque siate, voi conoscete la mia pietosa storia, e, per amor del cielo, risparmiatemi, se volete essere risparmiata!» «Se io voglio essere risparmiata!» rispose l'altra fieramente. «Che cosa credete che ci sia in comune fra di noi?» «Niente altro che il sesso,» disse Emily scoppiando in lacrime. «E questo,» rispose Rosa Dartle, «è un appello così forte, pronunciato da un'infame come voi, che, se avessi per voi nel cuore altri sentimenti che il disprezzo e l'aborrimento, me lo sentirei gelare. Il nostro sesso! Siete veramente un onore per il nostro sesso!» «Me lo sono meritato,» gemette Emily, «ma è terribile! Cara, cara signora, pensate a quello che ho sofferto e a come sono caduta! Oh, Martha, ritorna! Oh, casa, casa!» La signorina Dartle si sedette, tenendo in vista la porta, e abbassò lo sguardo, come se Emily si fosse abbandonata sul pavimento davanti a lei. Adesso era tra me e la luce, e io potevo vedere le sue labbra contratte e gli occhi crudeli, intensamente fissi su di un punto, con un avido trionfo. «Ascoltate quello che dico!» esclamò, «e serbate per le vostre vittime queste false arti. Credete di commuovere me con le vostre lacrime? Non più di quanto potreste rallegrarmi con i vostri sorrisi, schiava prezzolata.» «Oh, abbiate qualche pietà di me!» gridò Emily. «Mostratemi un po' di compassione o morirò folle!» «Non sarebbe una gran pena,» disse Rosa Dartle, «per i vostri delitti. Vi rendete conto di quello che avete fatto? Avete mai pensato alla casa che avete rovinato?» «Oh, c'è forse un giorno o una notte in cui non ci pensi!» esclamò Emily; e adesso la potei vedere, in ginocchio, con la testa all'indietro, il pallido viso volto in su, le mani disperatamente strette e protese e i capelli sciolti sulle spalle. «C'è forse stato un solo minuto in cui, nella veglia o nel sonno, non me la sia vista dinanzi come era in quei giorni perduti, quando le volsi le spalle per sempre, per sempre? Oh, casa, casa! Oh, caro, caro zio, se tu avessi potuto immaginare l'angoscia che il tuo amore mi avrebbe causato quando mi allontanai dal bene, non me lo avresti mostrato con tanta costanza in tutta la sua interezza; saresti stato aspro con me, almeno una volta nella mia vita, perché potessi avere qualche conforto! Io non ho nessun conforto sulla terra, assolutamente nessuno perché tutti mi hanno voluto sempre bene!» Cadde in avanti, di fronte all'imperiosa figura seduta, con un implorante sforzo per afferrare il lembo della sua veste. Rosa Dartle rimase sulla sua sedia abbassando lo sguardo su di lei, inflessibile come una statua di bronzo. Stringeva con forza le labbra, come sapendo di doversi energicamente dominare perché altrimenti - scrivo quello che sinceramente credo - sarebbe stata tentata di colpire col piede quel bel volto. La vedevo distintamente, e tutto il potere del suo viso e del suo carattere sembravano concentrati in quell'espressione. - Ma non sarebbe mai arrivato il signor Peggotty? «La miserabile vanità di questi vermi!» disse quando ebbe abbastanza dominato i furiosi palpiti del suo seno da poter parlare. «La vostra casa! Vi immaginate che io me ne dia pensiero o supponga che possiate fare a quel tugurio un qualsiasi danno che non sia ripagabile, e con abbondanza, con un po' di denaro? La vostra casa! Voi eravate una parte della mercanzia della vostra casa, e siete stata comprata e venduta al pari di qualsiasi altra cosa vendibile in cui commercia la vostra gente.» «Oh, questo no!» gridò Emily. «Dite di me tutto quello che volete; ma non estendete la mia disgrazia e la mia vergogna, più che non l'abbia fatto io, su persone che sono onorate quanto voi! Abbiate rispetto per loro, se siete una signora, anche se non avete pietà di me.» «Io parlo,» continuò l'altra senza degnarsi di fare attenzione a questo appello e ritraendo il suo abito dalla contaminazione del contatto con Emily, «io parlo della sua casa... in cui vivo. Ecco qui,» disse stendendo la mano con la sua risata sprezzante e guardando verso la ragazza prostrata, «la degna causa della separazione tra una madre gentildonna e un figlio gentiluomo; della sventura di una casa in cui non sarebbe stata ammessa come sguattera; di collere, di lamentele, di rimproveri. Questo essere corrotto, raccattato su una spiaggia, da servirsene per un'ora e poi ributtare là di dove era venuta!» «No, no,» gridò Emily giungendo le mani. «Quando si mise per la prima volta sulla mia strada - quel giorno che non avrebbe mai dovuto sorgere per me, e in cui egli avrebbe dovuto incontrare il mio funerale! - ero stata allevata virtuosa al pari di voi e di qualsiasi altra signora, e stavo per essere la sposa di un uomo giusto quale voi e qualsiasi signora al mondo potreste sposare. Se vivete nella sua casa e lo conoscete, saprete forse quale può essere il suo potere su di una ragazza debole e vana. Non mi difendo, ma so bene, e lui sa bene, o lo saprà nell'ora della morte, quando la sua anima ne sarà inquietata, che ha usato tutto il suo fascino per ingannarmi, e che io gli ho creduto, ho avuto fiducia in lui e l'ho amato!» Rosa Dartle balzò in piedi; indietreggiò; e indietreggiando cercò di colpirla, con un volto così maligno, così cupo e sfigurato dalla passione che io per poco non mi precipitai fra loro. Il colpo, che non aveva mira, cadde nell'aria. Mentre ella stava lì anelante, guardando l'altra col più profondo odio che fosse capace di esprimere e tremante da capo a piedi per la rabbia e il disprezzo, pensai che non avevo mai visto un simile spettacolo né mai più avrei potuto vederne un altro. «Voi amare lui? Voi?» gridò stringendo a pugno la mano e fremendo come se le mancasse solo un'arma per trafiggere l'oggetto della sua rabbia. Emily si era allontanata dalla mia vista. Non vi fu risposta. «E lo dite a me,» aggiunse, «con queste labbra vergognose? Perché non li frustano, questi esseri? Se potessi ordinarlo, questa ragazza la farei frustare a morte.» E lo avrebbe fatto, non ne ho dubbi. Con quello sguardo furente, non avrebbe respinto nemmeno il supplizio della ruota. Lentamente, molto lentamente, scoppiò in una risata e puntò la mano verso Emily come se fosse uno spettacolo di vergogna per gli dèi e per gli uomini. «Lei amarlo!» disse. «Quella carogna! E mi dirà anche che lui l'amava. Ah, ah, che bugiardi sono questi mercenari!» Il suo scherno era peggiore della sua decisa rabbia. Dei due, avrei preferito essere oggetto della seconda. Ma, se la lasciava scatenarsi era solo per un momento. Subito la dominava e, per quanto potesse straziarla nell'intimo, la teneva soggiogata. «Sono venuta qui, mia pura sorgente di amore,» disse, «per vedere, come vi ho subito detto, che cosa fosse un essere come voi. Ero curiosa. Adesso sono soddisfatta. E anche per dirvi che avreste fatto meglio a cercare quella vostra casa, in tutta fretta, e a nascondervi tra quelle eccellenti persone che vi stanno aspettando e che il vostro denaro potrà consolare. Quando sarà finito potrete credere, e aver fiducia e amare di nuovo, lo sapete! Vi credevo un giocattolo rotto che avesse fatto il suo tempo, un lustrino senza valore, arrugginito e gettato via. Ma, poiché siete oro puro, una vera dama, un'innocente maltrattata con un cuore fresco pieno d'amore e di fedeltà - come apparite e bene in accordo con la vostra storia! - ho qualche altra cosa da dirvi. Stateci attenta perché quello che dico lo farò. Mi udite, etereo spirito? Quello che dico intendo farlo!» Per un momento l'ira la dominò ancora, ma passò sul suo volto come uno spasimo e la lasciò sorridente. «Nascondetevi,» proseguì, «se non a casa vostra in qualche altra parte. In qualche luogo fuori della mia portata, in qualche oscura vita... o meglio ancora in qualche oscura morte. Mi meraviglio, visto che il vostro cuore innamorato non si è spezzato, che non abbiate ancora trovato il mezzo per impedirgli di continuare a battere! Ho sentito parlare a volte di mezzi del genere. Credo che si possano trovare facilmente.» Un pianto sommesso da parte di Emily la interruppe. Si fermò ad ascoltarlo come se fosse musica. «Forse ho uno strano carattere,» proseguì Rosa Dartle; «ma non posso respirare liberamente l'aria che voi respirate. La trovo infetta. Quindi voglio che sia purificata. Se domani sarete ancora qui, racconterò per tutte queste scale la vostra storia e chi siete. Vi sono donne oneste in questa casa, a quanto mi si dice; ed è un peccato che una luce come la vostra rimanga nascosta in mezzo a loro. Se, uscendo di qui, cercherete un rifugio in questa città sotto qualsiasi altro aspetto che non sia il vostro (e che vi vedrò assumere con piacere senza darvi altra molestia) vi userò lo stesso trattamento appena sarò a conoscenza del vostro nascondiglio. Poiché sono assistita da un signore che non molto tempo fa aspirava al favore della vostra mano, ho fiducia quanto a questo.» Ma non sarebbe dunque mai arrivato? Per quanto tempo dovevo sopportare tutto ciò? E per quanto tempo avrei potuto farlo? «Ohimè, ohimè!» esclamò la sventurata Emily in un tono che credo avrebbe toccato il cuore più duro; ma il sorriso di Rosa Dartle non si placò. «Che cosa, che cosa devo fare?» «Fare?» rispose l'altra. «Vivete felice con le vostre riflessioni! Consacrate la vostra esistenza al ricordo delle tenerezze di James Steerforth - avrebbe voluto darvi in moglie al suo servo, no? - o alla riconoscenza per quell'eletta e meritevole creatura che era pronta ad accettarvi in dono. O, se queste superbe memorie, e la coscienza delle vostre virtù, e la posizione onorata a cui vi hanno elevata davanti a tutto ciò che ha forma umana, non bastano a sostenervi, sposate quel brav'uomo e siate felice della sua degnazione. E se non serve neanche questo, morite! vi sono portali e immondezzai per queste morti e per queste disperazioni... trovatene uno e volate in cielo.» Udii un passo lontano sulle scale. Fui sicuro di riconoscerlo. Era il suo, grazie a Dio! Nel parlare ella si scostò lentamente dalla porta e scomparve dalla mia vista. «Ma, state attenta!» aggiunse lenta e cupa aprendo l'altra porta per andarsene, «sono decisa, per ragioni mie e odii miei propri, a togliervi di mezzo a meno che non scompariate totalmente o facciate cadere la vostra graziosa maschera. Questo è tutto quello che ho da dire; e quello che dico intendo farlo!» Il passo sulle scale si avvicinò... fu sempre più vicino... oltrepassò la donna che usciva... si precipitò nella stanza! «Zio!» Un grido terribile seguì questa parola. Mi fermai per un attimo e, guardando dentro, vidi che teneva fra le braccia il corpo esanime di lei. La fissò in volto per qualche secondo; poi si chinò a baciarlo - oh, quanto teneramente! - e vi distese sopra un fazzoletto. «Signorino Davy,» disse con voce bassa e tremante dopo aver coperto quel viso, «ringrazio il mio Padre Celeste perché il mio sogno si è avverato! Lo ringrazio per avermi guidato, lungo le Sue vie, alla mia diletta!» Così dicendo la prese fra le braccia e, mentre il volto velato giaceva sul suo petto, rivolto verso di lui, la portò, immobile e inconscia, giù per le scale. LI • PRINCIPIO DI UN PIÙ LUNGO VIAGGIO Il mattino seguente era ancora presto quando, mentre passeggiavo nel mio giardino con la zia (che ormai non faceva quasi altro moto passando tutto il tempo ad assistere la mia cara Dora), fui avvertito che il signor Peggotty desiderava parlarmi. Entrò nel giardino per venirmi incontro a mezza strada mentre io mi avviavo al cancello; e si scoprì come era sempre solito fare quando incontrava la zia, per la quale aveva un profondo rispetto. Io le avevo appunto raccontato tutto quello che era avvenuto la sera prima. Senza parlare, ella venne avanti con volto cordiale, gli strinse la mano e gli batté sul braccio. Il gesto fu così espressivo che lei non ebbe bisogno di aggiungere una parola. Il signor Peggotty la capì perfettamente, come se ne avesse dette mille. «Adesso rientro, Trot,» disse la zia, «per occuparmi di Fiorellino che tra poco si alzerà.» «Non sarà per causa mia, spero,» disse il signor Peggotty. «Se il mio cervello stamane non va a cercar nidi,» - espressione con cui il signor Peggotty intendeva dire essere fuori di cervello - «è proprio per me che volete andarvene.» «Mio buon amico, voi avete qualche cosa da dire,» rispose la zia, «e lo farete meglio senza di me.» «Con vostra licenza, signora,» disse il signor Peggotty, «considererei una bontà da parte vostra, purché le mie chiacchiere non vi annoino, se restaste.» «Lo desiderate?» chiese la zia con la sua brusca benevolenza. «E allora lo desidero anch'io!» Così mise il braccio sotto quello del signor Peggotty e si diresse con lui verso un piccolo e folto pergolato che era in fondo al giardino, dove sedette su di una panchina al mio fianco. V'era un sedile anche per il signor Peggotty, ma lui preferì restare in piedi posando una mano sul tavolino rustico. Mentre era lì, guardandosi per un momento il cappello prima di cominciare a parlare, non potei fare a meno di notare il potere e la forza di carattere che quella forte mano esprimeva, e che buon e fedele compagno essa fosse per la sua fronte onesta e i suoi capelli di un grigio di acciaio. «Ieri sera ho portato la mia cara bambina,» cominciò il signor Peggotty alzando gli occhi verso di noi, «a casa mia, dove l'avevo attesa per tanto tempo e avevo preparato tutto per lei. Ci vollero delle ore prima che riuscisse a riconoscermi bene; e quando ci arrivò, si inginocchiò ai miei piedi e dolcemente, come se fossero le sue preghiere, mi raccontò come tutto era andato. Potete credermi: quando udii la sua voce, come l'avevo udita così gioiosa a casa nostra - e la vidi umiliata come avrebbe potuto esserlo nella polvere su cui il Salvatore scrisse con la sua mano benedetta - mi sentii una fitta al cuore pur con tutta la mia gratitudine.» Si passò la manica sul volto senza cercar di nascondere perché; e poi si schiarì la voce. «Ma non rimasi a lungo con questi sentimenti; perché ormai l'avevo trovata. Dovevo pensare solo che l'avevo trovata e che tutto era passato. Non so proprio perché parli di tutto questo adesso. Un minuto fa non avevo in mente di dire una parola su di me; ma mi è venuto così naturale che ho ceduto prima di rendermene conto.» «Siete pieno di abnegazione,» disse la zia, «e ne sarete compensato.» Il signor Peggotty, con le ombre delle foglie che giocavano sul suo volto, inchinò sorpreso la testa verso mia zia come per ringraziarla della sua buona opinione; e poi riprese il filo che aveva lasciato. «Quando la mia Emily fuggì,» disse, con cupa ira per un momento, «dalla casa in cui era stata tenuta prigioniera da quel maculato serpente che il signorino Davy ha visto, - e la storia è vera, e Dio possa confonderlo - fuggì di notte. Era una notte buia, piena di stelle. Lei era fuori di sé. Si mise a correre lungo la spiaggia credendo che la vecchia barca fosse lì; e ci gridava di volgere la faccia perché lei stava arrivando. Udiva le sue grida come se fossero quelle di un'altra persona; e si ferì su quelle pietre e quelle rocce aguzze, ma non sentiva nulla, quasi fosse stata una roccia lei stessa. Corse sempre, e aveva un fuoco davanti agli occhi e un muggito nelle orecchie. D'improvviso - o così le parve, capite - sorse il giorno, umido e ventoso, e lei era sdraiata presso un mucchio di pietre sulla spiaggia, e una donna le parlava chiedendole, nella lingua del luogo, che cosa le era accaduto di così straordinario.» Vedeva tutto quello che narrava. Gli passava davanti così vivido, mentre parlava, che, nell'intensità del suo fervore, mi presentava le sue descrizioni con una nettezza molto superiore a quella che io possa esprimere. Quasi non posso credere, scrivendo dopo tanto tempo, di non essere stato presente a queste scene, tanto si sono impresse in me con un meraviglioso senso di verità. «Quando gli occhi di Emily - che si aprivano a fatica - videro questa donna,» proseguì il signor Peggotty, «si accorse che era una di quelle con cui aveva spesso parlato sulla spiaggia. Perché, sebbene avesse corso tanto, come ho detto, durante la notte, ella aveva fatto spesso lunghe gite, in parte a piedi, in parte in barca o in carrozza, e conosceva tutta la regione lungo la costa per miglia e miglia. Quella donna non aveva figli perché era sposata da poco; ma ne aspettava presto uno. E possano le mie preghiere salire al cielo affinché quel bambino sia la sua felicità, il suo conforto, il suo onore per tutta la vita! Possa amarla e rispettarla nella vecchiaia, e aiutarla fino all'ultimo: un angelo per lei in terra e dopo!» «Amen!» disse la zia. «Questa donna era stata sempre timida e timorosa con lei,» disse il signor Peggotty, «e, nei primi tempi, se ne era stata seduta un po' in disparte filando o facendo altri lavori, mentre Emily parlava con i bambini. Ma Emily si era interessata a lei ed era andata a parlarle; e poiché quella giovane amava anche lei i bambini, avevano presto fatto amicizia. Così che, quando Emily passava di là, ella sempre le portava dei fiori. Era proprio lei quella che adesso le domandava che cosa era avvenuto di così straordinario. Emily glielo disse, e lei... la portò nella sua casa. Proprio questo, fece. La portò nella sua casa,» disse il signor Peggotty coprendosi il volto. Era più commosso da questo atto di bontà di quanto lo avessi visto commuoversi per qualsiasi altra cosa dopo la notte in cui Emily era fuggita. La zia e io, non osammo turbarlo. «Era una piccola casetta, come potete immaginare,» riprese poco dopo, «ma lei trovò un posto per Emily. Suo marito era lontano, sul mare, e lei tenne segreta la cosa, e convinse i vicini (che non erano molti, lì presso) a tenerla segreta anche loro. Emily fu presa da una brutta febbre e, ciò che è molto strano per me, - forse non lo sarà per le persone istruite - la lingua del luogo le uscì di testa, e lei poteva parlare solo la sua, che nessuno capiva. Si ricorda, come se lo avesse sognato, che giaceva lì, sempre parlando la sua lingua e sempre convinta che la vecchia barca fosse nei pressi, sulla spiaggia, e pregava e implorava di mandar là qualcuno a dire che lei stava morendo e portarle un messaggio di perdono, fosse anche una sola parola. Per quasi tutto quel tempo credette, ora, che l'uomo di cui ho parlato poco fa si tenesse all'agguato sotto la finestra, ora che colui che l'aveva portata a quel punto fosse nella stanza, e gridava a quella buona giovane di non tradirla, e in egual tempo si rendeva conto di non poter essere capita e temeva di essere portata via. E aveva sempre il fuoco davanti agli occhi e il muggito nelle orecchie; e non c'era più né oggi, né ieri, né domani, ma tutto quello che le era successo nella vita, o avrebbe potuto succederle, e tutto quello che non le era successo né mai avrebbe potuto si affollava in lei tutto in una volta, non mai chiaro né piacevole, e tuttavia lei cantava e ne rideva! Quanto tempo sia durato tutto questo non lo so; ma poi le prese un sonno; e in questo sonno, molto più forte del suo sonno consueto, cadde nella debolezza di un bambino.» Qui si fermò come per riprendersi dai terrori della sua stessa descrizione. Dopo essere rimasto in silenzio per pochi minuti, continuò la sua storia. «Quando si svegliò era un bel pomeriggio, e così tranquillo che non si sentiva altro suono che il mormorìo di quel mare azzurro, senza un'increspatura, sulla spiaggia. Dapprima credette di essere a casa in un mattino di domenica; ma le foglie di vite che vedeva alla finestra e le colline al di là non erano di casa sua e le dicevano il contrario. Allora entrò la sua amica per assisterla, a fianco del letto; e allora si accorse che la vecchia barca non era più dietro quel punto sulla spiaggia, ma molto lontana; e si rese conto di dove era e perché; e scoppiò a piangere sul seno di quella buona giovane, dove spero che adesso ci sia il suo piccolo e la rallegri con i suoi occhietti.» Non poteva parlare di questa buona amica di Emily senza lasciar scorrere le lacrime. Era inutile cercare di trattenerle. Ruppe ancora in singhiozzi sforzandosi di benedirla. «Questo fece bene alla mia Emily,» proseguì dopo una così profonda emozione che io non potevo osservarla senza condividerla; quanto alla zia, piangeva di tutto cuore; «questo fece bene alla mia Emily e lei cominciò a riprendersi. Ma la lingua del luogo le era completamente sfuggita, e adesso doveva esprimersi a gesti. Così andò avanti, migliorando giorno per giorno, lentamente ma con sicurezza, e cercando di imparare i nomi delle cose più comuni - nomi che le sembrava di non avere mai uditi in vita sua - finché venne una sera in cui era seduta alla finestra guardando una bambina che giocava sulla spiaggia. E improvvisamente questa bambina alzò una mano e disse quello che in inglese sarebbe: ‹Figlia del pescatore, guarda una conchiglia!› - perché dovete sapere che dapprima erano soliti chiamarla Bella Signora, secondo l'uso della regione, e lei aveva insegnato loro a chiamarla invece Figlia del pescatore. La bambina dice improvvisamente: ‹Figlia del pescatore, guarda una conchiglia!› E allora Emily la capisce, e risponde scoppiando in lacrime, e ricorda tutto. «Quando Emily si fu rimessa in forze,» disse il signor Peggotty dopo un'altra pausa di silenzio, «cercò il modo di lasciare quella buona giovane e raggiungere il suo paese. Adesso il marito era tornato; e i due la portarono a bordo di un piccolo mercantile diretto a Livorno e di lì in Francia. Lei aveva un po' di denaro, ma per tutto quello che avevano fatto essi vollero accettare solo una minima parte. E io quasi ne sono contento, sebbene fossero così poveri! Perché quello che hanno fatto è lassù dove il tarlo e la ruggine non corrodono e dove i ladri non scassinano né rubano. Signorino Davy, durerà più di tutti i tesori del mondo. «Emily raggiunse la Francia e prese servizio in un albergo del porto, come cameriera per le viaggiatrici. E proprio lì, un giorno, arrivò quel serpente... Che non mi capiti mai fra le mani. Non so quello che potrei fargli!... Appena lo vide, senza che lui la vedesse, la ripresero tutte le sue paure e le sue frenesie; e lei fuggì il suo stesso respiro. Venne in Inghilterra e sbarcò a Dover. «Non so bene,» disse il signor Peggotty, «quando il cuore cominciò a mancarle; ma per tutto il viaggio aveva pensato di tornare alla sua cara casa. Appena sbarcata in Inghilterra vi si diresse. Ma la paura di non essere stata perdonata, la paura di essere mostrata a dito, la paura che qualcuno di noi fosse morto per causa sua, la paura di tante cose la distolse da questo progetto, quasi per forza, mentre era già per via. ‹Zio, zio,› mi ha detto, ‹la paura di non essere degna di fare quello che il mio cuore spezzato e sanguinante desiderava tanto fare, era la più terribile di tutte! Tornai indietro col cuore traboccante del desiderio di poter strisciare fino alla vecchia soglia, di notte, baciarla, posarvi il mio volto sciagurato ed essere trovata lì morta al mattino.› «Venne,» disse il signor Peggotty abbassando la voce fino a un sussurro atterrito, «a Londra. Lei... che non l'aveva mai vista in vita sua... sola... senza denaro... giovane... bella... venne a Londra. Quasi nel momento stesso in cui vi giunse, così desolata, trovò (credeva) un'amica; una donna civile che le parlò di lavori di cucito come quelli che lei aveva imparato a eseguire, dicendo che gliene avrebbe trovati in buona quantità, che avrebbe potuto dormire da lei quella notte e che il mattino avrebbe fatto segrete ricerche di me e di tutti quelli di casa. Quando la mia bambina,» disse a voce alta e con uno slancio di gratitudine che lo scosse dalla testa ai piedi, «fu sull'orlo di ciò che è più di quanto possa dire o pensare... Martha mantenne la promessa e la salvò.» Non potei reprimere un grido di gioia. «Signorino Davy!» disse stringendomi la mano in quella sua forte mano, «siete stato voi che mi avete per primo parlato di lei. Vi ringrazio, signore! Ella fu pronta. Sapeva per sua amara esperienza dove cercare e che fare. Lo aveva fatto. E il Signore le protesse entrambe. Viene, pallida e in gran fretta, dall'Emily che ancora dormiva. Le dice: ‹Alzati, fuggi da quello che è peggio della morte e vieni con me!› Quelli di casa avrebbero voluto fermarla, ma avrebbero fermato più facilmente il mare. ‹Lontani da me!› dice. ‹Sono un fantasma che la chiama fuori dalla tomba aperta!› Disse a Emily che mi aveva visto e sapeva che io l'amavo e la perdonavo. Le mise addosso le vesti in fretta e furia. La sorresse, debole e tremante, col suo braccio. Non badò a quello che le dicevano come se non avesse avuto orecchie. Passò fra quella gente con la mia bambina, pensando solo a lei; e la portò salva, nel cuore della notte, fuori da quel buio pozzo di rovina! «Vegliò su Emily,» continuò il signor Peggotty, che mi aveva lasciato la mano e aveva portato la sua sul petto ansante, «vegliò sulla mia Emily coricandosi esausta, e passeggiando ogni tanto, fino al giorno dopo. Allora venne a cercarmi; e poi andò a cercar voi, signorino Davy. Non disse a Emily perché usciva, temendo che le mancasse il cuore e le venisse in mente di nascondersi. Come quella crudele signora abbia saputo che lei era lì, non posso dirlo. Se quel tale di cui ho tanto parlato le abbia viste per caso andar là, o se (come mi sembra più probabile) lo abbia saputo da quella donna è cosa che non mi inquieta granché. La mia nipote è stata ritrovata. «Per tutta la notte,» disse il signor Peggotty, «siamo stati insieme, Emily e io. Considerato il tempo, non è molto quello che mi ha detto a parole tra le lacrime di angoscia: e meno di quello che ho visto sul suo caro viso, divenuto volto di donna al mio focolare. Ma, per tutta la notte le sue braccia mi sono state attorno al collo; e la sua testa ha posato qui; e tutti e due sappiamo bene che possiamo avere fiducia l'uno nell'altro per sempre.» Cessò di parlare e la sua mano rimase posata, immobile, sul tavolo con una decisione che avrebbe soggiogato leoni. «Fu un raggio di luce per me, Trot,» disse la zia asciugandosi gli occhi, «quando decisi di essere la madrina di tua sorella Betsey Trotwood, che mi deluse; ma, dopo di allora, niente mi avrebbe fatto maggior piacere di essere la madrina del piccolo di quella brava giovane!» Il signor Peggotty assentì per indicare che comprendeva i sentimenti della zia, ma non seppe riferirsi con parole al tema di quell'elogio. Restammo tutti in silenzio, immersi nelle nostre riflessioni (mia zia si asciugava gli occhi e ora aveva un pianto convulso, ora rideva e si chiamava sciocca); finché io parlai. «Mio buon amico,» dissi al signor Peggotty, «avete deciso tutto per il futuro? Non c'è bisogno che ve lo chieda.» «Tutto, signorino Davy,» rispose; «e l'ho detto a Emily. Ci sono paesi enormi, lontano di qui. La nostra vita futura è oltre il mare.» «Emigreranno insieme, zia,» dissi. «Sì!» confermò il signor Peggotty con un sorriso di speranza. «In Australia, nessuno potrà rinfacciare nulla alla mia cara. Ci faremo una nuova vita laggiù!» Gli chiesi se si era proposto una data per la partenza. «Stamattina presto sono stato ai Docks, signore,» mi rispose, «per informarmi sulle navi dirette laggiù. Ce n'è una che farà vela fra circa sei settimane o un paio di mesi - l'ho vista stamane, e sono salito a bordo - faremo la traversata su quella.» «Da soli?» chiesi. «Sì, signorino Davy,» rispose. «Mia sorella, vedete, è così legata a voi e ai vostri, ed è così abituata a pensar solo al suo paese, che non sarebbe opportuno lasciarla venire. Inoltre c'è uno di cui si occupa, signorino Davy, e che non deve essere dimenticato.» «Povero Ham,» dissi. «La mia buona sorella si prende cura della sua casa, capite, signora, e lui le è affezionato,» spiegò il signor Peggotty per informarne la zia. «Può sedersi e parlarle con una certa calma di spirito, mentre non aprirebbe bocca con un altro. Povero ragazzo!» esclamò il signor Peggotty scuotendo la testa, «non gli è rimasto tanto da poter buttar via quel poco che ha!» «E la signora Gummidge?» dissi. «Be', ci ho pensato parecchio, devo dirvi,» rispose il signor Peggotty con una espressione perplessa che si schiarì via via che proseguiva, «alla signora Gummidge. Vedete, quando la signora Gummidge si mette a pensare al suo vecchio, non è quello che si potrebbe dire una compagnia piacevole. A dirla tra noi, signorino Davy - e anche voi signora - quando la signora Gummidge comincia a rognare - è la nostra vecchia parola per dir piangere - può essere considerata, da quelli che non hanno conosciuto il vecchio, una donna intrattabile. Io l'ho conosciuto, il vecchio, so quelli che erano i suoi meriti e la capisco; ma non è così per gli altri, vedete... naturalmente non può essere così.» La zia e io assentimmo. «Quindi,» disse il signor Peggotty, «mia sorella potrebbe - non dico che lo farebbe, ma potrebbe - trovare la signora Gummidge un po' noiosa, ogni tanto. Così che non è mia intenzione ancorare la signora Gummidge presso di loro, ma trovarle uno stato in cui possa farsi il pesce da sola.» (Uno stato significa, in quel dialetto, una casa, e farsi il pesce provvedere a sé.) «Per questo,» disse il signor Peggotty, «intendo farle una donazione prima di partire, in modo che possa trovarsi benino. È la più fedele delle creature. Naturalmente non c'è da aspettarsi che, alla sua età, e sola e abbandonata com'è, la buona vecchia mamma possa essere sbattuta su una nave e per i boschi e i deserti di un paese nuovo e lontano. E così questo è quello che penso di fare per lei.» Non dimenticava nessuno. Pensava alle richieste e alle necessità di tutti fuor che alle proprie. «Emily,» continuò, «resterà con me povera bambina, ha tanto bisogno di pace e di riposo fino al momento di partire. Lavorerà ai vestiti necessari, e spero che i suoi crucci cominceranno a sembrarle più lontani di quello che siano, quando si troverà ancora accanto al suo zio, ruvido ma affezionato.» La zia assentì a conferma di questa speranza e diede così una grande soddisfazione al signor Peggotty. «C'è ancora un'altra cosa, signorino Davy,» disse mettendosi una mano nella tasca del petto e traendone solennemente il piccolo involto di carta che avevo già visto e aprendolo sul tavolo. «Ci sono queste banconote... cinquanta sterline e dieci. E intendo aggiungervi il denaro che aveva con sé quando fuggì. Me lo sono fatto dire (ma senza spiegarle perché) e vi ho unito la somma. Non sono istruito. Vorreste essere così buono da controllare il conto?» Mi porse un foglio, con aria di scusa per la sua scarsa istruzione, e mi stette a guardare mentre lo esaminavo. Il conto era esatto. «Grazie, signore,» disse riprendendolo. «Questo denaro, se non vedete nulla in contrario, signorino Davy, al momento di partire lo metterò in una busta indirizzata a lui; e la busta la metterò in un'altra indirizzata a sua madre. Le dirò, semplicemente come lo dico a voi, di che denaro si tratta, e che me ne sono andato senza che vi sia possibilità di restituirmelo.» Gli dissi che mi sembrava giusto farlo: che ero assolutamente convinto che fosse giusto poiché a lui sembrava tale. «Ho detto che c'era ancora un'altra cosa,» continuò con un sorriso grave dopo avere rifatto su il pacchetto ed esserselo rimesso in tasca; «ma ce n'erano due. Stamattina, quando sono uscito, non ero sicuro se non dovessi andare a riferire di persona a Ham quello che è così felicemente avvenuto. Così, mentre ero fuori, ho scritto una lettera e l'ho portata alla posta, raccontando loro tutto; e ho detto che sarei arrivato domani per sbarazzarmi la mente di quelle piccole cose che devo fare laggiù e, probabilmente, per dare un addio a Yarmouth.» «E desiderate che venga con voi?» chiesi vedendo che taceva qualche cosa. «Se poteste farmi questa bontà, signorino Davy,» rispose, «credo che tutti sarebbero un bel po' contenti di vedervi.» Poiché la mia piccola Dora stava discretamente ed era molto desiderosa che andassi - come seppi parlandone con lei - fui pronto a impegnarmi ad accompagnarlo, secondo il suo desiderio. Di conseguenza, il mattino dopo, eravamo sulla diligenza di Yarmouth e percorrevamo ancora il vecchio paese. La sera, passando per le vie familiari - il signor Peggotty, a dispetto delle mie rimostranze, mi portava la valigia - diedi un'occhiata nel negozio di Omer e Joram e vidi lì il mio vecchio amico signor Omer, che fumava la pipa. Mi sentivo riluttante ad assistere all'incontro del signor Peggotty con sua sorella e con Ham; e mi scusai col signor Omer se restavo un poco con lui. «Come sta il signor Omer, dopo tanto tempo?» chiesi entrando. Lui si tolse il fumo dagli occhi con la mano per vedermi meglio e subito mi riconobbe con grande piacere. «Vorrei alzarmi, signore, per rispondere all'onore di questa visita,» disse, «solo che le mie gambe sono un po' fuori sesto e devo farmi trasportare. A eccezione delle gambe e del respiro, comunque, sono lieto di dire che sto come meglio non potrei.» Mi congratulai con lui del suo buon aspetto e del suo buon umore, e solo adesso mi accorsi che la sua era una poltrona a rotelle. «È una cosa molto ingegnosa, no?» chiese seguendo la direzione del mio sguardo e lustrando il bracciolo con la manica. «Corre leggera come una piuma e va sicura come una diligenza. Dio vi benedica, la piccola Minnie - la mia nipotina, sapete, la figlia di Minnie - mette le sue poche forze contro lo schienale, gli dà una spinta e filiamo via allegri e contenti che è una bellezza! E vi dirò una cosa: è una poltrona straordinaria per farci una pipata.» Non avevo mai visto un buon vecchio rassegnarsi così allegramente a una cosa e trovarci motivo di piacere come faceva il signor Omer. Era radiante come se la sua poltrona, la sua asma e le sue gambe molli fossero i vari elementi di una grande invenzione per rendergli più intense le gioie della pipa. «Vedo più gente, ve lo assicuro,» continuò il signor Omer, «in questa poltrona di quanta ne abbia mai vista quando ero in piedi. Vi meravigliereste di quante persone entrano ogni giorno per far quattro chiacchiere. Vi meravigliereste davvero. E nel giornale, da quando lo leggo in questa poltrona, c'è il doppio di notizie di una volta. Quanto alla lettura in genere, povero me quanta ne faccio! Per questo mi sento così forte, sapete? Se si fosse trattato degli occhi, che cosa avrei fatto? Se si fosse trattato degli orecchi, che cosa avrei fatto? Ma le gambe, che importano? Diamine, le gambe, quando le usavo, servivano solo ad accorciarmi il fiato. E adesso, quando voglio andare per la strada o sulla spiaggia, non devo fare altro che chiamare Dick, il più giovane garzone di Joram, e me ne vado via in carrozza come il Lord Mayor di Londra.» A questo punto per poco non soffocò dalle risa. «Dio vi benedica!» disse il signor Omer riprendendo la pipa, «bisogna prendere il grasso insieme con la polpa; dobbiamo rassegnarci a questo, nella vita. Joram fa buoni affari. Eccellenti affari.» «Sono lieto di sentirlo,» dissi. «Non ne dubitavo,» rispose il signor Omer. «E Joram e Minnie sono come due innamorati. Che ci si può aspettare di più? E che sono le gambe in confronto a questo?» Il suo supremo disprezzo per le proprie gambe, mentre se ne stava lì seduto fumando, era una delle più piacevoli stranezze che avessi mai visto. «E da quando io mi sono dato alla lettura in genere, voi vi siete dato alla scrittura in genere, eh, signore?» riprese il signor Omer guardandomi con ammirazione. «Che bell'opera avete scritto! Quante belle espressioni! Non lascio nemmeno una parola... nemmeno una parola! E quanto a cader nel sonno! Nemmeno un po'!» Espressi ridendo la mia soddisfazione, ma confesso che questa associazione di idee mi parve significativa. «Vi do la mia parola d'onore, signore,» disse il signor Omer, «che quando metto il vostro libro sul tavolo e lo guardo dal di fuori, ben compatto in tre separati e distinti volumi, uno, due e tre, mi sento orgoglioso come pulcinella nel pensare che una volta ebbi l'onore di entrare in rapporti con la vostra famiglia. Povero me, quanto tempo è passato, no? Laggiù a Blunderstone. Con una piccola, graziosa salma coricata accanto all'altra. E anche voi eravate piccolo, allora. Oh, buon Dio, buon Dio!» Cambiai discorso riferendomi a Emily. Dopo averlo assicurato di non aver dimenticato quanto si fosse sempre interessato a lei, e come l'avesse sempre amorevolmente trattata, gli raccontai ampiamente il suo ritorno presso lo zio per aiuto di Martha, sicuro che il vecchio se ne sarebbe rallegrato. Mi ascoltò con profonda attenzione e, quando ebbi finito, disse commosso: «Ne sono proprio lieto, signore! Sono le migliori notizie che ascolto da molto tempo. Buon Dio, buon Dio! E che cosa pensate di fare, adesso, per quella disgraziata giovane? per Martha?» «Toccate un punto a cui sto pensando da ieri,» dissi, «ma sul quale non posso ancora darvi informazioni, signor Omer. Il signor Peggotty non vi ha ancora fatto allusione, e mi sembra indelicato farlo io. Ma sono sicuro che non l'ha dimenticato: non dimentica mai nulla di tutto ciò che è buono e disinteressato.» «Perché, vedete,» disse il signor Omer riprendendo il discorso da dove l'aveva lasciato, «qualunque cosa si faccia, sarebbe mio desiderio parteciparvi. Mettetemi in nota per quanto vi sembrerà giusto e fatemelo sapere. Non ho mai potuto pensare che quella ragazza fosse tutta cattiva, e sono felice di vedere che non lo è. E lo sarà anche mia figlia Minnie. Le donne giovani, in certe cose, sono contraddittorie - sua madre era tale e quale - ma il loro cuore è tenero e amorevole. Fu tutta una mostra esteriore quella di Minnie nei riguardi di Martha. Perché poi abbia creduto necessario fare quella mostra, non cercherò di dirvelo. Ma era tutta una mostra, Dio vi benedica. In privato le avrebbe fatto ogni gentilezza. Così mettetemi in nota per quanto vi sembrerà giusto, volete essere così buono? E scrivetemi due parole per dirmi dove devo mandare. Povero me!» disse il signor Omer, «quando si è arrivati al momento in cui i due estremi della vita si incontrano, quando ci si ritrova, anche se in buona salute, a essere portati in carrozzina per la seconda volta, non ci resta che essere felici di fare una buona azione se si può. Ne abbiamo gran bisogno. E non parlo di me in particolare,» disse il signor Omer, «perché, signore, a mio modo di vedere, tutti noi stiamo scendendo verso il fondo della valle, quale che sia la nostra età, perché il tempo non si ferma nemmeno per un momento. Quindi facciamo un'opera buona ogni volta che si può e godiamocela. Sicuro!» Batté la pipa per farne cadere le ceneri e la pose su di una mensola fissata allo schienale della poltrona appunto per questo. «C'è il cugino di Emily, quello che avrebbe dovuto sposarla,» disse il signor Omer fregandosi piano le mani, «il miglior ragazzo che ci sia in Yarmouth! La sera viene da me a parlarmi o a farmi la lettura, a volte per un'ora intera. E questa la direi un'opera buona! Tutta la sua vita è fatta di opere buone.» «Vado adesso da lui,» dissi. «Davvero?» esclamò il signor Omer. «Ditegli che sto bene e che gli mando i miei saluti. Minnie e Joram sono andati a un ballo. Minnie non vuole mai uscire, capite, ‹per via di papà› dice. Così stasera ho giurato che, se non andava, mi sarei ficcato a letto alle sei. Di conseguenza,» e il signor Omer si scosse tutto insieme alla poltrona per il buon esito del suo stratagemma, «lei e Joram sono andati al ballo.» Gli strinsi la mano e gli augurai la buonanotte. «Ancora un attimo, signore,» disse il signor Omer. «Se ve ne andaste senza vedere il mio elefantino, perdereste il più bello degli spettacoli. Non avete mai visto niente di simile! Minnie!» Una vocetta rispose da qualche parte del piano di sopra: «Vengo, nonno!» e presto una graziosa bambina con lunghi capelli biondi e ricciuti, arrivò di corsa nel negozio. «Eccolo il mio elefantino, signore,» disse il signor Omer accarezzandola. «Razza siamese, signore. Su, elefantino!» L'elefantino aprì la porta del salotto, permettendomi di vedere che, negli ultimi tempi, era stato trasformato in stanza da letto per il signor Omer, che non poteva essere facilmente trasportato di sopra; e poi nascose la graziosa fronte e i lunghi capelli arruffati contro lo schienale della poltrona. «Vedete, signore,» disse il signor Omer ammiccando, «l'elefante spinge con la testa, quando incontra un ostacolo. Su, elefante: uno, due, tre!» A questo segnale, l'elefantino, con una destrezza quasi meravigliosa in un animale così piccolo, fece girare la poltrona col signor Omer dentro e la fece sferragliare in furia nel salotto senza toccare lo stipite della porta: impossibile descrivere quanto il signor Omer si godesse quella esibizione, voltandosi verso di me lungo il percorso come se fosse quello il trionfante risultato di tutti gli sforzi della sua vita. Dopo aver fatto un giro per la città, andai alla casa di Ham. Peggotty vi si era trasferita definitivamente, lasciando la sua casa al corriere che era succeduto al signor Barkis e che le aveva pagato bene l'avviamento della ditta, il carro e il cavallo. Credo che lo stesso lento cavallo guidato dal signor Barkis fosse ancora al lavoro. Li trovai nella lustra cucina insieme con la signora Gummidge, che lo stesso signor Peggotty era andato a prendere alla vecchia barca. Non credo che si sarebbe lasciata indurre da altri ad abbandonare il suo posto. Evidentemente aveva raccontato loro tutto. Peggotty e la signora Gummidge si portavano entrambe i grembiuli sugli occhi, e Ham era appena uscito «per fare un giro sulla spiaggia». Tornò poco dopo, molto lieto di vedermi; e spero che la mia presenza sia stata grata a tutti. Parlammo, quasi gaiamente, del signor Peggotty, che si sarebbe arricchito in una nuova terra, e delle meraviglie che avrebbe descritto nelle sue lettere. Non dicemmo nulla di Emily chiamandola per nome, ma alludemmo alla lontana a lei più di una volta. Ham era il più sereno di tutti. Ma Peggotty, nel farmi lume in una stanzetta dove c'era il libro dei coccodrilli pronto per me sul tavolo, mi disse che era sempre lo stesso. Credeva (mi disse piangendo) che avesse il cuore spezzato; sebbene fosse pieno di coraggio e di dolcezza, e lavorasse duro e meglio di qualsiasi altro costruttore di barche della regione. A volte, mi diceva, di sera, quando parlava della loro vita di un tempo nella barca-abitazione, accennava a Emily bambina. Ma non la ricordava mai come donna. Mi parve di avergli letto sul volto il desiderio di parlarmi da solo. Decisi dunque di trovarmi sulla sua strada la sera dopo, quando sarebbe tornato dal lavoro. Stabilito questo fra me, mi addormentai. Quella notte, per la prima volta dopo tante notti, la candela fu tolta dalla finestra, il signor Peggotty dondolò nella sua vecchia amaca nella vecchia barca e il vento mormorò con l'antico suono intorno a lui. Per tutto il giorno dopo fu occupato a sistemare la sua barca da pesca e i suoi arnesi; a imballare e mandare a Londra col carro tutte le sue piccole cose domestiche che pensava avrebbero potuto essergli utili; a sbarazzarsi del resto o a donarlo alla signora Gummidge, che rimase con lui tutto il giorno. Poiché avevo un mesto desiderio di vedere ancora una volta quel vecchio luogo, prima che fosse chiuso, promisi che sarei andato da loro in serata, ma feci in modo da poter prima incontrare Ham. Mi fu facile trovarmi sulla sua strada perché sapevo dove lavorava. Lo incontrai in un punto appartato della spiaggia, che sapevo avrebbe dovuto attraversare, e tornai indietro con lui per dargli modo di parlarmi se realmente lo desiderava. Non mi ero ingannato sull'espressione del suo volto. Avevamo percorso insieme solo un breve tratto, quando egli mi disse senza guardarmi: «Signorino Davy, l'avete vista?» «Solo per un momento, mentre era svenuta,» risposi piano. Fece qualche passo ancora e riprese: «Signorino Davy, credete di poterla rivedere?» «Forse sarebbe troppo penoso per lei,» risposi. «Ci ho pensato,» disse. «Lo sarebbe di certo.» «Ma, Ham,» dissi con dolcezza, «se c'è qualche cosa che io possa scriverle da parte vostra, qualora non potessi parlarle; se c'è qualche cosa che desideriate farle sapere per mio mezzo, lo considererò come un incarico sacrosanto.» «Ne sono sicuro. Vi ringrazio, signore, molto gentile! Credo che ci sia qualche cosa che vorrei le fosse detto o scritto.» «Che cosa è?» Camminammo ancora un poco in silenzio; poi parlò: «Non che la perdono. Non questo. Ma piuttosto che la prego di perdonarmi per avere insistito a farle accettare il mio affetto. A volte penso che, se non avessi ottenuto la sua promessa di sposarmi, signore, lei aveva tanta fiducia in me, come semplice amico, che mi avrebbe confidato quello che le turbava la mente, si sarebbe consigliata con me, e io avrei potuto salvarla.» Gli strinsi la mano. «È tutto qui?» «C'è ancora qualche cosa,» rispose, «se posso dirla, signorino Davy.» Continuammo a camminare, più a lungo di quanto avessimo fatto prima che parlasse ancora. Non piangeva nel far le pause che indicherò con dei puntini. Si stava solo raccogliendo per esprimersi con chiarezza. «L'amavo... e amo il suo ricordo... troppo profondamente... per poterle far credere di essere un uomo felice. Potrei essere felice solo... dimenticandola... e credo che non potrei sopportare che le si dicesse che l'ho dimenticata. Ma se voi, signorino Davy, che siete così istruito, poteste pensare di dirle qualche cosa che la portasse a credere che non sono stato ferito troppo a fondo, pur amandola e rimpiangendola: qualche cosa da portarla a credere che non sono stanco della vita e tuttavia spero di rivederla senza macchia là dove i malvagi cessano di fare del male e gli stanchi hanno riposo... qualche cosa che possa sollevarle la mente tormentata, e tuttavia non farle pensare che io possa mai sposarmi o che sia possibile che un'altra donna possa essere per me quello che era lei... vi prego di dirgliela... insieme alle mie preghiere per lei... che era così cara.» Strinsi di nuovo la sua maschia mano e gli dissi che mi impegnavo di farlo come meglio avrei potuto «Grazie, signore,» mi rispose. «Siete stato molto buono a venirmi incontro. Siete stato molto buono ad accompagnarlo qui. Signorino Davy, capisco bene che, sebbene la zia andrà a Londra prima che loro partano e saranno così riuniti ancora una volta, molto probabilmente non lo rivedrò più. Ne sono quasi sicuro. Non dobbiamo dirlo, ma sarà così e tanto meglio. Quando lo vedrete per l'ultima volta... ma proprio l'ultima... vorrete portargli il più affettuoso ricordo e il ringraziamento dell'orfano per il quale egli è sempre stato più che un padre?» Promisi anche questo, sinceramente. «Grazie ancora, signore,» mi disse stringendomi cordialmente la mano. «So dove state andando. Addio.» Con un breve cenno della mano nell'aria, come per spiegarmi che non poteva entrare nella vecchia barca, si allontanò. Nel guardarlo attraversare la pianura al lume della luna, lo vidi volgersi verso una striscia di luce argentea sul mare, e proseguire, sempre guardandola, finché fu solo un'ombra nella lontananza. La porta della barca-abitazione era aperta quando mi avvicinai; e, entrando, la trovai vuota di ogni mobilio eccetto la vecchia cassapanca su cui era seduta la signora Gummidge, con un paniere sulle ginocchia, guardando il signor Peggotty. Lui appoggiava il gomito sulla mensola del rozzo caminetto e fissava poche braci che stavano spegnendosi sulla grata; ma alzò la testa, pieno di fiducia e parlò allegramente. «Venuto, secondo la promessa, a dar l'addio, eh, signorino Davy?» disse levando in alto la candela. «È tutto piuttosto vuoto, no?» «Avete davvero impiegato bene il vostro tempo,» dissi. «Diamine, non siamo stati con le mani in mano, signore. La signora Gummidge ha lavorato come... non so proprio come che cosa la signora Gummidge ha lavorato,» disse il signor Peggotty guardandola e cercando invano un sorriso che esprimesse a sufficienza la sua approvazione. La signora Gummidge, china sul suo paniere, non fece commenti. «Questa è la stessa cassapanca su cui solevate sedervi con Emily!» mi sussurrò il signor Peggotty. «La porterò via con me per ultima. Ed ecco la vostra vecchia stanzetta da letto, vedete, signorino Davy? Stasera è vuota quanto si può desiderare!» In realtà, il vento, sebbene basso, aveva un suono solenne e scivolava attorno alla casa deserta con un sibilo lamentoso che era quanto mai triste. Tutto era scomparso, perfino lo specchietto con la cornice di conchiglie. Pensai a me stesso, coricato lì, quando era avvenuto quel primo grande cambiamento nella mia casa. Pensai alla bambina dagli occhi azzurri che mi aveva affascinato. Pensai a Steerforth: e mi venne la folle, paurosa fantasia che fosse lì vicino e potessi incontrarlo a ogni angolo. «Ci vorrà molto tempo,» disse il signor Peggotty a bassa voce, «prima che la barca trovi dei nuovi inquilini. Adesso, da queste parti, credono che porti disgrazia!» «Appartiene a qualcuno di qui?» domandai. «A un costruttore di alberi della città,» rispose il signor Peggotty. «Andrò stasera a restituirgli le chiavi.» Guardammo nell'altra stanzetta e tornammo dalla signora Gummidge, sempre seduta sulla cassapanca; il signor Peggotty, posando la candela sulla mensola del caminetto, la pregò di alzarsi, per potere portar fuori la cassa prima di spegnere. «Daniel,» disse la signora Gummidge lasciando improvvisamente il paniere e aggrappandosi al suo braccio, «mio caro Daniel, le ultime parole che dico in questa casa sono che io non devo essere lasciata qui. Non pensate a lasciarmi qui, Daniel! Oh, non fatelo!» Il signor Peggotty, colto di sorpresa, volse lo sguardo dalla signora Gummidge a me e da me alla signora Gummidge, come se fosse stato svegliato dal sonno. «Non fatelo, caro Daniel, non fatelo!» gridò la signora Gummidge fervidamente. «Portatemi con voi, Daniel, portatemi con voi e con Emily! Sarò la vostra serva costante e fedele. Se in quelle parti dove andate ci sono schiavi, mi impegno a essere la vostra schiava, e pienamente felice, ma non lasciatemi qui, Daniel, vi scongiuro.» «Anima mia,» disse il signor Peggotty scuotendo la testa, «voi non sapete quale lungo viaggio e quale dura vita ci aspettino.» «Sì, che lo so, Daniel! Posso immaginarmelo!» gridò ancora la signora Gummidge. «Ma le mie ultime parole sotto questo tetto sono che, se non mi portate, entrerò in casa e morrò. Posso zappare, Daniel. Posso lavorare. Posso vivere duramente. Adesso saprò essere affettuosa e paziente... più che non crediate, Daniel, se appena mi metterete alla prova. Non toccherei il vostro assegno nemmeno se morissi di fame, Daniel Peggotty; ma con voi e con Emily, se me lo permettete, andrò in capo al mondo! So com'è; so che voi pensate che sono sola e derelitta; ma, cara creatura, non è più così! Non sono rimasta seduta qui, per tanto tempo, a osservare le vostre angustie e a meditarci sopra, senza averne tratto anch'io qualche cosa di buono. Signorino Davy, parlategli per me. So com'è lui e com'è Emily, e conosco le loro pene, e posso essere un conforto per loro, in certi momenti, e lavorare per tutti loro! Daniel, caro Daniel, lasciatemi venire con voi!» E la signora Gummidge gli prese la mano e la baciò con una commozione e un affetto familiari, con un familiare slancio di devozione e di gratitudine che egli ben meritava. Portammo fuori la cassapanca, spegnemmo la candela, chiudemmo la porta dall'esterno e lasciammo la vecchia barca sprangata e deserta, macchia nera nella notte nuvolosa. Il giorno dopo, quando tornammo a Londra sull'imperiale della diligenza, la signora Gummidge e il suo paniere erano sul sedile dietro di noi, e la signora Gummidge era felice. LII • ASSISTO A UN'ESPLOSIONE Quando mancarono solo ventiquattro ore alla data così misteriosamente stabilita dal signor Micawber, la zia e io ci consultammo su quello che dovevamo fare; perché la zia non aveva alcuna intenzione di lasciare Dora. Ah! con quanta facilità, adesso, trasportavo Dora su e giù per le scale! Eravamo inclini, nonostante la richiesta del signor Micawber perché la zia fosse presente, a decidere che lei restasse a casa e fosse rappresentata dal signor Dick e da me. E avevamo già preso questo partito, quando Dora ci mise ancora in imbarazzo dichiarando che non si sarebbe mai perdonata e mai avrebbe perdonato il suo cattivo ragazzo se la zia fosse rimasta a casa per qualsiasi ragione. «Non ti parlerò,» disse Dora scuotendo i riccioli verso la zia. «Sarò cattiva, farò abbaiare Jip contro di te per tutta la giornata. Avrò la certezza che sei realmente una vecchia bisbetica, se non vai!» «Ma Fiorellino!» rispose ridendo la zia. «Sai pure di non poter fare a meno di me.» «Sì che posso,» ribatté Dora. «Tu non mi servi a nulla. Non corri tutto il giorno, per me, su e giù dalle scale. Non ti siedi mai a raccontarmi le storie di Doady quando arrivò con le scarpe rotte e tutto coperto di polvere... oh, che povero piccolo cosino! Tu non fai mai niente per piacermi, non è vero, cara?» E Dora si affrettò a baciarla dicendo: «Sì che lo fai! Stavo solo scherzando!» per paura che la zia pensasse che parlava sul serio. «Ma, zia,» continuò Dora facendole le moine, «ascolta. Tu devi andare. Ti tormenterò finché non farai a modo mio. E farò fare al mio scioccone di ragazzo una tal vita, se non ti induce a venire! Mi renderò così insopportabile... e anche Jip! Se non andrai, rimpiangerai di non essere andata, come dovevi, per non so quanto tempo. Inoltre,» disse Dora spingendo indietro i capelli e guardando dubbiosa la zia e me, «perché non dovreste andare insieme? Io non sto poi tanto male. O no?» «Andiamo, che domanda!» esclamò la zia. «Che idea!» dissi io. «Sì! Lo so che sono una sciocchina!» disse Dora guardando lentamente dall'uno all'altro di noi e poi sporgendo le piccole labbra per baciarci pur restando coricata. «Bene, dunque, andrete insieme o non vi crederò; e allora mi metterò a piangere.» Vidi, sul volto della zia, che ella ormai cominciava a cedere, e Dora, vedendolo anch'essa, tornò a illuminarsi. «Tornerete con tante notizie da raccontarmi che ci vorrà una settimana almeno perché riesca a capirle tutte!» disse Dora. «Perché so che non capirò nulla per un bel pezzo se si tratta di affari. E sono sicura che deve trattarsi di affari! Se poi ci sono delle addizioni, non so proprio quando potrò mettermele in mente; e il mio cattivo ragazzo avrà per tutto il tempo un'aria così infelice. Bene. Allora andrete, non è vero? Starete via solo una notte e Jip si occuperà di me durante la vostra assenza. Doady mi porterà di sopra prima che partiate, e io non scenderò fino al vostro ritorno; e porterete a Agnes una mia terribile lettera, piena di sgridate, perché non è mai venuta a trovarci!» Concludemmo senza altre consultazioni che saremmo andati tutti e due e che Dora era una piccola impostora che fingeva di star male perché voleva essere coccolata. Lei rimase tutta allegra e contenta, e noi quattro, cioè la zia, il signor Dick, Traddles e io, quella sera stessa andammo a Canterbury con la diligenza di Dover. All'albergo dove il signor Micawber ci aveva detto di aspettarlo, e dove entrammo, con qualche difficoltà, nel cuore della notte, trovai una lettera con la conferma che egli sarebbe venuto puntualmente alle nove e mezzo del mattino. Dopo di che, rabbrividendo di freddo in quell'ora importuna, ce ne andammo ai nostri rispettivi letti attraversando vari stretti corridoi che odoravano come se fossero stati immersi per secoli in una soluzione di minestra e di stalle. Al mattino presto vagabondai per le care vecchie strade silenziose e ancora una volta mi confusi nelle ombre dei portali venerabili e delle chiese. Le cornacchie veleggiavano attorno alle torri della cattedrale; e le torri stesse, sovrastando molte immutate miglia di quella ricca campagna e i suoi piacevoli rivi, tagliavano l'aria chiara del mattino come se non esistesse sulla terra qualche cosa di simile al cambiamento. Tuttavia le campane, quando suonarono, mi parlarono mestamente del mutamento di ogni cosa; mi parlarono della loro età e della giovinezza della mia graziosa Dora; e dei tanti, non mai vecchi, che avevano vissuto e amato ed erano morti, mentre i loro echi avevano ronzato nella rugginosa armatura del Principe Nero appesa nell'interno della chiesa, e, festuche sull'oceano del tempo, si erano dispersi nell'aria come cerchi nell'acqua. Guardai la vecchia casa dall'angolo della strada, ma non mi avvicinai oltre per paura che, se fossi stato visto, avrei potuto involontariamente ostacolare il progetto che ero venuto a sostenere. Il sole mattutino colpiva di sbieco i suoi timpani e le finestre ingraticciate soffondendovi un tocco d'oro; e alcuni raggi della sua antica pace sembravano sfiorarmi il cuore. Vagai nella campagna per circa un'ora, e poi tornai nella via principale, che frattanto si era scrollata di dosso il sonno della notte. Fra coloro che si agitavano nelle botteghe scorsi il mio antico nemico, il macellaio, elevatosi adesso agli stivali rovesciati e a un bambino, e padrone di negozio. Stava dando la pappa al bambino e aveva l'apparenza di un bonario membro della società. Tutti eravamo pieni di ansia e di impazienza quando ci sedemmo a colazione. Quanto più ci avvicinavamo alle nove e mezzo, tanto più cresceva la nostra inquieta attesa del signor Micawber. Infine non fingemmo più di badare al pasto, che, salvo per il signor Dick, era stato una pura forma fin dal principio; la zia si mise a passeggiare su e giù per la sala, Traddles si sedette sul divano facendo mostra di leggere il giornale con gli occhi rivolti al soffitto, e io guardavo fuori dalla finestra per dar la prima notizia dell'arrivo del signor Micawber. Né dovetti attendere molto perché, al primo battito della mezz'ora, apparve nella strada. «Eccolo,» dissi, «e non ha il suo abito legale.» La zia si annodò i nastri del cappellino (era venuta a colazione con quello) e si mise lo scialle, come pronta a tutto ciò che fosse decisivo e senza compromessi. Traddles si abbottonò la giacca con aria risoluta. Il signor Dick, reso inquieto da questi formidabili preparativi, ma considerando necessario imitarli, si calcò a due mani il cappello in testa fino alle orecchie con tutte le sue forze, e subito dopo se lo tolse per salutare il signor Micawber. «Signori e signora,» disse il signor Micawber, «buon giorno! Mio caro signore,» al signor Dick che gli stringeva violentemente la mano, «siete quanto mai buono.» «Avete fatto colazione?» chiese il signor Dick. «Vi faccio portare una braciola!» «No per tutto l'oro del mondo, mio buon signore!» gridò il signor Micawber fermandolo mentre si avviava al campanello; «l'appetito e io, signor Dixon, non ci conosciamo più da tempo.» Il signor Dixon fu così compiaciuto del suo nuovo nome, e parve considerare una tal gentilezza, da parte del signor Micawber, l'averglielo conferito, che gli strinse nuovamente la mano e rise piuttosto infantilmente. «Dick,» lo ammonì la zia, «attenzione!» Il signor Dick si riprese arrossendo. «Adesso, signore,» disse la zia al signor Micawber infilandosi i guanti, «siamo pronti per il Vesuvio o per qualsiasi altro luogo non appena vi piacerà.» «Signora,» rispose il signor Micawber, «credo che presto assisterete a un'eruzione. Signor Traddles, credo che mi permetterete di annunciare qui che noi due siamo stati in comunicazione.» «È una verità di fatto, Copperfield,» disse Traddles a cui avevo rivolto uno sguardo sorpreso. «Il signor Micawber mi ha consultato in relazione a quello che intendeva fare, e io l'ho consigliato come meglio potevo.» «Se non m'inganno, signor Traddles,» proseguì il signor Micawber, «quello che intendo fare è una rivelazione di natura importante.» «Altamente importante,» disse Traddles. «Forse, date le circostanze, signora e signori,» disse il signor Micawber, «vorrete farmi il favore di sottomettervi per il momento alle direttive di uno che, per quanto indegno di essere considerato sotto altra luce che come un relitto abbandonato sulla spiaggia dell'uman genere, è tuttavia un vostro simile, anche se schiacciato e reso informe da errori individuali e dalla forza accumulata di una combinazione di circostanze.» «Abbiamo completa fiducia in voi, signor Micawber,» dissi, «e faremo quello che vi piacerà.» «Signor Copperfield,» rispose il signor Micawber, «nella presente congiuntura la vostra fiducia non è mal riposta. Pregherei che mi sia concesso un vantaggio di cinque minuti di orologio; e poi riceverò tutta questa compagnia, che chiederà della signorina Wickfield, all'ufficio di Wickfield e Heep, in cui sono impiegato.» La zia e io guardammo Traddles, che fece un cenno di approvazione. «Per il momento,» concluse il signor Micawber, «non ho altro da dire.» Pronunciate queste parole, con mia infinita sorpresa, ci incluse tutti in un inchino collettivo e scomparve; i suoi modi erano estremamente freddi e il suo volto pallidissimo. Solo Traddles sorrise, e scosse la testa (con tutti i capelli irti sul sommo) quando lo guardai per avere una spiegazione; così trassi l'orologio e, come estrema risorsa, contai i cinque minuti. La zia, col suo orologio in mano, fece lo stesso. Quando il tempo fu trascorso, Traddles le diede il braccio e uscimmo tutti insieme dal vecchio edificio senza dire una parola lungo la via. Trovammo il signor Micawber al suo scrittoio, nell'ufficio della torretta, al pian terreno, intento a scrivere di lena o a fingere di farlo. Il grande regolo dell'ufficio era infilato nella tasca del suo panciotto, ma non così bene nascosto da non sporgere per un piede e più dal suo petto come un nuovo genere di gala da camicia. Poiché mi parve aspettare che parlassi, dissi ad alta voce: «Come state, signor Micawber?» «Signor Copperfield,» rispose il signor Micawber gravemente, «spero che stiate bene.» «La signorina Wickfield è in casa?» chiesi. «Il signor Wickfield è a letto, indisposto per una febbre reumatica, signore,» rispose; «ma la signorina Wickfield sarà certo felice di vedere dei vecchi amici. Volete accomodarvi, signore?» Ci precedette nella sala da pranzo - la prima in cui ero entrato in quella casa - e spalancando la porta di quello che era stato l'ufficio del signor Wickfield, disse con voce sonora: «La signorina Trotwood, il signor David Copperfield, il signor Thomas Traddles e il signor Dixon!» Non avevo visto Uriah Heep dal tempo dello schiaffo. La nostra visita lo stupì in modo evidente; non meno, direi, perché stupiva anche noi. Non posso dire che contraesse le sopracciglia perché non ne aveva degne di questo nome, ma si aggrottò tanto da chiudere quasi i suoi occhietti, mentre la fretta con cui si portò al mento la mano scheletrica tradiva una certa trepidazione o sorpresa. Questo avvenne solo quando stavamo per entrare nella stanza e io potei dargli un'occhiata sopra la spalla della zia. Un attimo dopo era strisciante e umile come sempre. «Bene, sicuro,» disse. «Questo è proprio un piacere inatteso! Avere tutti insieme, posso dire, gli amici di San Paolo è una festa inaspettata! Signor Copperfield, spero di trovarvi bene e - se così posso umilmente esprimermi - ben disposto verso coloro che sono sempre stati, in ogni caso, vostri amici. Spero, signore, che la signora Copperfield vada migliorando. Siamo stati così in ansia ve lo assicuro, per le spiacevoli notizie che abbiamo avuto recentemente sulla sua salute.» Mi vergognavo di dargli la mano, ma non sapevo ancora che cos'altro fare. «Le cose sono cambiate in questo ufficio, signorina Trotwood, da quando ero un umile scrivano e tenevo il vostro cavallino, non è vero?» disse Uriah col suo ripugnante sorriso. «Ma io non sono cambiato, signorina Trotwood.» «Bene, signore,» rispose la zia, «per dirvi il vero credo che abbiate mantenuto fede alle promesse della vostra gioventù, se questo può rendervi soddisfatto.» «Grazie, signorina Trotwood,» disse Uriah contorcendosi al suo goffo modo, «per la vostra buona opinione! Micawber, fate avvertire la signorina Agnes... e la mamma. La mamma sarà fuori di sé nel vedere tutta questa compagnia!» disse Uriah disponendo le sedie. «Non avete da fare, signor Heep?» chiese Traddles il cui sguardo era stato casualmente colto dall'astuto occhio rosso che ci scrutava e ci evitava a un tempo. «No, signor Traddles,» rispose Uriah riprendendo il suo posto ufficiale e schiacciandosi le mani ossute, palmo contro palmo, fra le ossute ginocchia. «Non tanto quanto potrei desiderare. Ma, sapete, i legali, gli squali e le sanguisughe non sono mai soddisfatti! Comunque io stesso e Micawber abbiamo, in generale, parecchia roba fra le mani, calcolando che il signor Wickfield è ormai incapace per ogni occupazione, signore. Ma è un piacere, non meno che un dovere, ne sono sicuro, lavorare per lui. Voi non siete intimo del signor Wickfield, credo, signor Traddles. Mi sembra di avere avuto l'onore di vedervi solo una volta.» «No, non sono intimo del signor Wickfield,» rispose Traddles, «altrimenti sarei forse venuto a farvi visita già da tempo, signor Heep.» V'era qualche cosa, nel tono della risposta, che indusse Uriah a fissare ancora il suo interlocutore con un'espressione quanto mai sospettosa e sinistra. Ma, vedendo solo Traddles con la sua faccia bonaria, i suoi semplici modi e i capelli dritti, la lasciò cadere e rispose, con una torsione di tutto il corpo, ma specialmente della gola: «Me ne dispiace, signor Traddles. Lo avreste ammirato al pari di tutti noi. I suoi piccoli difetti ve lo avrebbero reso ancora più caro. Ma se desiderate sentir parlare del mio socio con vera eloquenza, mi rivolgerei a Copperfield. La famiglia è un tema sul quale è ferratissimo, se non lo avete mai udito.» Fui prevenuto dal respingere il complimento (se pure lo avrei fatto) dall'ingresso di Agnes, scortata dal signor Micawber. Non era del tutto padrona di sé come soleva, mi parve, ed evidentemente aveva sofferto ansie e fatiche. Ma la sua calda cordialità e la sua calma bellezza ne acquistavano una luminosità ancora più nobile. Vidi Uriah sorvegliarla mentre ci salutava; e mi ricordò un turpe genio ribelle che sorvegliasse uno spirito buono. Frattanto il signor Micawber e Traddles si scambiarono un breve cenno; e Traddles uscì inosservato da tutti eccetto che da me. «Andate pure, Micawber,» disse Uriah. Il signor Micawber, con la mano sul regolo che gli usciva dal petto, si piantò dritto davanti alla porta contemplando nel modo più inequivocabile uno dei suoi simili, che era il suo principale. «Che cosa aspettate?» chiese Uriah. «Micawber! Avete sentito che vi ho detto di andarvene?» «Sì!» rispose immobile il signor Micawber. «E allora perché aspettate?» ribatté Uriah. «Perché io... insomma perché mi piace così,» rispose il signor Micawber esplodendo. Le guance di Uriah sbiancarono, e un pallore malsano, ancora leggermente tinto dal rosso prevalente, vi si soffuse. Fissò attentamente il signor Micawber mentre un respiro breve e affrettato faceva tremare tutto il suo volto e ogni lineamento. «Siete un tipo scombinato, come tutti sanno,» disse sforzandosi di sorridere, «e temo che dovrò sbarazzarmi di voi. Andatevene! Vi parlerò fra poco.» «Se c'è su questa terra un furfante,» disse il signor Micawber erompendo improvvisamente di nuovo con la massima veemenza, «con cui ho già parlato anche troppo, il nome di questo furfante è... HEEP!» Uriah indietreggiò come se lo avessero colpito e scottato. Si guardò lentamente attorno fissandoci con la più tetra e maligna espressione che il suo volto potesse assumere, e disse a voce più bassa: «Oho! È una congiura! Vi siete dati appuntamento qui! Vi siete messo d'accordo col mio scrivano, eh, Copperfield? Adesso state in guardia. Non approderete a nulla. Ci intendiamo, voi e io. Tra noi non c'è alcuna simpatia. Voi siete sempre stato un botolo superbo fin dal primo momento in cui siete venuto qui, e mi invidiate per la mia ascesa, non è vero? Nessuno dei vostri complotti contro di me riuscirà; li volgerò contro di voi. Micawber, via di qui. Vi parlerò fra poco.» «Signor Micawber,» dissi, «c'è stato un improvviso cambiamento in questo signore, e non solo per il fatto straordinario che ha detto la verità in un caso particolare: sono dunque sicuro che si sente con le spalle al muro. Trattatelo come si merita!» «Siete un bel branco di gente, no?» disse Uriah con la stessa voce bassa e coprendosi di un viscido sudore che si asciugò sulla fronte con la lunga mano scarna. «Avete comprato il mio scrivano, vera feccia della società - come lo eravate voi stesso, Copperfield, lo sapete, prima che qualcuno vi facesse la carità - per infamarmi con le sue menzogne! Signorina Trotwood, fareste meglio a fermare la faccenda, o io fermerò vostro marito più rudemente di quanto potrebbe piacervi. Non per nulla conosco professionalmente la vostra storia, mia vecchia signora! Signorina Wickfield, se avete un po' d'amore per vostro padre, farete bene a non unirvi a questa congrega. Altrimenti lo rovinerò. E adesso su! Ho alcuni di voi sotto la mannaia. Pensateci due volte prima che ve la faccia cadere addosso. Pensateci due volte, voi, Micawber, se non volete essere schiacciato. Vi consiglio di togliervi di mezzo e aspettare che vi parli fra poco, imbecille, finché siete ancora in tempo. Dov'è la mamma?» chiese accorgendosi improvvisamente, allarmato, dell'assenza di Traddles e tirando il cordone del campanello. «Belle imprese da farsi in casa d'altri!» «La signora Heep è qui, signore,» disse Traddles rientrando con la degna madre di quel degno figlio. «Mi sono preso la libertà di presentarmi a lei.» «E chi siete per avere il diritto di presentarvi?» replicò Uriah. «Che cosa volete, qui?» «Sono l'agente e l'amico del signor Wickfield, signore,» rispose Traddles con aria tranquilla e professionale. «Ho in tasca una sua procura che mi permette di agire per lui in ogni evento.» «Quel vecchio somaro è rimbambito a forza di ubriacarsi,» disse Uriah diventando più bieco di prima, «e il documento gli è stato estorto con la frode!» «Mi risulta che qualche cosa gli è stata estorta con la frode,» replicò tranquillo Traddles, «e lo sapete anche voi, signor Heep. Se non avete nulla in contrario, lasceremo questa questione al signor Micawber.» «Ury...!» cominciò la signora Heep con un gesto ansioso. «Tieni a posto la lingua, mamma,» la interruppe lui; «meno si dice prima si rimedia.» «Ma Ury mio...» «Vuoi tenere a posto la lingua e lasciar fare a me, mamma?» Sebbene sapessi da tempo che il suo servilismo era falso e tutte le sue simulazioni losche e vuote, non ebbi un'idea adeguata di tutta la misura della sua ipocrisia finché non lo vidi, adesso, privo della maschera. La subitaneità con cui la lasciò cadere quando si accorse che non gli serviva più; la malizia, l'insolenza e l'odio che rivelò; il ghigno con cui esultava, perfino in questo momento, per il male che aveva fatto - pur essendo disperato e ormai senza risorse per controbatterci - sebbene fossero perfettamente in accordo con l'esperienza che avevo avuto di lui, dapprima colsero di sorpresa anche me, che lo conoscevo da tanto tempo e lo disprezzavo così cordialmente. Non dico nulla dello sguardo che mi rivolse mentre stava lì a fissarci l'uno dopo l'altro; perché avevo sempre saputo di essere odiato da lui e ricordavo l'impronta della mia mano sulla sua gota. Ma quando i suoi occhi si volsero ad Agnes, e io vidi la rabbia con cui sentiva scivolar via da lei il suo potere, e le espressioni deluse delle odiose passioni che lo avevano portato ad aspirare a una donna le cui virtù non avrebbe mai apprezzato né curato, fui sgomento alla sola idea che ella avesse vissuto, anche un'ora, accanto a un uomo tale. Dopo essersi strofinato la parte inferiore del volto e averci lanciato alcuni sguardi, con quei suoi occhi cattivi, al di sopra delle dita scheletriche, si rivolse ancora a me, in parte lamentoso e in parte offensivo. «Vi sembra giustificabile, Copperfield, voi che vi vantate tanto del vostro onore e di tutto il resto, insinuarvi di soppiatto in casa mia e origliare col mio scrivano. Se fossi stato io, non me ne meraviglierei; perché io non mi sono mai atteggiato a gentiluomo (sebbene io non sia mai stato per le strade come voi, a quanto dice Micawber), ma voi! E non avete nessun timore nel comportarvi così? Non pensate minimamente a quello che farò a mia volta? Né che vi cacciate in guai per complotto e cose simili? Benissimo. Staremo a vedere! Signor Come-vi-chiamate, stavate per lasciare una certa questione a Micawber. Ecco qui l'uomo a cui vi riferivate. Perché non lo fate parlare? Ha imparato la sua lezione, a quanto vedo.» Vedendo che le sue parole non avevano alcun effetto su di me né su alcuno di noi, si sedette sull'orlo del suo tavolo con le mani in tasca e uno dei suoi piedi piatti attorno all'altra gamba, aspettando ostinato quello che poteva seguire. Il signor Micawber, di cui avevo a stento trattenuto finora l'impetuosità, e che era ripetutamente intervenuto con la prima sillaba di FUR-fante senza riuscire a pronunciare le altre, balzò adesso in avanti, si tolse dal petto il regolo (evidentemente come arma di difesa) e trasse di tasca un documento in formato protocollo piegato in forma di grande lettera. Aperto questo plico con i suoi vecchi gesti grandiosi e osservatone il contenuto come compiacendosi nell'artistica ammirazione del proprio stile, cominciò a leggere come segue: «‹Cara signorina Trotwood e signori...›» «Dio lo benedica!» esclamò mia zia a bassa voce. «Scriverebbe risme di lettere anche se il farlo fosse un delitto capitale!» Il signor Micawber, senza udirla, proseguì. «‹Nel presentarmi dinanzi a voi per denunciare, probabilmente, il più consumato mascalzone che sia mai esistito,›» e qui il signor Micawber, senza distogliere gli occhi dalla lettera, puntò il regolo, come uno scettro accusatore, contro Uriah Heep, «‹non chiedo alcuna considerazione per me. Vittima, fin dalla culla, di difficoltà finanziarie a cui sono stato incapace di far fronte, sono sempre rimasto il giuoco e lo zimbello di circostanze avvilenti. L'ignominia, il bisogno, la disperazione e la follia sono state, collettivamente o separatamente, il corteo della mia carriera.›» Il compiacimento con cui il signor Micawber descriveva se stesso come preda di queste truci calamità era eguagliato solo dall'enfasi con cui leggeva la sua lettera e dalla specie di omaggio che rendeva ad essa facendo ondeggiare la testa quando pensava di avere inzeccato una frase molto energica. «‹Sotto un cumulo di ignominia, di bisogno, di disperazione e di follia, entrai nell'ufficio - o, come il nostro vivace vicino, il Gallo, direbbe, nel bureau - della ditta nominalmente condotta sotto l'appellativo di Wickfield e... HEEP, ma in realtà diretta dal solo... HEEP. HEEP e solo HEEP è la molla del meccanismo, HEEP e solo HEEP è il falsario e il truffatore.›» Uriah, più livido che pallido a queste parole, fece uno scatto verso la lettera come per metterla in pezzi. Ma il signor Micawber, con un vero miracolo di destrezza o di fortuna, colpì col righello le nocche delle sue dita protese e mise fuori uso la sua destra. Cadde al polso come spezzata. Il colpo risuonò come se si fosse abbattuto su di un legno. «Il diavolo vi porti!» gridò Uriah contorcendosi in nuovo modo per il dolore. «Ve la farò pagare cara!» «Avvicinatevi ancora, voi... voi... voi HEEP di infamia,» ansimò il signor Micawber, «e se la vostra testa è di natura umana, ve la romperò. Avanti, avanti!» Credo di non aver mai visto nulla di più ridicolo - me ne resi conto anche in quel momento - del signor Micawber che faceva gran parate di sciabola con il righello gridando «Avanti!» mentre Traddles ed io lo spingevamo in un angolo da cui, ogni volta che riuscivamo a ficcarcelo, balzava nuovamente fuori. Il suo avversario, mugolando fra sé, dopo essersi tenuta stretta per un momento la mano colpita, trasse lentamente il fazzoletto e l'avvolse con quello; poi se la sostenne con l'altra mano e tornò a sedersi sul suo tavolo con la faccia tetra volta in giù. Il signor Micawber, quando si fu sufficientemente calmato, riprese la sua lettera. «‹Gli emolumenti stipendiari per i quali ero entrato al servizio di... HEEP,›» sempre facendo una pausa prima di questa parola e pronunciandola poi con stupefacente vigore, «‹non erano stabiliti oltre la misera cifra di ventidue scellini e sei pence alla settimana. Il resto dipendeva dal valore delle mie fatiche professionali, in altre e più espressive parole, dalla bassezza del mio carattere, dalla cupidigia dei miei motivi, dalla povertà della mia famiglia, dalla generica affinità morale (o immorale) fra me e... HEEP. È necessario dire che presto mi fu necessario sollecitare da... HEEP anticipi pecuniari per sostenere la signora Micawber e la nostra stremata ma crescente famiglia? Devo dire che questa necessità era stata prevista da... HEEP? Che questi anticipi erano garantiti da cambiali o altri simili ricevute note alle istituzioni legali del nostro paese? E che così rimasi avviluppato nella rete che egli aveva tessuto per imprigionarmi?›» La gioia che il signor Micawber traeva dalle sue capacità epistolari nel descrivere questo disgraziato stato di cose sembrava realmente superare le pene e le ansie che la realtà doveva avergli procurato. Continuò a leggere: «‹Fu allora che... HEEP... prese a favorirmi con giusto quel tanto di confidenza che era necessario per attuare i suoi infernali disegni. Fu allora che io cominciai, se posso esprimermi shakespeareanamente, a degenerare, languire e struggermi. Mi accorsi che i miei servigi erano regolarmente richiesti per falsificare le pratiche e mistificare una persona che designerò come signor W. Che il signor W. veniva sopraffatto, tenuto all'oscuro e fuorviato in ogni possibile modo; che tuttavia, in egual tempo, il furfante... HEEP... professava illimitata gratitudine e illimitata amicizia per questo gentiluomo di cui indegnamente abusava. Questo era già abbastanza malvagio; ma, come osserva il filosofico principe danese, con quella universale possibilità di applicazioni che caratterizza l'illustre gemma dell'età elisabettiana, il peggio viene dopo!›» Il signor Micawber fu così colpito da questa sua felice citazione che si concesse e ci concesse una seconda lettura del passo fingendo di aver perso il filo. «‹Non è mia intenzione,›» continuò riprendendo la lettura, «‹esporre una lista particolareggiata, nel breve giro della presente epistola (sebbene l'abbia pronta altrove) delle varie malefatte di minore importanza a danno della persona che ho denominato signor W., e alle quali ho tacitamente dato mano. Il mio scopo, quando la mia lotta interiore fra stipendio e non stipendio, tra pane e non pane, fra esistenza e non esistenza, fu superata, fu di avvantaggiarmi delle occasioni che avevo per scoprire e rivelare le principali malversazioni commesse, a grave danno e offesa di questo gentiluomo, da... HEEP. Stimolato da un silenzioso consigliere interno e da un non meno commovente e suasivo consigliere esterno - al quale mi riferirò brevemente come signorina W. - mi dedicai a un non lieve compito di segreta investigazione che si protrasse, per quanto meglio sappia, sia informato e creda, per un periodo superiore ai dodici mesi di calendario.›» Lesse questo passo come se fosse tratto da un Atto del Parlamento, e apparve maestosamente ristorato dal suono delle parole. «‹Le mie accuse contro... HEEP,›» riprese a leggere fissandolo e infilandosi il regolo a portata di mano sotto il braccio sinistro, in caso di bisogno, «‹sono le seguenti.›» Credo che tutti trattenemmo il fiato. Che Uriah trattenne il suo ne sono sicuro. «‹Primo,›» disse il signor Micawber. «‹Quando le facoltà del signor W. e la sua memoria per gli affari divennero, per cause che non è necessario né conveniente per me approfondire, deboli e confuse,... HEEP scientemente imbrogliò e complicò tutto l'insieme delle pratiche di ufficio. Quando il signor W. era meno disposto a occuparsi di affari,... HEEP si trovava sempre lì per costringerlo a occuparsene. In tali circostanze ottenne la firma del signor W. sotto documenti importanti presentandoglieli come carte di scarso valore. Indusse così il signor W. ad autorizzarlo a prelevare una particolare somma di denaro a lui affidato ammontante a dodicimila seicento quattordici sterline, due scellini e nove pence, e se ne servì per far fronte a spese e debiti di ufficio fittizi, per i quali in realtà si era già provveduto o che non erano mai esistiti. A tutto il procedimento diede l'apparenza di essere sorto dall'intenzione disonesta dello stesso signor W. e di essere stato compiuto dalla sua stessa disonesta attività; e da allora se ne servì per torturarlo e dominarlo.›» «Dovrete provare tutto questo, Copperfield!» disse Uriah scuotendo minacciosamente la testa. «Tutto a suo tempo!» «Domandate a... HEEP, signor Traddles, chi ha abitato la sua casa dopo di lui,» disse il signor Micawber interrompendo la sua lettura; «volete farlo?» «Questo stesso gaglioffo... e ci abita ancora,» rispose Uriah sdegnosamente. «Domandate a... HEEP se ha mai tenuto un taccuino in quella casa,» disse il signor Micawber; «volete?» Vidi la scarna mano di Uriah cessare, involontariamente, di lisciarsi il mento. «O domandategli,» proseguì il signor Micawber, «se ve ne ha mai bruciato uno. Se dice di sì e vi chiede dove erano le ceneri, ditegli di rivolgersi a Wilkins Micawber, e udrà qualche cosa che non sarà precisamente a suo vantaggio!» L'ampio gesto trionfale con cui il signor Micawber pronunciò queste parole ebbe un potente effetto allarmante sulla madre, che gridò piena di agitazione: «Ury, Ury! Sii umile e vieni a patti, amor mio!» «Madre!» ribatté lui, «vuoi star tranquilla? Sei spaventata e non sai quello che dici o intendi dire. Umile!» ripeté guardandomi torvo; «umile com'ero, ho umiliato qualcuno per un bel po' di tempo!» Il signor Micawber, dopo essersi aristocraticamente aggiustato il mento nella cravatta, continuò a leggere il suo parto letterario. «‹Secondo. HEEP ha, in diverse occasioni, per quanto meglio sappia, sia informato e creda...›» «Ma questo non ha valore,» mormorò Uriah sollevato. «Sta' tranquilla, madre.» «Cercheremo molto presto di presentarvi qualche cosa che avrà valore e vi metterà a posto per sempre, signore,» rispose il signor Micawber. «‹Secondo. HEEP ha, in diverse occasioni, per quanto meglio sappia, sia informato e creda, sistematicamente falsificato su varie registrazioni, libri e documenti, la firma del signor W.; e lo ha fatto particolarmente in un caso che posso provare. Che è quanto dire, altrimenti detto, nel modo seguente.›» Di nuovo il signor Micawber si compiacque di accumular parole, cosa che, sebbene comicamente sfoggiata nel suo caso, non era affatto, devo dirlo, tutta sua peculiare. L'ho notata, nel corso della mia vita, in parecchie persone. Mi sembra una regola generale. Nel linguaggio dei giuramenti legali, ad esempio, i testi sembrano estasiarsi quando riescono a mettere insieme un mucchio di belle parole per esprimere una sola idea, come che profondamente detestano, abominano e abiurano e così via; e gli antichi anatemi erano fondati sullo stesso principio. Noi parliamo di tirannia delle parole, ma ci piace tiranneggiarle a nostra volta; siamo felici di avere una vasta e superflua riserva di parole a portata di mano per le grandi occasioni: ci sembra che dia importanza e suoni bene. Come non siamo molto esigenti sul significato delle livree dei nostri domestici, nelle grandi occasioni, purché siano belle e numerose a sufficienza, così il significato o la necessità delle parole passano in secondo piano purché se ne possa fare un grande sfoggio. E come certuni si trovano in difficoltà per aver messo in mostra troppe livree, o come gli schiavi, quando sono troppo numerosi, finiscono col ribellarsi ai loro padroni, così penso di poter menzionare una nazione che si è trovata in gravi guai, e che si troverà in guai peggiori, per voler mantenere un troppo vasto corteo di parole. Il signor Micawber riprese a leggere facendo quasi schioccare le labbra: «‹Che è quanto dire, altrimenti detto, nel modo seguente. Poiché il signor W. era infermo, e non essendo oltre i limiti del probabile che il suo decesso potesse portare a certe scoperte e alla caduta del potere di... HEEP sopra la famiglia W. - come io, Wilkins Micawber qui sottoscritto, presumo - a meno che l'affetto filiale di sua figlia potesse essere segretamente influenzato così da fargli impedire che avvenisse qualsiasi indagine negli affari della società, il suddetto... HEEP... giudicò opportuno avere un'obbligazione scritta da lui stesso, come se provenisse dal signor W., per la summenzionata somma di dodicimila seicento quattordici sterline, due scellini e sei pence, con gli interessi, nella quale si affermava che la somma stessa era stata prestata da... HEEP... al signor W. per salvare il signor W. dal disonore; sebbene in realtà la somma non fosse mai stata prestata da lui e fosse stata rimessa al suo posto da tempo. Le firme di questo documento, apparentemente stilato dal signor W. e testimoniato da Wilkins Micawber, sono falsificate da... HEEP. Ho in mio possesso, scritte di sua mano nel suo taccuino, parecchie simili imitazioni della firma del signor W., qua e là guastate dal fuoco ma perfettamente leggibili. Io non fui mai testimone di un simile documento. E ho il documento stesso nelle mie mani.›» Uriah Heep, di scatto, si tolse di tasca un mazzo di chiavi e aprì un certo cassetto; poi, rendendosi improvvisamente conto di quel che faceva, si volse di nuovo verso di noi senza guardarvi dentro. «‹E ho il documento stesso,›» tornò a leggere il signor Micawber guardandosi intorno come se fosse il testo di un sermone, «‹nelle mie mani,› per meglio dire lo avevo stamattina presto quando ho scritto tutto questo, ma l'ho poi consegnato al signor Traddles.» «È verissimo,» confermò Traddles. «Ury, Ury!» gridò la madre, «sii umile e vieni a patti. Signori, io so che mio figlio sarà umile, se gli date il tempo di pensare. Signor Copperfield, sapete di certo che è sempre stato molto umile!» Era singolare vedere come la madre si attenesse al vecchio trucco mentre il figlio lo aveva abbandonato come inutile. «Madre,» disse lui mordendo impaziente il fazzoletto in cui aveva avvolto la sua mano, «preferirei che prendessi un fucile carico e mi sparassi.» «Ma io ti voglio bene, Ury,» gridò la signora Heep. E non dubito che fosse così e che egli l'amasse, per quanto strano possa apparire; perché certo erano una coppia congeniale. «E non sopporto di udirti provocare i signori e vederti compromettere ancor più. L'ho detto subito a questo signore, quando, di sopra, mi ha dichiarato che tutto era venuto alla luce, che avrei risposto della tua umiltà e della tua buona volontà di fare ammenda. Oh, guardate quanto umile sono io, signori, e non badate a lui!» «Perdinci, qui c'è Copperfield, madre,» ribatté lui aspro puntando il dito scheletrico verso di me, contro cui si volgeva il suo astio considerandomi il primo responsabile della scoperta; né io lo disillusi; «qui c'è Copperfield, che ti avrebbe dato cento sterline per farti dire molto meno di quello che hai detto così a vanvera!» «Non posso farne a meno, Ury,» gridò la madre. «Non posso vederti precipitare nel pericolo e portare la testa così alta. È meglio che tu sia umile come sei sempre stato.» Rimase immobile per un momento, mordendosi il fazzoletto, e poi mi disse con faccia torva: «Che cos'altro avete da tirar fuori? Se c'è qualche altra cosa continuate. Perché mi guardate a quel modo?» Il signor Micawber riprese prontamente la sua lettera, felice di tornare a un'esibizione che gli dava tanta soddisfazione. «‹Terzo. E ultimo. Sono ora in condizione di provare, con i registri falsificati di... HEEP... e con i promemoria veritieri di... HEEP... cominciando dal taccuino parzialmente distrutto (che non potevo interpretare al tempo in cui la signora Micawber lo scoprì accidentalmente, quando prendemmo possesso della nostra attuale abitazione, nell'armadio e sgabuzzino destinato a raccogliere le ceneri del nostro focolare domestico), che le debolezze, gli errori, le stesse virtù, gli affetti paterni e il senso d'onore dell'infelice signor W. sono stati per anni manipolati e rapinati per i bassi scopi di... HEEP. Che il signor W. è stato per anni ingannato e depredato, in ogni modo concepibile, per il profitto pecuniario dell'avaro, falso e avido... HEEP. Che la principale mira di... HEEP... fu, dopo il guadagno, il completo assoggettamento a se stesso del signore e della signorina W. (dei suoi ulteriori progetti riguardo a quest'ultima non dico nulla). Che il suo ultimo atto, compiuto soli pochi mesi fa, fu di indurre il signor W. a rinunciare alla sua parte nella società e a rilasciargli una ricevuta di vendita dello stesso mobilio della sua casa, in considerazione di una certa rendita annuale che gli sarebbe stata puntualmente pagata da... HEEP... alle scadenze trimestrali di ogni singolo anno. Che queste trame - iniziate con allarmanti e falsi conteggi dei beni di cui il signor W. era depositario, in un periodo in cui il signor W. si era lanciato in speculazioni imprudenti e poco considerate, e non aveva forse pronto il denaro di cui era moralmente e legalmente responsabile; continuate con pretesi prestiti di denaro a interessi enormi, in realtà provenienti da... HEEP... e da... HEEP... fraudolentemente ottenuti o sottratti allo stesso signor W. con la scusa di tali speculazioni o altrimenti; perpetuate con un vario susseguirsi di cavilli senza scrupoli - a poco a poco si strinsero, finché l'infelice signor W. non vide più via di uscita. Fallito, come credeva, negli affari, in tutte le sue speranze, nel suo onore, la sua sola risorsa era nel mostro in forma umana,›» il signor Micawber calcò molto su questa frase che gli parve un nuovo tipo di espressione, «‹il quale, rendendosi a lui necessario, aveva portato a termine la sua rovina. Tutto questo sono pronto a provarlo. E probabilmente molto di più.›» Mormorai poche parole ad Agnes, che piangeva, in parte di gioia e in parte di dolore, al mio fianco; e tra noi ci fu un movimento come se il signor Micawber avesse finito. Ma egli disse con estrema gravità: «Scusatemi,» e iniziò, con un misto di grande abbattimento e di compiacimento intenso, la perorazione della sua lettera. «‹Adesso ho concluso. Mi rimane solo di dar corpo a queste accuse; e poi, con la mia sciagurata famiglia, scomparire da una terra sulla quale sembriamo essere un ingombro. Questo sarà presto fatto. Si può ragionevolmente supporre che il nostro piccolo sarà il primo a perir di fame come il più fragile membro della nostra cerchia; e che i nostri gemelli gli terranno dietro. E sia! Quanto a me, il mio pellegrinaggio a Canterbury ha già fatto molto; il carcere per debiti e la miseria faranno il resto. Confido che le fatiche e il rischio di una investigazione - di cui i minimi risultati sono stati messi insieme lentamente, sotto la pressione di ardui compiti, tra laceranti e squallide ansie, al sorgere nel mattino, nelle vigilie piovose, nelle ombre della notte, sotto il vigile occhio di uno che è superfluo chiamare demonio - combinati con le lotte di una povertà parentale per volgere questa investigazione stessa, una volta compiuta, a buon fine, possano essere come un'aspersione di poche gocce di dolce acqua sulla mia pira funebre. Non chiedo di più. Si dica semplicemente di me, secondo giustizia, come di un prode e illustre eroe del mare, col quale non ho pretese di confrontarmi, che quello che ho fatto lo feci, sdegnando ogni fine mercenario ed egoistico, Per l'Inghilterra, la casa e la bellezza. «‹Rimango per sempre ecc. ecc., Wilkins Micawber.›» Molto commosso, ma ancora enormemente compiaciuto di sé, il signor Micawber piegò la lettera e la offrì con un inchino alla zia come qualche cosa che le potesse essere grato conservare. V'era in quella stanza, come avevo notato durante la mia prima visita, tanto tempo prima, una cassaforte di ferro. La chiave era nella serratura. Un improvviso sospetto parve colpire Uriah; e, gettando un'occhiata al signor Micawber, egli vi si avvicinò e aprì lo sportello con uno scatto metallico. Era vuota. «Dove sono i registri?» gridò con una faccia spaventevole. «Qualche ladro ha rubato i registri!» Il signor Micawber si batté sul petto col regolo. «Io li ho rubati quando ho avuto da voi le chiavi come al solito - ma un poco prima - e ho aperto la cassaforte stamane.» «State tranquillo,» disse Traddles. «Sono in mio possesso. Ne avrò cura sotto l'autorità che ho detto.» «Ricettate beni rubati, voi?» urlò Uriah. «Nelle presenti circostanze,» rispose Traddles, «sì.» Quale fu il mio sbigottimento nel vedere la zia, che era stata profondamente calma e attenta, fare un balzo verso Uriah Heep e afferrarlo per il colletto a due mani! «Lo sapete quello che io voglio?» disse la zia. «Una camicia di forza,» rispose lui. «No. Il mio patrimonio!» rispose la zia. «Agnes, cara, finché ho creduto che fosse stato davvero perduto da vostro padre, non ho voluto - e non l'ho fatto nemmeno con Trot, come lui sa - dir nemmeno una sillaba sul fatto che l'avevo depositato qui perché venisse investito. Ma ora so che questo signore ne è responsabile e voglio riaverlo! Trot, vieni qui a prenderglielo!» Se mia zia supponesse, in quel momento, che egli tenesse il denaro nella sua cravatta, non saprei proprio dire; certo è che la tirava come se lo supponesse. Mi affrettai a mettermi fra loro e ad assicurarla che tutti avremmo fatto in modo di avere la completa restituzione di tutto ciò di cui egli si era disonestamente appropriato. Questo, e una breve riflessione, la calmarono; ma non rimase per nulla sconcertata da quello che aveva fatto (non potrei dire lo stesso del suo cappellino) e tornò a sedere composta. Durante questi ultimi minuti, la signora Heep era andata gridando a suo figlio di essere umile, e si era gettata in ginocchio davanti a tutti noi, uno per uno, facendo le più forsennate promesse. Suo figlio la fece sedere sulla propria sedia, e, restando in piedi, cupo, accanto a lei e tenendole il braccio con la mano, senza farle violenza, mi disse con uno sguardo feroce: «Che cosa intendete fare?» «Vi dirò io quello che dovrà essere fatto,» disse Traddles. «Non ha dunque la lingua questo Copperfield?» brontolò Uriah. «Farei molto per voi se poteste assicurarmi, senza mentire, che qualcuno gliel'ha tagliata.» «Il mio Uriah intende essere umile!» gridò la madre. «Non badate a quello che dice, buoni signori!» «Quello che dovrà essere fatto è questo,» disse Traddles. «Primo: l'atto di rinuncia, di cui abbiamo sentito parlare, deve essermi consegnato qui e adesso.» «Supponete che non lo abbia,» lo interruppe l'altro. «Ma lo avete,» ribatté Traddles; «quindi è inutile fare altre supposizioni.» E non potei fare a meno di riconoscere che, per la prima volta, potevo realmente giudicare la chiarezza di idee e il semplice, paziente e pratico buon senso del mio antico compagno di scuola. «Poi,» continuò Traddles, «dovete prepararvi a sputar fuori tutto quello di cui la vostra rapacità si è impadronita e di restituire fino all'ultimo centesimo. Tutti i registri e i documenti della società rimarranno in nostro possesso; e così pure tutti i vostri registri e i vostri documenti, tutti i depositi in denaro e in titoli, di ogni genere. Insomma tutto quello che c'è qui.» «Dovrà essere fatto? Non lo so,» disse Uriah. «Mi occorre il tempo per pensarci.» «Certo,» rispose Traddles; «ma nel frattempo, e finché ogni cosa non sarà stata fatta con nostra soddisfazione, manterremo il possesso di queste cose; e vi prego - o meglio vi ordino - di restare nella vostra stanza e di non comunicare con alcuno.» «Non lo farò!» esclamò Uriah con una bestemmia. «La prigione di Maidstone è un luogo di detenzione ancora più sicuro,» notò Traddles, «e sebbene la legge possa essere più lenta nel far valere i nostri diritti e non riesca, forse, a farli valere così completamente come voi potete, non c'è dubbio sul fatto che vi punirà. Caro voi, lo sapete perfettamente al pari di me. Copperfield, vuoi fare un salto al palazzo di città e portarci qui un paio di agenti?» A questo punto la signora Heep eruppe nuovamente supplicando in ginocchio Agnes di intervenire a loro favore, protestando che era umilissima, che era tutto vero e che se lui non voleva fare quello che chiedevamo lo avrebbe fatto lei, e tante altre cose dello stesso genere, ormai frenetica di paura per il suo amato. Chiederci quello che egli avrebbe fatto se avesse avuto una qualche audacia sarebbe come chiederci che cosa potrebbe fare un botolo se avesse lo spirito di una tigre. Era un vigliacco dalla testa ai piedi, e mostrò la sua natura codarda con la sua cupa mortificazione, come in ogni altra occasione della sua vile esistenza. «Fermo!» mi ringhiò, e si asciugò con la mano la faccia ardente. «Madre, non far chiasso. Bene! Si tengano pure l'atto. Va' a prenderlo.» «Per favore, signor Dick, volete assisterla?» disse Traddles. Orgoglioso del suo compito, di cui si rendeva conto, il signor Dick la accompagnò come un cane da pastore potrebbe accompagnare una pecora. Ma la signora Heep non gli procurò imbarazzi perché tornò non solo con l'atto ma con la cassetta in cui era, nella quale trovammo un libretto di banca e alcune altre carte che in seguito ci furono utili. «Ottimo!» disse Traddles quando tutto questo gli fu consegnato. «Adesso, signor Heep, potete ritirarvi a riflettere, notando particolarmente, vi prego, quello che vi dichiaro da parte di tutti i presenti: che c'è una cosa sola da fare, ed è quella che vi ho spiegato e che deve essere fatta senza indugio.» Uriah, senza alzar gli occhi dal pavimento, attraversò la stanza strascicando i piedi, con la mano sul mento, e, fermandosi sulla soglia, disse: «Copperfield, vi ho sempre odiato. Siete sempre stato un rifatto e vi siete sempre messo contro di me.» «Come credo di avervi già detto una volta,» risposi, «siete stato voi che, con la vostra ingordigia e la vostra astuzia, vi siete messo contro il mondo intero. Potrà esservi di vantaggio riflettere, in futuro, che in questo mondo non vi sono ancora state ingordigie e astuzie che non abbiano voluto mirar troppo in là e fare il passo più lungo della gamba. È certo come la morte.» «O è certo come quello che solevano insegnarci a scuola (la stessa scuola dove ho assorbito tanta umiltà) dalle nove alle undici: che il lavoro era una maledizione; e dalle undici all'una: che era una benedizione, una gioia, una dignità e non so che altro, eh?» disse con un sogghigno. «Voi predicate con la stessa loro consistenza. Dovrei lasciare l'umiltà? Senza di essa non sarei riuscito a raggirare il mio socio gentiluomo, credo. Micawber, vecchio spaccone, a voi la farò pagare!» Il signor Micawber, con supremo disprezzo per lui e per il suo dito teso, e tutto impettito finché egli non fu scivolato fuori della porta, si rivolse allora a me e mi profferse la soddisfazione di «esser testimone del ristabilirsi della reciproca fiducia fra lui e la signora Micawber». Dopo di che invitò tutta la compagnia alla contemplazione di quel commovente spettacolo. «Il velo che si è lungamente interposto tra la signora Micawber e me stesso è ormai caduto,» disse il signor Micawber; «e i miei figli e l'autore dei loro giorni possono ancora una volta venire in contatto da pari a pari.» Poiché tutti gli eravamo molto grati, e tutti desideravamo mostrargli di esserlo per quanto ce lo permettessero l'agitazione e il disordine dei nostri spiriti, credo che saremmo andati in massa, se non che Agnes doveva tornare da suo padre, incapace, per il momento di sopportare qualche cosa di più di una luce di speranza; ed era necessario che qualcun altro tenesse Uriah sotto custodia. Così Traddles rimase a questo scopo, per essere poi sostituito dal signor Dick; e il signor Dick, la zia e io seguimmo il signor Micawber a casa sua. Mentre mi separavo in fretta dalla cara fanciulla a cui dovevo tanto e pensavo da che cosa ella era stata forse salvata, quel mattino - nonostante le sue migliori decisioni - mi sentii devotamente grato alle miserie dei miei anni giovanili che mi avevano fatto conoscere il signor Micawber. La sua casa non era lontana; e poiché la porta sulla strada dava nel salotto, ed egli vi balzò dentro con la precipitazione sua propria, ci trovammo d'un tratto nel seno della famiglia. Il signor Micawber, esclamando: «Emma! Vita mia!» corse fra le braccia della signora Micawber. La signora Micawber diede uno strillo e accolse il signor Micawber nel suo abbraccio. La signorina Micawber, che teneva in braccio l'inconsapevole straniero di cui mi aveva parlato la signora Micawber nella sua ultima lettera, fu molto commossa. Lo straniero fece gran balzi. I gemelli manifestarono la loro gioia con varie sconvenienti ma innocenti dimostrazioni. Il signorino Micawber, il cui carattere sembrava essere stato inasprito dalle recenti delusioni e il cui aspetto era divenuto imbronciato, si abbandonò ai suoi migliori sentimenti e cominciò a piagnucolare. «Emma!» disse il signor Micawber. «Le nubi si sono allontanate dal mio animo. La reciproca confidenza, così a lungo mantenuta fra noi, è ristabilita e non conoscerà altre interruzioni. E adesso sia benvenuta la povertà!» gridò il signor Micawber sciogliendosi in lacrime. «Sia benvenuta la miseria, benvenuta la mancanza di casa, benvenuti la fame, i cenci, la tempesta e la mendicità! La reciproca confidenza ci sosterrà fino alla fine!» Così dicendo il signor Micawber mise la signora Micawber su di una sedia e abbracciò la famiglia tutt'in giro dando il benvenuto a una varietà di fosche previsioni che, per quanto potessi giudicare, apparivano tutto fuor che benvenute a tutti loro, e invitandoli ad andare a Canterbury per cantare un coro, visto che non avevano altro per sostenersi. Ma, poiché la signora Micawber, nella violenza delle sue emozioni, era venuta meno, la prima cosa da fare, anche perché il coro potesse essere considerato completo, fu di richiamarla a se stessa, cosa che fecero la zia e il signor Micawber. Dopo di che la zia fu presentata e la signora Micawber mi riconobbe. «Scusatemi, caro signor Copperfield,» disse la povera donna dandomi la mano, «ma non sono forte, e il superamento di questo recente malinteso fra il signor Micawber e me, è stato, a tutta prima, troppo violento per me.» «Tutta questa è la vostra famiglia?» chiese la zia. «Attualmente non ce ne sono altri,» rispose la signora Micawber. «Buon Dio, non intendevo questo signora,» disse la zia. «Volevo dire tutti questi ragazzi sono vostri?» «Signora,» intervenne il signor Micawber, «sono delle vere cambiali.» «E questo signorino più grande,» continuò la zia meditando, «a che cosa è stato avviato, lui?» «Quando siamo venuti qui avevo sperato,» disse il signor Micawber, «di far entrare Wilkins nella chiesa: o forse esprimerei meglio il mio intendimento dicendo nel coro. Ma nel venerabile tempio per il quale questa città è giustamente illustre non c'era un posto vacante di tenore, e così lui ha... in breve ha preso l'abitudine di cantare nei locali pubblici invece che negli edifici sacri.» «Ma ha buone intenzioni,» disse la signora Micawber teneramente. «Direi, amor mio,» aggiunse il signor Micawber, «che ha le intenzioni migliori; ma non ho ancora visto che le vada volgendo in una direzione qualsiasi.» Il signorino Micawber riprese la sua aria imbronciata e domandò con una certa irritazione che cosa doveva fare. Era stato forse avviato a fare il carpentiere o il pittore di carrozze più di quanto fosse stato avviato a fare l'uccello? Poteva forse andare nella strada accanto e aprire una farmacia? Poteva forse precipitarsi nel più vicino tribunale e proclamarsi avvocato? Poteva entrare per forza all'opera e ottenere un gran successo con la violenza? Poteva forse far qualche cosa senza essere stato avviato a niente? La zia meditò un poco e poi disse: «Signor Micawber, mi domando se non avete mai pensato all'emigrazione.» «Signora,» rispose il signor Micawber, «è stata il sogno della mia gioventù e la fallace aspirazione dei miei anni maturi.» Sono assolutamente convinto, sia detto fra parentesi, che non ci aveva mai pensato in tutta la sua vita. «Davvero?» disse la zia gettandomi uno sguardo. «E allora, quale importante evento sarebbe per voi e per la vostra famiglia, signore e signora Micawber, se emigraste adesso!» «I capitali, signora, i capitali,» replicò cupamente il signor Micawber. «Questa è la principale, potrei dire l'unica difficoltà, mio caro signor Copperfield,» confermò sua moglie. «I capitali?» esclamò la zia. «Ma voi ci state rendendo un grande servigio... ci avete reso un grande servigio, posso dire, perché certo riusciremo a salvare molto dall'incendio... e che cosa di meglio potremmo fare per voi che trovarvi dei capitali?» «Non potrei riceverli come dono,» disse il signor Micawber pieno di fuoco e di animazione, «ma se potesse essermi prestata una somma sufficiente, diciamo al cinque per cento di interesse annuo dietro mio personale impegno... diciamo mie cambiali a dodici, diciotto e ventiquattro mesi rispettivamente, per avere il tempo che qualche cosa salti fuori...» «Se poteste? Si può e si potrà, alle vostre condizioni,» rispose la zia, «se voi lo chiedete. Adesso pensate a questo tutti e due. C'è certa gente, che David conosce, e che partirà per l'Australia fra breve. Se vi decidete ad andare, perché non partire con la stessa nave? Potreste aiutarvi a vicenda. Pensateci, signore e signora Micawber. Prendete tempo e soppesate bene la cosa.» «C'è una sola domanda, mia cara signora, che vorrei farvi,» disse la signora Micawber. «Il clima, credo, è salubre?» «Il migliore del mondo,» rispose la zia. «Benissimo,» rispose la signora Micawber. «Allora la mia domanda è questa. Le condizioni di questa regione sono tali che un uomo delle capacità del signor Micawber abbia la possibilità di elevarsi sulla scala sociale? Non voglio dire, adesso, che possa aspirare ad essere Governatore o qualche cosa di simile; ma vi sarebbe laggiù un ragionevole spazio, sufficientemente ampio, perché i suoi talenti possano svilupparsi e trovare la loro propria espansione?» «Nessun più ampio spazio in nessun altro luogo,» disse la zia, «per un uomo che sappia bene comportarsi e sia laborioso.» «Per un uomo che sappia bene comportarsi,» ripeté la signora Micawber con il suo più chiaro modo di donna d'affari, «e sia laborioso. Precisamente. È evidente che l'Australia è la legittima sfera d'azione per il signor Micawber!» «Ho la convinzione, mia cara signora,» disse il signor Micawber, «che, nelle attuali circostanze, sia la terra, l'unica terra per me e per la mia famiglia, e che qualche cosa di straordinario salterà fuori su quella spiaggia. Non è lontana... relativamente parlando; e, sebbene la gentilezza della vostra proposta richieda una certa meditazione, vi assicuro che si tratta di una semplice questione di forma.» Dimenticherò mai come, in un attimo, si trasformò nel più fiducioso degli uomini già prevedendo la fortuna? o come la signora Micawber si mise subito a discorrere sulle abitudini del canguro? Potrò mai ricordare quella strada di Canterbury in un giorno di mercato, senza vederlo tornare insieme a noi ostentando, col suo fare intraprendente e svagato, i modi un po' scomposti di uno straniero di passaggio e guardando i manzi che ci passavano accanto con l'occhio di un colono australiano? LIII • UN ALTRO SGUARDO RETROSPETTIVO Devo fare un'altra pausa. O mia moglie-bambina, v'è una figura nella folla che ondeggia davanti alla mia memoria, quieta e ferma, che mi dice nel suo innocente amore e nella sua infantile bellezza: «Fermati per pensare a me... volgi lo sguardo sul Fiorellino che cade a terra agitando invano le ali!» Lo faccio. Tutto il resto si oscura e svanisce. Sono di nuovo con Dora nella nostra villa. Non so più da quanto tempo è malata. Sono così abituato alla sua condizione che non riesco a calcolare il tempo. Non è molto, in settimane e mesi; ma, nell'abitudine e nell'esperienza è un lungo, lunghissimo periodo. Hanno smesso di dirmi di «aspettare ancora pochi giorni.» Ho cominciato a pensare, remotamente, che non sorgerà mai il giorno in cui vedrò la mia moglie-bambina correre nel sole col suo vecchio amico Jip. Lui è divenuto d'improvviso vecchissimo. Forse non trova più nella sua padrona qualche cosa che gli dava vita e lo rendeva più giovane; è avvilito, con la vista debole e le gambe fiacche, e la zia si rattrista nel vedere che non litiga più con lei, ma, abbandonato sul letto di Dora, mentre lei è seduta lì a fianco, le striscia vicino e le lecca mitemente la mano. Dora è a letto e ci sorride, è bella, non ha una parola di irritazione o di lamento. Dice che siamo molto buoni con lei; che il suo caro, vecchio e premuroso ragazzo si sta estenuando, lo sa; che la zia non dorme più e tuttavia è sempre vigile, attiva e affettuosa. A volte le due piccole dameuccellini vengono a trovarla; e allora parliamo del giorno delle nostre nozze e di tutto quel tempo felice. Quale strana e riposante pausa nella mia vita - e in tutta la vita, dentro e fuori - mi par di sentire quando me ne sto seduto nella penombra della stanza tranquilla e ordinata, con gli occhi azzurri della mia mogliebambina volti su di me e le sue piccole dita strette attorno alla mia mano. Per molte e molte ore rimango seduto così; ma, di tutto questo tempo, tre momenti mi tornano più vivi alla memoria. È mattino; e Dora, messa bene in ordine dalle mani della zia, mi mostra come i suoi bei capelli si arriccino ancora sul guanciale, e come siano lunghi e brillanti, e come le piaccia raccoglierli liberamente nella rete che porta. «Non che ne sia vana, burlone,» dice nel vedermi sorridere; «ma perché dicevi sempre che ti sembravano belli; e perché, quando cominciai a pensare a te, solevo guardarmi nello specchio e domandarmi se ti sarebbe piaciuto davvero averne un ricciolo. Oh, come andasti scioccamente in estasi, Doady, quando te ne diedi uno!» «Fu il giorno in cui dipingevi i fiori che ti avevo dato, Dora, quando ti dissi che ti volevo tanto bene.» «Ah! ma io non volli dirti, allora,» continuò Dora, «quanto avevo pianto su di essi, perché credevo che mi amassi davvero! Quando potrò di nuovo correre attorno come un tempo, Doady, andiamo a vedere quei luoghi dove siamo stati una coppia così stupidella, vuoi? E a fare qualcuna delle vecchie passeggiate! Senza dimenticare il povero papà!» «Sì, andremo, e avremo dei giorni felici. Affrettati dunque a guarire, cara.» «Oh, lo farò presto! Sto già molto meglio, sai?» È sera; io siedo sulla stessa sedia, presso lo stesso letto, e lo stesso viso si volge verso di me. Siamo stati a lungo in silenzio, e sul suo volto vi è un sorriso. Adesso non porto più il mio lieve fardello su e giù per le scale. Ella rimane a letto tutto il giorno. «Doady!» «Mia cara Dora!» «Non penserai che quello che sto per dirti è irragionevole, dopo quello che mi hai detto poco fa sulla malattia del signor Wickfield? Vorrei vedere Agnes. Vorrei proprio vederla.» «Le scriverò, cara.» «Davvero?» «Immediatamente.» «Come sei buono, mio caro ragazzo! Doady, sostienimi col tuo braccio. Davvero, caro, non è un capriccio. Non è una sciocca fantasia. Desidero tanto vederla, ma tanto!» «Ne sono sicuro. Basta che le dica così e lei verrà senza dubbio.» «Ti senti molto solo, quando scendi abbasso, adesso?» mi sussurrò Dora tenendomi il braccio attorno al collo. «Come potrebbe essere altrimenti, amor mio, quando vedo la tua sedia vuota?» «La mia sedia vuota!» Si aggrappa a me per un istante, in silenzio. «E senti davvero la mia mancanza, Doady?» Guarda in su con un sorriso luminoso. «Anche se sono una povera, sciocca stupidella?» «Cuor mio, che cosa c'è al mondo di cui possa sentire maggiormente la mancanza?» «Oh, marito mio! Sono così contenta, e tuttavia così triste!» Si stringe ancor più a me e mi tiene fra le sue braccia. Ride e singhiozza, e poi si calma ed è felice. «Davvero!» dice. «Ma invia ad Agnes tutto il mio affetto e dille che desidero tanto, tanto, vederla; e poi non avrò altro da desiderare.» «Tranne di stare ancora bene, Dora.» «Ah, Doady! A volte penso... lo sai che sono sempre stata un cosino sciocco... che questo non sarà mai!» «Non dire così, Dora! Amor mio caro, non pensarlo!» «Non lo farò, se potrò evitarlo. Doady. Ma sono molto felice; anche se il mio caro ragazzo è così solo davanti alla sedia vuota della sua mogliebambina! » È notte; e io sono ancora con lei. Agnes è arrivata; è stata con noi un'intera giornata e una sera. Lei, la zia e io siamo rimasti seduti intorno a Dora fin dal mattino, tutti insieme. Non abbiamo parlato molto, ma Dora è stata perfettamente contenta e gaia. Adesso siamo soli. Lo so, adesso, che la mia moglie-bambina mi lascerà presto? Me lo hanno detto; non hanno detto nulla di nuovo per la mia mente; ma sono tutt'altro che sicuro di avere accolto questa verità nel cuore. Non so dominarla. Mi sono ritirato più volte, quest'oggi, per piangere. Ho ricordato Colui che pianse perché la morte veniva a separarlo dai vivi. Ho meditato su tutta questa storia dolce e triste. Ho tentato di rassegnarmi e di consolarmi; e forse, lo spero, sono riuscito a farlo per quanto imperfettamente; ma quello che non riesco a mettermi in mente è che la fine debba assolutamente venire. Tengo la sua mano nella mia, il suo cuore nel mio, vedo il suo amore per me, vivo di tutto il suo vigore. Non posso escludere una pallida, indugiante ombra di fiducia che ella possa essere risparmiata. «Devo parlarti, Doady. Sto per dirti qualche cosa a cui ho spesso pensato in questi ultimi tempi. Non ti arrabbierai?» Mi volge un dolce sguardo. «Arrabbiarmi, mia cara?» «Perché non so quello che tu penserai o che cosa tu abbia potuto a volte pensare. Forse lo hai pensato anche tu, spesso. Doady, caro, temo che io fossi troppo giovane.» Adagiò il volto sul cuscino, presso di lei, ed ella mi guarda negli occhi e parla con voce dolcissima. A poco a poco, mentre prosegue, mi accorgo, con una stretta al cuore, che parla di sé al passato. «Credo, caro, che io fossi troppo giovane. Non intendo solo di anni, ma di esperienza, di idee, di tutto. Ero una cosina così sciocca! Temo che sarebbe stato meglio se ci fossimo amati solo come fanciulli e ci fossimo poi dimenticati. Ho cominciato a pensare che non ero adatta per essere una moglie.» Tento di trattenere le lacrime e di rispondere: «Oh, Dora, amor mio, eri adatta come lo ero io per essere un marito!» «Non lo so,» e scuote ancora i riccioli come un tempo. «Forse! Ma se fossi stata più adatta al matrimonio, avrei reso più adatto anche te. Inoltre tu sei intelligente, e io non lo sono mai stata.» «Siamo stati molto felici, Dora mia dolce.» «Sono stata molto felice, molto. Ma, col passar degli anni, il mio caro ragazzo si sarebbe stancato della sua moglie-bambina. Sarebbe stata sempre meno un compagno per lui. E lui avrebbe sentito sempre più quello che mancava nella sua casa. Non sarebbe migliorata. È meglio che sia andata così.» «Oh, Dora, cara, cara, non dirmi queste cose. Ogni tua parola mi sembra un rimprovero!» «No, nemmeno una sillaba!» mi risponde baciandomi. «Oh, caro, non lo meriti, e io ti amo troppo per dirti una sola parola di rimprovero, davvero: è tutto il merito che ho avuto oltre al fatto di essere graziosa... o almeno tu mi consideravi tale. C'è molta solitudine da basso, Doady?» «Tanta! Tanta!» «Non piangere! C'è ancora la mia sedia?» «Al suo solito posto.» «Oh, come piange il mio povero ragazzo! Zitto, zitto! Adesso fammi una promessa. Voglio parlare ad Agnes. Quando scendi, dillo ad Agnes e mandamela su; e mentre le parlo non lasciar venire nessuno, nemmeno la zia. Voglio parlare solo ad Agnes. Voglio parlare ad Agnes da sola.» Le prometto che verrà subito; ma, nel mio dolore, non posso lasciarla. «Ho detto che è meglio che sia andata così!» mi mormora tenendomi fra le braccia. «Oh, Doady, fra qualche anno tu non avresti amato la tua moglie-bambina più di quanto la ami adesso; e dopo qualche anno ancora lei ti avrebbe così messo alla prova e deluso che tu non saresti stato capace di amarla nemmeno la metà di adesso! So che ero troppo giovane e stupidella. È molto meglio che sia andata così!» Quando scendo in salotto, Agnes è lì; le comunico il messaggio. Scompare lasciandomi solo con Jip. La sua pagoda cinese è accanto al fuoco; lui vi è sdraiato dentro, sul suo letto di flanella, tentando lamentosamente di dormire. La luna brilla luminosa nell'alto. Mentre guardo fuori nella notte, le lacrime mi cadono copiose e il mio indisciplinato cuore è castigato duramente... molto duramente. Mi siedo accanto al fuoco pensando con un sordo rimorso a tutti i segreti sentimenti che ho nutrito durante il mio matrimonio. Penso a ogni piccola cosa intervenuta fra me e Dora, e capisco la verità che di piccole cose è formata la nostra vita. Sempre risorge dal mare dei ricordi l'immagine della cara fanciulla quale l'avevo conosciuta dapprima, aggraziata dal mio giovane amore e dal suo, con tutte le magie di cui questo amore è ricco. Sarebbe stato davvero meglio se ci fossimo amati come due fanciulli e ci fossimo poi dimenticati? Indisciplinato cuore, rispondi! Non so come il tempo trascorra; finché sono richiamato a me dal vecchio compagno della mia moglie-bambina. Più inquieto del solito, si trascina fuori della sua casa, e mi guarda, e va incerto alla porta, e uggiola per salire. «Non stanotte, Jip! Non stanotte!» Torna molto lentamente verso di me, mi lecca la mano e alza verso il mio volto i suoi occhi appannati. «Oh, Jip! Forse non avverrà mai più!» Si abbandona ai miei piedi, si allunga come per dormire, e, con un grido lamentoso, muore. «Oh, Agnes, guarda qui!» ...Quel volto, così pieno di pietà e di dolore, quel fluire di lacrime, quel terribile, silenzioso appello a me, quella mano solenne levata verso il cielo! «Agnes!» È finita. Le tenebre calano sui miei occhi; e, per un tratto, tutto è cancellato dal mio ricordo. LIV • GLI AFFARI DEL SIGNOR MICAWBER Non è questo il momento in cui devo considerare lo stato della mia mente sotto il suo carico di dolore. Giunsi a pensare che il futuro mi fosse precluso, che ogni energia e attività della mia vita fossero giunte alla fine e che io non avrei mai potuto trovare un rifugio se non nella tomba. Giunsi a pensare così, dico, ma non sotto il primo colpo dell'angoscia. Vi giunsi a poco a poco. Se gli eventi che continuo a narrare non si fossero addensati intorno a me, dapprima per confondere e poi per accrescere la mia pena, è possibile (sebbene non creda probabile) che sarei caduto subito in queste condizioni. Così come si presentarono le cose, mi fu necessario un intervallo prima che mi rendessi pienamente conto della mia sventura: un intervallo durante il quale giunsi addirittura a supporre che le sue fitte più acute fossero passate e il mio spirito poté placarsi soffermandosi su tutto ciò che vi era di più innocente e di più bello nella dolce storia che si era chiusa per sempre. Quando fu proposto per la prima volta che io dovessi andare all'estero, o come fu convenuto fra noi che io dovessi cercare una nuova pace nel cambiamento di ambiente e nei viaggi, non lo so con precisione nemmeno adesso. In questo periodo penoso lo spirito di Agnes pervase a tal punto tutto ciò che pensammo, dicemmo e facemmo, che credo poter attribuire al suo influsso questo progetto. Ma il suo influsso era così pacato che non so altro. E adesso cominciai a credere davvero che nella mia vecchia associazione di lei con una vetrata di chiesa, si fosse fatta via nella mia mente una profetica previsione di quello che ella sarebbe stata per me nella disgrazia che doveva raggiungermi a suo tempo. In tutta quell'angoscia, dal momento, mai dimenticabile, in cui mi apparve dinanzi con la mano levata verso l'alto, ella fu come una sacra presenza nella mia casa solitaria. Quando l'angelo della morte vi scese, la mia moglie-bambina si addormentò - così mi dissero quando fui in condizioni da poterlo udire - sul suo petto con un sorriso. Mi svegliai dal mio deliquio per prender coscienza delle sue lacrime pietose, delle sue parole di speranza e di pace, del suo volto gentile piegato sul mio indisciplinato cuore, come da una più pura regione celeste, per mitigarne la pena. Ma andiamo avanti. Dovevo andare all'estero. Sembra che questo fosse stato deciso fra noi fin dal principio. Poiché la terra copriva ora tutto ciò che, della mia defunta sposa, poteva perire, io attendevo solo ciò che il signor Micawber chiamava «il definitivo annientamento di Heep», e la partenza degli emigranti. Dietro richiesta di Traddles, l'amico più affezionato e devoto nella mia sventura, tornammo a Canterbury: voglio dire la zia, Agnes e io. Ci dirigemmo subito alla casa del signor Micawber, dove avevamo appuntamento: qui e nella casa del signor Wickfield il mio amico aveva lavorato fin dal giorno di quell'incontro esplosivo. Quando la povera signora Micawber mi vide entrare col mio abito nero, fu profondamente commossa. V'era, nel cuore della signora Micawber una grande riserva di bontà che non era stata distrutta in tutti quegli anni. «Bene, signore e signora Micawber,» fu il primo saluto della zia dopo che ci fummo seduti. «Avete pensato, di grazia, a quella mia proposta di emigrare?» «Mia cara signora,» rispose il signor Micawber, «forse non potrei meglio esprimere la conclusione a cui la signora Micawber, il nostro umile servitore e potrei aggiungere i nostri figli, siamo giunti insieme e separatamente, se non prendendo a prestito il linguaggio di un illustre poeta e dicendo che la nostra lancia è sulla spiaggia e il nostro naviglio nel mare.» «Giusto,» disse la zia. «Vi auguro ogni sorta di bene per questa sensata decisione.» «Signora, voi ci fate grande onore,» continuò lui. Poi consultò un promemoria. «Quanto all'aiuto finanziario che ci permetterà di lanciare nell'oceano dell'impresa la nostra fragile canoa, ho nuovamente considerato questo punto importante; e vi pregherei di accettare le mie obbligazioni - stilate, è inutile dirlo, sugli stampati rispettivamente richiesti per le varie somme dai vari atti parlamentari che si riferiscono a queste obbligazioni - a diciotto, ventiquattro e trenta mesi. La proposta che vi feci in origine era di dodici, diciotto e ventiquattro mesi, ma temo che un tale accordo non consentirebbe il tempo sufficiente per la conclusione richiesta che... qualche cosa salti fuori. Potrebbe darsi,» disse il signor Micawber guardandosi intorno come se la stanza rappresentasse parecchie centinaia di acri di terra intensamente coltivata, «che alla scadenza della prima obbligazione non avessimo avuto un buon raccolto, come pure potrebbe darsi che non lo avessimo ancora mietuto. La mano d'opera, credo, è talora difficile a ottenersi in quella plaga dei nostri possessi coloniali dove sarà nostro compito combattere col fertile suolo.» «Fate come meglio vi piace, signore,» disse la zia. «Signora,» rispose, «la signora Micawber e io siamo profondamente sensibili alla premurosa bontà dei nostri amici e protettori. Quello che desidero è di essere un perfetto uomo d'affari e perfettamente puntuale. Voltando, come stiamo per voltare, una pagina interamente nuova della nostra vita, e indietreggiando, come stiamo facendo, per compiere un balzo di non comune grandezza, è importante, per il rispetto che devo a me stesso e per l'esempio che intendo dare a mio figlio, che questi accordi siano conclusi come da uomo a uomo.» Non so se il signor Micawber desse a quest'ultima frase un qualsiasi significato, come ignoro se alcuno ve lo dia o ve lo abbia mai dato; ma egli parve gustarla in modo straordinario, e ripeté, con un imponente colpo di tosse: «Come da uomo a uomo.» «Propongo,» continuò il signor Micawber, «delle cambiali - una opportunità del mondo commerciale della quale, credo, siamo originariamente debitori agli ebrei, i quali, mi sembra, da allora ne hanno fatto un uso maledettamente eccessivo - perché sono negoziabili. Ma se fosse preferita una obbligazione o qualsiasi altro tipo di garanzia, sarei lieto di sottoscrivere qualunque documento del genere. Come da uomo a uomo.» La zia fece osservare che, in un caso in cui entrambe le parti erano pronte ad accordarsi su tutto era sicura che non vi sarebbero state difficoltà per sistemare questo punto. Il signor Micawber fu della stessa opinione. «Per quanto riguarda i nostri preparativi domestici, signora,» riprese il signor Micawber con un certo orgoglio, «per andare incontro al destino a cui è adesso inteso che ci dedicheremo, prego mi sia concesso di riferirli. La mia figlia maggiore è occupata ogni mattino alle cinque in uno stabilimento dei dintorni per apprendere il metodo - se metodo può essere chiamato - di mungere le vacche. I miei figli più giovani hanno ordine di osservare, quanto più da vicino è possibile, le abitudini dei maiali e del pollame allevati nelle zone più povere della nostra città: occupazione dalla quale, in due occasioni, sono stati riportati a casa dopo essere sfuggiti per un pelo al rischio di essere travolti da una carrozza. Io stesso, durante la scorsa settimana, ho rivolto qualche attenzione all'arte della panetteria; e mio figlio Wilkins è uscito con un bastone da passeggio e da mandriano per rendere volontario servizio in questo senso, quando glielo permettevano i cenciosi prezzolati che erano a guardia del bestiame... cosa, mi dispiace a dirlo per il buon nome dell'umana natura, che non è avvenuta spesso, perché, per lo più gli ingiungevano, con grandi improperi, di desistere.» «Tutto bene, dunque,» disse la zia in tono incoraggiante. «Non dubito che anche la signora Micawber avrà avuto il suo da fare.» «Mia cara signora,» rispose la signora Micawber con la sua aria di donna d'affari. «Confesso liberamente che non sono stata molto impegnata in attività immediatamente connesse con la coltivazione e con l'immagazzinamento per quanto sappia bene che entrambi richiederanno la mia attenzione in terra straniera. Il tempo che ho potuto sottrarre ai miei doveri domestici l'ho dedicato a una corrispondenza piuttosto estesa con la mia famiglia. Giacché confesso che mi sembra, mio caro signor Copperfield,» disse la signora Micawber, che sempre finiva col rivolgersi a me, suppongo per antica abitudine, quale che fosse la persona a cui aveva cominciato a indirizzare il suo discorso, «che sia giunto il tempo di seppellire il passato nell'oblìo: in cui la mia famiglia deve tendere la mano al signor Micawber e il signor Micawber alla mia famiglia; in cui il leone deve coricarsi accanto all'agnello e la mia famiglia essere in buoni termini con il signor Micawber.» Dissi di essere della stessa opinione. «Questa, per lo meno, è la luce, mio caro signor Copperfield,» continuò la signora Micawber, «nella quale io vedo l'argomento. Quando vivevo a casa col papà e la mamma, il papà era solito chiedere, ogni volta che nella nostra limitata cerchia si discuteva attorno a qualcosa: ‹In quale luce la mia Emma vede l'argomento?› Che il papà fosse troppo parziale, lo so; tuttavia, quanto al gelo che è sempre sussistito tra il signor Micawber e la mia famiglia, mi sono necessariamente formata un'opinione, per quanto fallace possa essere.» «Sicuro. Ve la siete formata di certo, signora,» disse la zia. «Proprio così,» confermò la signora Micawber. «Ora, posso sbagliare nelle mie conclusioni; è molto probabile che mi sbagli, ma la mia personale impressione è che l'abisso tra la mia famiglia e il signor Micawber sia stato scavato dal timore, da parte della mia famiglia, che il signor Micawber possa chiedere accomodamenti finanziari. Non posso fare a meno di pensare,» disse la signora Micawber con un'aria di profonda sagacia, «che alcuni membri della mia famiglia abbiano temuto che il signor Micawber finisse col sollecitare i loro nomi. Non intendo per darli in battesimo ai nostri figli, ma per farli scrivere sotto delle cambiali e negoziarli in Borsa.» Lo sguardo penetrante con cui la signora Micawber annunciò questa scoperta, come se nessuno ci avesse mai pensato, parve stupire alquanto la zia, la quale rispose bruscamente: «Bene, signora, tutto considerato, non mi meraviglierei che aveste ragione!» «Poiché ora il signor Micawber è alla vigilia di liberarsi dei ceppi pecuniari che lo hanno così a lungo paralizzato,» proseguì la signora Micawber, «e di cominciare una nuova carriera in una regione dove c'è sufficiente spazio per le sue capacità, - cosa che a mio parere è estremamente importante, visto che le capacità peculiari del signor Micawber richiedono spazio - mi sembra che la mia famiglia dovrebbe mettere in evidenza l'occasione facendosi avanti... Quello che vorrei vedere è un incontro fra il signor Micawber e la mia famiglia in un trattenimento di festa, da darsi a spese della mia famiglia, nel quale qualche membro autorevole della famiglia stessa proponesse un brindisi alla salute e alla prosperità del signor Micawber offrendogli l'occasione di esporre le sue idee.» «Mia cara,» disse il signor Micawber con un certo calore, «sarà meglio che io dica chiaramente e subito che, se dovessi esporre le mie idee a questo gruppo riunito, forse verrebbero giudicate di natura offensiva: poiché la mia impressione è che la tua famiglia sia, nell'insieme, un branco impertinente di villani rifatti e, presi uno per uno, una serie di perfetti furfanti.» «Micawber,» disse la signora Micawber scuotendo la testa, «no! Tu non li hai mai capiti e loro non hanno mai capito te.» Il signor Micawber tossì. «Non ti hanno mai capito, Micawber,» insisté sua moglie. «Forse ne sono incapaci. Se è così, è una loro disgrazia, e posso averne pietà.» «Sono molto spiacente, mia cara Emma,» disse il signor Micawber ammansendosi, «di essermi lasciato andare a espressioni che possono, anche remotamente, aver l'apparenza di essere espressioni forti. Tutto quello che vorrei dire è che posso andare in terra straniera senza che la tua famiglia si faccia avanti a favorirmi... a darmi, in poche parole, un'ultima spinta con le sue fredde spalle; e che, tutto sommato, preferirei lasciar l'Inghilterra con lo slancio che possiedo piuttosto che renderlo più intenso con un aiuto da quella parte. Ma al tempo stesso, mia cara, se loro acconsentiranno a rispondere alle tue comunicazioni - cosa che la nostra esperienza comune fa supporre molto improbabile - lungi da me l'idea di essere un ostacolo ai tuoi desideri.» Così sistemata amichevolmente la questione, il signor Micawber offrì il braccio alla signora Micawber e, gettando uno sguardo sul mucchio di registri e di carte che giacevano sul tavolo davanti a Traddles, disse che ci avrebbero lasciati a noi stessi, cosa che fecero cerimoniosamente. «Mio caro Copperfield,» disse Traddles addossandosi alla sedia quando loro se ne furono andati e guardandomi con un affetto che gli fece arrossare gli occhi e mandò i suoi capelli da tutte le parti, «non ti chiederò di scusarmi se vengo a turbarti con gli affari perché so che tu vi sei molto interessato ed è cosa che potrà in qualche modo distrarti. Ragazzo mio, spero che tu non sia del tutto esaurito.» «Sono pienamente padrone di me,» dissi dopo una pausa. «C'è ancora maggior ragione di pensare alla zia che a qualsiasi altro. Tu sai quanto ha fatto per me.» «Sicuro, sicuro,» rispose Traddles. «Chi può dimenticarlo?» «Ma anche questo non è tutto,» aggiunsi. «Durante le ultime due settimane nuovi crucci l'hanno agitata: ogni giorno è andata e venuta da Londra. Più volte è uscita il mattino presto ed è rimasta assente fino a sera. Ieri sera, Traddles, pur con questo viaggio che le stava davanti, è tornata a casa quasi a mezzanotte. Tu sai quanto si preoccupi degli altri. E non vuol dirmi che cosa è accaduto da inquietarla così.» La zia, pallidissima e con le rughe scavate nel volto, rimase seduta, immobile, finché non ebbi finito; allora qualche lacrima isolata scivolò lungo le sue gote, ed ella mi mise una mano nella mia. «Non è nulla, Trot; non è nulla. Ormai è tutto finito. Presto saprai. Adesso, cara Agnes, occupiamoci di questi affari.» «Devo rendere al signor Micawber la giustizia di dire,» cominciò Traddles, «che sebbene non sembri aver lavorato con qualche frutto per se stesso, è instancabile quando lavora per gli altri. Non ho mai visto un tipo simile. Se ha sempre fatto così, deve avere oggi, virtualmente, circa duecento anni. Il calore con cui si è continuamente prodigato; il modo impetuoso e forsennato con cui si è immerso, giorno e notte, in documenti e registri, per non dir nulla dell'immenso numero di lettere che mi ha scritto tra la sua casa e quella del signor Wickfield, e spesso da un capo all'altro del tavolo, quando mi stava seduto di fronte e avrebbe fatto molto prima a parlarmi, è addirittura straordinario.» «Lettere!» esclamò la zia. «Credo che sogni anche per lettera.» «Ed ecco anche il signor Dick,» proseguì Traddles, «che ha fatto meraviglie. Appena fu liberato dal compito di sorvegliare Uriah Heep, a cui fece una guardia di cui, io, non ho mai visto la più severa, prese a dedicarsi al signor Wickfield. E in realtà la sua ansia di rendersi utile nelle indagini che abbiamo fatto, e la sua reale utilità nel fare estratti e copie e nell'andare a prendere cose e a portarle, è stata per noi un vero stimolo.» «Dick è un uomo molto notevole,» esclamò la zia; «e io l'ho sempre detto. Tu lo sai, Trot.» «Sono felice di dire, signorina Wickfield,» continuò Traddles con gran delicatezza e grande serietà a un tempo, «che durante la vostra assenza il signor Wickfield è notevolmente migliorato. Liberato dagli incubi che lo avevano oppresso per tanto tempo, e dalle paurose apprensioni sotto le quali era vissuto, si può dire che non è più lo stesso uomo. Certe volte, anche la sua indebolita capacità di concentrare la memoria e l'attenzione su particolari soggetti, si è ripresa notevolmente; e ha potuto aiutarci nel chiarire molti punti che sarebbero stati per noi quanto mai difficili, se non disperati, senza di lui. Ma il mio compito è di venire ai risultati, che sono abbastanza succinti, e non di chiacchierare su tutte le felici circostanze che ho osservato, altrimenti non finirò più.» Il suo modo naturale e la sua piacevole semplicità rendevano chiaro che diceva questo per metterci di buon animo e permettere ad Agnes di sentir parlare di suo padre con maggior fiducia; ma non erano per questo meno simpatici. «Ora vediamo,» disse Traddles guardando fra le carte sparse sul tavolo. «Dopo aver fatto il computo dei nostri fondi e aver messo in ordine anzitutto una gran quantità di disordine non intenzionale e, secondariamente, una gran quantità di confusioni e di falsificazioni scientemente volute, abbiamo chiarito che il signor Wickfield potrebbe adesso liquidare i suoi affari e la sua agenzia senza presentare alcun ammanco o defalcazione.» «Sia ringraziato il cielo!» esclamò Agnes con fervore. «Ma,» continuò Traddles, «quello che avanzerebbe come suo mezzo di sussistenza - e dicendo questo suppongo che la casa sia messa in vendita - sarebbe così poco, non superando probabilmente qualche centinaio di sterline, che forse, signorina Wickfield, sarebbe meglio considerare se non potesse mantenere l'amministrazione dei beni di cui è stato per tanto tempo il curatore. I suoi amici potrebbero consigliarlo, lo sapete: attualmente è libero di scegliere. Voi stessa, signorina Wickfield, Copperfield e io...» «Ho già considerato questo, Trotwood,» disse Agnes guardandomi, «e sento che non va fatto e non deve essere fatto, nemmeno dietro la raccomandazione di un amico a cui sono così grata e devo tanto.» «Non dico che lo raccomando,» osservò Traddles. «Penso che sia giusto suggerirlo. Non più.» «Sono lieta di sentirvi dire così,» rispose Agnes con fermezza, «perché mi dà la speranza, quasi la certezza, che pensiate come me. Caro signor Traddles e caro Trotwood, una volta che papà ne sia venuto fuori con onore, che cos'altro posso desiderare? Ho sempre desiderato, se mai fossi riuscita a liberarlo dalle fatiche che lo stringevano, di rendergli una piccola parte dell'amore e delle premure che gli devo e di dedicare a lui la mia vita. È stata questa per anni la più alta delle mie speranze. Prendere su di me il nostro futuro sarà per me la seconda grande felicità - dopo quella di averlo sollevato da ogni responsabilità - che io possa avere.» «Hai pensato al modo, Agnes?» «Spesso! E non ho alcun timore, caro Trotwood. C'è tanta gente che mi conosce e mi vuol bene, che ne sono sicura. Non dubitare di me. Le nostre esigenze sono modeste. Se affitto la cara vecchia casa e apro una scuola, mi renderò utile e sarò felice.» Il calmo fervore della sua dolce voce mi riportò così vivamente, dapprima alla cara vecchia casa stessa e poi alla mia solitaria dimora, che mi sentii il cuore troppo colmo per poter parlare. Traddles, per qualche tempo, finse di considerare attentamente le carte. «Adesso, signorina Trotwood,» riprese Traddles, «veniamo al vostro patrimonio.» «Bene, signore,» disse la zia con un sospiro. «Tutto quello che ho da dire in proposito è che, se è andato, non me ne dispererò, e, se non è andato, sarò lieta di riaverlo.» «Credo che, in origine, fosse di ottomila sterline in consolidato, è così?» disse Traddles. «Esattamente!» rispose la zia. «Io non posso rendere conto che di cinque,» dichiarò Traddles con aria perplessa. «...mila, volete dire?» chiese la zia con calma straordinaria, «o cinque sterline?» «Cinquemila sterline,» disse Traddles. «È tutto quello che c'era,» rispose la zia. «Tremila le ho vendute io stessa. Con mille, caro Trot, ho pagato il tuo tirocinio; e le altre due le ho con me. Quando persi il rimanente, considerai saggio non far parola di questa somma e tenerla segreta per i giorni di pioggia. Volevo vedere come avresti superato questa prova, Trot; e te la sei cavata nobilmente... con perseveranza, con fiducia e con abnegazione! Così pure ha fatto Dick. Non parlatemi, perché mi sento i nervi un po' scossi!» Nessuno l'avrebbe supposto, nel vederla eretta sulla sua sedia con le braccia incrociate; ma aveva uno straordinario controllo su di sé. «Allora sono lieto di dire,» esclamò Traddles raggiante di gioia, «che abbiamo ricuperato l'intero capitale!» «Nessuno si congratuli con me,» gridò la zia. «E com'è andata, signore?» «Voi credevate che se ne fosse appropriato indebitamente il signor Wickfield, non è vero?» disse Traddles. «Naturalmente che lo credevo,» rispose la zia, «e per questo fui facilmente costretta a tacere. Agnes, non una parola!» «In realtà,» spiegò Traddles, «fu venduto in virtù della procura che gli avevate dato; ma non ho bisogno di dire da chi fu venduto e con la firma di chi. Quel furfante fece poi credere al signor Wickfield - e lo dimostrò anche in cifre - che si era servito di quel denaro (in base alle generali istruzioni avute, disse lui) per nascondere altri ammanchi e altre difficoltà. Il signor Wickfield, ormai nelle sue mani, debole e disperato fino a pagarvi, in seguito, vari interessi su di un preteso capitale che sapeva non esistere più, si rese disgraziatamente complice della frode.» «E alla fine prese la colpa su di sé,» aggiunse la zia; «e mi scrisse una lettera accusandosi di furto e di malefatte inaudite. Di conseguenza gli feci una visita un mattino presto, mi feci dare una candela, bruciai la lettera e gli dissi che, se poteva render giustizia a me e a lui stesso, lo facesse; e se non poteva, tenesse segreta la cosa per amor di sua figlia. Se qualcuno parla, me ne vado.» Tutti restammo in silenzio; Agnes si coprì il volto. «Bene, caro amico,» riprese la zia dopo una pausa, «e vi siete realmente fatto restituire il denaro?» «Diamine, il fatto è,» rispose Traddles, «che il signor Micawber lo aveva messo alle strette così completamente, sempre pronto con nuove prove se una veniva meno, che non poteva sfuggirci. Una circostanza molto notevole è che, in realtà, credo che egli abbia arraffato questa somma non tanto per appagare la sua cupidigia, che era smodata, quanto per l'odio che nutriva per Copperfield. Me lo disse chiaramente. Mi dichiarò che sarebbe stato pronto a pagare altrettanto pur di ostacolare e danneggiare Copperfield.» «Ah!» esclamò la zia aggrottando pensosa le sopracciglia e dando un'occhiata ad Agnes. «E che è avvenuto di lui?» «Non lo so,» rispose Traddles. «Partì di qui con sua madre, che per tutto il tempo non aveva fatto che schiamazzare, supplicare e rivelare. Se ne andarono con una diligenza della sera per Londra, e di lui non so altro, eccetto che il suo rancore per me, nel partire, fu aggressivo. Sembrava considerarsi indebitato verso di me non meno che verso il signor Micawber, cosa che giudicai (e glielo dissi) un complimento.» «Credi che abbia del denaro, Traddles?» chiesi. «Oh, caro, sì; credo proprio di sì,» rispose seriamente scuotendo la testa. «Credo che, in un modo o in un altro, abbia intascato un bel po'. Ma penso, Copperfield, che se tu avessi il modo di seguire la sua condotta, scopriresti che il denaro non terrà mai quell'uomo lontano dalle malefatte. È un ipocrita così incallito che, qualunque fine persegua, deve farlo per vie traverse. È il solo compenso per le restrizioni esterne che si impone. Sempre strisciante a terra verso qualche scopo meschino, continuerà a trovare enorme quello che incontra sulla sua strada; e di conseguenza odierà e sospetterà tutti coloro che, nel modo più innocente, si metteranno fra lui e la sua meta. Così le vie tortuose diverranno sempre più tortuose per la minima ragione o per nessuna. Basta considerare quello che ha fatto qui,» disse Traddles, «per capirlo.» «È un mostro di bassezza!» disse la zia. «Davvero non saprei che dire su questo,» commentò Traddles pensosamente. «Molta gente può essere molto bassa quando comincia a pensare in termini di bassezza.» «E ora occupiamoci del signor Micawber,» disse la zia. «Bene,» esclamò allegramente Traddles, «devo davvero fare ancora una volta l'alto elogio del signor Micawber. Se non fosse stato così paziente e perseverante per tanto tempo, non avremmo mai potuto sperare di fare un lavoro che meritasse di parlarne. E credo necessario considerare che il signor Micawber ha fatto il giusto per amore di giustizia, se riflettiamo a come avrebbe potuto patteggiare con lo stesso Uriah Heep il suo silenzio.» «Lo penso anch'io,» dissi. «E allora che cosa gli daremo?» chiese la zia. «Oh! prima di venire a questo,» disse Traddles un po' sconcertato, «temo di aver dovuto considerare opportuno mettere da parte (poiché non potevo affrontare tutto) due punti, nel fare questo arrangiamento illegale - perché è perfettamente illegale da capo a fondo - di uno stato di cose molto difficile. Anzitutto quelle cambiali e così via che il signor Micawber gli ha rilasciato per gli anticipi che...» «Be', saranno pagate,» disse la zia. «Sì, ma ignoro quando potranno essere presentate o dove siano,» rispose Traddles spalancando gli occhi; «e prevedo che, da oggi al momento della sua partenza, il signor Micawber potrà essere a ogni momento arrestato o colpito da sequestro.» «Dunque dovrà essere rimesso in libertà ogni volta o liberato dal sequestro,» disse la zia. «A quanto ammonta l'intera somma?» «Be', il signor Micawber ha registrato con gran solennità le transazioni - lui le chiama transazioni - in un libro,» spiegò Traddles sorridendo, «e fanno un totale di centotré sterline e cinque scellini.» «Allora che cosa gli daremo, compresa questa somma?» chiese la zia. «Cara Agnes, parleremo poi fra noi sul modo di ripartirci la spesa. Quanto sarà? Cinquecento sterline?» A questo punto Traddles e io intervenimmo insieme. Entrambi consigliammo una piccola somma in contanti e il pagamento, senza stipularlo col signor Micawber, delle rivendicazioni di Uriah via via che si presentassero. Proponemmo poi che la famiglia avesse l'importo delle spese di viaggio e di equipaggiamento e cento sterline; e che l'accordo con il signor Micawber per il rimborso di questi anticipi fosse solennemente registrato perché gli avrebbe fatto bene credersi legato a questi impegni. A questo aggiunsi il suggerimento che io dovessi dare qualche spiegazione del suo carattere e delle sue vicende al signor Peggotty, sul quale sapevo di poter fare affidamento, e che fosse tranquillamente rimessa al signor Peggotty la decisione di anticipargli altre cento sterline. Proposi inoltre di interessare il signor Micawber al signor Peggotty, confidandogli quel tanto della storia del signor Peggotty che mi sembrasse giustificato e opportuno; e di cercare di portarli ad appoggiarsi l'uno all'altro per il comune vantaggio. Tutti accolsero con calore questi progetti; e posso dir subito che gli stessi interessati fecero altrettanto poco dopo, con perfetta buona volontà e armonia. Vedendo che Traddles tornava a guardare la zia con una certa ansia, gli ricordai il secondo e ultimo punto a cui aveva alluso. «Tu e tua zia mi scuserete, Copperfield, se tocco un argomento che, temo, sarà penoso,» disse Traddles esitando; «ma credo necessario richiamarvelo a mente. Il giorno della memorabile denuncia del signor Micawber, fu fatta da Uriah Heep una minacciosa allusione al... marito di tua zia.» La zia, sempre rigida sulla sedia e apparentemente composta, assentì con un cenno. «Forse,» osservò Traddles, «fu solo un'insolenza senza fondamento.» «No,» rispose la zia. «V'era - scusatemi - v'era realmente una tale persona e si trovava davvero nelle sue mani?» accennò Traddles. «Sì, mio buon amico,» disse la zia. Traddles, allungando il volto in modo percettibile, spiegò che non era riuscito ad affrontare questo argomento; che esso aveva seguito la sorte delle obbligazioni di Micawber restando fuori dagli accordi da lui stipulati; che non avevamo più alcuna autorità su Uriah Heep; e che se egli avesse potuto recare, a noi o a qualcuno di noi, qualche danno o qualche noia, lo avrebbe certo fatto. La zia rimase tranquilla; finché di nuovo qualche lacrima isolata le scivolò per le gote. «Avete ogni ragione,» disse. «E stato molto gentile, da parte vostra, il parlarne.» «Possiamo, io... o Copperfield... fare qualche cosa?» chiese Traddles con delicatezza. «Niente,» rispose la zia. «Vi ringrazio infinitamente. Trot, mio caro, è stata una vana minaccia! Facciamo tornare il signore e la signora Micawber. E che nessuno di voi mi parli!» Così dicendo si lisciò il vestito e rimase seduta col suo rigido portamento, guardando la porta. «Bene, signore e signora Micawber!» disse la zia quando essi rientrarono. «Abbiamo discusso sulla vostra emigrazione, e vi facciamo molte scuse per avervi tenuto fuori della stanza così a lungo; ora vi dirò gli accordi che vi proponiamo.» Spiegò tutto con infinita soddisfazione della famiglia - erano presenti i ragazzi e tutta la compagnia - e nel signor Micawber si risvegliarono a tal punto le abitudini di puntualità che aveva nella prima fase di tutte le sue transazioni cambiarie, che nessuno poté dissuaderlo dal correre immediatamente fuori, in grande eccitazione, a comprare i moduli stampati per i suoi impegni. Ma la sua gioia ricevette un improvviso colpo di arresto, perché tornò dopo cinque minuti, sotto custodia di un agente dello sceriffo annunciandoci, tra un diluvio di lacrime, che tutto era perduto. Noi, preparatissimi a questo evento, che era naturalmente una manovra di Uriah Heep, pagammo subito la somma; e dopo altri cinque minuti il signor Micawber era seduto al tavolo riempiendo i moduli con un'espressione di perfetta gioia che solo questa occupazione congeniale e la preparazione del ponce potevano far sorgere nella sua pienezza sul suo volto raggiante. Vederlo al lavoro sui moduli col gusto di un artista, toccandoli come se fossero dipinti, guardandoli di sbieco, prendendo gravemente nota delle date e delle somme sul suo taccuino, contemplandoli infine con un alto senso del loro prezioso valore, era un vero spettacolo. «Adesso, la miglior cosa che possiate fare, signore, se mi permettete di darvi un consiglio,» disse la zia dopo averlo osservato in silenzio, «è di rinunciare per sempre a questa occupazione.» «Signora,» rispose il signor Micawber, «è mia intenzione registrare questo voto sulla vergine pagina del futuro. La signora Micawber ne sarà testimone. Confido,» disse il signor Micawber solennemente, «che mio figlio Wilkins si terrà sempre a mente che sarà meglio per lui metter la mano nel fuoco che usarla per maneggiare i serpenti che hanno avvelenato il sangue e la vita del suo sventurato genitore!» Profondamente commosso e mutato in un attimo nell'immagine della disperazione, il signor Micawber contemplò i serpenti con uno sguardo di tetro orrore (nel quale la sua recente ammirazione per essi non era del tutto scomparsa), li ripiegò e se li mise in tasca. Si chiusero così i lavori della serata. Eravamo stanchi di pena e di fatica, e la zia ed io dovevamo tornare a Londra l'indomani. Stabilimmo che i Micawber ci avrebbero seguiti dopo aver venduto i loro mobili a un rigattiere; che gli affari del signor Micawber sarebbero stati sistemati, con tutta la speditezza possibile, sotto la direzione di Traddles; e che Agnes sarebbe pure venuta a Londra durante il periodo di questi preparativi. Passammo la notte nella vecchia casa che, liberata dalla presenza degli Heep, sembrava purificata da una malattia; e io dormii nella mia vecchia stanza come un naufrago vagabondo tornato a casa. Il giorno dopo tornammo in casa della zia: non nella mia; e quando lei e io ci trovammo seduti da soli, come un tempo, prima di andare a letto, ella disse: «Trot, vuoi proprio sapere che cosa mi ha angustiata negli ultimi tempi?» «Lo vorrei proprio, zia. Se c'è stato un periodo in cui non ho desiderato vederti in crucci o in ansie che non potessi condividere, è questo.» «Tu hai avuto abbastanza pene, ragazzo,» disse affettuosamente la zia, «senza che vi aggiungessi le mie piccole miserie. Non ho avuto altro motivo, Trot, per tenerti celata qualche cosa.» «Lo so bene,» risposi. «Ma adesso dimmi.» «Vorresti fare una breve scarrozzata con me, domattina?» mi chiese la zia. «Naturalmente.» «Alle nove,» stabilì. «E allora, caro, ti dirò.» Alle nove, secondo l'accordo, partimmo in una carrozzella e ci recammo a Londra. Corremmo a lungo per le strade finché giungemmo a uno dei grandi ospedali. Presso l'edificio c'era un modesto carro funebre. Il conducente riconobbe la zia e, obbedendo a un cenno della sua mano attraverso il finestrino, si mosse lentamente; noi lo seguimmo. «Adesso puoi capire, Trot,» disse la zia. «È morto.» «Nell'ospedale?» «Sì.» Sedeva immobile accanto a me; ma ancora vidi le solitarie lacrime sul suo volto. «Era già stato qui una volta,» disse la zia poco dopo. «Da molto tempo era sofferente... un uomo spezzato, infranto ormai da molti anni. Durante quest'ultima malattia, quando si rese conto del suo stato, chiese che mi mandassero a chiamare. Era pentito. Molto pentito.» «Ho capito, zia. Tu andasti.» «Andai. E in seguito rimasi con lui a lungo.» «Morì la notte prima che andassimo a Canterbury?» chiesi. La zia assentì con un cenno. «Adesso nessuno può fargli del male,» disse. «Era una vana minaccia.» Proseguimmo oltre la città, fino al cimitero di Hornsey. «Meglio qui che per la strada,» disse la zia. «Qui era nato.» Scendemmo; e seguimmo la semplice bara fino a un angolo che ricordo bene e dove venne letto l'ufficio divino che lo consegnava alla polvere. «Trentasei anni fa, in questo giorno, caro,» disse la zia mentre tornavamo alla carrozzella, «mi sposavo. Dio ci perdoni tutti!» Prendemmo posto in silenzio; e lei mi sedette a fianco a lungo, tenendomi la mano. Infine scoppiò improvvisamente in lacrime dicendo: «Era un bell'uomo quando lo sposai, Trot... e poi era tanto cambiato!» Non durò a lungo. Dopo il sollievo delle lacrime tornò subito calma e perfino gaia. Aveva i nervi un po' scossi, altrimenti non si sarebbe abbandonata a quello sfogo. Dio ci perdoni tutti! Così tornammo alla sua villetta di Highgate, dove trovammo il seguente biglietto giunto, da parte di Micawber, con la posta del mattino. «Canterbury, Venerdì. «Cara signora e Copperfield, «La bella terra promessa che ultimamente era apparsa all'orizzonte è di nuovo avvolta in impenetrabili nebbie e per sempre sottratta alla vista di un rottame alla deriva la cui condanna è segnata! «Un altro mandato è stato emesso (nell'alta corte di Sua Maestà del King's Bench a Westminster), per un'altra causa di HEEP contro MICAWBER, e il convenuto in questa causa è preda dello sceriffo che ha legale giurisdizione in questo distretto. «È questo il giorno ed ecco l'ora è questa, La fine della pugna ormai si appresta, Vien del fiero Edoardo l'ira infesta. Catene e schiavitù! «Consegnato al suddetto, e per una rapida fine (perché la tortura mentale non è sopportabile oltre un certo punto, e questo punto sento di averlo raggiunto), la mia corsa è finita. Dio vi benedica, Dio vi benedica! Qualche futuro viaggiatore, visitando, per motivi di curiosità non esenti, speriamolo, da simpatia, il luogo di confino destinato ai debitori di questa città, potrà, e confido che vorrà farlo, meditare nel decifrare, incise sulle sue mura con un chiodo arrugginito, le oscure iniziali W.W. «P.S. Riapro la presente per dire che il nostro comune amico, signor Thomas Traddles (che non ci ha ancora lasciati e che sta benissimo) ha pagato il debito e le spese nel nobile nome della signorina Trotwood; e che io e la mia famiglia siamo al colmo della felicità terrena.» LV • TEMPESTA Mi avvicino adesso a un evento della mia vita, così indelebile, così pauroso, così legato con un'infinita varietà di stami a tutto quello che precede in queste pagine, che, fin dall'inizio del racconto, l'ho visto ingrandire sempre più via via che procedevo come un'alta torre in una pianura, e gettare la sua ombra presaga perfino sugli incidenti dei miei giorni infantili. Ancora molti anni dopo che accadde l'ho spesso sognato. Sono balzato su con un'impressione così vivida di esso, che la sua furia è sembrata ancora imperversare nella mia quieta stanza, nella notte silenziosa. Ancor oggi lo sogno a volte, sebbene a intervalli lunghi e incerti. Lo ricollego a ogni vento di tempesta, o alla minima allusione a una spiaggia, violenta come niente altro di cui sia consapevole. Tenterò di scriverlo con la stessa evidenza con cui vedo quello che avvenne. Non lo ricordo ma lo vedo avvenire; perché mi si svolge ancora dinanzi. Avvicinandosi rapidamente il tempo in cui la nave degli emigranti doveva far vela, la mia buona vecchia governante (che aveva quasi il cuore spezzato per me, la prima volta che la rividi) venne a Londra. Io fui sempre con lei, con suo fratello e con i Micawber (poiché stavano molto insieme); ma non vidi mai Emily. Una sera, quando ormai mancava pochissimo alla partenza, ero solo con Peggotty e con suo fratello. La nostra conversazione volse su Ham. Ella ci descrisse come teneramente si fosse separato da lei e con quale calma virile si era comportato. In particolare negli ultimi tempi, nei quali, pensava, egli era maggiormente provato. Era un soggetto di cui quell'affettuosa creatura non si stancava mai; e il nostro interesse nell'udire i tanti esempi che ella, sempre così vicina a lui, poteva riferirci, era eguale al suo nel riferirli. Mia zia e io, in quel tempo, stavamo sgomberando le due ville a Highgate; perché io intendevo andare all'estero e lei tornare alla sua casa di Dover. Temporaneamente alloggiavamo a Covent Garden. Dopo questa conversazione serale, mentre tornavo a casa riflettendo a quanto era avvenuto fra Ham e me l'ultima volta che ero stato a Yarmouth, mi sentii incerto sulla prima decisione che avevo preso, di lasciare una lettera per Emily quando mi sarei congedato da suo zio sul ponte della nave, e pensai che sarebbe stato meglio scriverle subito. Dopo aver ricevuto la mia comunicazione, pensai, ella avrebbe potuto desiderare di lasciare, per mezzo mio, qualche parola di estremo saluto al suo infelice innamorato. E dovevo dargliene l'opportunità. Mi sedetti dunque nella mia stanza, prima di andare a letto, e le scrissi. Le dissi di averlo visto e che egli mi aveva chiesto di dirle quello che ho già scritto a suo luogo in queste pagine. Glielo ripetei fedelmente. Non avevo bisogno di dilungarmi su questo, se anche ne avessi avuto il diritto. La sua fedeltà e bontà profonde non dovevano essere abbellite da me né da alcun altro. Lasciai fuori la lettera perché fosse impostata il mattino, con un rigo per il signor Peggotty in cui lo pregavo di consegnarla a lei; e andai a letto sul far del giorno. Ero allora più debole che non credessi; e, non essendomi addormentato se non quando il sole era già alto, il giorno dopo dormii fino a tardi e con scarso riposo. Fui svegliato dalla silenziosa presenza della zia a fianco del mio letto. La sentii nel sonno, come suppongo tutti noi sentiamo certe cose. «Trot, caro,» mi disse quando aprii gli occhi, «non sapevo decidermi a svegliarti. C'è qui il signor Peggotty; può salire?» Risposi di sì, ed egli apparve subito. «Signorino Davy,» mi disse quando ci fummo stretta la mano, «ho dato a Emily la vostra lettera, signore, e lei ha scritto questa; e mi ha pregato di chiedervi di leggerla e, se non ci vedete nulla di male, di essere così buono da recapitarla.» «L'avete letta?» chiesi. Annuì con aria pensosa. L'aprii e lessi quanto segue: «Ho ricevuto il tuo messaggio. Oh, che cosa posso scrivere per ringraziarti della benedetta bontà che hai verso di me? «Ho tenuto le tue parole strette al mio cuore. Le conserverò fina alla morte. Sono spine acute, ma mi danno tanto conforto! Ho pregato su di esse, ho pregato tanto. Quando penso a quello che sei e a quello che è lo zio, capisco quello che deve essere Dio e trovo la forza di implorarlo. «Addio per sempre. Sì, mio caro amico, addio per sempre in questo mondo. In un altro mondo, se sarò perdonata, potrò svegliarmi bambina e venire a te. Tutta la mia gratitudine e tutte le mie benedizioni. Addio per sempre.» Questa, macchiata di lacrime, era la lettera. «Posso dirle che non ci vedete nulla di male e che sarete così buono da recapitarla, signorino Davy?» chiese il signor Peggotty quando la ebbi letta. «Senza dubbio,» risposi. «Ma sto pensando...» «Sì, signorino Davy?» «Sto pensando,» dissi, «che tornerò a Yarmouth. Ho tempo d'avanzo per andare e tornare prima che la nave faccia vela. La mia mente è sempre rivolta a lui e alla sua solitudine; dargli questa lettera scritta da lei, in questo momento, e permettervi di dirle, al momento della partenza, che lui l'ha ricevuta sarà un sollievo per entrambi loro. Ho accettato solennemente il suo incarico, mio caro amico, e non potrò mai adempierlo in modo troppo completo. Il viaggio, per me, non è nulla. Sono inquieto, e muovermi mi farà bene. Partirò stasera.» Sebbene cercasse ansiosamente di dissuadermi, vidi che aveva la mia stessa idea; e questo, se anche ne avessi avuto bisogno, mi avrebbe confermato nella decisione. Dietro mia preghiera andò all'ufficio delle diligenze e fissò per me un posto a cassetta sulla postale. La sera partii con questo mezzo, lungo la strada che avevo fatto nel corso di tante vicissitudini. «Non vi sembra,» chiesi al vetturino alla prima tappa fuori di Londra, «che sia questo un cielo molto singolare? Non ricordo di averne mai visto uno simile.» «Nemmeno io... nulla di simile,» rispose. «Questo è vento, signore. Mi aspetto che fra poco ci sarà subbuglio in mare.» Era una tetra confusione - qua e là macchiata di un colore simile a quello del fumo di un combustibile umido - di nuvole naviganti, sospinte nei più strani ammassi, che suggerivano, fra le nubi, altezze più grandi di quanto non fossero profondi gli abissi sotto di loro, fino all'estremo delle più profonde viscere della terra, e nelle quali una luna impazzita sembrava precipitarsi a testa bassa, come se, in un pauroso scompiglio delle leggi della natura, avesse perso la sua via e ne fosse atterrita. C'era stato vento per tutto il giorno; e adesso cresceva con un frastuono assordante. Dopo un'ora era ancora aumentato e soffiava con violenza, mentre il cielo era ancora più coperto. Ma, con l'avanzare della notte, le nubi si chiusero e si addensarono diffondendosi per tutto il cielo, e il vento prese a soffiare sempre più violento. Continuò a crescere finché i nostri cavalli solo a fatica poterono fargli fronte. Più volte, nel buio (era settembre avanzato, quando le notti non sono più molto brevi), i cavalli di testa si voltarono o si fermarono in tronco; e spesso tememmo seriamente che la diligenza fosse rovesciata. Vaste raffiche di pioggia precedevano la burrasca come scrosci di acciaio; e ogni tanto, quando raggiungevamo qualche riparo di alberi o mura contro vento, eravamo pronti a fermarci nell'assoluta impossibilità di continuare la lotta. Quando sorse il giorno, il vento soffiava ancora più forte. Ero stato a Yarmouth in tempi in cui i pescatori dicevano che soffiava a cannonate, ma non avevo mai veduto nulla di simile o che appena vi si avvicinasse. Giungemmo a Ipswich molto tardi, avendo dovuto combattere per ogni pollice di strada già da dieci miglia fuori Londra, e trovammo un mucchio di gente che si era alzata nel cuore della notte radunandosi sulla piazza del mercato per paura che cadessero i comignoli. Alcuni di loro, aggruppati intorno alla locanda mentre cambiavamo i cavalli, ci parlarono di grandi lastre di piombo strappate dall'alto campanile della chiesa e cadute in una strada vicina che era adesso bloccata. Altri raccontavano di gente di campagna, venuta dai villaggi dei dintorni, che aveva visto grandi alberi sradicati e abbattuti e interi pagliai sparpagliati per le strade e nei campi. Tuttavia la tempesta non si calmava e il vento soffiava sempre più forte. A mano a mano che, sempre lottando, ci avvicinavamo al mare, da cui quel vento possente imperversava dritto contro la spiaggia, la sua violenza diveniva ancor più paurosa. Molto prima che vedessimo il mare, sentimmo le sue spume sulle labbra e ci venne addosso una pioggia salata. Le acque erano sommosse per miglia e miglia dalla pianura adiacente a Yarmouth; e ogni stagno o pozzanghera colpiva le sue sponde con la forza di piccoli frangenti che si gettavano pesantemente contro di noi. Quando fummo in vista del mare, le onde all'orizzonte, colte a intervalli sopra l'abisso in tumulto, ci apparivano come un'altra spiaggia con torri e edifici. Quando infine entrammo nella città, la gente uscì dalle porte, curva contro il vento, coi capelli svolazzanti, stupita che la postale avesse potuto arrivare in una notte simile. Scesi alla vecchia locanda e andai a guardare il mare: barcollando per la strada cosparsa di sabbia, di alghe e di volanti macchie di spume; temendo la caduta di ardesie e di tegole; e, nei momenti più difficili, aggrappandomi alla gente che incontravo. Presso la spiaggia vidi non solo gli uomini di mare ma mezza popolazione della città riparata dietro le costruzioni; alcuni, sfidavano ogni tanto la furia dell'uragano per andare a vedere il mare, ed erano letteralmente soffiati via quando cercavano di tornare indietro correndo a zig-zag. Unitomi a questi gruppi, trovai donne gementi, i cui mariti erano in mare su navi da aringhe o da ostriche, che molto probabilmente erano andate a picco prima di poter raggiungere un qualche rifugio. Vecchi marinai dai capelli grigi erano fra quella gente, e scotevano la testa volgendo gli occhi dal mare al cielo e parlottando fra loro; padroni di navi eccitati e inquieti; ragazzi ammucchiati alla rinfusa, che scrutavano i volti dei più anziani; perfino robusti marinai, ansiosi e preoccupati, che puntavano i cannocchiali sul mare di dietro qualche riparo, come se sorvegliassero un nemico. Quello stesso tremendo mare, quando potei trovare un momento opportuno per guardarlo nella furia del vento accecante, le pietre e la sabbia che volavano, il pauroso fracasso, mi sbigottì. Le immani muraglie d'acqua che giungevano rotolando e, dal massimo della loro altezza, si abbattevano nella risacca, davano l'impressione che la più piccola di loro avrebbe potuto sommergere la città. L'onda che tornava indietro con un rauco muggito scavava nella sabbia tracce profonde come se mirasse a scalzare la terra dalle sue radici. Quando qualche maroso dalla bianca cresta avanzava tuonando e andava in frantumi prima di raggiungere la terra, ogni frammento della massa infranta sembrava invasato da tutto il potere della sua rabbia precipitandosi per riunirsi a formare un nuovo mostro. Ondeggianti colline si mutavano in vallate, ondeggianti vallate (sfiorate a volte da una procellaria errabonda) si elevavano in colline; masse d'acqua frantumavano e scuotevano la spiaggia con un fragore di tuono; ogni forma avanzava in tumulto e, appena costituita, cambiava di forma e di luogo spazzando via altri luoghi e altre forme; l'immaginaria costa sull'orizzonte, con le sue torri e i suoi edifici, sorgeva e sprofondava; le nubi si abbattevano rapide e dense; mi sembrava di assistere al lacerarsi e all'esplodere dell'intera natura. Non trovando Ham fra la gente che questo vento memorabile - perché è ancora ricordato laggiù come il più impetuoso che, a memoria d'uomo, abbia soffiato sulla costa - aveva radunato, andai alla sua casa. Era chiusa; e, poiché nessuno rispondeva ai miei colpi, mi recai, per vie secondarie e sentieri laterali, al cantiere in cui lavorava. Seppi là che era andato a Lowestoft, per improvvise esigenze di riparazioni nelle quali era richiesta la sua abilità, ma che sarebbe tornato la mattina dopo, sul presto. Tornai alla locanda; e, quando mi fui lavato e vestito, dopo aver tentato invano di prender sonno, erano le cinque del pomeriggio. Non ero rimasto seduto nemmeno per cinque minuti presso il fuoco della sala del caffè, quando il cameriere, che venne ad attizzarlo come scusa per chiacchierare un po', mi disse che due carboniere erano affondate con tutto l'equipaggio poche miglia al largo, e che qualche altra nave era stata vista lottare duramente nella rada tentando, con gran difficoltà, di tenersi lontana dalla riva. Dio abbia pietà di loro e di tutti i poveri marinai, disse, se li attende un'altra notte come questa! Ero molto depresso, mi sentivo solo e provavo una preoccupazione, per l'assenza di Ham, sproporzionata alla circostanza. Ero profondamente commosso, senza sapere quanto, dagli ultimi eventi; e l'essere stato esposto per tanto tempo alla furia del vento mi aveva stordito. Vi era una tal confusione nei miei pensieri e nei miei ricordi, che avevo perso il chiaro senso del tempo e della distanza. Così, se fossi andato in città, credo che non sarei rimasto sorpreso di incontrare qualcuno che sapevo a Londra. Per così dire v'era nella mia mente, a questo riguardo, una curiosa incapacità di attenzione. Tuttavia ero anche turbato da tutti i ricordi che il luogo risvegliava naturalmente in me, particolarmente vividi e distinti. In questo stato, la paurosa notizia datami dal cameriere su quelle navi si collegò immediatamente, senza alcuno sforzo della mia volontà, con la mia preoccupazione per Ham. Mi convinsi di essere in apprensione che egli tornasse da Lowestoft per mare e si perdesse. Questo timore divenne così forte in me che decisi di tornare al cantiere prima di pranzo e chiedere all'armatore se considerava possibile un suo tentativo di tornare per mare. Se mi avesse dato la minima ragione per supporlo, sarei andato a Lowestoft per prevenirlo e portarlo con me. Ordinai in fretta il desinare e tornai al cantiere. Giunsi appena in tempo perché l'armatore, con la lanterna in mano, stava chiudendo il cancello. Si mise a ridere quando gli feci la domanda e disse che non c'era da aver paura: nessun uomo, di buon senso o no, si sarebbe messo in mare con un vento simile, e meno di tutti Ham Peggotty, che era nato marinaio. Lo sapevo già da prima, tanto che in realtà mi ero vergognato di fare quello che nondimeno ero stato costretto a fare, e tornai alla locanda. Se un vento tale poteva aumentare, credo che stesse aumentando. I mugghi e gli ululati, il battere di finestre e di porte, il sordo rombo entro i camini, l'apparente oscillare della stessa casa che mi proteggeva e il prodigioso tumulto del mare erano più paurosi che al mattino. Ma adesso v'era, al di fuori, una grande oscurità, e questo prestava alla tempesta nuovi terrori, reali o immaginari. Non potevo mangiare, non potevo star fermo, non potevo dedicarmi stabilmente a nulla. Qualche cosa in me, rispondendo oscuramente alla bufera esterna, sconvolgeva le profondità della mia memoria e le metteva in sommossa. Tuttavia, pur nella furia dei miei pensieri, che correvano selvaggi insieme al mare tonante, la tempesta e le mie apprensioni per Ham erano sempre in primo piano. Il pranzo fu portato via quasi intatto; tentai di ristorarmi con un paio di bicchieri di vino. Invano. Caddi in un'opaca sonnolenza davanti al fuoco, senza perdere coscienza né del frastuono esterno né del luogo in cui ero. Entrambi furono gettati nell'ombra da un nuovo, indefinibile orrore; e quando mi svegliai - o piuttosto quando mi scossi dalla letargia che mi paralizzava nella poltrona - tutta la mia persona rabbrividì per una paura incomprensibile e senza ragione. Andai su e giù, tentai di leggere un vecchio dizionario geografico, tesi l'orecchio ai paurosi frastuoni, osservai volti, scene e figure nel fuoco. Infine il monotono ticchettare di una tranquilla pendola sulla parete mi irritò in tal modo che decisi di andare a letto. Mi fu di conforto, in una notte simile, sapere che alcuni camerieri si erano accordati per rimanere alzati fino al mattino. Mi misi a letto stanco e triste quanto mai; ma, appena sdraiato, tutte queste sensazioni svanirono come per magia, e mi sentii completamente sveglio, con tutti i nervi tesi. Rimasi lì per ore, ascoltando il vento e la pioggia; ora fantasticando di udire delle strida nel mare, ora di percepire distintamente le cannonate di allarme, ora un franar di case nella città. Mi alzai più volte e guardai fuori; ma non potevo vedere altro che il riflesso nei vetri della fioca candela che avevo lasciato accesa e del mio volto disfatto che mi guardava da un buio vaneggiare. Infine la mia inquietudine giunse a tanto che mi misi addosso in fretta e furia i vestiti e scesi abbasso. Nella vasta cucina, dove vidi vagamente dei prosciutti e delle trecce di cipolle pendenti dalle travi, quelli che vegliavano erano riuniti in vari atteggiamenti attorno a un tavolo allontanato apposta dal grande camino e portato presso la porta. Una graziosa ragazza che si tappava le orecchie con il grembiule e fissava la porta, diede uno strillo quando apparvi credendomi un fantasma; ma gli altri ebbero maggior presenza di spirito e furono lieti che qualcuno si unisse a loro. Un tale, riferendosi all'argomento che stavano discutendo, mi domandò se credevo che le anime dell'equipaggio delle carboniere affondate si aggirassero nella tempesta. Rimasi lì, direi, un paio d'ore. Una volta aprii la porta di servizio per guardare nella strada vuota. La sabbia, le alghe e i fiocchi di spuma turbinavano nell'aria; e fui costretto a chiedere aiuto per poter chiudere nuovamente la porta e sbarrarla contro il vento. C'era una cupa oscurità nella mia camera solitaria quando infine vi tornai; ma adesso ero stanco, e, infilatomi di nuovo nel letto, caddi - dall'alto di una torre e giù per un precipizio - negli abissi del sonno. Ho l'impressione che per lungo tempo, sebbene sognassi di essere altrove, fra una varietà di scene, nel mio sogno soffiasse sempre il vento. Finché persi questo debole legame con la realtà e mi trovai impegnato con due cari amici, pur ignorando chi fossero, all'assedio di una città fra un rimbombo di cannonate. Il tuono delle artiglierie era così alto e incessante che non potevo udire qualche cosa che mi interessava molto, finché con un grande sforzo mi svegliai. Era giorno fatto: le otto o le nove; la tempesta infuriava, invece dei cannoni, e qualcuno batteva alla porta e mi chiamava. «Che succede?» gridai. «Un naufragio! Qui vicino!» Saltai dal letto e chiesi di che naufragio si trattasse. «Una goletta, dalla Spagna o dal Portogallo, con un carico di frutta e di vino. Affrettatevi, signore, se volete vederla! Laggiù alla spiaggia credono che andrà in pezzi da un momento all'altro.» La voce eccitata risuonava nella tromba delle scale; mi avvolsi negli abiti più in fretta che potei e corsi nella strada. Una quantità di gente era lì davanti a me, e tutti correvano nella stessa direzione verso la spiaggia. Corsi con loro, ne oltrepassai parecchi e presto mi trovai di fronte al mare selvaggio. Adesso il vento era forse calato un poco, sebbene non più sensibilmente che se il cannoneggiamento che avevo sognato fosse diminuito per il silenzio di mezza dozzina di bocche da fuoco fra centinaia. Ma il mare, che aveva in più l'agitazione di tutta la notte, era infinitamente più pauroso di quando lo avevo visto l'ultima volta. Ogni aspetto che aveva assunto allora sembrava essere stato gonfiato; e l'altezza a cui si levavano i frangenti e, addossandosi l'uno sull'altro, si facevano precipitare a vicenda e rotolavano giù in interminabile schiera, era ancor più spaventosa. Incapace di udire qualcosa tra il vento e le onde, stretto tra la folla in una indicibile confusione, sforzandomi dapprima, col fiato mozzo, di tenermi in piedi contro le raffiche, ero così stordito che guardai il mare cercando il relitto e non vidi altro che le creste spumeggianti delle onde immense. Un barcaiolo semivestito, presso di me, puntò il braccio nudo (con una freccia tatuata che indicava la stessa direzione) verso sinistra. E allora, gran Dio, lo vidi, vicinissimo a noi! Un albero era spezzato a sei o otto piedi dal ponte e pendeva da un lato, impigliato in un groviglio di vele e di sartie; e tutta quella rovina, mentre la nave rollava e beccheggiava - cosa che faceva senza un attimo di sosta e con una violenza inconcepibile - batteva contro il fianco come se volesse sfondarlo. Si facevano tuttavia alcuni sforzi per tagliar via questa parte del relitto, perché quando la nave, che ci si presentava di fianco, si piegò verso di noi nel suo rollìo, vidi chiaramente l'equipaggio al lavoro con accette, in particolare una figura che si prodigava senza requie, con lunghi capelli ricciuti, notevole fra gli altri. Ma in quel momento un alto grido, che fu udibile fin nel frastuono del vento e delle acque, si levò dalla spiaggia; il mare, rovesciandosi sul rottame rollante, vi aprì una larga breccia e spazzò via uomini, pennoni, barili, assi, parapetti, e altri oggetti del genere a mucchi, travolgendoli nei flutti ribollenti. Il secondo albero reggeva ancora, con gli avanzi di una vela lacerata e un tempestoso intrico di cordami rotti sbattuto da ogni parte. La nave aveva colpito il fondo una volta, mi gridò rauco all'orecchio quello stesso barcaiolo, e adesso si sollevò e colpì ancora. Lo udii aggiungere che si stava spaccando a metà, e potevo facilmente supporlo perché il rollìo e il beccheggio erano troppo violenti perché un'opera umana potesse sopportarli a lungo. Mentre parlava, un altro alto urlo di compassione si levò dalla spiaggia; quattro uomini emersero con il relitto su dal profondo, aggrappati alle sartie dell'albero rimasto, più alta di tutti la figura infaticabile dai capelli ricciuti. V'era a bordo una campana; e, mentre la nave sbandava e batteva sul fondo come un disperato essere impazzito, ora mostrandoci l'intera distesa del ponte quando si piegava verso la spiaggia, ora nient'altro che la chiglia quando tornava su con un balzo selvaggio e si piegava verso il mare, quella campana suonava; e il suo suono, rintocco funebre per quegli infelici, ci era portato dal vento. Ancora una volta scomparve ai nostri occhi e ancora una volta riemerse. Due uomini erano stati portati via. L'angoscia, sulla spiaggia, cresceva. Gli uomini gridavano cupi torcendosi le mani; le donne lanciavano strida e distoglievano i volti. Alcuni correvano come folli su e giù per la spiaggia chiedendo aiuto dove nessun aiuto era possibile. Mi trovai fra quelli, a implorare freneticamente un gruppo di marinai che conoscevo, perché non lasciassero perire sotto i nostri occhi quelle due creature. Mi stavano spiegando, in grande agitazione - e non so come, perché ero troppo poco in me per capire il poco che riuscivo a udire - che la scialuppa di salvataggio era stata arditamente preparata un'ora prima, ma non poteva far nulla, e che, poiché nessuno era tanto disperato da tentare di gettarsi in mare con una fune e stabilire una comunicazione con la spiaggia, non rimaneva alcuna possibilità, quando mi accorsi che qualche nuova emozione agitava la gente della spiaggia, e la vidi dividersi mentre Ham, aprendosi la strada fra loro, si faceva avanti. Corsi a lui, per quanto ricordo, per ripetere la mia invocazione di aiuto. Ma, per quanto fossi fuori di me di fronte a uno spettacolo per me così nuovo e terribile, la decisione del suo volto e il modo con cui guardava il mare - esattamente lo stesso sguardo che ricordavo avergli visto il mattino dopo la fuga di Emily - mi risvegliarono alla coscienza del suo pericolo. Lo trassi indietro con tutte e due le braccia e supplicai gli uomini con cui avevo parlato di non dargli ascolto, di non commettere un delitto, di non lasciarlo muovere da quella spiaggia. Un altro grido si levò dalla riva; e, guardando il relitto, vedemmo la vela crudele che, a colpo a colpo, strappava via quello dei due uomini che era più in basso e volava su trionfante ad avvolgere l'indomita figura rimasta sola sull'albero. Di fronte a questo spettacolo, e di fronte a una decisione come quella di un uomo disperatamente calmo, già abituato a dominare metà dei presenti, avrei potuto con la stessa speranza supplicare il vento. «Signorino Davy,» mi disse stringendomi cordialmente entrambe le mani, «se la mia ora è venuta, è venuta. Altrimenti ne attenderò un'altra. Il Dio del cielo vi benedica e ci benedica tutti. Compagni, aiutatemi a prepararmi. Io vado.» Venni respinto, ma non rudemente, a qualche distanza, dove la gente che mi circondava mi trattenne insistendo, come capii confusamente, che ormai era deciso ad andare, con aiuto o senza, e che avrei potuto ostacolare le precauzioni che si prendevano per la sua salvezza turbando coloro che ne erano incaricati. Non so che cosa io abbia risposto o loro abbiano replicato; ma vidi un gran movimento sulla spiaggia e uomini che correvano con funi tolte da un argano che era lì e penetravano in un gruppo che mi nascondeva Ham. Poi vidi lui, in piedi e solo, col blusotto e i calzoni da marinaio: una fune in mano, o legata al suo polso: un'altra assicurata alla vita; e parecchi dei migliori i quali, a breve distanza, tenevano quest'ultima, che egli stesso dispose lenta sulla spiaggia, ai suoi piedi. Il relitto, anche per il mio occhio profano, stava per spezzarsi. Vidi che si stava spaccando nel mezzo e che la vita dell'uomo solitario sull'albero era appesa a un filo. Tuttavia egli si teneva aggrappato. Aveva un singolare berretto rosso, non un berretto da marinaio, ma di un colore più fino; e, mentre i pochi sconnessi assiti che lo separavano dalla rovina oscillavano e saltavano, e la sua presaga campana funebre squillava, fu visto da tutti noi agitarlo nell'aria. Lo scorsi mentre lo faceva, e credetti di impazzire quando quel gesto mi risvegliò il vecchio ricordo di un amico un tempo a me caro. Ham scrutava il mare, dritto e solo, con il silenzio di respiri trattenuti alle sue spalle e la tempesta davanti, finché una grande onda cominciò a ritirarsi, e allora, con uno sguardo dietro di sé, a coloro che tenevano la fune legata al suo corpo, balzò in quell'onda e un attimo dopo stava lottando con le acque, alzandosi con le colline, sprofondando nelle vallate, perduto fra le spume; poi fu spinto ancora a terra. Gli uomini ritirarono in fretta la fune. Era ferito. Dal punto in cui ero, vidi del sangue sul suo volto; ma lui non se ne curò. Sembrava dar loro, in fretta, alcune istruzioni perché lo lasciassero più libero - almeno così giudicai dai suoi gesti - e si slanciò come prima. E adesso si diresse al relitto, alzandosi con le colline, sprofondando nelle vallate, perduto nel ribollire delle spume, respinto verso la spiaggia, trascinato verso la nave, lottando con tenacia e con vigore. La distanza era nulla, ma la potenza del mare e del vento rendevano mortale la lotta. Infine si avvicinò al relitto. Era così presso che, con un'altra delle sue vigorose bracciate avrebbe potuto aggrapparvisi, quando una vasta, alta, verde montagna d'acqua, irruppe verso la spiaggia di dietro la nave, ed egli parve balzarvi dentro con un salto possente, e la nave scomparve! Vidi vorticare nel mare alcuni frammenti, quasi si fosse infranto solo un barile, mentre correvo al luogo dove stavano ritirando la fune. La costernazione era su ogni volto. Lo trassero proprio ai miei piedi... insensibile... morto. Fu portato alla casa più vicina; e, poiché adesso nessuno me lo impediva, rimasi presso di lui, dandomi da fare finché ogni mezzo di rianimarlo fu tentato; ma egli era stato colpito a morte dalla grande onda, e il suo generoso cuore si era fermato per sempre. Mentre sedevo presso il letto, quando ormai ogni speranza era scomparsa e tutto era finito, un pescatore, che mi conosceva fin da quando Emily e io eravamo bambini, mormorò il mio nome affacciandosi alla porta. «Signore,» disse mentre le lacrime gli rigavano il volto cinereo al pari delle labbra tremanti, «volete venire un momento laggiù?» L'antico ricordo che avevo avuto era nel suo sguardo. Atterrito, gli chiesi chinandomi sul braccio che egli mi aveva teso per sostenermi: «È giunto a riva qualche corpo?» Rispose: «Sì.» «Lo conosco?» chiesi ancora. Non rispose. Ma mi condusse alla spiaggia. E in quel punto in cui Emily e io avevamo cercato conchiglie da bambini, in quel punto dove i frammenti più leggeri della vecchia barca, abbattuta la notte prima, erano stati dispersi dal vento - fra le rovine della casa che egli aveva offeso - lo vidi giacere con la testa appoggiata sul braccio, come lo avevo visto tante volte in collegio. LVI • LA VECCHIA E LA NUOVA FERITA Non c'era bisogno, Steerforth, di dirmi, quando ci parlammo per l'ultima volta, in quell'ora che così poco credevo fosse quella della nostra separazione... non c'era bisogno di dirmi: «Pensa a me nel mio aspetto migliore!» Lo avevo sempre fatto; e potevo cambiare adesso, vedendo questo spettacolo? Portarono una barella, ve lo distesero, lo coprirono con una bandiera, lo sollevarono e si diressero con quel fardello verso le case. Tutti coloro che lo portavano lo avevano conosciuto, avevano navigato con lui, lo avevano visto allegro e ardito. Lo portarono tra il frastuono selvaggio, un silenzio in mezzo a tutto quel tumulto; e giunsero con lui alla casetta dove già era entrata la morte. Ma, dopo aver posato la barella davanti alla soglia, si guardarono l'un l'altro e guardarono me bisbigliando fra loro. Sapevo perché. Sentivano che non era giusto deporlo ora nella medesima stanza tranquilla. Entrammo in città e portammo il nostro carico nella locanda. Appena potei riordinare le idee, mandai a chiamare Joram e lo pregai di procurarmi un mezzo con cui potessi trasportarlo a Londra nella notte. Sapevo che questa cura e il duro dovere di preparare la madre a riceverlo, spettavano solo a me; ed ero ansioso di compiere questo dovere il più fedelmente possibile. Decisi di viaggiare di notte perché ci fosse meno curiosità intorno a me quando avrei lasciato la città. Ma, sebbene fosse quasi mezzanotte quando uscii dal cortile in una vettura da nolo seguito da ciò che avevo in custodia, c'era molta gente ad attendere. Ogni tanto, nell'attraversare la città e anche per breve tratto fuori di essa, lungo la strada, ne vidi altri: ma infine solo la notte buia e l'aperta campagna circondarono me e le ceneri della mia giovanile amicizia. In una serena giornata di autunno, verso il mezzodì, quando il terreno era profumato dalle foglie cadute e altre più ancora, in belle tinte di giallo, di rosso e di bruno, pendevano dai rami tra i quali brillava il sole, giunsi a Highgate. Percorsi a piedi l'ultimo miglio pensando, lungo il cammino, a quello che avrei fatto; e lasciai il carro che mi aveva seguito per tutta la notte, ad attendere i miei ordini prima di proseguire. La casa, quando vi giunsi, era la stessa. Non una persiana era alzata; nessun segno di vita appariva nel triste cortile selciato col suo passaggio coperto che portava all'ingresso fuori uso. Il vento era completamente caduto e nulla si muoveva. Dapprima non avevo il coraggio di suonare alla porta; e, quando lo feci, mi parve sentire espresso nello stesso squillo del campanello lo scopo della mia visita. Apparve la piccola cameriera con la chiave in mano; e, guardandomi fissa mentre apriva la porta, disse: «Scusatemi, signore. Non vi sentite bene?» «Sono stato molto inquieto e mi sento stanco.» «È successo qualcosa, signore?... Il signor James?...» «Zitta,» dissi. «Sì, è successo qualche cosa che devo comunicare alla signora Steerforth. È in casa?» La ragazza, piena di ansia, rispose che adesso la sua padrona usciva molto raramente, anche in carrozza; che restava sempre nella sua stanza; che non vedeva alcuno, ma che mi avrebbe ricevuto. La sua padrona era di sopra, disse, e la signorina Dartle era con lei. Quale messaggio doveva portare? Le raccomandai di essere calma e di portare solo il mio biglietto dicendo che aspettavo; poi mi sedetti nel salotto (dove eravamo adesso entrati) in attesa che ella scendesse. Il suo piacevole aspetto di luogo abitato era scomparso; le imposte erano semichiuse. L'arpa non era stata toccata da molti e molti giorni. V'era lì il ritratto di lui da bambino. V'era lì lo stipetto in cui sua madre aveva raccolto le sue lettere. Mi domandai se adesso le leggeva ancora e se le avrebbe mai rilette. La casa era così silenziosa che udii il passo leggero della ragazza al piano superiore. Nel tornare portò un messaggio: la signora Steerforth era sofferente e non poteva scendere, ma, se volevo scusarla di restare nella sua stanza mi avrebbe visto volentieri. Pochi attimi dopo le stavo dinanzi. Era nella camera del figlio, non nella sua. Mi resi conto, naturalmente, che aveva preso a occuparla in ricordo di lui, e che le varie tracce dei suoi vecchi giuochi e delle sue abilità, da cui era circondata, rimanevano lì, come egli le aveva lasciate, per la stessa ragione. Comunque, anche nel ricevermi, ella mormorò di avere lasciato la sua stanza perché non si confaceva alla sua infermità; e con lo sguardo altero respinse anche il minimo sospetto della verità. Rosa Dartle, come al solito, era presso la sua poltrona. Fin dal primo momento in cui i suoi neri occhi si posarono su di me, mi accorsi che sapeva che portavo cattive notizie. La cicatrice si rese visibile in un attimo. Si trasse un poco dietro la poltrona per sottrarre il suo volto agli sguardi della signora Steerforth e mi scrutò con un'occhiata penetrante in cui non v'era né incertezza né sgomento. «Mi dispiace notare che siete in lutto, signore,» disse la signora Steerforth. «Disgraziatamente sono vedovo,» risposi. «Siete molto giovane per soffrire di una perdita così grande,» disse. «Sono spiacente di sentirlo. Molto spiacente. Spero che il tempo sarà pietoso con voi.» «Spero che il tempo,» risposi guardandola, «sarà pietoso con tutti noi. Cara signora Steerforth, tutti dobbiamo aver fiducia in questo, nelle nostre più grevi sventure.» La serietà dei miei modi e le lacrime che avevo negli occhi la allarmarono. Tutto il corso dei suoi pensieri parve fermarsi e mutare. Tentai di controllare la voce nel pronunciare dolcemente il nome di lui, ma mi tremò. Lei lo ripeté fra sé due o tre volte, con un tono basso. Poi, rivolgendosi a me, disse con calma forzata. «Mio figlio sta male.» «Molto male.» «Lo avete visto?» «Sì.» «Vi siete riconciliati?» Non potevo dire sì e non potevo dire no. Volse leggermente la testa verso il punto in cui Rosa Dartle era stata in piedi al suo fianco, e in quel momento io dissi a Rosa, muovendo solo le labbra: «Morto!» Affinché la signora Steerforth non fosse indotta a guardare dietro di sé e leggere, chiaramente scritto, quello che non era ancora preparata a sapere, fui pronto a cogliere il suo sguardo; ma avevo già visto Rosa Dartle levare in aria le mani con la veemenza della disperazione e dell'orrore e serrarsele sul volto. La bella signora - così simile, oh così simile a lui! - mi rivolse uno sguardo fisso e si portò la mano alla fronte. La scongiurai di essere calma e di prepararsi a sostenere quello che dovevo dirle; ma avrei dovuto piuttosto indurla al pianto, perché rimaneva seduta come una figura di pietra. «Quando fui qui l'ultima volta,» balbettai, «la signorina Dartle mi disse che andava navigando qua e là. L'altra notte è stata terribile, sul mare. Se quella notte era in mare e presso una costa pericolosa, come mi si dice che fosse; e se la nave che è stata vista era realmente quella in cui...» «Rosa!» disse la signora Steerforth, «vieni qui!» Ella si avvicinò, ma senza simpatia né gentilezza. I suoi occhi ardevano come fiamma quando fu di fronte alla madre di lui, e scoppiò in una paurosa risata. «Adesso,» esclamò, «il vostro orgoglio è soddisfatto, non è vero, pazza che siete? Adesso egli ha fatto l'espiazione che vi doveva... con la sua vita! Mi udite? Con la sua vita!» La signora Steerforth, addossandosi rigida alla poltrona e senza emettere altro suono che un gemito, volse gli occhi a lei con uno sguardo vuoto. «Sì!» gridò Rosa battendosi appassionatamente il petto, «guardatemi! Gemete, lamentatevi e guardatemi! Guardate qui!» e si colpì la cicatrice, «l'opera del vostro caro figlio!» Il gemito che la madre emetteva, di tanto in tanto, mi giunse al cuore. Sempre uguale. Sempre inarticolato e soffocato. Sempre accompagnato da un incapace moto della testa, ma senza che il volto mutasse espressione. Sempre sfuggendo da una bocca rigida, da denti chiusi come se la mascella fosse serrata e il volto agghiacciato nella pena. «Vi ricordate quando mi ha fatto questo?» continuò l'altra. «Vi ricordate quando, erede del vostro carattere e viziato da voi nel suo orgoglio e nella sua avventatezza, mi fece questo sfigurandomi per tutta la vita? Guardatemi, marcata fino alla tomba dalla sua ira, e gemete e lamentatevi per quello che avete fatto di lui!» «Signorina Dartle,» la scongiurai. «Per amor del cielo...» «Voglio parlare!» disse volgendosi verso di me con gli occhi fiammeggianti. «Fate silenzio, voi! Guardatemi, dico, madre orgogliosa di un figlio orgoglioso e falso! Gemete per il modo con cui lo avete allevato, gemete per come lo avete corrotto, gemete per averlo perso, gemete perché io l'ho perso!» Si strinse le mani e tremò per tutta la sua magra e consunta persona come se la passione la uccidesse a brano a brano. «Voi risentirvi della sua ostinazione!» esclamò. «Voi considerarvi offesa dalla sua altezzosità! Voi, che avete opposto a entrambe, quando avevate già i capelli grigi, quella stessa ostinazione e quella stessa altezzosità che gli deste nel metterlo al mondo! Voi, che fin dalla culla lo portaste a essere quello che era e impediste quello che avrebbe dovuto essere! Vi sentite ricompensata, adesso, per quegli anni di cure?» «Oh, signorina Dartle, vergogna! È una crudeltà!» «Vi ripeto,» ribatté «che voglio parlarle. Nessun potere in terra potrebbe fermarmi finché starò qui! Ho taciuto per tutti questi anni e non dovrò parlare adesso? L'ho amato più di quanto voi lo abbiate mai amato» gridò volgendosi a lei fieramente. «Avrei potuto amarlo senza chiedere contraccambio. Se fossi stata sua moglie, avrei potuto essere la schiava dei suoi capricci per una parola d'amore l'anno. Lo sarei stata. Chi può saperlo meglio di me? Voi eravate esigente, orgogliosa, puntigliosa, egoista. Il mio amore sarebbe stato devoto... avrebbe calpestato i vostri meschini piagnistei!» Con gli occhi ardenti, batté il piede a terra come se realmente lo facesse. «Guardate qui!» disse battendosi ancora la cicatrice con mano implacabile. «Quando crebbe e si rese meglio conto di quello che aveva fatto, lo riconobbe e se ne pentì! Potevo cantare per lui, parlargli, mostrargli l'ardore che sentivo per tutto ciò che faceva, e raggiungere con fatica quelle cognizioni che più lo interessavano, e lo trassi a me. Quando era più fresco e più schietto mi amava. Sì, mi amava! Tante volte, dopo avervi messo da parte con una sola parola, strinse me al suo cuore!» Disse questo con un beffardo orgoglio nella sua frenesia - poiché era poco meno che frenetica - e tuttavia con un ardente ricordo in cui le braci nascoste di un sentimento più dolce brillarono per un attimo. «Mi abbassai - e avrei dovuto accorgermene, se non mi avesse ammaliato con il suo corteggiamento di adolescente - a essere una bambola, un'inezia per occupare un'ora di ozio e da metter poi da parte, riprenderla, giocherellarci a seconda del suo incostante umore. Quando si stancava mi stancavo anch'io. Quando il suo capriccio cessò, non avrei tentato di rafforzare il potere che avevo su di lui, così come non lo avrei sposato se lo avessi visto costretto a prendermi in moglie. Ci staccammo l'uno dall'altro senza una parola. Forse ve ne accorgeste e non vi dispiacque. Da allora sono stata solo un mobile malconcio fra voi due: senza occhi, senza orecchi, senza sentimenti, senza ricordi. Gemere? Gemete per ciò che avete fatto di lui. Io vi dico che un tempo l'ho amato più di quanto lo abbiate mai amato voi!» Rimase eretta con gli occhi furiosi e brillanti davanti a quello sguardo vuoto, a quel volto immobile; e, quando il lamento si ripeté, non si placò più che se quel viso fosse stato un dipinto. «Signorina Dartle,» dissi, «se potete essere così dura da non aver pietà per questa madre afflitta...» «E chi ha pietà di me?» rispose aspra. «Lei ha seminato tutto questo. Si lamenti pure per la messe che oggi ha raccolto!» «E se i difetti di lui...» ripresi. «Difetti!» gridò rompendo in lacrime appassionate. «Chi osa dir male di lui? Aveva un'anima che valeva più di milioni degli amici a cui si abbassava!» «Nessuno può averlo amato più di me, nessuno può averne un più caro ricordo,» risposi. «Voglio dire che, se non avete compassione per sua madre, o se i suoi difetti - ne avete parlato duramente...» «È falso,» gridò strappandosi i neri capelli; «io lo amavo!» «...non possono,» continuai, «essere banditi dal vostro ricordo in quest'ora; considerate questa creatura come se non l'aveste mai vista e datele qualche aiuto!» Frattanto quella figura non era mutata e sembrava non potesse mutarsi più. Immobile, rigida, con gli occhi sbarrati, gemeva di tratto in tratto nello stesso modo senza tono, con lo stesso impotente moto della testa, ma non dava altro segno di vita. La signorina Dartle si inginocchiò improvvisamente davanti a lei e cominciò a scioglierle le vesti. «Siate maledetto!» disse volgendosi a me con un'espressione mista di rabbia e di pena. «Avete messo piede in questa casa in un'ora malaugurata! Siate maledetto! Andatevene!» Uscito dalla stanza, mi affrettai a tornare indietro per suonare il campanello e avvertire al più presto la servitù. Ella aveva preso tra le braccia la figura insensibile e, sempre in ginocchio, piangeva su di lei, la baciava, la supplicava, se la cullava al seno come una bambina e tentava con ogni tenerezza di risvegliare i suoi sensi in letargo. Senza più timore di lasciarla sola, uscii di nuovo, in silenzio, e, nell'andarmene, avvertii quelli di casa. Tornai più tardi, nel pomeriggio, e lo adagiammo nella stanza di sua madre. Lei, mi dissero, era sempre la stessa; la signorina Dartle non la lasciava un momento; c'erano dottori che la curavano, molti rimedi erano stati tentati; ma ella era inerte come una statua, eccetto quel basso gemito ogni tanto. Attraversai la tetra casa e tirai le tende alle finestre. Per ultime quelle della stanza in cui egli giaceva. Sollevai la sua mano morta e me la tenni sul cuore; e tutto il mondo parve morte e silenzio, rotto solo dal gemito di sua madre. LVII • GLI EMIGRANTI Dovevo fare ancora una cosa prima di abbandonarmi all'urto di queste emozioni. Dovevo nascondere quello che era avvenuto a coloro che stavano per partire, e fare che affrontassero il loro viaggio in una felice ignoranza. Per questo non c'era tempo da perdere. Quella stessa sera presi da parte il signor Micawber e gli affidai il compito di impedire che giungesse al signor Peggotty ogni notizia della catastrofe. Egli si impegnò zelantemente a farlo e a intercettare ogni giornale grazie al quale, senza questa precauzione, egli avrebbe potuto venirne a conoscenza. «Se la notizia giunge a lui, signore,» disse il signor Micawber battendosi il petto, «dovrà prima attraversare questo corpo.» Il signor Micawber, devo notare, nel prepararsi a un nuovo stato sociale, aveva assunto un baldo fare da bucaniere non proprio fuori dalla legge, ma pronto a difendersi. Lo si sarebbe potuto supporre un figlio delle foreste vergini, da tempo abituato a vivere fuori dei confini della civiltà e in via di tornare alla nativa selvatichezza. Si era provvisto, fra l'altro, di un completo di tela cerata e di un cappello di paglia a calotta bassa, impeciato o calafatato all'esterno. In questo rozzo abbigliamento, con un telescopio da marinaio sotto braccio e con un modo accorto di volger gli occhi al cielo come per scrutare l'avvicinarsi di una tempesta, era molto più marinaresco, alla sua maniera, del signor Peggotty. Tutta la sua famiglia era, se così posso esprimermi, pronta all'azione. Trovai la signora Micawber nel più stretto e meno compromettente dei cappellini, bene allacciato sotto il mento; e in uno scialle che la avviluppava (come ero stato avviluppato io quando la zia mi accolse la prima volta), a guisa di involto ed era assicurato dietro la cintura con un forte nodo. La signorina Micawber era egualmente attrezzata per le tempeste, con nulla di superfluo addosso. Il signorino Micawber era appena visibile entro una pesante camicia a maglia da marinaio e nel più ispido completo marinaresco che abbia mai visto; e i bambini erano fatti su in involucri impenetrabili come carne conservata. Tanto il signor Micawber quanto il suo figlio maggiore portavano le maniche rimboccate ai polsi come per esser pronti a dare una mano in ogni occorrenza e a saltar sul ponte o cantare: «Iù... issa... iù» al minimo cenno. Così Traddles e io li trovammo al cadere di quella sera, riuniti sui gradini di legno allora noti come la Scala Hungerford, in attesa della partenza di una barca che portava a bordo le loro cose. Io avevo raccontato a Traddles il terribile evento, che lo aveva profondamente colpito; ma non potevano esserci dubbi sulla delicatezza con cui avrebbe mantenuto il segreto, ed egli era venuto ad aiutarmi in questo mio ultimo compito. Fu lì che presi a parte il signor Micawber ed ebbi la sua promessa. La famiglia Micawber era alloggiata in una piccola, sporca e cadente locanda che in quel tempo era presso la Scala e le cui stanze di legno sporgevano sospese sul fiume. In quanto emigranti, essi erano oggetto di qualche interesse a Hungerford e attiravano tanti curiosi che fummo felici di ritirarci nella loro stanza. Era una delle stanze di legno del primo piano, sotto le quali scorreva il fiume. La zia e Agnes erano lì, affaccendate a preparare qualche abito in soprappiù per i bambini. Peggotty le assisteva tranquilla con la vecchia impassibile scatola da lavoro, il metro e il pezzo di candela davanti a sé, che erano sopravvissuti a tante vicende. Non fu facile rispondere alle sue domande; e ancor meno sussurrare al signor Peggotty, quando il signor Micawber lo introdusse, che avevo consegnato la lettera e che tutto andava bene. Ma riuscii a farlo e li resi felici. Se mostrai qualche traccia di quello che sentivo, i miei propri dolori erano sufficienti a giustificarla. «E quando farà vela, la nave, signor Micawber?» chiese la zia. Il signor Micawber considerò necessario preparare per gradi sia lei sia la moglie, e disse che sarebbe stato più presto di quanto si era aspettato il giorno prima. «Immagino che quella barca vi abbia portato la notizia,» disse la zia. «Proprio così, signora,» rispose lui. «Bene,» insisté la zia. «E allora salperà...?» «Signora,» disse lui, «mi hanno informato che dobbiamo essere assolutamente a bordo prima delle sette di domani mattina.» «Salute!» esclamò la zia. «Molto presto. È per la partenza, signor Peggotty?» «Sì, signora. Scenderemo lungo il fiume con la marea. Se il signorino Davy e mia sorella saliranno a bordo a Gravesend, nel pomeriggio di dopodomani, potranno vederci per l'ultima volta.» «E lo faremo,» dissi, «siatene certo!» «Fin allora, e finché non saremo in mare,» osservò il signor Micawber dandomi un'occhiata d'intesa, «il signor Peggotty e io faremo continuamente una doppia guardia ai nostri beni e alle nostre cose. Emma, amor mio,» continuò schiarendosi maestosamente la voce, «il mio amico signor Thomas Traddles è così gentile da chiedermi all'orecchio se può avere il privilegio di ordinare gli ingredienti necessari per la preparazione di una moderata dose di quel beveraggio che si associa particolarmente, nei nostri pensieri, con il bue arrosto della vecchia Inghilterra. Alludo, insomma, al ponce. In circostanze ordinarie avrei scrupolo a chiedere l'indulgenza della signorina Trotwood e della signorina Wickfield, ma...» «Quanto a me posso solo dire,» dichiarò la zia, «che berrò alla vostra felicità e al vostro successo, signor Micawber, col massimo piacere.» «E anch'io!» disse Agnes sorridendo. Il signor Micawber scese immediatamente al banco, dove sembrava sentirsi come a casa sua; e a tempo debito tornò con un boccale fumante. Non potei fare a meno di osservare che aveva sbucciato i limoni col suo coltello a serramanico, il quale, come si conveniva al coltello di un vero pioniere, era lungo circa un piede, e che egli asciugò, non senza una certa ostentazione, sulla manica della sua giacca. Mi accorsi adesso che la signora Micawber e gli altri due maggiori membri della famiglia erano provvisti di un eguale formidabile strumento mentre ogni ragazzino aveva il suo cucchiaio di legno assicurato alla vita da una lunga funicella. Per una eguale anticipazione della vita sul mare e nella macchia, il signor Micawber, invece di servire il ponce a sua moglie e al figlio e alla figlia maggiori in un bicchiere di vetro, cosa che avrebbe potuto fare facilmente perché nella stanza ce n'era una mensola piena, lo versò loro in una serie di rozze tazze di stagno; e non lo vidi mai gustare tanto qualche cosa come bere nella sua tazza personale e mettersela in tasca alla fine della serata. «Gli agi della vecchia patria,» disse il signor Micawber con un'intensa soddisfazione nel rinunciarvi, «li abbandoniamo. Gli abitatori della foresta non possono, naturalmente, aspettarsi di partecipare alle raffinatezze della terra della libertà.» A questo punto un ragazzo venne ad annunciare che il signor Micawber era richiesto da basso. «Ho un presentimento,» disse la signora Micawber posando la sua tazza di stagno, «che sia un membro della mia famiglia.» «Se è così, mia cara,» osservò il signor Micawber con la solita focosità che questo argomento gli ispirava, «poiché il membro della tua famiglia, quale che possa essere, uomo o donna, ci ha tenuto ad aspettarlo per un considerevole periodo, tale membro, adesso, potrà forse aspettare il mio beneplacito.» «Micawber,» disse sua moglie in tono pacato, «in un momento come questo...» «‹Non è conveniente,›» disse il signor Micawber alzandosi, «‹che ogni piccola offesa porti con sé il suo commento!› Emma, accetto il rimprovero.» «Chi ci ha perso, Micawber,» osservò sua moglie, «è stata la mia famiglia, non tu. Se la mia famiglia si mostra infine sensibile alla privazione a cui la sua condotta la ha esposta in passato e desidera adesso tenderci una mano amica, non deve essere respinta.» «Mia cara,» rispose lui, «così sia.» «Se non per amor loro, per il mio, Micawber,» disse sua moglie. «Emma,» rispose lui, «questa considerazione della cosa è, in questo momento, irresistibile. Non posso, nemmeno ora, impegnarmi a gettar le braccia al collo della tua famiglia; ma il membro di essa che in questo momento è in attesa non sentirà raggelare da me il suo cordiale calore.» Il signor Micawber si ritirò e rimase assente un certo tempo durante il quale la signora Micawber non seppe interamente liberarsi dall'apprensione che fra lui e il membro potessero essere sorte delle discussioni. Alla fine riapparve il ragazzo di prima e mi presentò un biglietto scritto a matita, intestato, al modo legale, «Heep contro Micawber». Appresi da questo documento che il signor Micawber era stato nuovamente arrestato, che era in un estremo parossismo di disperazione e che mi pregava di inviargli, per mezzo del latore, il suo coltello e la sua tazza di stagno perché potevano essergli utili durante quel poco di esistenza che gli rimaneva, in prigione. Mi chiedeva anche, come ultimo atto di amicizia, di condurre la sua famiglia all'ospizio parrocchiale e di dimenticare che un essere simile fosse mai vissuto. Naturalmente risposi a questo biglietto scendendo con il ragazzo per pagare la somma, e trovai il signor Micawber seduto in un angolo, fissando tetramente l'agente dello sceriffo che aveva effettuato la cattura. Appena rilasciato mi abbracciò con il massimo fervore, e registrò la transazione nel suo taccuino... mostrandosi molto minuzioso, ricordo, circa un mezzo penny che io avevo inavvertitamente omesso nella trascrizione del totale. Quel fondamentale taccuino gli ricordò in tempo un'altra transazione. Tornato nella stanza di sopra (dove giustificò la sua assenza dicendo che era stata causata da circostanze di forza maggiore) tirò fuori un gran foglio di carta più volte ripiegato e interamente coperto di lunghi calcoli accuratamente disposti. Da un'occhiata che vi diedi, direi di non aver mai visto tante addizioni sul quaderno di aritmetica di uno scolaro. A quanto sembrava, erano calcoli di interesse composto su ciò che egli chiamava «il principale ammontare di quarantun sterline, dieci scellini, undici pence e mezzo», per vari periodi. Dopo minuziose considerazioni su di esse e una elaborata stima delle proprie risorse, era venuto alla conclusione di stabilire questa somma che rappresentava l'ammontare con l'interesse composto per due anni, quindici mesi e quattordici giorni a partire da quella data. Di essa aveva stilato con estrema chiarezza un'obbligazione che diede immediatamente a Traddles come saldo di tutto il suo debito (come da uomo a uomo), con molti ringraziamenti. «Ho ancora un presentimento,» disse la signora Micawber scuotendo pensosamente la testa, «che la mia famiglia si farà vedere a bordo prima della partenza definitiva.» Anche il signor Micawber aveva evidentemente il suo presentimento in proposito, ma lo mise nella sua tazza di latta e se lo trangugiò. «Se avrete qualche possibilità di mandar lettere a casa durante la traversata, signora Micawber,» disse la zia, «dovete farci avere vostre notizie, lo sapete bene.» «Mia cara signorina Trotwood,» rispose, «sarò più che felice nel pensare che qualcuno aspetta nostre notizie. Non mancherò di scrivere. Spero che il signor Copperfield, come vecchio amico di famiglia, non farà obiezioni se riceverà, anche lui, di tanto in tanto, comunicazioni da coloro che lo conoscevano quando i nostri gemelli non avevano ancora l'uso della ragione.» Dissi che speravo di riceverne, ogni volta che avesse la possibilità di scrivermi. «Grazie al cielo le possibilità non mancheranno,» disse il signor Micawber. «L'oceano, in questi tempi, è una vera flotta, e difficilmente non incontreremo molte navi durante il viaggio. È una semplice traversata,» disse il signor Micawber giocherellando con l'occhialetto, «una semplice traversata. La distanza è del tutto immaginaria.» Penso, adesso, quanto fosse strano, e tuttavia quanto straordinariamente in accordo con lui, che il signor Micawber, quando andava da Londra a Canterbury, ne parlasse come se fosse andato in capo al mondo, e quando andava dall'Inghilterra in Australia, come se fosse la semplice traversata della Manica. «Durante il viaggio cercherò,» disse il signor Micawber, «di raccontare ogni tanto qualche storia ai marinai; e le melodie di mio figlio Wilkins saranno bene accolte, confido, davanti al fuoco della cucina. Quando poi la signora Micawber si sarà fatta le gambe del marinaio - espressione in cui spero non vi sia alcuna improprietà convenzionale - penso che potrà esibirsi nel Piccolo Tafflin. Osserveremo spesso focene e delfini passar davanti alla nostra prua; e, sia da tribordo, sia da babordo, ci si mostreranno continuamente oggetti interessanti. Insomma,» disse il signor Micawber con la sua vecchia aria signorile, «è probabile che troveremo tutto così eccitante in basso e in alto che, quando la vedetta griderà dalla cima dell'albero maestro ‹Terra, oh!› saremo notevolmente sbigottiti.» Così dicendo si bevve con un gran gesto il contenuto della sua tazza di stagno come se avesse già fatto il viaggio e sostenuto un esame di prima classe davanti alle più alte autorità navali. «Quello che io spero soprattutto, mio caro signor Copperfield,» disse la signora Micawber, «è che alcuni rami della nostra famiglia possano tornare a vivere nella nostra vecchia terra. Non fare il cipiglio, Micawber! Non mi riferisco adesso alla nostra famiglia ma ai figli dei nostri figli. Per quanto vigoroso sia il nuovo virgulto,» disse la signora Micawber scuotendo la testa, «non posso dimenticare l'albero originario; e quando la nostra razza avrà raggiunto l'eminenza e la fortuna, confesso che desidererei che quella fortuna fluisse nelle casseforti della Britannia.» «Mia cara,» disse il signor Micawber, «la Britannia dovrà arrangiarsi da sola. Devo dire che non ha mai fatto molto per me e che io non ho particolari desideri a questo proposito.» «Micawber,» replicò la signora Micawber, «qui, hai torto. Tu stai per partire, Micawber, verso lontani climi per rafforzare, e non per indebolire, i legami fra te e Albione.» «Il legame di cui parli, amor mio,» disse il signor Micawber, «non mi ha imposto, ripeto, il peso di un'obbligazione personale tale da rendermi ripugnante la formazione di un altro legame.» «Micawber,» ribatté la signora Micawber. «Torno a dirti che qui hai torto. Tu non conosci il tuo potere, Micawber. Ed è questo che rafforzerà, anche in questo passo che stai per fare, i legami fra te e Albione.» Il signor Micawber stava seduto nella sua poltrona a braccioli con le sopracciglia inarcate, per metà accogliendo e per metà respingendo le opinioni della signora Micawber via via che venivano espresse, ma molto sensibile alla loro preveggenza. «Mio caro Copperfield,» disse la signora Micawber, «io desidero che il signor Micawber si renda conto della sua posizione. Mi sembra altamente importante che il signor Micawber, fin dal momento del suo imbarco, si renda conto della sua posizione. La vecchia conoscenza che avete di me, caro Copperfield, vi avrà fatto capire che io non ho il carattere focoso del signor Micawber. Il mio carattere è, se posso dir così, eminentemente pratico. So che questo è un lungo viaggio. So che comporterà privazioni e inconvenienti. Non posso chiudere gli occhi davanti a questi fatti. Ma so anche chi è il signor Micawber. Conosco i suoi latenti poteri. E considero quindi di vitale importanza che il signor Micawber si renda conto della sua posizione.» «Amor mio,» osservò lui, «forse mi permetterai di far notare che è assai poco possibile che io mi renda conto della mia posizione nel momento attuale.» «Credo di no, Micawber,» rispose lei. «Non proprio così. Mio caro signor Copperfield, il signor Micawber non è un caso comune. Il signor Micawber va in una terra lontana espressamente per poter essere capito e apprezzato in pieno per la prima volta. Vorrei che il signor Micawber si ergesse sulla prua di quella nave e dicesse con fermezza: ‹Io vengo a conquistare questa regione! Avete onori? Avete ricchezze? Avete posti con proficui emolumenti finanziari? Metteteli fuori. Sono miei!›» Il signor Micawber, gettandoci un'occhiata complessiva, parve pensare che in questa idea c'era molto di buono. «Desidero che il signor Micawber, se mi spiego,» continuò la signora Micawber nel suo tono polemico, «sia il Cesare della sua fortuna. Questa, mio caro signor Copperfield, mi sembra essere la sua vera posizione. Fin dal primo momento del suo viaggio, desidero che il signor Micawber si metta sulla prua di quella nave e dica: ‹Basta con gli indugi: basta con le delusioni: basta con le strettezze. Tutto ciò avveniva nella vecchia terra. Questa è nuova. Presentatemi i vostri risarcimenti. Mettetemeli davanti!›» Il signor Micawber incrociò le braccia in modo risoluto come se stesse a cavalcioni della polena. «E facendo questo,» riprese la signora Micawber, «rendendosi conto della sua posizione, non ho il diritto di dire che il signor Micawber rafforzerà, e non indebolirà, i suoi legami con la Britannia? Mi si potrà forse dire che un'importante personalità pubblica sorta in quell'emisfero non farà sentire la sua influenza in patria? Potrò essere così debole da immaginare che il signor Micawber, impugnando la mazza del talento e del potere in Australia, non sarà nulla in Inghilterra? Io sono solo una donna, ma farei torto a me stessa e al mio papà se mi rendessi colpevole di una così assurda debolezza.» La convinzione della signora Micawber che i suoi argomenti fossero incontrobattibili diede al suo tono un'elevatezza morale che credo non avere mai udito prima. «Ed è per questo,» concluse la signora Micawber, «che desidero tanto più fortemente che, in un tempo futuro, noi si possa nuovamente vivere sul suolo patrio. Il signor Micawber può essere - non riesco a nascondermi che molto probabilmente il signor Micawber lo sarà - una pagina della storia; e dovrà dunque essere rappresentato nel paese che gli diede i natali e non gli diede un impiego!» «Amor mio,» osservò il signor Micawber, «è impossibile per me non essere commosso dal tuo affetto. Io sono sempre pronto a rimettermi al tuo buon senso. Quello che sarà... sarà. Tolga il cielo che io invidi alla mia terra natale una qualsiasi parte dei beni che possono essere accumulati dai nostri discendenti!» «Così va bene,» disse la zia facendo un cenno al signor Peggotty, «e io bevo al mio amore per tutti voi, e che ogni benedizione e ogni successo vi accompagnino!» Il signor Peggotty mise giù i due bambini che aveva cullato fin allora, ognuno su un ginocchio, per unirsi al signore e alla signora Micawber nel brindare alla nostra salute in contraccambio; e quando lui e i Micawber si strinsero cordialmente la mano come camerati, e il suo bruno volto fu illuminato da un sorriso, ebbi la certezza che si sarebbe aperto la sua strada, avrebbe avuto un buon nome e si sarebbe fatto amare dovunque fosse andato. Perfino i bambini ebbero l'ordine di immergere ciascuno il suo cucchiaio di legno nella tazza del signor Micawber e brindare alla nostra salute col contenuto. Fatto questo, la zia e Agnes si alzarono per congedarsi dagli emigranti. Fu un triste addio. Tutti piangevano; i bambini rimasero aggrappati ad Agnes fino all'ultimo; e lasciammo la povera signora Micawber in uno stato compassionevole singhiozzante e piangente presso una fioca candela che doveva far sembrare la stanza, vista dal fiume, un miserevole faro. Tornai il mattino dopo per assicurarmi che fossero partiti. Se n'erano andati in barca già alle cinque. Fu per me un singolare esempio del vuoto che lasciano certi distacchi il fatto che, sebbene li collegassi alla locanda cadente e alla scala di legno solo dalla sera prima, entrambe sembravano tristi e deserte ora che erano partiti. Nel pomeriggio del giorno dopo, la mia vecchia governante e io ci recammo a Gravesend. Trovammo la nave nel fiume, circondata da una folla di barche; soffiava un vento favorevole; il segnale della partenza sventolava sull'albero maestro. Noleggiai subito una barca e ci dirigemmo a essa; e, attraversato il piccolo vortice di confusione che la attorniava, salimmo a bordo. Il signor Peggotty ci aspettava sul ponte. Mi disse che il signor Micawber era stato nuovamente arrestato un momento prima (e per l'ultima volta) su richiesta di Heep, e che, in conformità di quanto gli avevo chiesto, aveva pagato la somma, che gli rimborsai. Allora ci condusse nel sotto ponte; e là ogni mio residuo timore che egli avesse avuto notizia di quel che era accaduto fu dissipato dal signor Micawber, il quale, emergendo dall'ombra, gli prese il braccio con aria di amichevole protezione e mi disse che non si erano mai separati un momento dalla sera dell'altro ieri. Era una scena così strana per me, così buia e ristretta, che, dapprima, non riuscii a vedere nulla; ma, a poco a poco, si rischiarò via via che i miei occhi si abituavano all'oscurità, e mi parve di trovarmi in un dipinto di Ostade. Tra le grandi fiancate, e le costole e le caviglie della nave, e le cuccette, le casse, i fagotti, i barili e i mucchi di vario bagaglio degli emigranti - qua e là illuminati da lanterne oscillanti e, altrove, dalla gialla luce solare che filtrava da una manica di aerazione o da un boccaporto - si affollavano gruppi di gente che faceva nuove amicizie, dava gli estremi addii, parlava, rideva, piangeva, mangiava o beveva; alcuni avevano già preso possesso del loro angusto spazio, con le loro poche masserizie sistemate e bambinetti seduti su sgabelli o seggiolini; altri disperavano ormai di trovare un posto e vagavano sconsolati. Dai lattanti che avevano dietro di sé solo uno o due settimane di vita, alle vecchie e ai vecchi ricurvi che sembravano avere solo una o due settimane di vita davanti a loro, e dai contadini che portavano materialmente con sé il suolo inglese sulle loro scarpe, ai fabbri che portavan via campioni della sua fuliggine e del suo fumo sulla loro pelle, ogni età e ogni occupazione apparivano ammucchiate nella breve cerchia del sotto ponte. Mentre mi guardavo intorno, mi parve di vedere seduta, presso un portello aperto, con accanto uno dei bambini Micawber, una figura simile a Emily; attrasse dapprima la mia attenzione perché un'altra figura si separava da lei con un bacio; e, mentre scivolava via tranquilla nel disordine, mi ricordò... Agnes! Ma, fra il trambusto e la confusione, e nell'inquietudine dei miei pensieri, la persi nuovamente di vista; mi accorsi solo che era giunto il momento in cui tutti i visitatori venivano avvertiti di lasciare la nave; che la mia governante piangeva seduta su di una cassa presso di me; e che la signora Gummidge, aiutata da una donna più giovane, curva e vestita di nero, era affaccendata a sistemare le robe del signor Peggotty. «C'è ancora qualche cosa da dire, signorino Davy?» mi domandò questi. «Non dimentichiamo nulla prima di separarci?» «Una cosa,» dissi. «Martha.» Lui toccò sulla spalla la giovane donna di cui ho parlato, e Martha mi fu davanti. «Il cielo vi benedica, brav'uomo!» gridai. «La portate con voi!» Lei rispose in sua vece scoppiando in lacrime. In quel momento non potei dire altro, ma gli strinsi la mano; e se mai ho amato e onorato un uomo, lo amai e lo onorai nel mio animo. La nave si stava vuotando di ogni estraneo. Rimaneva il mio compito più importante. Gli dissi ciò che quel grande spirito scomparso mi aveva incaricato di dirgli al momento della partenza. E questo mi commosse profondamente. Ma quando egli mi incaricò, a sua volta, di molti messaggi di affetto e di rimpianto per quelle orecchie che non potevano più ascoltare, mi commosse ancor più. Era venuto il momento. Lo abbracciai, presi a braccio la mia nutrice in lacrime e corsi via. Sul ponte mi congedai dalla povera signora Micawber. Cercava ancora, con occhi smarriti, qualcuno della sua famiglia; e le ultime parole che mi rivolse furono che non avrebbe mai lasciato il signor Micawber. Scendemmo nella nostra barca lungo la fiancata, e ci fermammo a breve distanza per vedere la nave iniziare il suo viaggio. Era un calmo e radiante tramonto. La nave stava fra noi e la rossa luce; e ogni più sottile linea e alberatura era visibile contro il bagliore. Uno spettacolo a un tempo bello, triste e pieno di speranze come quello della gloriosa nave immobile sulle acque purpuree, con tutte quelle vite che aveva a bordo affollate ai parapetti e lì raccolte, per un momento, a capo scoperto e silenziose, non lo vidi mai più. Silenziose solo per un istante. Mentre le vele salivano al vento e la nave cominciava a muoversi, esplosero da tutte le barche tre tonanti evviva, che quelli sul ponte accolsero e rimandarono e che furono echeggiati e riecheggiati. Il cuore mi balzò quando udii questi gridi e vidi lo sventolare dei cappelli e dei fazzoletti... e scorsi lei! La vidi allora al fianco dello zio, tremante sulla sua spalla. Lui puntava verso di noi la mano ansiosa; e lei ci vide e mi volse il suo ultimo cenno di saluto. Sì, Emily, bella e languente, stringiti a lui con tutta la fiducia del tuo cuore offeso; perché egli si è stretto a te con tutto il potere del suo grande amore! Circondati dalla luce rosata, alti sul ponte e appartati insieme, lei china su di lui mentre egli la sosteneva, mi passarono solennemente dinanzi allontanandosi. La notte era scesa sulle colline del Kent quando il barcaiolo ci portò a terra... e cadde cupa su di me. LVIII • ASSENZA Fu una notte lunga e fosca quella che si addensò sul mio capo, invasa dai fantasmi di tante speranze, di tanti cari ricordi, di tanti errori, di tanti inutili crucci e rimpianti. Lasciai l'Inghilterra, senza sapere, neppure allora, quanto fosse grave il colpo che dovevo sopportare. Lasciai tutti coloro che mi erano cari e fuggii; e credetti di avere già sopportato la mia pena e che fosse passata. Come un uomo su di un campo di battaglia può ricevere un colpo mortale senza rendersi conto di essere stato ferito, così io, quando rimasi solo col mio indisciplinato cuore, non avevo idea della ferita con la quale dovevo lottare. Questa consapevolezza mi raggiunse non d'un tratto ma a poco a poco, a grano a grano. La desolazione con cui andai in terre straniere si approfondì e si allargò di ora in ora. Dapprima fu un greve senso di perdita e di dolore nel quale non riuscivo a distinguere quasi altro. Per impercettibili passaggi divenne la coscienza disperata di tutto ciò che avevo perduto - amore, amicizie, interessi - di tutto ciò che era stato disperso - la mia prima fiducia, il mio primo affetto, l'intero castello aereo della mia vita - di tutto ciò che rimaneva - una rovina vuota e deserta che spaziava intorno a me ininterrotta fino al buio orizzonte. Se il mio dolore fu egoistico, non me ne resi conto. Piangevo per la mia moglie-bambina, strappata così giovane al suo mondo fiorente. Piangevo per colui che avrebbe potuto conquistare l'amore e l'ammirazione di migliaia di uomini e che aveva conquistato il mio tanto tempo fa. Piangevo per quel cuore spezzato che aveva trovato riposo nel mare in tempesta; e per i resti dispersi della semplice casa dove avevo udito soffiare, da fanciullo, il vento notturno. Infine non ebbi più speranza di uscire dall'accumulata tristezza in cui ero caduto. Vagavo da luogo a luogo portando con me dappertutto il mio fardello. Adesso ne sentivo tutto il peso, e mi piegavo sotto di esso, e dicevo in cuor mio che non avrebbe mai potuto essere alleggerito. Quando questo sconforto raggiunse il culmine, credetti di essere vicino alla morte. A volte pensavo che mi sarebbe piaciuto morire in patria, e cambiavo effettivamente la direzione del mio viaggio per poterla raggiungere prima. Altre volte tiravo avanti allontanandomi sempre più, passando da città a città, cercando non so che cosa e tentando di lasciarmi non so che cosa alle spalle. Non è in mio potere rintracciare una per una tutte le stanche fasi di sconforto per le quali passai. Vi sono sogni che possono essere solo imperfettamente e vagamente descritti; e quando mi costringo a richiamare alla memoria questo periodo della mia vita, mi sembra di rievocare uno di tali sogni. Mi vedo passare fra le novità di città straniere, palazzi, cattedrali, templi, pitture, castelli, tombe, strade pittoresche i vecchi, immutabili luoghi della storia e della fantasia come uno che sogna, carico del mio penoso fardello dovunque andassi e appena consapevole degli oggetti che mi svanivano dinanzi. Indifferenza a tutto e un dolore che covava nell'intimo, tale era la notte caduta sul mio indisciplinato cuore. Lasciate che distolga lo sguardo da essa - come alfine feci, grazie al cielo! - e dal suo lungo, tetro e miserabile sogno, per contemplare l'aurora. Per molti mesi viaggiai con questa nube sempre più fosca sull'animo. Qualche oscura ragione che avevo per non tornare in patria - ragioni che lottavano vanamente in me per raggiungere una più distinta espressione - mi tratteneva nel mio pellegrinaggio. A volte ero passato senza sosta da luogo a luogo senza mai fermarmi; altre volte avevo indugiato a lungo in un posto. In nessuna parte avevo avuto una meta o uno spirito che mi sostenesse. Ero in Svizzera. Ero venuto dall'Italia per uno dei grandi passi delle Alpi e avevo poi vagato con una guida fra i sentieri delle montagne. Se quelle imponenti solitudini avessero parlato al mio cuore, non lo sapevo. Avevo trovato sublimità e meraviglia nelle paurose altezze e nei precipizi, nei torrenti mugghianti e nelle distese di ghiaccio e di neve; ma finora essi non mi avevano insegnato altro. Una sera, prima del tramonto, giunsi a una vallata dove intendevo riposarmi. Mentre vi scendevo per il tortuoso sentiero lungo il fianco della montagna, dal quale la vedevo risplendere molto più al di sotto, credo che qualche, ormai da tempo inconsueto, senso di bellezza e di pace, qualche dolce influsso risvegliato dalla sua serenità, si muovesse debolmente nel mio petto. Ricordo di essermi fermato una volta con una sorta di pena che non era del tutto oppressione e non era del tutto disperazione. Ricordo che quasi sperai la possibilità di qualche cambiamento in meglio entro di me. Scesi nella vallata mentre il sole pomeridiano brillava sulle lontane vette nevose che la chiudevano come nubi eterne. Le basi delle montagne che formavano la gola in cui era adagiato il piccolo villaggio, erano di un verde ricco; più in alto, oltre questa gentile vegetazione, sorgevano foreste di scuri abeti che fendevano come cunei le distese di neve invernale e arrestavano le valanghe. Al di sopra di esse v'erano ranghi e ranghi di picchi rocciosi, l'uno sull'altro, grigie rocce, ghiaccio brillante e lisce macchie verdi di pascoli, e tutto a poco a poco si fondeva con la neve che coronava le cime. Disperse a punteggiare qua e là il fianco della montagna, ogni puntolino una casa, v'erano delle piccole costruzioni di legno, così minute in confronto con le torreggianti alture che apparivano troppo piccole anche come giocattoli. E così pure il villaggio raccolto nella vallata, col suo ponte di legno attraverso il fiume, le cui correnti tumultuavano su rocce scheggiate e fuggivano muggendo fra gli alberi. Nell'aria quieta si udiva il suono di un canto lontano: voci di pastori; ma, poiché una lucente nube serale navigava a mezz'aria lungo la montagna, avrei quasi potuto credere che venisse di là e fosse una musica celeste. D'improvviso, in questa serenità, la grande natura mi parlò, e mi indusse, consolatrice, a posare la testa stanca sull'erba e piangere come non avevo ancora pianto dopo la morte di Dora! Avevo trovato, solo pochi minuti prima, un pacco di lettere che mi attendeva, e mi ero allontanato dal villaggio per leggerle mentre mi preparavano la cena. Altri pacchi non mi erano giunti e da lungo tempo non ne ricevevo. Oltre poche righe per dire che stavo bene e che ero nel tal luogo, non avevo avuto la forza o la costanza di scrivere una lettera da quando avevo lasciato la patria. Avevo il pacco in mano. Lo aprii e riconobbi la scrittura di Agnes. Era felice, si sentiva utile e otteneva successo come aveva sperato. Era tutto quello che diceva di sé. Il resto si riferiva a me. Non mi dava consigli; non mi ricordava doveri; mi diceva solo, con quel fervore suo proprio, quale fosse la sua fiducia in me. Sapeva (mi diceva) che un carattere come il mio avrebbe saputo volgere in bene l'afflizione. Sapeva che le prove e le emozioni lo avrebbero incitato e reso più forte. Era sicura che in ogni mia decisione avrei raggiunto orientamenti più sicuri e più nobili, attraverso il dolore che avevo sofferto. Lei, che era orgogliosa della mia fama e prevedeva così chiaramente il suo estendersi, sapeva bene che avrei continuato a lavorare. Sapeva che in me la pena non poteva essere debolezza ma doveva essere forza. Come le prove dei miei giorni infantili avevano contribuito a rendermi quello che ero, così le più gravi sventure mi avrebbero rinvigorito per rendermi migliore di quel che fossi; e così come avevano insegnato a me, io avrei insegnato agli altri. Mi raccomandava a Dio, che aveva accolto la mia innocente diletta nel Suo riposo; e, nel suo affetto di sorella, mi aveva sempre teneramente caro ed era sempre al mio fianco dovunque andassi, fiera di quello che avevo fatto ma infinitamente più fiera di quello che ero destinato a fare. Mi misi la lettera in seno e pensai a quello che ero stato solo un'ora prima! Quando udii le voci smorzarsi nella distanza e vidi la tranquilla nube serale divenire più scura, e tutti i colori della vallata svanire, e le nevi dorate sulle vette dei monti divenire una parte remota del pallido cielo notturno, sentii che le tenebre scivolavano via dal mio animo, che le sue ombre schiarivano, e che non vi era nome per l'amore che le portavo e che me la rendeva da questo momento più cara che non fosse mai stata. Rilessi più volte la sua lettera. Le scrissi prima di addormentarmi. Le dissi, che avevo avuto un estremo bisogno del suo aiuto; che senza di lei non ero, né mai ero stato, quello che mi credeva; ma che lei mi ispirava a esserlo e che avrei provato. Provai. Fra tre mesi sarebbe trascorso un anno dall'inizio del mio dolore. Stabilii di non prendere decisioni prima che questi tre mesi fossero passati, ma di provare. Vissi nella vallata e nei dintorni per tutto quel tempo. Al termine dei tre mesi, decisi di rimaner lontano dalla patria per qualche tempo ancora; di stabilirmi per il momento in Svizzera, che mi stava divenendo cara per il ricordo di quella sera; di riprender la penna; di lavorare. Mi volsi umilmente a quello che Agnes mi aveva suggerito; cercai la natura, che non si cerca mai invano; e accolsi in cuore quegli interessi umani che negli ultimi tempi avevo respinto. Non passò molto che ebbi, nella vallata, quasi altrettanti amici che a Yarmouth: e quando la lasciai, prima che giungesse l'inverno, per andare a Ginevra, e vi tornai nella primavera, i loro cordiali saluti ebbero per me un suono familiare, sebbene non mi venissero rivolti con parole inglesi. Lavorai il mattino presto e la sera tardi, pazientemente e duramente. Scrissi un romanzo su di una trama che nasceva, da vicino, dalla mia esperienza; lo mandai a Traddles ed egli provvide a farlo pubblicare a condizioni per me molto vantaggiose. Le notizie della mia crescente fama cominciarono a giungermi per mezzo dei viaggiatori che incontravo per caso. Dopo un periodo di riposo e qualche cambiamento, mi rimisi al lavoro con l'antico ardore su di una nuova idea che si era fortemente impadronita di me. Via via che procedevo nel realizzarla, la sentivo sempre più, e risvegliavo tutte le mie energie per ottenere il meglio. Fu questa la mia terza opera di fantasia. Non l'avevo ancora scritta a metà quando, in un intervallo di riposo, pensai di tornare in patria. Da molto tempo, sebbene studiassi e lavorassi pazientemente, mi ero abituato a fare del moto per irrobustirmi. La mia salute, gravemente compromessa quando avevo lasciato l'Inghilterra, si era ristabilita. Avevo visto molte cose. Ero stato in molti paesi, e avevo, spero, aumentato il mio corredo di cognizioni. Ho ricordato tutto ciò che credo necessario ricordare qui, di questo periodo di assenza... con una riserva. L'ho fatto, finora, non col proposito di celare alcuni dei miei pensieri, perché, come ho già detto, questo racconto rappresenta le mie memorie. Ho solo desiderato tener da parte fino all'ultimo la più segreta corrente dei miei pensieri. E adesso la affronto. Non posso penetrare così a fondo nel mistero del mio cuore, da sapere quando cominciai a pensare che avrei potuto riporre su di Agnes le sue più fervide e luminose speranze. Non posso dire in quale momento del mio dolore esso si trovò per la prima volta associato con la riflessione che, nella mia indocile adolescenza, avevo buttato via il tesoro del suo amore. Credo di avere udito qualche bisbiglio di questo pensiero remoto nell'antico, penoso senso di perdita o di mancanza di qualche cosa che non si sarebbe realizzata mai più, che avevo potuto percepire. Ma quell'idea mi entrò nella mente come un nuovo rimprovero e un nuovo rimpianto quando rimasi così angosciato e solo nel mondo. Se, in quel tempo, fossi stato molto con lei, nella debolezza della mia desolazione avrei manifestato tutto questo. Era ciò che vagamente temevo quando fui spinto dapprima a restar lontano dall'Inghilterra. Non avrei potuto sopportare di perdere la minima parte del suo affetto di sorella, e con quella rivelazione avrei messo fra noi un ostacolo finora ignoto. Non potevo dimenticare che il sentimento con cui ella adesso mi considerava era sorto in conseguenza della mia libera scelta e del mio comportamento. Che se mai ella mi aveva amato di altro amore - e a volte pensavo che, un tempo, avrebbe potuto essere così - quell'amore io lo avevo respinto. Adesso, il fatto che io mi fossi abituato a pensare a lei, fin da quando eravamo insieme bambini, come a un essere di gran lunga al di sopra delle mie disordinate fantasie, non contava più nulla. Io avevo rivolto la mia appassionata tenerezza a un altro oggetto; quello che avrei potuto fare non lo avevo fatto; e quello che Agnes era per me, era ciò che io e il suo nobile cuore avevamo fatto di lei. All'inizio del cambiamento che gradualmente si operava nel mio animo, quando tentavo di acquistare una migliore conoscenza di me e di essere un uomo migliore, guardai, fondandomi su qualche prova indefinita, a un periodo futuro nel quale mi fosse possibile cancellare l'errore trascorso e avere la felicità di sposarla. Ma, via via che il tempo passava, queste labili prospettive impallidirono e mi lasciarono. Se mai mi aveva amato dovevo tenerla ancor più come cosa sacra ricordando le confidenze che le avevo fatto, la conoscenza che lei aveva del mio instabile cuore, il sacrificio che doveva avere affrontato per rimanermi amica e sorella, e la vittoria che aveva riportato. Se non mi aveva mai amato, potevo forse pensare che mi avrebbe amato adesso? Avevo sempre sentito la mia debolezza in confronto con la sua costanza e la sua forza; e adesso la sentivo sempre più. Qualunque cosa io potessi essere stato per lei, e lei per me, se ero stato degno di lei molto tempo fa, non lo ero adesso, e lei mi rimaneva adesso troppo al di sopra. Il momento era passato. Lo avevo lasciato sfuggire e mi meritavo di averla persa. Che io molto soffrissi in questi dissidi, che mi riempissero di infelicità e di rimorsi, e che tuttavia trovassi un senso di conforto nel fatto di dovere, per giustizia e per onore, scacciare da me con vergogna l'idea di rivolgermi, nel languire delle mie speranze, alla cara fanciulla da cui mi ero frivolmente distolto quando quelle speranze erano vivide e fresche - una considerazione che stava alla radice di ogni mio pensiero che la riguardasse - è tutto egualmente vero. Non feci alcuno sforzo per nascondermi adesso che l'amavo e le ero devoto; ma portai in patria con me la certezza che era ormai troppo tardi e che i nostri antichi rapporti dovevano restare immutati. Avevo pensato molto e spesso agli accenni della mia Dora a quello che avrebbe potuto avvenire negli anni che non erano destinati a metterci alla prova; avevo considerato come le cose che mai avvennero si rivelano spesso reali per noi come quelle che si sono compiute. Gli anni futuri di cui ella parlava erano adesso una realtà per il mio miglioramento; e lo sarebbero stati un giorno, forse non molto dopo, sebbene fossimo stati divisi nel momento della nostra giovanile follia. Cercai di trasformare quello che avrebbe potuto essere fra me e Agnes in un mezzo per rendermi meno egoista, più deciso, più consapevole di me stesso, dei miei difetti e dei miei errori. Così, attraverso la riflessione che avrebbe potuto essere, giunsi alla convinzione che non sarebbe mai stato. Queste, con le loro perplessità e le loro inconsistenze, furono le infide sabbie mobili della mia mente dal momento della mia partenza a quello del mio ritorno in patria tre anni dopo. Tre anni erano trascorsi dal giorno in cui aveva fatto vela la nave degli emigranti, quando, alla stessa ora, verso il tramonto, e nello stesso luogo, mi trovai sul ponte della nave postale che mi riportava in patria, contemplando l'acqua rosata dove avevo visto riflettersi l'immagine di quell'altra nave. Tre anni. Lunghi nell'insieme sebbene brevi nel loro trascorrere. E la patria mi era molto cara, e così pure Agnes... ma non era mia... non sarebbe mai stata mia. Avrebbe potuto esserlo, ma il momento era passato! LIX • RITORNO Sbarcai a Londra in una rigida sera d'autunno. Era buio e pioveva, e vidi più nebbia e fango in un minuto di quanti non ne avessi visti in un anno. Andai a piedi dalla Dogana fino al Monumento prima di trovare una carrozza; e sebbene perfino le facciate delle case che contemplavano i rigagnoli gonfi fossero per me come vecchi amici, non potei fare a meno di riconoscere che erano amici molto sudici. Ho spesso notato - e suppongo che tutti lo abbiano fatto - che la nostra assenza da un luogo familiare sembra quasi il segnale di un suo cambiamento. Guardando fuori dal finestrino della vettura e osservando che una vecchia casa sulla collina di Fish-street, non toccata da un secolo né da un imbianchino, né da un carpentiere, né da un muratore, era stata abbattuta durante la mia lontananza, e che una strada dei dintorni, veneranda per l'insalubrità e i disagi, veniva prosciugata e allargata, quasi mi aspettai di trovare invecchiata perfino la cattedrale di San Paolo. A qualche mutamento nelle fortune dei miei amici ero preparato. Mia zia da tempo si era nuovamente stabilita a Dover, e Traddles aveva cominciato a farsi una piccola clientela in tribunale già nei primi tempi dopo la mia partenza. Adesso alloggiava a Gray's Inn, e mi aveva detto, nella sua ultima lettera, che non disperava di essere presto unito alla più cara ragazza del mondo. Mi aspettavano in patria prima di Natale, ma non pensavano che tornassi così presto. Li avevo ingannati di proposito per avere il piacere di coglierli di sorpresa. E tuttavia fui tanto incoerente da avere un brivido di delusione non ricevendo alcun benvenuto e scarrozzando solo e silenzioso per le vie piene di nebbia. Tuttavia le ben note botteghe, con le loro allegre luci, mi sollevarono un po' l'animo; e, quando scesi davanti al Caffè di Gray's Inn, mi ero già tirato su il morale. Mi ricordai dapprima del tempo, così diverso, in cui ero sceso al Croce d'Oro, e poi di tutti i cambiamenti che erano avvenuti da allora; ma questo era naturale. «Sapete dove abiti il signor Traddles qui nell'Inn?» chiesi al cameriere mentre mi riscaldavo davanti al fuoco della sala del caffè. «A Holborn Court, signore. Numero due.» «Il signor Traddles ha una reputazione crescente fra gli avvocati, immagino,» dissi. «Be', signore,» rispose il cameriere, «probabilmente l'ha, signore; ma, quanto a me, non mi risulta.» Il cameriere, che era una figura sparuta di mezza età, volse gli occhi, in cerca di aiuto, verso un cameriere di maggiore autorità - un vecchio massiccio e imponente con un doppio mento e calzoncini e calze neri, che uscì da un luogo simile al banco di un fabbricere in fondo alla sala del caffè, dove se ne stava in compagnia della cassetta degli incassi, di un annuario, di un elenco degli avvocati e di altri libri e carte. «Il signor Traddles,» disse il cameriere sparuto. «Numero due in Holborn Court.» Il cameriere imponente lo mandò via con un gesto e si volse gravemente a me. «Stavo chiedendo,» dissi, «se il signor Traddles, del numero due in Holborn Court, si sta facendo una crescente reputazione fra gli avvocati.» «Mai udito il suo nome,» rispose il cameriere con una grossa voce rauca. Mi sentii basire per Traddles. «Certo è un giovane,» disse il maestoso cameriere fissandomi severamente. «Da quanto tempo è negli Inn?» «Non più di tre anni,» risposi. Il cameriere, che doveva stare nel suo banco di fabbricere da quarant'anni, non poté indugiare su di un soggetto così insignificante e mi domandò che cosa volevo per pranzo. Sentii di esser nuovamente in Inghilterra e fui davvero molto abbattuto per Traddles. Sembrava che non ci fossero speranze per lui. Ordinai timidamente un po' di pesce e una bistecca, e rimasi davanti al fuoco meditando sull'oscurità del mio amico. Mentre seguivo con gli occhi il capo cameriere, non potei fare a meno di pensare che il giardino in cui Traddles era venuto su a poco a poco per esserne un fiore, era un luogo difficile per attecchirci. Aveva un'aria così tradizionale, inamidata, radicata, antica e solenne! Mi guardai attorno nella sala, il cui pavimento era stato levigato, senza dubbio, esattamente nello stesso modo di quando il capo cameriere era un ragazzo... se pure era mai stato un ragazzo, cosa che mi pareva improbabile; e i tavoli lucidi dove mi vedevo riflesso in calme profondità di vecchio mogano; e le lampade impeccabili per ordine e pulizia; e le comode tende verdi con le loro nitide bacchette di ottone, che dividevano serenamente gli scomparti; e i due grandi fuochi di carbone che ardevano fulgidi; e le file di boccali, panciuti come se fossero consapevoli delle botti di costoso vecchio porto che erano in cantina; e tanto l'Inghilterra quanto la legge mi parvero cose davvero molto difficili da prendere d'assalto. Salii nella mia stanza per cambiarmi l'abito bagnato; e l'estensione di quell'appartamento rivestito di pannelli di legno (che, ricordo, era sopra l'arcata che portava all'Inn), e la calma immensità del letto a quattro colonne, e l'indomita gravità dei cassettoni, mi parvero riunirsi in cupi cipigli sulle fortune di Traddles o di qualsiasi altro giovane audace. Scesi di nuovo per pranzare, e anche il lento conforto del cibo e l'ordinato silenzio del luogo - privo di clienti perché le lunghe vacanze non erano ancora finite - mi parlarono eloquentemente dell'audacia di Traddles e delle sue scarse probabilità di avere mezzi di sussistenza per i prossimi vent'anni. Non avevo visto nulla di simile da quando ero partito, e sentii che le speranze per il mio amico andavano in frantumi. Il capo cameriere ne aveva avuto abbastanza di me. Non mi si avvicinò più e si dedicò invece a un vecchio signore in ghette lunghe, incontro al quale una pinta di porto speciale sembrava esser venuta dalla cantina di sua iniziativa, perché egli non aveva dato alcun ordine. Il secondo cameriere mi informò con un bisbiglio che questo vecchio signore era un notaio a riposo, che abitava nella Piazza e valeva un mucchio di denaro destinato, a quanto ci si aspettava, a esser lasciato alla figlia della sua lavandaia; si diceva anche che possedesse in uno stipo un servizio di vasellame d'argento tutto appannato a forza di star riposto, sebbene nelle sue stanze non fosse mai stato visto nulla più di un cucchiaio e di una forchetta da occhio mortale. A questo punto diedi Traddles per perso e decisi che non c'erano speranze per lui. Tuttavia, ansioso com'ero di vedere il mio vecchio amico, sbrigai il mio desinare in un modo che non era affatto calcolato per rialzarmi nella stima del capo cameriere, e filai via per la porta di servizio. Il numero due in Holborn Court fu presto trovato; e poiché una scritta sullo stipite della porta mi informava che il signor Traddles occupava un appartamento all'ultimo piano, infilai le scale. Erano vecchie scale cadenti, appena illuminate su ogni pianerottolo da un ricurvo lucignolo a olio, moribondo in una piccola prigione di vetro sudicio. Mentre incespicavo salendo, mi parve udire un allegro suono di risa: e non le risa di un procuratore o di un avvocato, né dello scrivano di un procuratore o di quello di un avvocato, ma di due o tre allegre ragazze. Capitandomi, comunque, mentre indugiavo ad ascoltare, di mettere il piede in un buco dove l'Onorevole Società di Gray's Inn aveva lasciato una tavola mancante, caddi a terra con un certo rumore, e quando mi rimisi in piedi, tutto era silenzioso. Inerpicatomi a tastoni con maggior cura per il resto dell'ascesa, sentii il cuore battermi in tumulto quando trovai socchiusa la porta su cui era stato dipinto SIGNOR TRADDLES. Bussai. Seguì un considerevole scompiglio, ma niente altro. Di conseguenza bussai ancora. Un ragazzino dall'aria sveglia, metà galoppino e metà scrivano, tutto trafelato, ma che mi guardava come per sfidarmi a dimostrarlo legalmente, si presentò. «Il signor Traddles è in casa?» chiesi. «Sì, signore, ma è occupato.» «Vorrei vederlo.» Dopo avermi squadrato un istante, il ragazzo sveglio decise di farmi entrare; e, aperta maggiormente la porta a questo scopo, mi introdusse dapprima in un bugigattolo di anticamera e poi in un salottino, dove mi trovai in presenza del mio vecchio amico (trafelato anche lui) seduto al tavolo e chino su alcune carte. «Buon Dio!» esclamò Traddles alzando lo sguardo. «È Copperfield!» E si precipitò nelle mie braccia, dove lo tenni stretto. «Tutto bene, mio caro Traddles?» «Tutto bene, mio caro, caro Copperfield, e niente altro che buone notizie!» Entrambi piangevamo di gioia. «Mio caro ragazzo,» disse Traddles arruffandosi i capelli nella sua eccitazione, cosa che non era affatto necessaria, «carissimo Copperfield, amico tanto desiderato e così benvenuto, come sono lieto di vederti! Come sei abbronzato! Come sono felice! Sulla mia vita e sul mio onore, diletto Copperfield, non sono mai stato così contento, mai!» Anch'io non riuscivo a esprimere la mia commozione. Dapprima mi sentii assolutamente incapace di parlare. «Caro ragazzo,» continuò Traddles. «E così famoso! Mio glorioso Copperfield! Buon Dio, quando sei arrivato, di dove vieni, che cosa hai fatto?» Senza fare una pausa per lasciarmi rispondere a quello che diceva, Traddles, che mi aveva ficcato in una poltrona presso il caminetto, attizzava frattanto impetuosamente il fuoco con una mano e con l'altra mi tirava la cravatta nel frenetico malinteso che fosse un cappotto. Poi, senza posare l'attizzatoio, mi abbracciò ancora, e io abbracciai lui; ed entrambi, ridendo e asciugandoci gli occhi, ci sedemmo e ci stringemmo la mano da una parte all'altra del focolare. «E pensare,» disse Traddles, «che dovevi essere così vicino nel tuo viaggio di ritorno, vecchio mio, e non sei stato presente alla cerimonia!» «Quale cerimonia, mio caro Traddles?» «Buon Dio!» esclamò Traddles spalancando gli occhi al suo vecchio modo. «Non hai ricevuto la mia ultima lettera?» «Certo no, se parlava di una cerimonia.» «Diamine, mio caro Copperfield,» dichiarò Traddles tirandosi su dritti i capelli con le due mani e posandomele poi sulle ginocchia, «mi sono sposato!» «Sposato!» gridai allegramente. «Dio mi benedica, sì!» rispose Traddles. «Per opera del reverendo Horace... con Sophy... laggiù nel Devonshire. Diamine, mio caro ragazzo, è lì dietro la tenda! Guardala!» Con mio stupore, la più cara ragazza del mondo uscì in quell'istante, ridendo e arrossendo, dal suo nascondiglio. Credo (e non potei fare a meno di dirlo subito) che il mondo non avesse mai visto una più allegra, amabile, onesta, felice e luminosa sposa. La baciai, come si conviene a un vecchio amico, e augurai loro ogni gioia dal più profondo del cuore. «Povero me,» disse Traddles, «che deliziosa riunione è questa! Sei maledettamente abbronzato, caro Copperfield! Dio mi benedica, come sono felice!» «E anch'io,» risposi. «E certo anch'io!» disse arrossendo e ridendo Sophy. «Siamo tutti felici per quanto è possibile!» concluse Traddles. «Anche le ragazze. Povero me, le avevo proprio dimenticate!» «Dimenticate?» chiesi. «Le ragazze,» rispose Traddles. «Le sorelle di Sophy. Sono con noi. Sono venute per dare un'occhiata a Londra. Il fatto è che quando... sei stato tu a cadere per le scale, Copperfield?» «Sono stato io,» risposi ridendo. «Bene, allora; quando sei caduto per le scale,» continuò Traddles, «stavo giocando con le ragazze. Per la precisione giocavamo ai quattro cantoni. Ma, poiché questo a Westminster Hall non sta bene, e non apparirebbe del tutto professionale se fosse visto da un cliente, sono filate via. E adesso stanno... ascoltando, non ne ho dubbi,» disse Traddles guardando la porta di un'altra stanza. «Mi dispiace,» dissi ridendo ancora, «di aver provocato questa fuga.» «Parola mia,» aggiunse Traddles pieno di giubilo, «se tu le avessi viste scappar via, e poi tornare di corsa, quando hai bussato, per raccogliere i pettini che avevano lasciato cadere dai capelli e scappare ancora come matte, non avresti detto così. Amor mio, vuoi andare a chiamare le ragazze?» Sophy corse via leggera e udimmo che veniva accolta, nella stanza attigua, da uno scoppio di risa. «Proprio una musica, no, mio caro Copperfield?» disse Traddles. «È piacevolissimo udirla. Illumina queste vecchie stanze. Per un disgraziato scapolo che ha vissuto solo per tutta la vita, capisci, è proprio una delizia. Affascinante. Poverine, hanno avuto una grande perdita con Sophy, che, te lo assicuro, Copperfield, è ed è sempre stata la ragazza più cara! E mi fa un piacere indescrivibile trovarle così allegre. Avere delle ragazze in casa è delizioso, Copperfield. Non è professionale, ma è veramente delizioso.» Notando che esitava un poco, e comprendendo che, nella bontà del suo cuore, temeva di avermi dato qualche pena con ciò che aveva detto, espressi la mia approvazione con una cordialità che evidentemente lo rassicurò e gli piacque molto. «Tuttavia,» continuò Traddles, «i nostri arrangiamenti domestici, per dir la verità, sono anch'essi del tutto non professionali, caro Copperfield. Anche il fatto che Sophy sia qui non è professionale. Ma non abbiamo altro alloggio. Ci siamo messi in mare su di un guscio, e siamo preparatissimi ad arrabattarci. Sophy è una donna di casa straordinaria! Sarai stupito di vedere come queste ragazze sono state stivate. Non so bene neppure io come ha fatto!» «Ce ne sono molte delle signorine con voi?» chiesi. «La maggiore, la bellezza, è qui,» disse Traddles a voce bassa e confidenziale, «Carolina. Ed è qui Sarah - quella che, come ti dissi, aveva qualche cosa alla spina dorsale, ricordi. Sta immensamente meglio! E sono qui le due più giovani, che Sophy educava. Ed è qui anche Louisa.» «Davvero?» esclamai. «Sì,» disse Traddles. «Ora tutto l'insieme - voglio dire l'appartamento - è di sole tre stanze; ma Sophy ha sistemato le ragazze in modo meraviglioso, e dormono con tutte le comodità possibili. Tre in quella stanza,» disse Traddles indicandola, «e due in quella.» Non potei fare a meno di guardarmi intorno cercando il posto che restava per il signore e la signora Traddles. Traddles mi comprese. «Be',» disse, «siamo pronti ad arrabattarci, come ti ho detto poco fa, e la settimana scorsa avevamo improvvisato un letto qui sul pavimento. Ma c'è una stanzetta sotto il tetto - una bella stanzetta, quando ci si è saliti - che Sophy ha tappezzato di carta con le sue mani, per farmi una sorpresa; e attualmente è la nostra camera. È un magnifico accampamentino da zingari. E che bella vista!» «E così, caro Traddles, alla fine ti sei felicemente sposato!» dissi. «Ne sono proprio felice!» «Grazie, caro Copperfield,» disse Traddles mentre ci stringevamo ancora una volta la mano. «Sì, sono felice quanto è possibile esserlo. Ecco qui il tuo vecchio amico, guarda,» continuò indicandomi trionfalmente il vaso da fiori col sostegno; «ed ecco il tavolino col piano di marmo! Tutto il resto del mobilio è semplice e pratico, come vedi. E quanto all'argenteria, Dio ti benedica, non abbiam nemmeno un cucchiaino da tè.» «Tutta ancora da guadagnare?» dissi allegramente. «Proprio così,» rispose Traddles, «tutta da guadagnare. Naturalmente abbiamo qualche cosa di simile ai cucchiaini da tè perché il tè dobbiamo rimescolarlo. Ma sono di britannia.» «L'argento, quando verrà, sarà tanto più lucente,» dissi. «Proprio quello che diciamo noi!» esclamò Traddles. «Vedi, mio caro Copperfield,» e riprese il suo tono confidenziale, «dopo che ebbi pronunciato la mia arringa nella causa Jipes contro Wigzell, che mi fu molto utile nella professione, andai laggiù nel Devonshire ed ebbi seri colloqui privati col reverendo Horace. Insistei sul fatto che Sophy - che ti assicuro, Copperfield, è la ragazza più cara!...» «Ne sono sicuro!» dissi. «Lo è proprio!» ribatté Traddles. «Ma temo di essermi allontanato dal soggetto. Parlavo del reverendo Horace?» «Dicevi di avere insistito sul fatto...» «Sicuro! Sul fatto che Sophy e io eravamo fidanzati da lungo tempo e che Sophy, col permesso dei suoi genitori, era più che contenta di prendermi... insomma,» disse Traddles col suo vecchio, aperto sorriso, «sulla nostra attuale base di britannia. Benissimo. Allora proposi al reverendo Horace - che è un ecclesiastico più che eccellente, Copperfield, e dovrebbe essere vescovo, o almeno dovrebbe avere abbastanza da vivere senza stenti - che se avessi potuto arrivare a tanto da avere diciamo duecentocinquanta sterline in quell'anno, e prevedere abbastanza chiaramente altrettanto o qualche cosa di più per l'anno successivo, e se avessi potuto ammobiliare inoltre un posticino come questo, allora, e in questo caso, Sophy e io avremmo potuto unirci. Mi presi la libertà di fargli notare che avevamo pazientato per un bel po' di anni, e che la circostanza che Sophy fosse quanto mai utile in casa non doveva influire sui suoi affezionati genitori contro la sistemazione della sua vita... capisci?» «Certo che non doveva,» dissi. «Sono lieto che la pensi così, Copperfield,» replicò Traddles, «perché, senza voler fare alcuna accusa al reverendo Horace, penso che genitori, fratelli e così via, a volte, in casi simili, sono piuttosto egoisti. Bene! Misi anche in evidenza il fatto che il mio maggior desiderio era di essere utile alla famiglia; e che, se mi facevo strada e fosse capitato qualche cosa a lui - intendo il reverendo Horace...» «Capisco,» dissi. «...o alla signora Crewler... sarebbe stato il colmo dei miei desideri far da padre alle ragazze. Mi rispose in modo ammirevole, fin troppo lusinghiero per i miei sentimenti, e s'impegnò di ottenere il consenso della signora Crewler a questo accordo. Con lei passarono un momento pauroso. Le salì dalle gambe al petto e poi alla testa...» «Che cosa salì?» domandai. «Il dolore,» rispose Traddles con aspetto serio. «I suoi sentimenti in genere. Come ti ho detto in un'altra occasione, è una donna veramente superiore, ma ha perso l'uso delle gambe. Qualunque cosa la turbi, di norma, le prende le gambe; ma questa volta le salì fino al petto, e poi alla testa, e, in breve, le invase tutta la persona nel modo più allarmante. Tuttavia riuscirono a trarla da quella crisi a forza di costanti e affettuose attenzioni, e ci sposammo facevano ieri sei settimane. Non hai idea, Copperfield, di quale mostro mi sia sentito quando vidi l'intera famiglia piangere e venir meno da tutte le parti! La signora Crewler non poté vedermi prima della mia partenza... non poté perdonarmi, allora, di averle tolta la sua bambina... ma è una buona creatura e lo ha fatto in seguito. Solo stamane ho ricevuto una sua lettera deliziosa.» «Insomma, caro amico,» dissi, «ti senti felice come meriti!» «Oh! Questa è parzialità da parte tua!» rispose Traddles ridendo. «Ma in verità sono in una condizione quanto mai invidiabile. Lavoro duro e studio leggi insaziabilmente. Mi alzo alle cinque ogni mattina e non me ne lamento affatto. Durante il giorno nascondo le ragazze, e la sera giuoco allegramente con loro. E ti assicuro di essere molto spiacente che debbano tornare a casa martedì, il giorno prima che inizi la sessione di san Michele. Ma,» disse Traddles interrompendo il suo tono confidenziale e parlando a voce alta, «ecco le ragazze! Il signor Copperfield, la signorina Crewler... la signorina Sarah... la signorina Louisa... Margaret e Lucy!» Erano un vero mazzo di rose, tanto apparivano sane e fresche. Tutte erano graziose, e la signorina Caroline era molto bella; ma nel volto luminoso di Sophy v'era qualche cosa di così dolce, gaio e casalingo da darmi la certezza che il mio amico aveva scelto bene. Sedemmo attorno al fuoco, mentre il ragazzo sveglio - che adesso capii era rimasto senza fiato nel tirar fuori in fretta e furia le carte, tornava a riporle e portava il servizio del tè. Dopo di che se ne andò per tornare a casa sua, sbattendo la porta dietro di sé. La signora Traddles, con una calma serenità che raggiava dai suoi occhi casalinghi, fatto il tè, si sedette silenziosa in un angolo presso il fuoco per preparare i crostini. Aveva visto Agnes, mi disse frattanto. «Tom» l'aveva portata nel Kent in viaggio di nozze, e là aveva visto anche mia zia; tanto lei quanto Agnes stavano bene e non avevano fatto altro che parlare di me. «Tom» non si era mai dimenticato di me, ne era sicura, per tutto il tempo che ero stato lontano. «Tom» era un'autorità in ogni cosa. «Tom» era evidentemente l'idolo della sua vita, che nulla avrebbe mai fatto cadere dal suo piedistallo, e a cui ella avrebbe dato con tutto il cuore la sua fiducia e il suo omaggio, qualunque cosa potesse accadere. La deferenza che tanto lei quanto Traddles mostravano per la Bellezza mi piacque molto. Non so se la considerassi del tutto ragionevole, ma mi parve deliziosa e parte essenziale del loro carattere. Se Traddles sentì per un istante la mancanza dei cucchiaini d'argento che doveva ancora guadagnarsi, sono sicuro che fu quando porse il tè alla Bellezza. Se la sua dolce moglie avesse mai potuto farsi valere contro qualcuno, non ho dubbi che lo avrebbe fatto solo perché era sorella della Bellezza. Alcuni lievi indizi di un carattere piuttosto viziato e capriccioso, che osservai nella Bellezza, erano manifestamente considerati da Traddles e da sua moglie come diritti di nascita e doti naturali. Se lei fosse stata un'ape regina e loro api operaie non avrebbero potuto essere più soddisfatti. Ma mi incantò la loro abnegazione. Il loro orgoglio per quelle ragazze, la loro sottomissione a tutte le loro fantasie, erano le più piacevoli testimonianze del loro valore che potessi desiderar di vedere. Se Traddles fu chiamato «tesoro» nel corso della serata e pregato di portar qualche cosa qui, o di mettere qualche cosa là, o alzarla, o posarla, o cercarla, o andarla a prendere, fu così chiamato dall'una o dall'altra delle sue cognate almeno una dozzina di volte in un'ora. Né esse potevano fare qualche cosa senza Sophy. A qualcuna si scioglievano i capelli e nessun altro che Sophy poteva rimetterli a posto. Qualcuna aveva dimenticato l'aria di una canzone, e solo Sophy poteva cantarla al modo giusto. Qualcuna voleva ricordare il nome di un luogo del Devonshire e solo Sophy lo sapeva. C'era bisogno di scrivere a casa qualche cosa e solo di Sophy ci si poteva fidare che avrebbe scritto il mattino prima di colazione. Qualcuna imbrogliava il suo lavoro a maglia e nessun altro che Sophy era capace di rimettere la sbadata sulla giusta via. Esse erano le vere padrone del luogo e Sophy e Traddles stavano al loro servizio. Di quanti bambini Sophy avrebbe potuto prendersi cura a suo tempo, non riuscivo a immaginarlo; ma, a quanto pareva, era famosa per sapere a memoria qualsiasi sorta di canzone che mai sia stata rivolta a un bambino in lingua inglese; e ne cantava dozzine a comando con la più chiara vocetta del mondo, l'una dopo l'altra (ogni sorella chiedendo una canzone diversa, e la Bellezza intervenendo generalmente per ultima) così da farmi sentire veramente affascinato. E il più bello era che, pur con tante esigenze, tutte le sorelle avevano una gran tenerezza e un gran rispetto sia per Sophy sia per Traddles. Quando mi congedai, e Traddles uscì con me per accompagnarmi alla sala del caffè, mi parve proprio di non aver mai visto una testa di capelli così ostinati, né qualsiasi altra testa di capelli, dibattersi in un tal diluvio di baci. Fu davvero una scena su cui non potei fare a meno di indugiare con piacere per molto tempo dopo che fui tornato ed ebbi augurato a Traddles la buona notte. Se avessi visto migliaia di rose fiorite in un appartamento dell'ultimo piano in quella sfiorita Gray's Inn, non avrebbero potuto ravvivarlo nemmeno per la metà. L'idea di quelle ragazze del Devonshire fra gli aridi uffici dei copisti e dei procuratori, e del tè, e dei crostini, e dei canti infantili in quella cupa atmosfera di polverini, di cartapecora, di nastri rossi, di polverose ostie da suggellare, di calamai, fascicoli, contratti, resoconti legali, mandati, dichiarazioni e parcelle, mi sembrava una fantasia non meno divertente che se avessi sognato che la famiglia del Sultano fosse stata ammessa nell'albo dei procuratori e avesse portato l'uccellino parlante, l'albero che canta e l'acqua dorata in Gray's Inn Hall. Mi accorsi in qualche modo che avevo dato la buona notte a Traddles ed ero tornato nella sala del caffè con un gran cambiamento del mio pessimismo a suo riguardo. Cominciai a pensare che si sarebbe fatto strada a dispetto di tutte le società di capi cameriere d'Inghilterra. Tirata una sedia davanti a uno dei caminetti della sala, per pensare a lui a mio agio, passai a poco a poco dalle riflessioni sulla sua felicità a delinear figure nei carboni ardenti, e a meditare, mentre si spezzavano e mutavano di forma, alle principali vicissitudini e separazioni che avevano caratterizzato la mia vita. Non avevo visto un fuoco di carbone da quando avevo lasciato l'Inghilterra tre anni prima, sebbene avessi osservato vari fuochi di legna che, sgretolandosi in bianche ceneri e confondendosi con le ceneri leggere ammucchiate nel focolare, erano per me, nel mio abbattimento, un simbolo non improprio delle mie morte speranze. Potevo adesso pensare al passato grevemente, ma non con amarezza; e potevo contemplare coraggiosamente il futuro. La casa, nel miglior senso della parola, non era più per me. Colei nella quale avrei potuto ispirare un più tenero affetto aveva imparato da me a essere solo mia sorella. Si sarebbe sposata e avrebbe avuto nuovi pretendenti alla sua tenerezza; e, facendolo, non avrebbe mai conosciuto l'amore che era sorto per lei nel mio cuore. Era giusto che pagassi la pena della mia avventata passione. Raccoglievo quello che avevo seminato. Stavo meditando. E non so se avessi assoggettato veramente il mio cuore a questa conclusione e fossi deciso a sopportarla e a tenere serenamente nella casa di Agnes il posto che ella aveva tenuto nella mia... quando mi accorsi che il mio sguardo si era fermato su di una figura che avrebbe potuto essere sorta dal fuoco associandosi con i miei antichi ricordi. Il piccolo dottor Chillip, ai cui buoni uffici mi sono trovato debitore fin dal primo capitolo di questo racconto, era seduto nell'ombra di un angolo opposto leggendo un giornale. Era stato alquanto mutato dagli anni, ma, essendo un ometto mite, dolce e tranquillo, era invecchiato così facilmente da farmi pensare che in quel momento doveva avere esattamente lo stesso aspetto che aveva quando se ne stava seduto nel nostro salotto aspettando che venissi al mondo. Il signor Chillip aveva lasciato Blunderstone sei o sette anni prima, e da allora non lo avevo più visto. Se ne stava placidamente seduto a leggere il giornale con la piccola testa inclinata da una parte e un bicchiere di Xeres caldo, annacquato e inzuccherato, al suo fianco. Aveva modi così concilianti che sembrava chiedere scusa perfino al giornale per essersi preso la libertà di leggerlo. Mi avvicinai al luogo in cui era e dissi: «Come state, signor Chillip?» Fu quanto mai turbato da questa inattesa domanda, da parte di un estraneo, e rispose col suo fare lento: «Grazie, signore, siete molto buono. Grazie, signore. Spero che voi stiate bene.» «Non vi ricordate di me?» chiesi. «Be', signore,» rispose il signor Chillip sorridendo mitemente e scuotendo la testa mentre mi scrutava, «ho una certa impressione che qualche cosa nel vostro aspetto mi sia familiare, signore; ma davvero non potrei giurare sul vostro nome.» «E tuttavia lo avete conosciuto molto prima che lo conoscessi io stesso,» replicai. «Davvero, signore?» disse il signor Chillip. «È possibile che abbia avuto l'onore di assistervi quando?...» «Sì,» dissi. «Povero me!» esclamò il signor Chillip. «Ma senza dubbio siete molto cambiato da allora, signore!» «Probabilmente,» risposi. «Bene, signore,» concluse il signor Chillip, «spero che vorrete scusarmi se sono costretto a chiedervi di favorirmi il vostro nome.» Quando glielo dissi, fu realmente commosso. Mi strinse subito la mano - cosa che per lui fu un procedimento violento, essendo solito a far scivolare solo un tiepido pesciolino di un paio di pollici oltre il suo fianco mostrando un grande sconvolgimento se qualcuno glielo afferrava. Anche adesso si affrettò a ficcarsi la mano nella tasca della giacca appena poté disimpegnarla e apparve molto sollevato quando fu riuscito a riportarla indietro sana e salva. «Povero me, signore!» disse il signor Chillip squadrandomi con la testa da una parte. «È il signor Copperfield, dunque? Bene, signore, credo che vi avrei riconosciuto se mi fossi preso la libertà di guardarvi più da vicino. C'è una forte somiglianza fra voi e il vostro povero padre, signore.» «Non ho mai avuto la felicità di vedere mio padre,» osservai. «Verissimo, signore,» disse il signor Chillip col suo tono blando. «E fu una cosa molto deplorevole sotto ogni aspetto! Non ignoriamo, signore,» continuò il signor Chillip scuotendo piano, nuovamente, la sua piccola testa, «laggiù dalle nostre parti, la vostra fama. Dovete avere una grande attività qui dentro, signore,» disse il signor Chillip battendosi la fronte con l'indice. «Deve essere un lavoro molto severo, il vostro, signore!» «Quali sono adesso le vostre parti?» chiesi sedendomi accanto a lui. «Mi sono stabilito a poche miglia da Bury St Edmund's, signore,» rispose il signor Chillip. «Poiché la signora Chillip aveva ereditato da suo padre una piccola proprietà in quelle vicinanze, ho acquistato un esercizio laggiù, e sarete lieto di sapere che ho un buon da fare. Mia figlia sta diventando una ragazzona, adesso, signore,» continuò il signor Chillip con un'altra scossetta della sua testolina. «Sua madre le ha dovuto allentare due pieghe dell'abito proprio la settimana scorsa. Così fa il tempo, capite, signore?» Visto che l'ometto si portava alle labbra il bicchiere ormai vuoto nel fare questa riflessione, gli proposi di riempirlo e di tenergli compagnia col mio. «Be', signore,» mi rispose con la sua solita lentezza, «non sono abituato a questo; ma non posso negarmi il piacere della vostra conversazione. Mi sembra ieri che ebbi l'onore di curarvi del morbillo. Ve la siete cavata ottimamente, signore!» Lo ringraziai del complimento e ordinai il vino caldo, che fu subito portato. «Un disordine veramente insolito!» disse il signor Chillip rimescolando, «ma non posso resistere a un'occasione così straordinaria. Avete famiglia, signore?» Scossi la testa. «Sono stato informato del vostro lutto, signore, qualche tempo fa,» continuò il signor Chillip. «L'ho saputo dalla sorella del vostro patrigno. Un carattere molto risoluto, direi, signore.» «Altro ché,» risposi. «Risoluto quanto basta. Dove l'avete vista, signor Chillip?» «Non sapete, signore,» rispose il signor Chillip col più placido dei suoi sorrisi, «che il vostro patrigno è nuovamente mio vicino?» «No,» dissi. «Proprio così, signore!» confermò il signor Chillip. «Ha sposato una signorina di quelle parti, con una piccola proprietà piuttosto notevole, poverina. Ma questa attività del vostro cervello, signore? Non credete che vi affatichi?» chiese il signor Chillip guardandomi come un pettirosso sbigottito. Lasciai cadere la domanda e tornai ai Murdstone. «Sapevo che si era riammogliato. Siete il medico di famiglia?» chiesi. «Non regolarmente. Sono stato chiamato qualche volta,» rispose. «Un forte sviluppo frenologico dell'organo della decisione, signore, nel signor Murdstone e in sua sorella.» Risposi con uno sguardo così espressivo che il signor Chillip ne fu incoraggiato, non meno che dal vino caldo, a dar parecchi piccoli scuotimenti di testa e a esclamare pensosamente: «Ah, povero me! Ricordiamo vecchi tempi, signor Copperfield!» «E il fratello e la sorella hanno insistito nel loro antico comportamento, immagino,» dissi. «Be', signore,» rispose il signor Chillip, «un medico, che va in tutte le famiglie, non dovrebbe avere occhi né orecchi se non per quel che riguarda la sua professione. Tuttavia devo dire che sono molto severi, signore, sia rispetto a questa vita sia rispetto alla futura.» «La futura sarà regolata senza troppo chiedere il loro parere, oserei dire,» replicai: «e che fanno a questo proposito?» Il signor Chillip scosse la testa, agitò il suo vino caldo e lo sorseggiò. «Era una donna incantevole, signore!» osservò in tono lamentoso. «L'attuale signora Murdstone?» «Proprio una donna incantevole, signore,» ripeté il signor Chillip; «amabile, ne sono sicuro, quanto è possibile esserlo! La signora Chillip è del parere che il suo spirito sia stato letteralmente frantumato dopo il suo matrimonio, e che ella fosse tutto fuorché soggetta per natura a una follia depressiva. E le signore,» osservò il signor Chillip timorosamente, «sono grandi osservatrici, signore.» «Immagino che doveva essere sottoposta a quel loro detestabile stampo e schiacciata, il cielo la aiuti!» dissi. «E così è stato.» «Be', signore, da principio ci furono delle terribili liti, ve lo assicuro,» disse il signor Chillip; «ma adesso non è più che un'ombra. Sarei considerato temerario se vi dicessi in confidenza, signore, che, da quando è venuta la sorella ad aiutarlo, tra il fratello e la sorella l'hanno ridotta quasi a uno stato di imbecillità?» Gli dissi che potevo crederlo facilmente. «Non esito a dire,» proseguì il signor Chillip fortificandosi con un altro sorso di vino caldo, «tra voi e me, signore, che la madre di lei ne morì... e che la tirannia, la tristezza e l'ansia hanno reso la signora Murdstone quasi idiota. Era una giovanetta vivace, signore, prima del matrimonio, e la loro tetraggine e la loro austerità l'hanno distrutta. Adesso si comportano con lei piuttosto come due carcerieri che come marito e cognata. È quello che la signora Chillip mi ha fatto notare non più tardi della settimana scorsa. E vi assicuro, signore, che le signore sono grandi osservatrici. La stessa signora Chillip è una grande osservatrice!» «E lui sostiene ancora tetramente di essere (mi vergogno di usare questa parola riferendola a un uomo simile) religioso?» chiesi. «Avete anticipato, signore,» disse il signor Chillip, le cui palpebre stavano divenendo molto rosse grazie all'inconsueto stimolo che si era concesso, «una delle più impressionanti osservazioni della signora Chillip. La signora Chillip,» continuò nel più calmo e più lento dei modi, «mi diede una vera scossa elettrica facendomi notare che il signor Murdstone si è fatto un'immagine di se stesso e la chiama Natura Divina. Mi avreste potuto stendere a terra con una penna d'oca, signore, ve lo assicuro, quando la signora Chillip mi disse questo. Le signore sono grandi osservatrici, signore!» «Intuitivamente,» dissi con sua estrema soddisfazione. «Sono felicissimo di avere una tale conferma della mia opinione, signore,» rispose. «Raramente mi arrischio a dare pareri che non siano di carattere medico, ve lo assicuro. Il signor Murdstone, di tanto in tanto, pronuncia pubblici sermoni, e si dice - insomma, signore, lo dice la signora Chillip - che, quanto più, negli ultimi tempi, è divenuto un cupo tiranno, tanto più feroce diviene la sua dottrina.» «Credo che la signora Chillip abbia perfettamente ragione,» dissi. «La signora Chillip giunge a dire,» continuò il più mite degli ometti, molto incoraggiato, «che quello che questa gente chiama malamente la loro religione è lo sfogo del loro cattivo carattere e della loro arroganza. E sapete, signore, devo dire,» proseguì inclinando dolcemente la testa da una parte, «che nel Nuovo Testamento non trovo nulla che confermi le idee del signore e della signora Murdstone.» «Non l'ho mai trovato nemmeno io,» affermai. «Frattanto, signore,» disse il signor Chillip, «sono molto malvisti; e poiché loro sono molto inclini a votare alla perdizione tutti quelli che non li hanno in simpatia, nel nostro vicinato c'è una gran quantità di gente perduta! Comunque, signore, come dice la signora Chillip, sono soggetti a una continua punizione; perché si sono volti contro di sé, si rodono il cuore, e il loro cuore non è affatto un buon cibo. E ora, signore, per quel che riguarda il vostro cervello, vorrete scusarmi e vi ritorno. Non vi esponete a una eccessiva eccitazione, signore?» Non trovai difficoltà, nell'eccitazione in cui si trovava il cervello del signor Chillip in seguito alle bevute di vino caldo, a volgere la sua attenzione da questo argomento ai suoi propri affari, sui quali, per la mezz'ora che seguì, fu loquacissimo, facendomi sapere, fra l'altro, che si trovava in quel momento nella sala del caffè di Gray's Inn per prestare una testimonianza professionale dinanzi a una Commissione psichiatrica relativamente allo stato mentale di un paziente a cui il cervello aveva dato di volta per il troppo bere. «E vi assicuro, signore,» disse, «che in questi casi sono quanto mai nervoso. Non potrei sopportare di essere quel che si dice conculcato, signore. Mi sentirei ridotto a nulla. Sapete che mi ci volle un bel po' di tempo per rimettermi dalla condotta di quella allarmante signora, la notte della vostra nascita, signor Copperfield?» Gli dissi che sarei andato da mia zia, il dragone di quella notte, l'indomani mattina presto; e che era una delle donne più tenere ed eccellenti, come si sarebbe reso pienamente conto se l'avesse conosciuta meglio. La semplice idea della possibilità di rivederla parve atterrirlo. Rispose con un pallido sorrisetto: «Davvero, signore? Davvero?» E quasi immediatamente chiese una candela e andò a letto, come se non avesse potuto sentirsi al sicuro in nessun altro posto. Non barcollava veramente sotto l'influsso del vino caldo; ma direi che il suo placido e piccolo polso desse due o tre battiti di più al minuto di quanti ne avesse dati da quella notte fatale della delusione della zia, quando ella lo colpì col suo cappellino. Stanco morto, andai a letto anch'io, a mezzanotte; trascorsi il giorno seguente nella diligenza di Dover; irruppi sano e salvo nel vecchio salotto della zia mentre ella prendeva il tè (adesso portava gli occhiali); e fui ricevuto da lei, dal signor Dick e dalla cara vecchia Peggotty, che faceva da governante, a braccia aperte e con lacrime di gioia. La zia si divertì immensamente, quando cominciammo a parlare con calma, al racconto del mio incontro con il signor Chillip e del pauroso ricordo che egli manteneva di lei; e lei e Peggotty ebbero un mucchio di cose da dire sul secondo marito della mia povera mamma e su «quella assassina di sua sorella», a cui credo che nessun tormento o penalità avrebbe potuto indurre la zia a dare qualsiasi altro nome, o cognome, o altra designazione. LX • AGNES La zia e io, quando restammo soli, chiacchierammo fino a notte alta. Come gli emigranti non scrivessero mai in patria se non pieni di allegria e di speranza; come il signor Micawber avesse effettivamente restituito alcune piccole somme in acconto di quegli «impegni pecuniari» a riguardo dei quali era stato tanto scrupoloso da uomo a uomo; come Janet, tornata al servizio della zia quando essa si era nuovamente stabilita a Dover, avesse finalmente portato a fondo la sua rinuncia al genere umano sposando un prospero oste; e come la zia avesse infine messo il suo sigillo allo stesso principio fondamentale aiutando e favorendo la sposa e coronando la cerimonia nuziale con la sua presenza: furono questi i nostri argomenti, già a me più o meno familiari attraverso le lettere che avevo ricevuto. Il signor Dick, come sempre, non fu dimenticato. La zia mi informò che era occupato senza sosta a copiare tutto ciò che gli capitava sotto mano e che, con questa apparenza di impiego, teneva a rispettosa distanza il re Carlo I; che era una delle maggiori gioie e ricompense della sua vita il fatto che egli fosse libero e felice invece di languire in una monotona reclusione; e che (come nuova conclusione generale) nessun altri che lei poteva conoscere appieno quello che egli era. «E quando, Trot,» disse la zia battendomi sul dorso della mano mentre stavamo seduti al nostro vecchio modo davanti al fuoco, «quando conti di andare a Canterbury?» «Troverò un cavallo e farò una corsa laggiù domattina, zia, a meno che non voglia venire con me.» «No!» disse la zia col suo modo brusco. «Intendo restare dove sono.» Risposi che allora sarei andato a cavallo. Quest'oggi non avrei potuto attraversare Canterbury senza fermarmi se non fossi stato diretto ad altri che a lei. Ne fu compiaciuta, ma rispose: «Zitto, Trot! Le mie vecchie ossa avrebbero potuto aspettare fino a domani!» e mi batté ancora delicatamente sulla mano mentre sedevo pensieroso davanti al fuoco. Pensieroso perché non potevo essere lì ancora una volta, e così vicino ad Agnes, senza che si ravvivassero quei rimpianti che mi avevano così a lungo tormentato. Potevano essere rimpianti mitigati, che mi insegnavano quello che non avevo saputo imparare quando la mia giovinezza era tutta davanti a me, ma nondimeno rimpianti. «Oh, Trot,» mi sembrava di sentir dire ancora dalla zia, e adesso la capivo meglio... «Cieco, cieco, cieco!» Rimanemmo entrambi in silenzio per qualche minuto. Quando alzai gli occhi, mi accorsi che mi stava osservando fissamente. Forse aveva seguito il corso dei miei pensieri; perché mi sembrava che adesso si potessero seguire più facilmente, ostinati com'erano stati un tempo. «Troverai suo padre un vecchio dai capelli bianchi,» disse la zia, «sebbene migliorato sotto ogni altro aspetto... un uomo ricuperato. E ti accorgerai che non misura più tutti gli umani interessi, le gioie e i dolori con il suo piccolo regolo di un pollice. Credi a me, ragazzo, queste cose devono rimpicciolirsi molto per potere essere misurate in questo modo.» «Veramente,» dissi. «Troverai lei,» proseguì la zia, «buona, bella, seria, disinteressata come è stata sempre. Se conoscessi una lode più alta, Trot, gliela farei.» Non c'era maggior lode per lei né maggior rimprovero per me. Oh, come avevo potuto smarrirmi a tal punto? «Se educa le ragazze, che ha intorno, a essere come lei,» disse la zia, seria fino ad avere gli occhi colmi di lacrime, «sa il cielo che la sua vita sarà bene impiegata! Utile e felice come disse quel giorno! E che cos'altro potrebbe essere se non utile e felice?» «Agnes ha qualche...» pensavo ad alta voce più che non parlassi. «Be'? Eh? Qualche cosa?» chiese pronta la zia. «Qualche innamorato,» dissi. «Un mucchio,» esclamò la zia con una sorta di orgoglio sdegnato. «Avrebbe potuto sposarsi cento volte, caro mio, da quando sei partito!» «Certo,» dissi. «Certo. Ma ha qualche innamorato che sia degno di lei? Agnes non potrebbe accettarne altri.» La zia rimase pensierosa per un poco, col mento appoggiato alla mano. Poi, alzando lentamente gli occhi su di me, disse: «Sospetto che abbia un'inclinazione, Trot.» «Propizia?» chiesi. «Trot,» rispose la zia gravemente, «non posso dire. Non ho il diritto di dire nemmeno questo. Non si è mai confidata a me, ma lo sospetto.» Mi guardava con tanta intensità e tanta ansia (la vidi perfino tremare) da farmi sentire più che mai che aveva seguito i miei ultimi pensieri. Chiamai a raccolta tutte le risoluzioni che avevo preso in tutti quei giorni e quelle notti e in tutti i vari conflitti del mio cuore. «Se è così,» cominciai, «e spero che lo sia...» «Non so se è così,» disse brusca la zia. «Non devi farti guidare dai miei sospetti. Devi tenerli segreti. Forse non sono nulla. Non ho il diritto di parlare.» «Se è così,» ripetei, «Agnes me lo dirà a suo tempo. Una sorella a cui ho fatto tante confidenze, non sarà riluttante a confidarsi con me.» La zia ritrasse il suo sguardo dal mio, lentamente come me lo aveva rivolto; e, pensosa, si coprì gli occhi con la mano. Poco dopo mi mise l'altra mano sulla spalla; e rimanemmo così, rievocando il passato, senza dire altre parole, finché ci separammo per ritirarci. Il mattino dopo, di buon ora, galoppai verso la scena dei miei giorni di scuola. Non posso dire che fossi veramente felice nella speranza di riportare una vittoria su me stesso, pur nell'attesa di rivedere tra poco il suo volto. La ben nota campagna fu presto attraversata, ed entrai nelle vie tranquille dove ogni pietra era per me un libro della mia fanciullezza. Raggiunsi a piedi la vecchia casa e me ne allontanai col cuore troppo colmo per entrare. Tornai; e guardando, nel passare, attraverso la bassa finestra della stanza nella torretta, dove erano soliti stare dapprima Uriah Heep e poi il signor Micawber, vidi che era adesso un salottino e che non vi era più l'ufficio. Per altro la vecchia casa severa era, per ordine e pulizia, identica a quello che era stata quando l'avevo vista la prima volta. Chiesi alla nuova cameriera che mi venne ad aprire di dire alla signorina Wickfield che c'era un signore venuto da parte di un amico all'estero; e fui guidato su per la solenne e antica scalinata (e avvertito di badare ai gradini che conoscevo così bene) fino al salotto immutato. I libri che Agnes e io avevamo letto insieme, erano sui loro scaffali; e lo scrittoio al quale mi ero affaticato per tante notti sulle mie lezioni, erano ancora allo stesso vecchio angolo del tavolo. Tutti i piccoli cambiamenti introdotti con la venuta degli Heep erano scomparsi. Tutto era come soleva essere al tempo felice. Mi fermai nel vano di una finestra e guardai attraverso la vecchia strada le case di fronte, rievocando come le avevo guardate nei giorni di maltempo quando ero venuto lì per la prima volta; e come solevo fantasticare sulla gente che appariva qua e là alle finestre, seguendola con gli occhi su e giù per le scale, mentre le donne andavano ticchettando sul selciato con gli zoccoli da pioggia, e la pioggia monotona cadeva in linee oblique e si riversava dal tubo della grondaia laggiù fluendo nella strada. Il sentimento con cui solevo osservare i vagabondi, quando, in quelle sere piovose, entravano in città all'imbrunire e passavano via zoppicando con i loro fagotti che pendevano sulle loro spalle all'estremità di un bastone, mi riprese ancor vivo, carico, come allora, dell'odore di terra bagnata, di foglie e di rovi umidi, e della sensazione del vento che mi soffiava addosso durante il mio faticoso viaggio. Il rumore della piccola porta che si apriva nella parete a pannelli mi fece trasalire e voltare. I suoi begli occhi sereni incontrarono i miei mentre ella mi si avvicinava. Si fermò mettendosi la mano sul cuore, e io la strinsi fra le braccia. «Agnes! mia cara! Mi sono presentato troppo all'improvviso.» «No, no! Sono così lieta di vederti, Trotwood!» «Cara Agnes, che felicità vederti ancora!» Me la tenni al cuore e, per un momento, rimanemmo entrambi in silenzio. Poi ci sedemmo a fianco; e il suo volto angelico si volse a me col benvenuto che, nella veglia e nel sonno, avevo sognato per interi anni. Era così schietta, così bella, così buona... le dovevo tanta gratitudine, mi era così cara, che non potevo esprimere quello che sentivo. Tentai di benedirla, tentai di ringraziarla, tentai di dirle (come avevo fatto spesso per lettera) quale influenza avesse avuto su di me; ma tutti i miei sforzi erano vani. Il mio amore e la mia gioia restavano muti. Con la dolce tranquillità sua propria, ella calmò la mia agitazione; mi riportò al tempo della nostra separazione; mi parlò di Emily, a cui aveva fatto visita in segreto più volte; mi parlò teneramente della tomba di Dora. Col sicuro istinto del suo nobile cuore toccò così lievemente e armoniosamente le corde della mia memoria, che nessuna diede in me un suono crudo; potei ascoltare la malinconica e lontana musica senza desiderare di ritrarmi da nulla di ciò che risvegliava. E come avrei potuto, quando lei stessa era dolcemente frammista a tutto questo, il miglior angelo della mia vita? «E tu, Agnes?» dissi poi. «Parlami di te. Tu mi hai appena accennato alla tua vita, in tutto questo tempo!» «Che dovrei dirti?» rispose con un sorriso radioso. «Papà sta bene. Ci vedi qui tranquilli nella nostra casa; le nostre ansietà sono finite, la casa è tornata a noi; e sapendo questo, caro Trotwood, sai tutto.» «Tutto, Agnes?» chiesi. Mi guardò con una certa meraviglia ondeggiante sul suo volto. «Non c'è niente altro, sorella?» insistei. Il suo colorito, che era appena impallidito, tornò e impallidì ancora. Sorrise, con una calma tristezza, mi parve; e scosse la testa. Avevo cercato di condurla a quello che la zia aveva accennato; perché, per quanto penoso avesse potuto essermi ricevere quella confidenza, dovevo disciplinare il mio cuore e fare il mio dovere verso di lei. Vidi comunque che si sentiva a disagio, e non insistei. «Hai molto da fare, cara Agnes?» «Con la mia scuola?» chiese lei alzando ancora lo sguardo in tutta la sua luminosa compostezza. «Sì. È faticoso, non è vero?» «È una fatica così piacevole,» rispose, «che sarebbe per me ingratitudine chiamarla con questo nome.» «Nulla di ciò che è bene è difficile per te,» dissi. Il colorito le tornò ancora sulle gote e ancora scomparve; e ancora una volta, mentre chinava la testa, vidi lo stesso triste sorriso. «Aspetterai per vedere papà,» disse Agnes allegramente, «e passerai la giornata con noi? Forse vorrai dormire nella tua stanza? La chiamiamo sempre la tua stanza.» Non potevo farlo avendo promesso alla zia di tornare a sera; ma avrei passato lì, con gioia, la giornata. «Dovrò rimanere prigioniera ancora per un poco,» disse Agnes, «ma ecco qui i vecchi libri, Trotwood, e le vecchie musiche.» «E anche i vecchi fiori sono qui,» risposi guardandomi attorno, «o per lo meno dello stesso genere.» «Mi è piaciuto,» disse Agnes sorridendo, «mentre eri assente, conservare tutto com'era quando eravamo fanciulli. Perché allora eravamo molto felici, credo.» «Sa il cielo quanto lo eravamo,» risposi. «E ogni piccola cosa che mi ha ricordato il fratello,» disse Agnes volgendomi gaiamente lo sguardo cordiale, «è stata un compagno benvenuto. Anche questo,» e mi mostrò il cestino pieno di chiavi che pendeva ancora alla sua cintura, «sembra tintinnare l'antica canzone!» Sorrise ancora e uscì dalla porta da cui era entrata. Era mio compito custodire questo affetto fraterno con religiosa cura. Era tutto ciò che io stesso avevo lasciato in vita, ed era un tesoro. Se avessi scosso le fondamenta di questa fiducia e di questa consuetudine egualmente sacre, in virtù delle quali quel tesoro mi era concesso, lo avrei perso e non lo avrei più riconquistato. Mi misi dinanzi ben ferma questa certezza. Quanto più l'amavo, tanto più era mio dovere non dimenticarlo. Passeggiai per le vie; e, dopo aver visto ancora una volta il mio vecchio avversario, il macellaio - adesso conestabile, con la sua mazza appesa sull'ingresso del negozio - andai a rivedere il luogo in cui avevo combattuto con lui. Là meditai sulla signorina Shepherd e sulla maggiore delle signorine Larkins, e su tutti gli oziosi amori, simpatie e antipatie di quel tempo. Nulla sembrava essere sopravvissuto se non Agnes; e lei era sempre una stella sopra di me, ancor più luminosa e più alta. Quando rientrai, il signor Wickfield era tornato da un giardino che aveva, un paio di miglia fuori di città, e dove adesso passava il tempo quasi ogni giorno. Lo trovai come la zia me lo aveva descritto. Sedemmo a tavola con una mezza dozzina di ragazzine; lui sembrava solo l'ombra del bel ritratto sulla parete. La tranquillità e la pace che da tempo si collegavano nella mia memoria a quel luogo, lo pervasero ancora. Quando il desinare fu finito, poiché il signor Wickfield non beveva vino e io non ne desideravo altro, salimmo al piano di sopra, dove Agnes e le sue piccole allieve cantarono e suonarono prima di mettersi al lavoro. Dopo il tè, le bambine ci lasciarono; e noi tre sedemmo insieme parlando dei giorni andati. «La parte che vi ho avuto,» disse il signor Wickfield scuotendo la bianca testa, «è ricca di rimorsi per me... di profondi rimorsi e di profonda contrizione, tu lo sai bene, Trotwood. Ma non vorrei cancellarla se anche fosse in mio potere.» Potevo facilmente crederlo guardando il volto che gli era accanto. «Dovrei cancellare con essa,» proseguì, «una pazienza, una devozione, una fedeltà, un amore filiale che non devo dimenticare, no! Nemmeno per dimenticare me stesso.» «Vi capisco, signore,» dissi piano. «Tengo tutto questo... l'ho sempre tenuto... in venerazione.» «Ma nessuno sa, nemmeno voi,» rispose, «quanto ella ha fatto, quanto ha sofferto e quanto duramente ha lottato. Cara Agnes!» Lei gli aveva posato la mano implorante sul braccio per arrestarlo; ed era molto, molto pallida. «Bene, bene!» disse lui con un sospiro, tralasciando, come mi accorsi, qualche prova che lei aveva sostenuto, o doveva ancora sostenere, in relazione a quanto la zia mi aveva detto. «Bene! Io non ti ho mai parlato, Trotwood, di sua madre. Lo ha fatto qualcun altro?» «Mai, signore.» «Non è molto... sebbene sia stato molto il soffrirlo. Mi sposò contro il volere di suo padre, e lui la rinnegò. Prima che Agnes venisse al mondo, ella gli chiese di perdonarla. Era un uomo molto duro, e la madre di lei era morta da tempo. Lui la respinse, e le spezzò il cuore.» Agnes si chinò sulla sua spalla e gli passò furtiva un braccio attorno al collo. «Aveva un cuore gentile e affettuoso,» proseguì lui, «e quel cuore si spezzò. Conoscevo bene la sua delicata natura. Nessuno la conobbe se non io. Mi amava teneramente ma non fu mai felice. Sempre si afflisse in segreto per questa pena; e, poiché era debole e abbattuta al momento dell'ultima ripulsa del padre - l'ultima di tante - si consumò e si spense. Mi lasciò Agnes di due settimane, e quei grigi capelli che ricorderete di avermi visto quando veniste qui la prima volta.» Baciò Agnes sulla gota. «Il mio amore, per la mia cara bambina era morboso, ma allora tutta la mia mente era malata. Non dico di più su questo. Non sto parlando di me, Trotwood, ma di sua madre e di lei. Se vi do qualche indizio di ciò che sono, o di ciò che sono stato, so che potrete seguirlo. Quello che è Agnes, non ho bisogno di dirlo. Ho sempre riconosciuto nel suo carattere qualche cosa della storia della sua povera madre; e per questo ve ne parlo stasera, che siamo nuovamente tutti e tre riuniti dopo tanti cambiamenti. Vi ho detto tutto.» La sua testa china, e il volto angelico, la dedizione filiale di lei, acquistavano dal racconto un significato più patetico che non mai. Se avessi avuto bisogno di qualche cosa per fissare questa serata della nostra riunione, l'avrei trovata in questo. Poco dopo, Agnes si alzò dal fianco di suo padre e, avvicinatasi leggera al pianoforte, suonò alcune delle vecchie melodie che avevamo spesso ascoltato in quel luogo. «Hai intenzione di partire ancora?» mi chiese Agnes mentre io le stavo in piedi vicino. «Che ne dice la mia sorella?» «Spero di no.» «Dunque, Agnes, non ho questa intenzione.» «Penso che non dovresti farlo, Trotwood, visto che me lo domandi,» disse dolcemente. «La tua fama e il tuo successo sempre crescenti aumentano le tue possibilità di fare del bene; e se anche io potessi fare a meno di mio fratello,» e volgeva gli occhi su di me, «forse i nostri tempi non lo potrebbero.» «Quello che sono lo hai fatto tu, Agnes. Dovresti saperlo.» «Io ti ho fatto, Trotwood?» «Sì! Agnes mia cara!» dissi chinandomi su di lei. «Appena ti ho vista, oggi, ho tentato di dirti qualche cosa che è stato nei miei pensieri fin da quando è morta Dora. Ricordi, Agnes, quando scendesti nel nostro salottino... con la mano alzata verso il cielo?» «Oh, Trotwood!» rispose con gli occhi colmi di lacrime. «Così innamorato, così fiducioso, così giovane! Come potrei dimenticarlo?» «Da quel momento ho spesso pensato che, quale fosti allora, sorella mia, sei poi sempre stata per me. Sempre con la mano levata verso il cielo, Agnes; sempre guidandomi verso qualche cosa di meglio; sempre indirizzandomi a più alte cose.» Lei si limitò a scuotere la testa; attraverso le sue lacrime vidi lo stesso sorriso calmo e triste. «E io te ne sono così grato, Agnes, mi sento così legato a te, che non vi è nome per l'affetto del mio cuore. Voglio che tu sappia, e tuttavia non so come dirtelo, che per tutta la vita guarderò a te e sarò guidato da te come lo sono stato nelle tenebre trascorse. Qualunque cosa accada, quali che siano i nuovi legami che tu puoi stringere, qualunque cambiamento possa avvenire fra noi, io guarderò a te e ti amerò come adesso e come ho sempre fatto. Tu sarai sempre il mio sollievo e la mia risorsa come sei sempre stata. Fino alla morte, sorella carissima, ti vedrò sempre dinanzi a me indicando in alto!» Mise la sua mano nella mia e mi disse di essere orgogliosa di me e di quello che avevo detto, sebbene la lodassi ben oltre i suoi meriti. Poi continuò a suonare dolcemente, ma senza distogliere lo sguardo da me. «Lo sai, Agnes,» dissi, «che quello che ho udito stasera mi sembra stranamente far parte dei sentimenti con cui ti ho considerata la prima volta che ti vidi... con i quali mi sono seduto accanto a te nei miei difficili giorni di scuola?» «Sapevi che non avevo madre,» rispose sorridendo, «e provavi della tenerezza per me.» «Più che questo, Agnes, sapevo, come se avessi conosciuto questa storia, che intorno a te c'era qualche cosa di inesplicabilmente dolce e gentile; qualche cosa che avrebbe potuto essere dolore in altri (e adesso capisco che lo era), ma che non era tale in te.» Continuò a suonare piano, sempre guardandomi. «Riderai se mi abbandono a queste fantasie, Agnes?» «No!» «O se ti dico che realmente credo di aver sentito fin da allora che tu potevi essere fedelmente affezionata contro ogni scoraggiamento, e mai cessare di esserlo finché avessi vita?... Riderai di un tale sogno?» «Oh, no! Oh, no!» Per un attimo un'ombra di pena le attraversò il volto; ma, nel momento stesso in cui mi faceva trasalire, era scomparsa; e lei continuava a suonare e a guardarmi con il suo calmo sorriso. Mentre cavalcavo verso casa nella notte solitaria, e il vento mi sfiorava come un inquieto ricordo, pensai a questo e temetti che ella non fosse felice. Io non ero felice; ma, per ora, avevo fedelmente messo il suggello sul passato e, pensando a lei che mi additava l'alto, mi parve che additasse il cielo su di me, dove, nel misterioso avvenire, avrei tuttavia potuto amarla di un amore sconosciuto sulla terra, e dirle quali lotte si erano combattute in me quando l'avevo amata quaggiù. LXI • MI VENGONO PRESENTATI DUE INTERESSANTI PENITENTI Per qualche tempo - in ogni caso finché non avessi portato a termine il mio libro, che sarebbe stato lavoro di parecchi mesi - stabilii la mia residenza nella casa della zia, a Dover; e lì, seduto nel vano della finestra da cui avevo contemplato la luna sul mare, quando quel tetto era stato il mio primo rifugio, proseguii tranquillamente la mia opera. Sempre fedele al proposito di parlare dei miei romanzi solo quando il loro susseguirsi si venga a collegare incidentalmente con lo svolgersi del mio racconto, non accennerò alle aspirazioni, alle gioie, alle ansie e ai trionfi della mia arte. Che mi sono sinceramente dedicato a essa con la più tenace serietà, che vi ho impiegato tutte le energie del mio spirito, l'ho già detto. Se i libri che ho scritto hanno qualche valore, suppliranno loro stessi al resto. Altrimenti avrò scritto per nulla, e il resto non interesserà alcuno. Ogni tanto andavo a Londra, per perdermi nel tumulto di quella vita o per consultare Traddles su qualche particolare dei miei affari. Durante la mia assenza li aveva amministrati per me col più sano buon senso; e, materialmente, prosperavano. Poiché la mia notorietà cominciava a rovesciarmi addosso valanghe di lettere di gente a me sconosciuta - per lo più su sciocchezze, e a cui era molto difficile rispondere - mi accordai con Traddles per far dipingere anche il mio nome sulla sua porta. Là il devoto postino del quartiere recapitava staia di lettere per me, e là, saltuariamente, le scorrevo come un segretario di stato senza stipendi. Tra questa corrispondenza si inseriva ogni tanto un'obbligante proposta, da parte di qualcuno dei tanti improvvisati sempre all'agguato intorno ai Commons, di esercitare sotto il mio nome (se avessi fatto i necessari passi che mi rimanevano per essere io stesso procuratore ecclesiastico) e versarmi una percentuale sui profitti. Ma declinavo queste offerte, sapendo bene che di questi praticanti abusivi ce n'era un mucchio e considerando i Commons già abbastanza cattivi di per sé perché io dovessi fare qualche cosa per renderli peggiori. Le ragazze erano già tornate a casa quando il mio nome fiorì sulla porta di Traddles; e il ragazzo sveglio, da mattina a sera, aveva l'aria di non aver mai udito parlare di Sophy, chiusa in una stanza sul retro e con il solo diversivo di guardare in giù dal suo lavoro verso una fuligginosa fettina di giardino con una pompa nel mezzo. Ma in quella stanza la trovai sempre la stessa luminosa donna di casa; spesso mormorando le sue ballate del Devonshire, quando nessun passo straniero si udiva per le scale, e imbambolando di melodie il ragazzo sveglio nel suo stambugio ufficiale. Dapprima mi domandai perché trovavo tanto spesso Sophy intenta a scrivere su di un quaderno, e perché, appena apparivo, si affrettava regolarmente a chiuderlo e a nasconderlo in un cassetto. Ma il segreto fu presto svelato. Un giorno, Traddles (appena tornato a casa dal tribunale sotto un nevischio acquoso) prese un foglio dal suo scrittoio e mi chiese che cosa ne pensassi di quella calligrafia. «Oh, no, Tom!» esclamò Sophy, che stava scaldandogli le pantofole davanti al fuoco. «Mia cara,» rispose Tom gongolando, «perché no? Che ne dici di questa scrittura, Copperfield?» «È perfettamente legale e ufficiale,» risposi. «Non credo di avere mai visto una mano più ferma.» «Non ha nulla di femminile, no?» disse Traddles. «Femminile?» ripetei. «Un mattone o un mortaio sarebbero più femminili.» Traddles ruppe in una risata di entusiasmo e mi informò che si trattava di uno scritto di Sophy; che Sophy aveva giurato e dichiarato che presto egli avrebbe avuto bisogno di uno scrivano e che quello scrivano sarebbe stata lei; che si era fatta la mano su di un modello; e che poteva riempire... non so più quanti fogli in un'ora. Sophy era piena di confusione per la rivelazione che mi era stata fatta e disse che, quando «Tom» fosse diventato giudice, non sarebbe stato così pronto a proclamarlo. Cosa che «Tom» negò dichiarando che ne sarebbe stato sempre orgoglioso, in qualsiasi circostanza. «È proprio una moglie brava e affascinante, mio caro Traddles!» dissi quando ella se ne fu andata ridendo. «Caro Copperfield,» rispose Traddles, «è, senza la minima eccezione, la ragazza più cara! E come tiene questa casa, che puntualità, che perizia domestica, che economia, che ordine! E la sua allegria, Copperfield!» «Hai proprio ragione di lodarla,» replicai. «Sei un ragazzo felice. Credo che siate, e vi rendiate l'un l'altro, due delle più felici creature del mondo.» «Sono sicuro che siamo due degli esseri più felici,» rispose Traddles. «In ogni caso lo ammetto. Dio mi benedica, quando la vedo alzarsi al lume di candela in queste mattinate buie, darsi da fare nelle faccende domestiche, andare al mercato prima che gli scrivani entrino nell'Inn, senza badare al tempo che fa, escogitare i più splendidi pranzetti con gli ingredienti più semplici, far budini e pasticci, tenere tutto al suo posto, mantenersi lei stessa sempre pulita e ben messa, vegliare alla sera con me anche se si fa tardi, sempre dolce e incoraggiante, e tutto per me, ti assicuro, Copperfield, che a volte non riesco a crederci!» Sfogò la sua tenerezza perfino sulle pantofole che lei gli aveva scaldato, nell'infilarsele, e stese voluttuosamente i piedi sul parafuoco. «Davvero a volte non riesco a crederlo,» ripeté Traddles. «E i nostri divertimenti, poi! Povero me, non costano niente e sono meravigliosi. Quando siamo qui a casa, di sera, e chiudiamo la porta di fuori e tiriamo le tendine - che ha fatto lei - dove potremmo sentirci più comodi? Quando è bel tempo e noi usciamo a far due passi di sera, le strade abbondano per noi di piaceri. Guardiamo nelle vetrine scintillanti delle gioiellerie; e io mostro a Sophy il serpente con gli occhi di diamanti arrotolato su di un cuscino di raso bianco, che le regalerei se potessi permettermelo; e Sophy mi mostra l'orologio d'oro con coperchio, abbondanza di rubini, meccanismo perfezionato, leva di scappamento orizzontale e via di seguito, che mi comprerebbe se lei potesse permetterselo; e scegliamo i cucchiai, le forchette, le palette da pesce, i coltelli da burro e le mollette per lo zucchero che entrambi vorremmo se potessimo permettercelo; e davvero ce ne andiamo come se li avessimo comprati! Poi, quando andiamo a zonzo per le piazze e per i corsi e vediamo una casa da affittare, a volte la guardiamo attentamente e ci domandiamo se quella andrebbe bene qualora fossi giudice. E la suddividiamo - una data stanza per noi, un'altra per le ragazze, e così via - finché stabiliamo a nostra soddisfazione che andrebbe o non andrebbe, a seconda del caso. Di tanto in tanto andiamo a teatro a metà prezzo, nei posti in piedi - dove perfino l'odore costa poco, a parer mio, per quel che si paga - e là ci godiamo completamente lo spettacolo, in ogni parola del quale Sophy ha fede cieca e io pure. Tornando a casa compriamo qualche cosetta in una rosticceria, o una piccola aragosta da un pescivendolo, ce la portiamo qui e facciamo una splendida cena chiacchierando di ciò che abbiamo visto. Ora tu capisci, Copperfield, che se fossi il Lord Cancelliere non potremmo fare niente di ciò!» «Dovunque tu fossi, mio caro Traddles,» pensai, «faresti qualche cosa di piacevole e simpatico.» «E a proposito,» dissi forte, «immagino che adesso non disegnerai più scheletri.» «In realtà,» rispose Traddles ridendo e arrossendo, «non posso totalmente negare di farlo ancora, caro Copperfield. Perché l'altro giorno, trovandomi in uno dei banchi di fondo, al King's Bench, con una penna in mano, mi venne in mente di provare se avevo mantenuto questa abilità. E temo che ci sia uno scheletro - in parrucca - sull'orlo della scrivania.» Dopo aver riso entrambi cordialmente, Traddles finì col guardare sorridendo il fuoco e dicendo col suo tono indulgente: «Il vecchio Creakle!» «Ho qui una lettera di quel vecchio... mascalzone,» dissi. Perché non mi sentivo mai meno disposto a perdonargli il modo con cui aveva bastonato Traddles di quando vedevo lo stesso Traddles così pronto a perdonarlo. «Di Creakle il direttore della scuola?» esclamò Traddles. «No!» «Tra coloro che si sentono attratti a me nella prosperità della mia fama e della mia fortuna,» dissi scorrendo le mie lettere, «e che scoprono di essermi sempre stati molto affezionati, c'è questo stesso Creakle. Adesso non è più direttore di scuola, caro Traddles. Si è ritirato ed è magistrato nel Middlesex.» Pensavo che Traddles si sarebbe stupito nel saperlo, ma non fu affatto così. «Come supponi che sia riuscito a essere magistrato nel Middlesex?» chiesi. «Oh povero me!» disse Traddles, «sarebbe molto difficile rispondere a questa domanda. Forse ha votato per qualcuno, o ha prestato denaro a qualcuno, o ha comprato qualche cosa da qualcuno, o si è obbligato in qualche altro modo qualcuno, o ha lavorato per qualcuno che conosceva qualcun altro il quale ha ottenuto dal governatore della contea la sua nomina alla carica.» «Comunque sia è in questa carica,» dissi. «E mi scrive che sarebbe felice di mostrarmi in pratica l'unico vero sistema di disciplina carceraria; l'unico modo incontrobattibile per ottenere conversioni e pentimenti sinceri e duraturi: che, come sai, è la segregazione cellulare. Che ne dici?» «Del sistema?» chiese Traddles facendosi serio. «No. Del fatto che io accetti la proposta e tu venga con me.» «Non faccio obiezioni,» disse Traddles. «Allora gli scriverò per dirglielo. Immagino che ti ricordi (per non dir nulla del modo con cui ci trattava) che questo stesso Creakle aveva scacciato di casa il figlio, e che vita faceva fare a sua moglie e a sua figlia.» «Perfettamente,» rispose Traddles. «E tuttavia, se leggi la sua lettera, ti accorgerai che è il più tenero degli uomini con i carcerati convinti della completa lista dei reati,» dissi; «sebbene non mi risulti che la sua tenerezza si estenda ad alcun'altra classe di esseri viventi.» Traddles scrollò le spalle senza mostrarsi minimamente sorpreso. Non mi ero aspettato che lo fosse né ero sorpreso io stesso; altrimenti la mia conoscenza di queste ironie della realtà sarebbe stata assai scarsa. Stabilimmo il giorno della nostra visita e quella sera stessa scrissi in conseguenza al signor Creakle. Il giorno fissato - credo che fosse l'indomani, ma poco importa - Traddles e io ci recammo alla prigione dove il signor Creakle esercitava il suo potere. Era un immenso e solido fabbricato, eretto con grande spesa. Non potei fare a meno di pensare, mentre ci avvicinavamo al cancello, che razza di scandalo sarebbe sorto nel paese se qualche illuso avesse proposto di spendere la metà di quanto era costato per la costruzione di una scuola industriale per i giovani, o di una casa di riposo per i vecchi meritevoli. In un ufficio che avrebbe potuto essere al pianterreno della Torre di Babele, tanto era costruito in forma massiccia, fummo presentati al nostro vecchio direttore, che faceva parte di un gruppo composto da due o tre magistrati quanto mai indaffarati e da alcuni visitatori che essi avevano portato con sé. Egli mi ricevette da uomo che mi aveva formato la mente negli anni trascorsi e mi aveva sempre teneramente amato. Quando gli presentai Traddles, il signor Creakle espresse in egual modo, ma in minor misura, di essere sempre stato, per Traddles, una guida, un filosofo e un amico. Il nostro venerabile maestro era molto invecchiato, ma non migliorato nell'aspetto. Il suo volto era feroce come sempre; gli occhietti sempre piccoli e infossati. Gli scarsi capelli grigi, umidicci, con cui lo ricordavo, erano quasi scomparsi; e le grosse vene sul cranio calvo non eran per questo più gradevoli a vedersi. Dopo un po' di conversazione con questi signori, dalla quale avrei potuto supporre che non vi fosse al mondo nulla da prendersi in legittima considerazione se non il supremo benessere dei carcerati, costasse quel che costasse, e che nulla ci fosse da fare fuori delle porte della prigione nel vasto mondo, cominciammo la visita. Poiché era l'ora del desinare, andammo per prima cosa nella vasta cucina, dove il pranzo di ogni prigioniero veniva preparato separatamente (per essergli portato nella cella) con la regolarità e la precisione di un orologio. Dissi a parte a Traddles che mi domandavo se veniva in mente a qualcuno che vi era uno stridente contrasto tra quei pasti abbondanti, di ottima qualità, e i desinari, non dico dei poveri, ma dei soldati, dei marinai, degli operai, la gran massa della comunità onesta e operosa nella quale nemmeno uno su cinquecento aveva mai mangiato così bene. Ma venni a sapere che il «sistema» richiedeva un alto tenore di vita; e, in breve, per sbarazzarmi del sistema una volta per tutte, appresi che su questo punto, come su tutti gli altri, «il sistema» metteva fine a tutti i dubbi ed eliminava tutte le anomalie. Nessuno sembrava avere la minima idea che si potesse prendere in considerazione qualche altro sistema se non il sistema. Mentre andavamo lungo i magnifici corridoi, domandai al signor Creakle e ai suoi amici quali si supponesse che fossero i principali vantaggi di questo universale sistema che tutto dirigeva e su tutto predominava. Mi fu detto che consistevano nel perfetto isolamento dei prigionieri - tale che nessuno di coloro ivi detenuti sapeva nulla degli altri, - e nel loro ritorno a un sano stato mentale che li portava alla contrizione e al pentimento. Fui dunque colpito, quando cominciammo a visitare individui nelle loro celle, e a percorrere i corridoi su cui queste celle si affacciavano, e ci fu spiegato il modo in cui essi andavano in chiesa e così via, dal fatto che, con ogni probabilità, i detenuti sapevano parecchie cose l'un dell'altro e praticavano un completo sistema di comunicazioni. Questo, al momento in cui scrivo, credo che sia stato dimostrato; ma, poiché allora sarebbe stata un'evidente bestemmia contro il sistema accennare a un simile sospetto, mi misi a cercare il pentimento con tutta la diligenza che potei. E anche qui ebbi parecchi dubbi. Nelle forme del pentimento mi accorsi che prevaleva una moda simile a quella che avevo lasciato fuori della prigione quanto alle forme delle giacche e dei panciotti esposti nelle vetrine dei sarti. Trovai un gran mucchio di professionisti che variavano assai poco nel carattere e assai poco (cosa che mi parve singolarmente sospetta) nelle stesse parole. Trovai una gran quantità di volpi che disprezzavano interi vigneti di inaccessibili uve; ma ben poche volpi trovai a cui avrei messo un solo grappolo a portata di mano. Soprattutto mi accorsi che i più abili professionisti eran quelli che suscitavano il maggiore interesse, e che la loro presunzione, la loro vanità, la loro mancanza di vitalità e il loro amore per l'inganno (che molti di loro possedevano in misura quasi incredibile, come le loro storie dimostravano) tutto li spingeva a questo professionismo e ne erano tutti compiaciuti. Comunque, nel corso dei nostri andirivieni, sentii parlare con tanta insistenza di un certo numero Ventisette, che era il favorito e appariva veramente come un prigioniero modello, che decisi di sospendere ogni giudizio finché questo Ventisette non mi fosse dinanzi. Capii che anche il Ventotto era una stella di prima grandezza; ma per sua disgrazia la sua gloria restava un po' oscurata dallo straordinario lustro del Ventisette. Udii tante cose sul Ventisette, dei suoi pii ammonimenti a tutti quelli che lo circondavano e delle belle lettere che continuamente scriveva a sua madre (che lui considerava avviata per una via molto brutta), da divenire decisamente impaziente di vederlo. Dovetti reprimere la mia impazienza per un bel po', perché il Ventisette era tenuto in serbo per l'effetto finale. Ma giungemmo infine alla porta della sua cella; e il signor Creakle, guardando attraverso un piccolo spiraglio che vi era, ci riferì, in uno stato della più profonda ammirazione, che stava leggendo un libro di Inni. Ci fu immediatamente un tale precipitarsi di teste a guardare il numero Ventisette intento a leggere il libro di Inni, che lo spiraglio fu bloccato da uno strato di sei o sette teste. Per rimediare a questo inconveniente e per darci l'opportunità di conversare con il Ventisette in tutta la sua purezza, il signor Creakle ordinò di aprire la porta della sua cella e di invitare il detenuto a uscire nel corridoio. Così fu fatto. E chi ci trovammo a riconoscere, Traddles e io, con nostro sbigottimento, in questo convertito numero Ventisette, se non Uriah Heep? Ci riconobbe subito; e, appena uscito, ci disse con l'antica contorsione: «Come state, signor Copperfield? Come state, signor Traddles?» Questo riconoscimento provocò una generale ammirazione nel gruppo. Sarei propenso a pensare che ognuno fu colpito dall'assenza di ogni superbia in lui nel rivolgerci la sua attenzione. «Bene, Ventisette,» disse il signor Creakle ammirandolo tristemente. «Come vi sentite, oggi?» «Sono molto umile, signore!» rispose Uriah Heep. «Lo siete sempre, Ventisette,» disse il signor Creakle. Qui un altro signore chiese con estrema ansietà: «Vi sentite completamente a vostro agio?» «Sì, grazie, signore!» rispose Uriah Heep guardando in quella direzione. «Molto più a mio agio qui di quanto sia mai stato là fuori. Adesso vedo le mie follie, signore. E questo mi fa sentire a mio agio.» Parecchi di quei signori erano molto commossi; e un terzo interrogante, spingendosi a fatica in primo piano, chiese con profondo sentimento: «Come trovate la razione di bue?» «Grazie, signore,» rispose Uriah dando un'occhiata verso la nuova direzione della voce, «ieri era più dura di quanto desiderassi, ma è mio dovere sopportare. Ho commesso delle follie, signori,» disse Uriah guardandosi attorno con un mite sorriso, «e devo subirne le conseguenze senza lamentarmi.» Essendosi levato un mormorìo, in parte di soddisfazione per il celestiale stato mentale del Ventisette e in parte di sdegno per il fornitore che gli aveva dato motivi di lamentela (del che il signor Creakle prese immediatamente nota), lo stesso Ventisette rimase dritto in mezzo a noi come se si sentisse il principale oggetto di importanza in un museo altamente importante. Affinché noi, neofiti, fossimo avvolti in massa da un rovescio di luce, fu dato ordine di fare uscire il Ventotto. Ero già stato tanto stupito che provai solo un senso di rassegnata meraviglia quando venne fuori il signor Littimer leggendo un libro edificante! «Ventotto,» disse un signore con gli occhiali che non aveva ancora aperto bocca, «la settimana scorsa, mio buon amico, vi siete lagnato del cacao. Come è stato, in seguito?» «Grazie, signore,» disse il signor Littimer, «è stato fatto meglio. Se posso prendermi la libertà di dirlo, signore, non credo che il latte nel quale è bollito sia veramente genuino; ma mi rendo conto, signore, che a Londra il latte è molto adulterato e che è difficile ottenerlo allo stato puro.» Mi parve che il signore con gli occhiali sostenesse il suo Ventotto contro il Ventisette del signor Creakle, perché ognuno di loro prese in pugno il suo campione. «Quali sono le vostre condizioni di spirito, Ventotto?» chiese l'interrogante con gli occhiali. «Grazie, signore,» rispose il signor Littimer; «adesso vedo le mie follie, signore. Mi sento molto turbato quando penso alle colpe dei miei antichi compagni, signore; ma confido che possano trovare perdono.» «E voi siete veramente felice?» disse l'interrogante annuendo in modo incoraggiante. «Vi sono molto obbligato, signore,» rispose il signor Littimer. «Perfettamente felice.» «Non vi è nulla, adesso, che vi pesi sull'animo?» chiese l'interrogante. «Se vi è, ditelo, Ventotto.» «Signore,» disse il signor Littimer senza alzare lo sguardo, «se i miei occhi non mi hanno ingannato, vi è qui presente un signore che mi conobbe nella mia vita di un tempo. Può recar giovamento a questo signore sapere che io attribuisco le mie trascorse follie interamente all'aver vissuto una vita spensierata al servizio di giovani; e all'essermi concesso di lasciarmi trascinare da loro in debolezze a cui non ebbi la forza di resistere. Spero che questo signore accolga l'ammonimento, signore, e non si offenda della libertà che mi prendo. È per il suo bene. Per quel che mi riguarda, mi rendo conto delle mie passate follie. Spero che egli possa pentirsi di tutto il male e di tutto il peccato a cui ha preso parte.» Notai che parecchi signori si coprivano gli occhi ognuno con una mano, come se fossero appena entrati in chiesa. «Questo vi fa onore, Ventotto,» rispose l'interrogante. «Me lo aspettavo da voi. C'è altro?» «Signore,» riprese il signor Littimer alzando le sopracciglia, ma non gli occhi, «c'era una giovane caduta in vita dissoluta, che io cercai di salvare ma non riuscii a redimere. Prego questo signore, se può farlo, di far sapere a quella giovane da parte mia che io le perdono la sua cattiva condotta verso di me e che la invito a pentirsi... se egli vorrà essere così buono.» «Non dubito, Ventotto,» rispose l'interrogante, «che il signore a cui vi riferite non senta intimamente - come tutti noi - quello che avete detto così bene. Non vi tratterremo oltre.» «Grazie, signore,» disse il signor Littimer. «Signori, vi auguro una buona giornata con la speranza che anche voi e le vostre famiglie scorgiate le vostre colpe e ne facciate ammenda.» Così dicendo il numero Ventotto si ritirò dopo aver scambiato uno sguardo con Uriah come se non fossero del tutto sconosciuti l'uno all'altro grazie a qualche mezzo di comunicazione; e, quando la porta della sua cella si chiuse dietro di lui, passò per tutto il gruppo un mormorìo che egli era un uomo rispettabilissimo e rappresentava un magnifico caso. «E adesso, Ventisette,» disse il signor Creakle iniziando una nuova scena con il suo campione, «c'è qualcosa che qualcuno possa fare per voi? Se è così, ditelo.» «Vorrei umilmente chiedervi, signore,» rispose Uriah con uno scatto della sua testa maligna, «la licenza di scrivere ancora alla mamma.» «Vi sarà certamente concessa,» disse il signor Creakle. «Grazie, signore! Sono molto in ansia per la mamma. Temo che non sia salva.» Qualcuno chiese incautamente: «Salva da che cosa?» Ma fu zittito da un mormorìo scandalizzato. «Salva per l'eternità, signore,» rispose Uriah contorcendosi in direzione della voce. «Vorrei che la mamma fosse nella mia condizione. Non sarei mai giunto alla mia condizione attuale se non fossi venuto qui. Vorrei che anche la mamma fosse venuta qui. Sarebbe meglio per tutti se fossero presi e portati qui.» L'espressione di questo sentimento diede una soddisfazione illimitata, più grande, credo, di ogni altra precedente. «Prima di venir qui,» continuò Uriah lanciandoci uno sguardo furtivo, quasi avesse voluto annichilire il mondo esterno a cui appartenevamo, se avesse potuto, «io ero dedito alle follie; ma adesso di quelle follie mi rendo conto. C'è molto peccato, fuori di qui. C'è molto peccato nella mamma. Non c'è altro che peccato dappertutto... eccetto qui.» «Siete veramente mutato?» chiese il signor Creakle. «Oh buon Dio, sì, signore!» gridò questo promettente convertito. «E non ricadreste se vi capitasse di uscire?» chiese qualche altro. «Oh buon Dio, no, signore!» «Bene!» disse il signor Creakle, «questo è molto confortante. Vi siete rivolto al signor Copperfield, Ventisette. Desiderate dirgli ancora qualche cosa?» «Voi mi avete conosciuto molto prima che io venissi qui e mi trasformassi, signor Copperfield,» disse Uriah guardandomi; e non vidi mai, nemmeno sul suo volto, uno sguardo più malvagio. «Mi avete conosciuto quando, nonostante le mie follie, ero umile fra gli orgogliosi e mite fra i violenti... voi stesso siete stato violento con me, signor Copperfield. Una volta mi avete dato uno schiaffo, lo sapete.» Commiserazione generale. Vari sguardi sdegnati diretti a me. «Ma vi perdono, signor Copperfield,» riprese Uriah facendo del suo perdono il soggetto del più empio e pauroso dei paragoni, che non voglio ricordare. «Perdono a tutti. Non si addirebbe a me portar rancore. Vi perdono liberamente e spero che nel futuro saprete dominare le vostre passioni. Spero che il signor W. si pentirà, e anche la signorina W. e tutti di quel gruppo peccaminoso. Voi siete stato visitato dal dolore, e spero che vi faccia bene; ma vi farebbe meglio venir qui. Anche al signor W. farebbe meglio venir qui, e così pure alla signorina W. Il miglior augurio che possa farvi, signor Copperfield, e a voi tutti, signori, è che possiate essere presi e portati qui. Se penso alle mie passate follie e al mio stato presente, ho la sicurezza che sarebbe la miglior cosa per voi. Tutti quelli che non sono stati portati qui mi fanno compassione.» Tornò a guizzare nella sua cella tra un piccolo coro di approvazione; e tanto Traddles che io provammo un gran sollievo quando vi fu rinchiuso. V'era in questo pentimento un aspetto così caratteristico che fui costretto a chiedere che cosa avessero fatto quei due per trovarsi lì. Sembrava essere l'ultima cosa sulla quale avessero alcun che da dire. Mi rivolsi a uno dei due secondini, i quali, da quanto potei sospettare per certe furtive espressioni del loro volto, sapevano perfettamente quel che valeva tutta quella montatura. «Conoscete,» chiesi mentre andavamo lungo il corridoio, «in quale reato consistesse l'ultima ‹follia› nel numero Ventisette?» La risposta fu che si trattava di un colpo in banca. «Una frode ai danni della Banca d'Inghilterra?» chiesi. «Sì, signore. Frode, falso e associazione a delinquere. Lui e alcuni altri. Lui aveva istigato gli altri. Era un piano astuto, per una grossa somma. Sentenza: deportazione a vita. Il Ventisette era l'uccello più accorto della congrega e per poco non si mise in salvo; ma non ci riuscì. La Banca fece in tempo a mettergli il sale sulla coda... ma proprio all'ultimo momento.» «E conoscete il reato del numero Ventotto?» «Il Ventotto,» rispose il mio informatore parlando a voce bassissima e guardandosi al di sopra della spalla mentre andavamo giù per il corridoio per assicurarsi di non essere udito da Creakle e dagli altri in questo suo indebito riferimento ai due immacolati, «il Ventotto (anche lui deportazione) si trovò un posto e derubò il suo giovane padrone di qualche cosa come duecentocinquanta sterline in contanti e valori, la notte prima che partissero per l'estero. Ricordo particolarmente questo caso perché lui fu acchiappato da una nana.» «Da chi?» «Da una donnetta piccola piccola. Ho dimenticato il suo nome.» «Mowcher, per caso?» «Proprio così! Aveva eluso ogni ricerca e stava per andarsene in America con parrucca e favoriti biondi e un travestimento così completo che non ne avete mai visto un altro in vita vostra; quando la donnetta, trovandosi a Southampton, lo incontrò che passeggiava per le strade... lo beccò in un attimo col suo occhio acuto... gli corse fra le gambe per farlo cadere... e si aggrappò a lui come un demonio.» «Brava signorina Mowcher!» esclamai. «Lo avreste detto se l'aveste vista, come l'ho vista io, al processo, ritta su una sedia nel banco dei testimoni,» rispose il mio compagno. «Lui le aveva spaccato la faccia e l'aveva percossa nel modo più brutale quando era stato acciuffato; ma lei non lasciò la presa finché non l'ebbero ammanettato. In realtà gli si aggrappò in tal modo che gli agenti furono costretti a prenderli su insieme. Diede la sua testimonianza con il più bollente coraggio, e fu altamente complimentata dal tribunale e accompagnata da acclamazioni fino a casa sua. Disse in tribunale che (dato quello che sapeva di lui) si sarebbe sentita capace di imprigionarlo con una mano sola anche se fosse stato Sansone. E a parer mio lo avrebbe fatto.» Era anche il mio parere, e rispettai moltissimo la signorina Mowcher per questo. Avevamo ormai visto tutto quello che c'era da vedere. Sarebbe stato inutile dimostrare a un uomo quale l'onorevole signor Creakle che il Ventisette e il Ventotto erano perfettamente coerenti con se stessi e immutati, che erano sempre stati esattamente quello che erano, che quegli ipocriti furfanti erano i soggetti più adatti per fare quel genere di esibizioni in un luogo simile, che ne conoscevano il valore commerciale almeno quanto noi per i vantaggi immediati che ne avrebbero tratto quando fossero espatriati: in una parola che tutto era una disgustosa, inutile e penosa suggestione. Li lasciammo a loro stessi e al loro sistema e ce ne tornammo a casa perplessi. «Forse, caro Traddles,» dissi, «è meglio lasciare che un cattivo cavallo galoppi all'impazzata; perché così farà prima a galoppare fino a scoppiare.» «Lo spero anch'io,» disse Traddles. LXII • BRILLA UNA LUCE SULLA MIA STRADA L'anno giunse al periodo natalizio, e io ero in patria da oltre due mesi. Avevo spesso visto Agnes. Per quanto alta potesse essere la voce pubblica nell'incoraggiarmi, e per quanto fervidi fossero le emozioni e gli sforzi a cui mi incitava, ascoltavo le sue più lievi parole di lode come niente altro. Almeno una volta la settimana, e talora più spesso, cavalcavo fin là e passavo con lei la serata. Di solito tornavo di notte, perché adesso l'antico senso di infelicità rimaneva sempre sospeso su di me - tanto più penosamente quando la lasciavo - ed ero lieto di essere in piedi e all'aperto piuttosto che rievocare il passato in stanche veglie o miserabili sogni. In queste galoppate consumavo la maggior parte di tante notti tristi e selvagge, ravvivando, nella corsa, i pensieri che mi avevano occupato durante la mia lunga assenza. O, se dicessi piuttosto che ascoltavo gli echi di quei pensieri, esprimerei meglio la verità. Essi mi parlavano da molto lontano. Io li avevo tenuti a distanza e avevo accettato il mio posto inevitabile. Quando leggevo ad Agnes quello che avevo scritto, quando osservavo il suo volto attento, e la inducevo al sorriso o alle lacrime, e udivo la sua voce cordiale parlarmi seriamente sui labili eventi di quel mondo immaginario in cui vivevo, pensavo a quale destino era stato il mio... ma lo pensavo soltanto, così come avevo pensato, dopo avere sposato Dora, quale avrei potuto desiderare che fosse mia moglie. Il mio dovere verso Agnes, la quale mi amava di un amore che, se lo avessi turbato, lo avrei ferito nel modo più egoistico e misero senza più farlo rivivere; e la mia maturata sicurezza che, dopo essermi fabbricato con le mie mani il mio destino e avere ottenuto quello a cui il mio cuore si era impetuosamente rivolto, non avevo il diritto di lamentarmi e dovevo solo sopportare, includevano tutto ciò che sentivo e ciò che avevo imparato. Ma l'amavo; e adesso divenne addirittura una consolazione per me immaginare vagamente il giorno lontano in cui avrei potuto confessarglielo senza biasimo; quando tutto questo fosse passato; quando avrei potuto dire: «Agnes, così era quando tornai in patria; e adesso sono vecchio, e da allora non ho più amato!» Nemmeno una volta ella mi palesò alcun cambiamento in se stessa. Era ancora quello che era sempre stata per me, del tutto immutata. Fra mia zia e me vi era stata in proposito, fin dalla notte del mio ritorno, qualche cosa che non potrei chiamare un ritegno o un desiderio di evitare l'argomento, in quanto implicava l'intesa che entrambi vi pensavamo insieme, ma senza esprimere i nostri pensieri in parole. Quando, secondo la vecchia abitudine, sedevamo a sera davanti al fuoco, spesso cadevamo in questo flusso di idee: con la stessa naturalezza e reciproca consapevolezza che se ce lo avessimo detto senza riserve. Ma restavamo in assoluto silenzio. Credo che ella avesse letto, o letto in parte, i miei pensieri di quella sera, e che comprendesse pienamente perché non davo loro più precisa espressione. Venuto il periodo di Natale, e poiché Agnes non mi aveva fatta alcuna nuova confidenza, prese ad angustiarmi penosamente un dubbio che avevo avuto parecchie volle: se cioè ella non avesse percepito il vero stato del mio cuore e fosse trattenuta dalla tema di darmi un dolore. Se era così, il mio sacrificio diveniva inutile; i miei più semplici obblighi verso di lei rimanevano inadempiuti; e ogni povera azione da cui avevo rifuggito la compivo a ogni momento. Decisi di mettere in chiaro tutto questo al di là di ogni dubbio, e, se c'era fra noi una tale barriera, di abbatterla a un tratto con mano decisa. Era - e che solida ragione ho per ricordarlo! - un freddo, rigido giorno d'inverno. Qualche ora prima era caduta la neve, che adesso giaceva non spessa ma gelata al suolo. Sul mare, oltre la mia finestra, soffiava un aspro vento del nord. Me l'ero immaginato spazzare quei montani deserti di neve della Svizzera, allora inaccessibili a ogni piede umano; e avevo meditato se fossero più solitarie quelle regioni inabitate o il deserto oceano. «Esci a cavallo, Trot, quest'oggi?» chiese la zia affacciandosi alla porta. «Sì,» risposi, «vado a Canterbury. È una buona giornata per una galoppata.» «Spero che pensi così anche il tuo cavallo,» disse la zia; «ma in questo momento se ne sta con la testa e le orecchie basse davanti all'ingresso, come se preferisse la sua stalla.» Noterò che la zia concedeva al mio cavallo il terreno proibito, ma non si era per nulla mitigata quanto agli asini. «Si ravviverà subito!» risposi. «A ogni modo la cavalcata farà bene al suo padrone,» osservò la zia dando un'occhiata alle carte che avevo sul tavolo. «Ah, ragazzo mio, passi un bel po' di ore qui sopra. Non ho mai pensato, quando leggevo i libri, che fatica fosse scriverne uno.» «A volte è già una fatica leggerli,» ribattei. «Quanto allo scriverli, zia, ha un suo fascino.» «Ah! capisco!» disse. «L'ambizione, l'amore delle lodi, la simpatia e tante altre cose, suppongo. Bene, affrettati!» «Non hai saputo altro,» chiesi standole tranquillo dinanzi - lei mi aveva battuto sulla spalla e si era seduta nella mia poltrona - «su quell'inclinazione di Agnes?» Tenne per un poco gli occhi alzati sul mio volto prima di rispondere: «Credo di sì, Trot.» «E ti sei confermata nella tua impressione?» domandai. «Credo di sì, Trot.» Mi guardò così fissa, con una sorta di dubbio, di pietà e di ansia nel suo affetto, che io feci appello a tutte le mie più forti decisioni per mostrarle un volto perfettamente sereno. «E quel che è più, Trot...» disse la zia. «Sì?» «Credo che Agnes stia per sposarsi.» «Dio la benedica!» esclamai gaiamente. «Dio la benedica!» ripeté la zia, «e anche il suo sposo!» Io le feci eco, mi congedai da lei, scesi leggero al pianterreno, montai a cavallo e galoppai via. C'erano ancora più ragioni di prima per fare quello che avevo deciso di fare. Come ricordo bene quella galoppata invernale! Le sottili schegge di ghiaccio strappate dal vento ai fili d'erba, che mi colpivano in faccia; il secco scalpito degli zoccoli del cavallo, che battevano in cadenza sul suolo; il terreno smosso e indurito; la neve accumulata che turbinava leggermente nella cava, agitata dal vento; la pariglia fumante col suo carro di fieno vecchio, ferma a prender fiato sul sommo della collina scuotendo musicalmente i suoi sonagli; le bianche chine e le curve del Downland stagliate contro un cielo cupo come se fossero disegnate su di un'immensa lavagna! Trovai Agnes sola. Le bambine erano tornate alle loro case, e adesso era presso il fuoco, sola, intenta a leggere. Depose il libro nel vedermi entrare, e, dopo avermi salutato come al solito, prese il suo cestino da lavoro e si sedette nel vano di una delle antiche finestre. Io sedetti al suo fianco e parlammo di ciò che stavo facendo, e di quando lo avrei finito, e del progresso che avevo fatto dopo la mia ultima visita. Agnes era molto allegra; e ridendo mi predisse che presto sarei divenuto troppo famoso perché mi si potesse parlare di questi argomenti. «Così,» disse Agnes, «cerco di approfittare del presente e te ne parlo finché posso farlo.» Mentre guardavo il suo bel volto intento al lavoro, ella alzò i dolci e limpidi occhi e si accorse che stavo osservandola. «Sei pensieroso, quest'oggi, Trotwood!» «Agnes, devo dirti perché? Sono venuto per questo.» Depose il lavoro, come era solita fare quando parlavamo seriamente di qualche cosa, e mi rivolse tutta la sua attenzione. «Mia cara Agnes, hai dubbi sulla mia sincerità verso di te?» «No!» rispose con uno sguardo stupito. «Non dubiti che sono per te quello che sono sempre stato?» «No!» ripeté come prima. «Ricordi che tentai di dirti, quando tornai in patria, quale debito di gratitudine ti dovevo, cara Agnes, e come fosse fervido il mio sentimento per te?» «Lo ricordo benissimo,» disse lei dolcemente. «Tu hai un segreto,» ripresi. «Lascia che ne abbia parte, Agnes.» Abbassò gli occhi e tremò. «Difficilmente avrei potuto fare a meno di accorgermi, anche se non lo avessi saputo - ma da altre labbra che dalle tue, Agnes, e mi è sembrato strano - che c'è qualcuno a cui hai concesso il tesoro del tuo amore. Non escludermi da ciò che riguarda così da vicino la tua felicità! Se hai fiducia in me come dici di averne e come so, permettimi di essere tuo amico, tuo fratello, in questo argomento più che in ogni altro!» Con uno sguardo supplice e quasi di rimprovero, ella si alzò dal sedile della finestra; e camminando agitata per la stanza come se non sapesse dove andare, si mise le mani davanti al volto e scoppiò in lacrime tali da colpirmi il cuore. E tuttavia quelle lacrime risvegliarono in me qualche cosa portandomi nel cuore una promessa. Senza che sapessi perché, esse si alleavano al calmo e triste sorriso che era così fissato nel mio ricordo e mi mostravano piuttosto una speranza che pena o timore. «Agnes! Sorella mia! Carissima! Che cosa ho fatto?» «Lasciami andare, Trotwood. Non mi sento bene. Non mi sento più in me. Ti parlerò più tardi... in un altro momento. Ti scriverò. Adesso non parlarmi. No! No!» Cercai di ricordarmi quello che aveva detto, quando le avevo parlato quella sera, del suo affetto che non richiedeva compenso. Mi sembrava di dovere esplorare un intero mondo in un attimo. «Agnes, non posso sopportare di vederti così sapendo che sono io la causa. Mia cara fanciulla, a me più cara di qualsiasi altra cosa, lascia che partecipi alla tua infelicità. Se hai bisogno di aiuto o di consiglio, permettimi di tentare di dartene. Se hai davvero un peso sul cuore, permettimi di tentare di alleggerirlo. Per chi vivo adesso, Agnes, se non per te?» «Oh, risparmiami! Non sono più in me! Un'altra volta!» fu tutto ciò che riuscii a distinguere. Era forse un errore egoistico che mi faceva smarrire? O, grazie a un filo di speranza, si dischiudeva a me qualche cosa a cui non avevo osato pensare? «Devo dire di più. Non posso permettere che tu mi lasci così. Per amor del cielo, Agnes, non lasciare che vi siano malintesi fra noi dopo tutti questi anni e dopo tutto ciò che è venuto e andato con essi! Devo parlare chiaramente. Se tu hai anche il minimo pensiero che io possa invidiare la felicità che darai; che io non sia capace di affidarti a un protettore più caro da te scelto; che io non possa, dal mio posto appartato, essere un testimone contento della tua gioia, toglitelo di mente, perché non lo merito! Non ho sofferto invano. E tu non mi hai insegnato invano tante cose. Non c'è nulla di egoistico in quello che sento per te.» Adesso si era calmata. Poco dopo volse a me il pallido volto e disse a voce bassa, qua e là spezzata ma molto chiara: «Trotwood, devo alla tua pura amicizia per me - su cui davvero non ho dubbi - dirti che ti sbagli. Non posso fare di più. Spesso, nel corso degli anni, ho avuto bisogno di aiuto e di consigli, e mi sono venuti. Spesso sono stata infelice, ma questo sentimento è passato. Se ho mai avuto un peso sul cuore, mi è stato alleggerito. Se ho mai avuto un segreto, è... un segreto non nuovo; ed è... diverso da quello che supponi. Non posso rivelarlo né condividerlo. È stato mio per lungo tempo e deve rimanere mio.» «Agnes! Fermati! Un momento!» Stava per allontanarsi ma la trattenni. Le strinsi forte il braccio attorno alla vita. «Nel corso degli anni!» «Un segreto non nuovo!» Nuovi pensieri e speranze mi turbinavano nella mente, e tutti i colori della mia vita stavano mutando. «Carissima Agnes! Che rispetto e onoro tanto... che amo così devotamente! Oggi, quando sono venuto qui, pensavo che nulla mi avrebbe strappato questa confessione. Pensavo che avrei potuto chiuderla nel mio cuore per tutto il corso delle nostre vite, finché non fossimo vecchi. Ma, Agnes, se ho davvero qualche nascente speranza di poterti mai chiamare con un nome che sia più che sorella, molto diverso da sorella...!» Abbondanti caddero le sue lacrime, ma non erano come quelle che aveva versato poco prima, ed io vidi in esse brillare la speranza. «Agnes! Mia guida di sempre, il mio miglior sostegno! Se tu avessi pensato più a te stessa e meno a me, quando crescevamo insieme, credo che la mia distratta fantasia non si sarebbe mai allontanata da te. Ma eri tanto migliore di me, così necessaria a me in tutte le mie speranze e delusioni fanciullesche, che averti come confidente e come appoggio in tutto divenne per me una seconda natura, tale da prendere il posto per tanto tempo della prima e più grande di amarti come ti amo!» Piangeva sempre, ma non di tristezza... di gioia! Ed era stretta fra le mie braccia come mai era stata, come credevo che non sarebbe stata mai! «Quando amavo Dora... appassionatamente, Agnes, e lo sai...» «Sì!» esclamò con ardore. «Sono felice di saperlo!» «Quando l'amavo... anche allora il mio amore sarebbe stato incompleto senza la tua simpatia. L'avevo, ed era una cosa perfetta. E quando la persi, Agnes, che cosa sarei stato senza di te?» Sempre più stretta fra le mie braccia, sempre più vicina al mio cuore, la sua mano tremante sulla mia spalla, i suoi dolci occhi brillanti fra le lacrime davanti ai miei. «Partii, cara Agnes, amandoti. Sono stato lontano amandoti. Sono tornato in patria amandoti!» E adesso tentai di dirle la lotta che avevo sostenuto e la conclusione a cui ero giunto. Tentai di metterle dinanzi il mio animo, sinceramente e completamente. Tentai di mostrarle come avessi sperato di avere raggiunto una miglior conoscenza di me stesso e di lei; come mi fossi rassegnato a quello che questa più profonda conoscenza comportava; e come fossi venuto lì, quel giorno stesso, fedele al mio proposito. Se mi amava tanto (dissi) da potermi prendere come marito, poteva farlo, sebbene non ne fossi meritevole, solo per la sincerità del mio amore e per il dolore in cui ero maturato per divenire quello che ero; e per questo glielo rivelavo. E, oh, Agnes, anche dai tuoi occhi sinceri, in quel momento stesso, lo spirito della mia moglie-bambina mi guardava dicendomi che era bene e inducendomi, attraverso di te, ai più dolci ricordi del Fiorellino che era appassito nel suo sbocciare. «Sono felice, Trotwood... il mio cuore è così colmo... ma c'è una cosa che devo dirti.» «Quale, carissima?» Posò le sue mani gentili sulle mie spalle e mi guardò in volto serena. «Sai già qual è?» «Ho paura di pensarci. Dimmelo tu, cara.» «Ti ho amato per tutta la vita.» Oh, eravamo felici, eravamo felici! Le nostre lacrime non sgorgavano per le prove (le sue molto più dure) attraverso le quali eravamo giunti a esserlo, ma per il rapimento di esserlo e di non poter essere più divisi! In quella sera invernale camminammo insieme per i campi; e la benedetta pace che era in noi sembrava essere partecipata dall'aria gelida. Le prime stelle cominciarono a splendere mentre andavamo vagando, e, alzando a esse lo sguardo, ringraziammo Dio per averci guidati a quella serenità. La sera, quando s'illuminò la luna, sedemmo insieme nel vano dell'antica finestra: Agnes con i suoi occhi tranquilli levati verso l'alto; io seguendo il suo sguardo. Lunghe miglia di strada mi si aprirono allora davanti alla mente; e, avanzando a fatica, vidi un bambino cencioso e stremato dal cammino, abbandonato e negletto, che sarebbe perfino giunto a chiamar suo il cuore che adesso batteva contro il mio. Il giorno dopo, era quasi l'ora di pranzo quando comparimmo davanti alla zia. Era nel mio studio, ci disse Peggotty, che era fiera di tenerlo sempre pronto e in ordine per me. La trovammo, con gli occhiali inforcati, seduta accanto al fuoco. «Bontà divina!» esclamò la zia scrutando nel crepuscolo, «chi è che mi porti in casa?» «Agnes,» dissi io. Poiché avevamo stabilito di non dir nulla dapprima, la zia fu non poco sconcertata. Mi lanciò uno sguardo pieno di speranza quando dissi «Agnes»; ma, vedendo che avevo il solito aspetto, si tolse disperata gli occhiali e si grattò con essi il naso. Nondimeno salutò cordialmente Agnes; e subito ci trovammo a tavola nel salotto illuminato al pianterreno. La zia si mise gli occhiali due o tre volte per guardarmi ancora, ma se li tolse per altrettante, delusa, usandoli per grattarsi il naso. Con grande inquietudine del signor Dick, che sapeva come fosse questo un brutto segno. «A proposito, zia,» dissi dopo pranzo; «ho parlato ad Agnes di ciò che mi hai detto.» «Be', Trot,» esclamò la zia divenendo scarlatta, «hai fatto male e sei venuto meno alla tua promessa.» «Non sarai mica arrabbiata, zia, voglio sperare? E non lo sarai certo quando saprai che Agnes non è affatto infelice per ragioni sentimentali.» «Assurdità e sciocchezze!» esclamò la zia. Poiché appariva irritata, pensai che fosse meglio tagliar corto al suo corruccio. Trassi col braccio Agnes allo schienale della sua poltrona e ci chinammo insieme su di lei. La zia, con un batter di mani e uno sguardo attraverso gli occhiali, cadde immediatamente in una crisi isterica per la prima e unica volta da quando la conoscevo. L'accesso richiamò Peggotty. Appena tornata in sé, la zia si precipitò su Peggotty e, chiamandola vecchia sciocca, la strinse con tutte le sue forze. Dopo di che strinse il signor Dick (che ne fu altamente onorato ma alquanto sorpreso); e infine spiegò loro perché. E allora fummo felici tutti insieme. Non riuscii a sapere se la zia, nell'ultima sua breve conversazione con me, fosse ricorsa a una pia frode o se realmente si fosse ingannata sul mio stato d'animo. Era più che sufficiente, disse, l'avermi detto che Agnes stava per sposarsi, cosa che adesso sapevo meglio di tutti quanto fosse vera. Una quindicina di giorni dopo, eravamo sposati. Traddles e Sophy, il dottore e la signora Strong furono i soli invitati al nostro semplice matrimonio. Li lasciammo pieni di gioia e partimmo insieme in carrozza. Tenevo stretta fra le mie braccia la sorgente di ogni degna aspirazione che abbia mai avuto, il centro di me stesso, il cerchio della mia vita, la mia cara, mia moglie; il mio amore per lei era fondato sulla roccia! «Marito carissimo!» disse Agnes. «Adesso che posso chiamarti con questo nome, ho ancora una cosa da dirti.» «Sentiamola, amore.» «Nasce dalla notte in cui Dora morì. Lei ti mandò a chiamarmi.» «Sì.» «Mi disse che mi lasciava qualche cosa. Puoi immaginare che cosa era?» Pensavo di sì. Trassi ancor più stretta al mio fianco la moglie che mi aveva così a lungo amato. «Mi disse che mi faceva un'ultima richiesta e mi lasciava un ultimo compito.» «Ed era...?» «Che solo io occupassi il posto rimasto vuoto.» Agnes mi posò la testa sul petto e pianse; e io piansi con lei sebbene fossimo tanto felici. LXIII • UN VISITATORE Ciò che mi sono proposto di raccontare è quasi finito; ma vi è ancora nella mia memoria un avvenimento importante, sul quale spesso mi soffermo con piacere, e senza il quale un filo della tela che ho tessuto rimarrebbe interrotto. Ero andato avanti nella fama e nella fortuna, la mia gioia domestica era perfetta, ero sposato da dieci anni felici. Agnes e io sedevamo presso il fuoco, nella nostra casa di Londra, una sera di primavera, e tre dei nostri bambini giocavano nella sala, quando mi fu annunciato che uno sconosciuto desiderava vedermi. Gli avevano domandato se veniva per affari e aveva risposto di no; era venuto solo per il piacere di vedermi e giungeva di lontano. Era vecchio, disse la nostra domestica, e aveva l'aria di un campagnolo. Poiché tutto ciò appariva misterioso ai bambini, e somigliava inoltre all'inizio di una fiaba favorita che Agnes soleva raccontar loro, preambolo dell'arrivo di un malvagio mago tutto avvolto in un mantello, che odiava il mondo intero, vi fu una certa emozione. Uno di loro nascose la testa nel grembo della madre per mettersi al sicuro da ogni danno, e la piccola Agnes (la maggiore dei nostri figli) lasciò la sua bambola su di una sedia per rappresentarla, e sporse la minuta massa dei suoi riccioli dorati dalle tende delle finestre per vedere quello che sarebbe successo. «Fatelo entrare,» dissi. Apparve subito, fermandosi nella penombra della soglia, un solido vecchio dai capelli grigi. La piccola Agnes, attratta dal suo aspetto, era corsa a lui per farlo entrare, e io non lo avevo ancora chiaramente visto in volto quando mia moglie, balzando in piedi, mi gridò con voce lieta e trepidante che era il signor Peggotty. Era il signor Peggotty. Vecchio, adesso, ma in una rubiconda, sana e valida vecchiaia. Quando fu passata la prima emozione ed egli si fu seduto presso il fuoco con i bambini sulle ginocchia e il riflesso della fiamma che gli illuminava la faccia, mi apparve un vecchio vigoroso e robusto, vitale e bello come non avevo mai visto. «Signorino Davy,» disse. E l'antico nome nell'antico tono giunse così naturale al mio orecchio! «Signorino Davy, è proprio un'ora felice questa in cui vi vedo ancora una volta con la vostra fedele moglie!» «Proprio un'ora felice, vecchio amico!» esclamai. «E questi piccolini,» continuò il signor Peggotty. «Vedere questi fiori! Diamine, signorino Davy, eravate alto appena come il più piccolo quando vi vidi per la prima volta! Quando anche l'Emily era grande così e il nostro povero ragazzo era solo un ragazzo!» «Il tempo mi ha cambiato più di quanto non abbia cambiato voi da allora,» dissi. «Ma mandiamo a letto questi bricconcelli; e poiché nessuna casa d'Inghilterra se non questa deve ospitarvi, ditemi dove bisogna mandare a prendere il vostro bagaglio (mi domando se non ci sia anche la vecchia sacca nera che ha fatto tanta strada!) e poi, con un bicchiere di grog di Yarmouth, ci racconteremo le notizie di dieci anni!» «Siete solo?» chiese Agnes. «Sì, signora,» rispose lui baciandole la mano, «proprio solo.» Lo facemmo sedere fra noi, non sapendo come dargli un più cordiale benvenuto; e, mentre ascoltavo la sua vecchia voce familiare, avrei potuto immaginare che stesse ancora continuando il suo lungo viaggio in cerca della nipote diletta. «C'è troppa acqua da attraversare,» disse il signor Peggotty, «per trattenerci poi solo poche settimane. Ma l'acqua (specialmente quando è salata) è naturale per me; l'amicizia vale di più, ed eccomi quaggiù... che fa la rima,» aggiunse il signor Peggotty, sorpreso della sua scoperta, «sebbene non ne avessi avuto l'intenzione.» «E percorrerete ancora tante migliaia di miglia così presto?» chiese Agnes. «Sì, signora,» rispose. «L'ho promesso a Emily prima di partire. Vedete, io non ringiovanisco col passar degli anni, e, se non mi fossi messo in mare così com'ero, molto probabilmente non lo avrei fatto più. E ho sempre avuto in mente che dovevo venire a vedere il signorino Davy e la vostra fiorente bellezza, nella vostra felicità di sposi, prima di divenire troppo vecchio.» Ci guardò come se non riuscisse a gustare abbastanza il piacere di vederci. Agnes, ridendo, gli ravviò alcuni ricci arruffati dei suoi grigi capelli perché potesse osservarci meglio. «E adesso,» dissi, «raccontateci tutto sulle vostre vicende.» «Le nostre vicende, signorino Davy,» rispose, «sono presto raccontate. Non ci siamo dati da fare a casaccio, ma ci siamo dati da fare per prosperare. E abbiamo sempre prosperato. Abbiamo lavorato come si doveva, e forse da principio abbiamo vissuto un po' duramente, ma abbiamo sempre prosperato. Sia con l'allevamento delle pecore, sia con quello dei bovini, sia con una cosa, sia con un'altra ci troviamo bene quanto è possibile. Ci è caduta addosso una vera benedizione,» disse il signor Peggotty chinando reverenzialmente il capo, «e non abbiamo fatto altro che prosperare. Voglio dire nel complesso del tempo; se non ieri, oggi; se non oggi, domani.» «Ed Emily?» chiedemmo insieme Agnes e io. «Emily,» rispose, «dopo che la lasciaste, signora - e mai l'ho udita dir le sue preghiere, di sera, dall'altro lato del divisorio di tela, quando stavamo nella Macchia, senza sentire il vostro nome - e dopo che lei e io vedemmo scomparire il signorino Davy in quello splendido tramonto, si trovò dapprima così abbattuta che, se avesse saputo allora quello che il signorino Davy ci tenne nascosto con tanta bontà e previdenza, credo che sarebbe morta. Ma c'era a bordo della povera gente che aveva dei malati, e lei si prese cura di loro; e nella nostra compagnia c'erano i bambini, e lei si prese cura di loro; e così si trovò occupata ed ebbe da far del bene, e questo l'aiutò.» «E quando fu che seppe la cosa?» domandai. «Dopo che la ebbi saputa io,» rispose il signor Peggotty, «gliela tenni nascosta per circa un anno. Vivevamo allora in un luogo solitario ma tra bellissimi alberi e con le rose che ci coprivano la casa fino al tetto. Un giorno, mentre ero fuori a lavorare nei campi, arriva un viaggiatore dal nostro Norfolk, o dal Suffolk (non ricordo bene) e naturalmente lo ospitammo e gli demmo da mangiare e da bere facendogli buona accoglienza. Facciamo tutti così, in tutta la colonia. Aveva con sé un vecchio giornale e altri resoconti a stampa della burrasca. E così lei venne a saperlo. Quando tornai a casa, la sera, mi accorsi che lo sapeva.» Abbassò la voce nel dire queste parole, e la gravità che ricordavo così bene in lui gli si diffuse sul volto. «Ne fu molto colpita?» chiedemmo. «Sì, per molto tempo,» disse scuotendo la testa, «se non fino a oggi. Ma credo che la solitudine le abbia fatto bene. E poi doveva badare a tante cose, al pollame e così via, e se ne occupò, e superò tutto. Mi domando,» disse pensoso, «se poteste vedere adesso la mia Emily, signorino Davy, se la riconoscereste!» «È molto cambiata?» chiesi. «Non so. La vedo tutti i giorni e non mi accorgo; ma ogni tanto lo penso. Una figura sottile,» disse il signor Peggotty guardando il fuoco, «un po' consunta; occhi azzurri dolci e tristi; un volto delicato; una bella testa un po' chinata in giù; la voce e il portamento tranquillo... quasi timido. Questa è l'Emily!» Lo osservammo in silenzio mentre se ne stava seduto guardando il fuoco. «Alcuni pensano,» continuò, «che abbia avuto un affetto mal riposto; altri che la morte abbia spezzato il suo matrimonio. Nessuno sa quello che è avvenuto. Avrebbe potuto maritarsi bene un mucchio di volte ‹ma, zio,› mi dice, ‹sono cose andate per sempre.› È allegra con me; riservata quando ci sono altri; sempre pronta a recarsi a qualsiasi distanza per insegnare a un bambino, o per curare un malato, o per fare una gentilezza a una ragazza che si sposa (ne ha fatte tante, ma non ha mai assistito a un matrimonio); ama appassionatamente il suo zio; è paziente; benvoluta da giovani e vecchi; ricercata da tutti quelli che hanno dei crucci. Questa è l'Emily!» Si passò una mano sul volto e rimase a guardare il fuoco con un sospiro semisoffocato. «Martha è sempre con voi?» chiesi. «Martha,» rispose, «si è sposata dopo due anni, signorino Davy. Un giovane, un bracciante, passato presso di noi col carro del suo padrone per andare al mercato - un viaggio di più di cinquecento miglia tra andare e tornare - le offrì di prenderla in moglie (le mogli, laggiù, sono molto scarse), e poi sistemarsi in proprio, loro due, nella Macchia. Lei mi pregò di dirgli tutta la sua storia. Lo feci. Si sposarono e adesso vivono alcune centinaia di miglia lontani da ogni voce che non sia la loro o quella degli uccelli che cantano.» «La signora Gummidge?» suggerii. Quello era un tasto piacevole perché il signor Peggotty scoppiò subito in una risata tonante e si strofinò le mani su e giù per le gambe come era solito fare quando si rallegrava di qualche cosa nella barca da tanto tempo naufragata. «Lo credereste?» disse. «Qualcuno si è offerto di sposare anche lei! Se un cuoco di nave che si preparava a diventar pioniere, signorino Davy, non si è offerto di sposare la signora Gummidge, voglio essere impecionato... e di più non posso dire!» Non vidi mai Agnes ridere tanto. Quell'improvvisa esaltazione da parte del signor Peggotty era così divertente, che non riusciva a smettere di ridere, e tanto più rideva, tanto più faceva ridere me, e tanto maggiore diveniva l'esultanza del signor Peggotty e con tanto più vigore egli si strofinava le gambe. «E che cosa disse la signora Gummidge?» chiesi quando mi fui un po' rimesso. «Se volete credermi,» rispose il signor Peggotty, «la signora Gummidge, invece di dire: ‹grazie tante, vi sono molto obbligata, ma non intendo mutare la mia condizione alla mia età,› afferrò un bugliolo che aveva a portata e lo ficcò in testa a quel cuoco di nave finché quello si mise a gridare aiuto e io arrivai per liberarlo.» Il signor Peggotty esplose ancora in una risata tonante e Agnes e io gli facemmo coro. «Ma devo dir questo, di quella brava creatura,» riprese asciugandosi il volto quando ci sentimmo tutti esausti; «è stata per noi tutto quello che aveva detto e anche più. È la donna più volonterosa, più schietta, più onestamente attiva, signorino Davy, che abbia mai avuto fiato. Non l'ho più vista sola e derelitta per un sol minuto, nemmeno quando la colonia era tutta lì davanti a noi e noi non conoscevamo nessuno. E quanto al pensare al suo vecchio, non lo fece mai, ve lo assicuro, da quando lasciò l'Inghilterra!» «E adesso, ultimo ma non meno importante, il signor Micawber,» dissi. «Ha pagato tutte le obbligazioni che aveva contratto qui - perfino la cambiale di Traddles, ricordi, cara Agnes - e quindi consideriamo sicuro che si sia messo bene. Ma quali sono le sue ultime notizie?» Il signor Peggotty, sorridendo, si mise la mano nella tasca interna della giacca e ne trasse un pacchetto di carte ben ripiegate da cui tolse, con molta cura, un buffo giornaletto. «Dovete sapere, signorino Davy,» disse, «che adesso abbiamo lasciato la Macchia, dopo esserci ben sistemati; e siamo andati nella regione di Port Middlebay Harbour, dove c'è quella che noi chiamiamo una città.» «E il signor Micawber era nella Macchia vicino a voi?» chiesi. «Dio vi benedica, sì,» disse il signor Peggotty, «e si mise a lavorare di lena. Non credo di incontrare mai un signore che si metta al lavoro con maggiore entusiasmo. Ho visto quella sua testa calva sudare al sole, signorino Davy, tanto da farmi pensare che si sarebbe squagliata. E adesso è magistrato.» «Magistrato?» esclamai. Il signor Peggotty indicò un certo paragrafo nel giornale, il «Port Middlebay Times», dove io lessi ad alta voce quanto segue: «Il pubblico banchetto offerto al nostro distinto compagno di colonia e concittadino, EGREGIO SIGNOR WILKINS MICAWBER, magistrato del distretto di Port Middlebay, avvenne ieri nel salone dell'Albergo, affollato fino a soffocare. Si calcola che non meno di quarantasette persone si siano sedute a tavola insieme, eccettuando quelli che erano nel corridoio e sulle scale. La bellezza, l'eleganza e l'aristocrazia di Port Middlebay erano radunate per rendere onore a una personalità così meritatamente stimata, di così alto talento e di così vasta popolarità. Il dottor Mell (della Scuola Secondaria Coloniale Salem, Port Middlebay) presiedeva, e alla sua destra sedeva il distinto Ospite. Dopo che furono tolte le tovaglie e fu cantato il Non nobis (ottimamente eseguito, e nel quale non avemmo difficoltà a riconoscere le note argentine del dotato dilettante EGREGIO SIGNOR WILKINS MICAWBER JUNIOR), vennero specificatamente proposti ed entusiasticamente accolti i consueti franchi e patriottici brindisi. Il dottor Mell, dopo un discorso pieno di sentimento, brindò allora ‹Al nostro distinto Ospite, lustro della nostra città. Possa egli non mai lasciarci se non per elevarsi, e possa il suo successo fra noi essere tale da rendere impossibile una sua ulteriore elevazione!› Gli applausi con cui il brindisi fu accolto sfidano qualsiasi descrizione. Più e più volte si adersero e discesero come le onde dell'oceano. Infine fu fatto silenzio completo e l'EGREGIO SIGNOR WILKINS MICAWBER si fece avanti in persona per ringraziare. Lungi da noi, nell'attuale relativamente imperfetto stato delle risorse delle nostre officine tipografiche, il tentativo di seguire il nostro distinto concittadino nel facile fluire dei periodi della sua brillante e altamente fiorita allocuzione! Basti notare che fu un capolavoro di eloquenza; e che i passaggi in cui tracciò più particolarmente, fin dalle origini, le tappe della sua fortunata carriera, e ammonì la parte più giovane del suo uditorio a evitare le secche di qualsiasi impegno pecuniario a cui non fosse in grado di far fronte, strapparono una lacrima ai più virili occhi presenti. I brindisi successivi furono rivolti al DOTTOR MELL; alla SIGNORA MICAWBER (che si inchinò graziosamente in segno di ringraziamento dalla porta laterale, dove una galassia di bellezze stava in piedi sulle sedie per contemplare e adornare insieme la piacevole scena); alla SIGNORA RIDGER BEGS (già signorina Micawber); alla SIGNORA MELL; all'EGREGIO SIGNOR WILKINS MICAWBER JUNIOR (che diede le convulsioni all'assemblea notando umoristicamente che si sentiva incapace di ringraziare con un discorso ma che lo avrebbe fatto, se permettevano, con una canzone); alla FAMIGLIA MICAWBER (ben nota, è inutile dirlo, nella madre patria), ecc. ecc. ecc. Alla conclusione della cerimonia furono tolte le tavole, quasi magicamente, per lasciare spazio alle danze. Tra i fedeli di TERSICORE, che se la spassarono finché Febo non diede il segnale della partenza, l'egregio signor Wilkins Micawber Junior e la graziosa e compita signorina Helena, quarta figlia del dottor Mell, furono particolarmente notati.» Stavo rileggendo il nome del dottor Mell, lieto di avere scoperto, in così felici circostanze, il signor Mell, già povero e stremato prefetto del mio magistrato del Middlesex, quando il signor Peggotty, indicando un'altra parte del giornale, mi fece fermare gli occhi sul mio nome, e io lessi questo: ALL'EGREGIO SIGNOR DAVID COPPERFIELD, eminente scrittore «Caro Signore, «Sono trascorsi anni da quando ebbi l'opportunità di contemplare materialmente i lineamenti oggi familiari all'immaginazione di una parte considerevole del mondo civile. «Ma, mio caro signore, sebbene estraniato (in forza di circostanze per me incontrollabili) dal personale sodalizio con un amico e compagno della mia gioventù, non sono rimasto all'oscuro del suo alto volo. Né mi è stato impedito, Pur ruggendo fra noi gli aperti mari, (BURNS) dal partecipare ai festini intellettuali che egli ci ha dispiegato dinanzi. «Non posso dunque permettere che parta di qui un uomo che entrambi rispettiamo e stimiamo, mio caro signore, senza cogliere l'occasione di ringraziarvi pubblicamente da parte mia e, oso aggiungere, da parte dell'intera Popolazione di Port Middlebay, per i piaceri che ci avete elargito. «Continuate, mio caro signore! Voi non siete sconosciuto qui, né inapprezzato. Per quanto ‹remoti› noi non siamo né ‹senza amici›, né ‹malinconici›, né (posso aggiungere) ‹lenti›. Continuate, mio caro signore, il vostro volo d'aquila! Gli abitanti di Port Middlebay possono almeno aspirare a contemplarlo con diletto, con divertimento, con profitto! «Fra gli occhi alzati verso di voi da questa parte del globo, si troverà sempre, finché avrà luce e vita L'occhio Appartenente A Wilkins Micawber Magistrato.» Mi accorsi, dando un'occhiata al resto del giornale, che il signor Micawber era un diligente e stimato corrispondente di esso. V'era un'altra sua lettera, nel medesimo foglio, relativa a un ponte; c'era l'annuncio di una raccolta di sue lettere simili, che tra poco sarebbero state ripubblicate in un accurato volume «con notevoli aggiunte»; e, a meno che non sbagli di grosso, anche l'articolo di fondo era suo. Parlammo molto del signor Micawber per molte altre sere finché il signor Peggotty rimase con noi. Fu nostro ospite per tutta la durata della sua permanenza - che, credo, fu di un po' meno di un mese - e sua sorella e mia zia vennero a Londra per vederlo. Quando partì, Agnes e io ci separammo da lui a bordo della nave, e mai più ci separeremo da lui su questa terra. Ma, prima di lasciarci, si recò con me a Yarmouth per vedere la piccola lapide che avevo fatto mettere nel cimitero in memoria di Ham. Mentre, a sua richiesta, ricopiavo per lui la semplice iscrizione, lo vidi chinarsi e raccogliere dalla tomba un ciuffo d'erba e un po' di terra. «Per Emily,» disse mettendoseli in seno. «Gliel'ho promesso, signorino Davy.» LXIV • ULTIMO SGUARDO RETROSPETTIVO E ora la mia storia scritta è finita. Mi guardo ancora indietro - per l'ultima volta - prima di chiudere queste pagine. Vedo me stesso, con Agnes al fianco, avanzare per le strade della vita. Vedo intorno a noi i nostri figli e i nostri amici; e odo il frastuono di molte voci che non mi sono indifferenti mentre proseguo il mio viaggio. Quali volti sono per me più distinti in questa folla fugace? Eccoli: tutti si volgono a me mentre interrogo i miei pensieri! Ecco la zia, in occhiali sempre più spessi, una vecchia sull'ottantina e più, ma ancora dritta e capace di far sei miglia d'un fiato in pieno inverno. Sempre con lei ecco apparire Peggotty, la mia buona vecchia governante, anche lei con gli occhiali, solita a cucire di sera attaccata alla lampada, che non si siede mai al lavoro senza un pezzetto di candela, un metro nel suo astuccetto, e una scatola con la cattedrale di San Paolo dipinta sul coperchio. Le gote e le braccia di Peggotty, così sode e rosse nel giorni della mia infanzia da farmi domandare come mai gli uccellini non le becchettassero a preferenza delle mele, sono adesso avvizzite; e i suoi occhi, che mettevano in ombra tutta la parte superiore del suo volto, sono meno vivi (sebbene brillino ancora); ma il suo ruvido indice, che un tempo mi faceva pensare a una piccola grattugia per noce moscata, è sempre lo stesso, e quando vedo il mio ultimo nato aggrapparvisi quando trotterella barcollando dalla zia a lei, penso al salottino nella nostra vecchia casa, quando muovevo i primi passi. L'antica delusione della zia è stata adesso riparata: è madrina di una vera e vivente Betsey Trotwood; e Dora (la seconda nell'ordine) dice che la vizia. C'è qualche cosa di voluminoso nella tasca di Peggotty. È niente di meno che il libro dei coccodrilli, in condizioni un po' misere ormai, con molte pagine strappate e ricucite, ma che Peggotty mostra ai bambini come una preziosa reliquia. Mi sembra molto strano vedere il mio volto infantile alzarsi verso di me dalle storie dei coccodrilli e ricordarmi la mia vecchia conoscenza Brook di Sheffield. Tra i miei ragazzi, durante le vacanze di questa estate, vedo un vecchio che costruisce giganteschi aquiloni e li contempla nell'aria con un piacere per cui non ci sono parole. Mi saluta estatico e sussurra con molti cenni e ammiccar d'occhi: «Trotwood, sarete felice di sapere che finirò il mio Memoriale quando non avrò altro di meglio da fare, e che vostra zia è la più straordinaria donna del mondo, signore!» Chi è questa dama curva, che si appoggia al bastone e mi mostra un volto su cui appaiono tracce di una bellezza e di un orgoglio antichi, e che bisticcia debolmente con un querulo, vacuo, stizzoso bamboleggiamento? È in un giardino; e accanto a lei sta una donna affilata, fosca, sfiorita, con una bianca cicatrice sul labbro. Ascoltiamo quello che dicono. «Rosa, ho dimenticato il nome di questo signore.» Rosa si china su di lei e le grida: «È il signor Copperfield.» «Sono lieta di vedervi, signore. Mi dispiace di notare che siete in lutto. Spero che il tempo sarà pietoso con voi.» La sua impaziente infermiera la rimprovera, le dice che non sono in lutto, la invita a guardar meglio, tenta di scuoterla. «Avete visto mio figlio, signore?» chiede la dama più anziana. «Vi siete riconciliati?» Guardandomi fissa, si porta la mano alla fronte e geme. Improvvisamente grida con voce terribile: «Rosa, vieni qui. È morto!» Rosa, inginocchiata ai suoi piedi, la vezzeggia o la aggredisce di volta in volta, ora dicendole fieramente: «L'ho amato più di quanto voi lo abbiate mai amato!» ora cullandola per farla addormentare sul suo petto come una bambina malata. Così le lascio; così sempre le ritrovo; così consumano il loro tempo di anno in anno. Quale nave arriva veleggiando dall'India, e chi è questa dama inglese sposata a un ringhioso Creso scozzese dalle grandi orecchie pendenti. Possibile che sia Julia Mills? È proprio Julia Mills, irritabile ed elegante, con un servo negro che le porta biglietti e lettere su di un vassoio d'oro, e una cameriera color del rame, avvolta in lini e con un fazzoletto sgargiante attorno alla testa, che le serve la colazione di mezzogiorno nella stanza da toeletta. Ma adesso Julia non tiene più il suo diario; non canta Il compianto dell'affetto; litiga eternamente col vecchio Creso scozzese che è una specie di orso giallo con la pelle conciata. Julia è piena di denaro fino agli occhi e non parla né si occupa di altro. Mi piaceva di più nel deserto del Sahara. O forse il deserto del Sahara è questo! Perché, per quanto Julia abbia una casa sontuosa, una compagnia elevata e ricchi banchetti ogni giorno, non vedo accanto a lei verdi virgulti, nulla che possa mai dare fiore o frutto. Vedo solo quello che Julia chiama «società»; e tra questa il signor Jack Maldon, che deride, dal suo Ufficio dei Brevetti, la mano che glielo ha dato e mi parla del dottore come di un uomo «così deliziosamente all'antica». Ma, Julia, quando per società si intendono dame e gentiluomini così vuoti, e quando la sua educazione consiste nel far professione di indifferenza per tutto ciò che possa far progredire o ritardare il genere umano, penso che dobbiamo esserci perduti in quel deserto del Sahara e che faremmo meglio a trovar la via per venirne fuori. Ed ecco il dottore, sempre nostro buon amico, che lavora al suo dizionario (in qualche parte della lettera D) ed è felice della sua casa e di sua moglie. Così pure il Vecchio Soldato, su di un piede considerevolmente ridotto e niente affatto influente come un tempo! Recentemente capito dal mio caro vecchio Traddles, al lavoro nel suo studio al Temple, tutto indaffarato, con i capelli (dove ce ne sono ancora) resi più ribelli che mai dal continuo attrito della sua parrucca legale. Il suo tavolo è coperto da alte pile di carte; dico, guardandomi attorno: «Se Sophy fosse adesso il tuo scrivano, Traddles, avrebbe un bel da fare!» «Puoi dirlo, caro Copperfield! Ma tuttavia erano magnifici giorni quelli di Holborn Court! Non ti sembra?» «Quando lei ti diceva che saresti diventato giudice? Ma, allora, non era un'idea condivisa dalla maggioranza!» «In ogni caso,» risponde Traddles, «se anche lo diventerò...» «Andiamo, sai bene che lo diventerai.» «Be', caro Copperfield, quando lo sarò, racconterò la storia come dicevo che avrei fatto.» Filiamo via a braccetto. Sono invitato a un pranzo di famiglia da Traddles. È il compleanno di Sophy; e, lungo la strada, Traddles mi parla dei buoni successi che ha avuto. «Davvero, caro Copperfield, sono riuscito a fare tutto quello che mi stava più a cuore. Ecco che il reverendo Horace è stato promosso al famoso beneficio di quattrocentocinquanta sterline annue; ecco i nostri due ragazzi che ricevono la migliore educazione e si distinguono come scolari diligenti e bravi figliuoli; ecco che tre delle ragazze sono sposate in modo molto conveniente; altre tre vivono con noi, e le tre ultime tengono la casa del reverendo Horace dopo la morte della signora Crewler; e tutte sono felici.» «Eccetto...» suggerisco. «Eccetto la Bellezza, sì,» dice Traddles. «È stata una vera disgrazia che sposasse un tal vagabondo. Ma c'era in lui qualche cosa di vivace e brillante che la irretì. Comunque, adesso che l'abbiamo tirata in salvo a casa nostra e ci siamo sbarazzati di lui, dobbiamo ridarle l'allegria.» La casa di Traddles è proprio una di quelle case - o potrebbe benissimo esserlo stata - che lui e Sophy erano soliti suddividere nelle loro passeggiate serali. È un'abitazione vasta; ma Traddles tiene le sue carte nello spogliatoio, e le scarpe con le sue carte; e lui e Sophy si stringono nelle stanze superiori riservando le migliori alla Bellezza e alle ragazze. Nella casa non c'è una stanza di troppo: perché ci sono più «ragazze», e per una ragione o per un'altra ci rimangono in continuazione, che io non sappia contare. Qui, quando entriamo, ce n'è una folla che corre alla porta e tutte si contendono Traddles per baciarlo fino a lasciarlo senza fiato. Qui, stabilita per sempre, c'è la povera Bellezza, vedova con una bambinetta; qui, per il pranzo di compleanno di Sophy, ci sono le tre maritate con i loro tre mariti, e uno dei fratelli di un marito, e il cugino di un altro marito, e la sorella di un altro, che sembra fidanzata del cugino. Traddles, esattamente lo stesso semplice e schietto ragazzo che è sempre stato, siede come un patriarca a un estremo della grande tavola; e Sophy lo guarda raggiante di gioia dall'altro estremo attraverso una gaia distesa che non brilla certo di britannia. E adesso, mentre concludo il mio compito reprimendo il desiderio di indugiare ancora, questi volti dileguano. Ma uno, che brilla su di me come una luce celeste grazie alla quale vedo ogni altro oggetto, è al di sopra e al di là di tutti loro. E questo rimane. Volto la testa e lo vedo accanto a me, nella sua bella serenità. Fioca è la luce della mia lampada; ho scritto fino a notte alta. Ma la cara presenza, senza la quale non sarei nulla, mi fa compagnia. O Agnes, o anima mia, così il tuo volto possa essere presso di me quando concluderò veramente la mia vita; così possa io, quando la realtà dileguerà via da me come le ombre che adesso congedo, trovarti ancora vicina ad accennare in alto.

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